Governo e Autogoverno — relazione
Relazione dell’incontro Governo e autogoverno. Come cambia l’America Latina. Esperienze di democrazia a confronto tenutosi il 27 gennaio 2007 nella Sala del Consiglio Provinciale di Roma.
Con il patrocinio della Presidenza del Consiglio provinciale di Roma e organizzato dalla rivista Carta e dall’associazione “A Sud”.
Per la presidenza del Consiglio provinciale di Roma è presente Adriano Labbucci presidente del Consiglio provinciale di Roma.
Introduzione di Marco Calabria
Presidente di Carta
C’è una nuova idea di società che si sta affermando in America Latina in questi ultimi anni al di là della frase ormai super inflazionata secondo la quale in questa regione “soffia un vento di sinistra”.
Nel passato l’America Latina è stato il laboratorio del neoliberismo dove la scuola dei Chicago Boys ha potuto svolgere il suo tirocino ed è stato lo scenario dove più evidenti si sono manifestati in passato e tutt’ora oggi gli errori di quella corrente di pensiero.
Il primo gennaio 1994 in Messico si è avuta la grande rivoluzione antiliberista guidata da Marcos che ha coinvolto direttamene coloro i quali più avevano subito sulla propria pelle le conseguenze di quegli errori, cioè gli indigeni e i contadini. Una rivoluzione partita dal basso e della quale spesso ne è stata data una lettura molto semplificata. In realtà rappresentava qualcosa di molto diverso da quanto accaduto fino a quel momento nella regione latinoamericana. Innanzitutto il movimento rinunciava apertamente alla conquista del potere politico ma mirava unicamente ad una democrazia partecipativa e locale esercitata direttamente dalle comunità indigene e contadine nell’esclusiva tutela dei propri interessi.
Molti movimenti “dal basso” si sono formati successivamente in tutta l’America Latina ed essi hanno contribuito a far cadere vecchi governi di destra e a formare quelli nuovi odierni di sinistra.
Le società in movimento latinoamericane si trovano ora ad affrontare nuove sfide. Di quali siano e che aspetti esse rivestano se ne discuterà nel corso di questo incontro.
Raúl Zibechi
Scrittore e giornalista uruguayano, ricercatore e docente in movimenti sociali, capo redattore del settimanale Brecha, collabora regolarmente con il quotidiano La Jornada e il settimanale italiano Carta. Nel 2003 ha vinto il premio latinoamericano Josè Martì per il giornalismo.
Di una cosa è certo, Zibechi, come dice anche nel suo ultimo libro Disperdere il potere (Dispersar el poder) edito da edizioni IntraMoenia e in uscita proprio nei giorni del convegno con il settimanale Carta: “gli Stati non sono gli strumenti ideali per creare relazioni sociali che producano emancipazione”. E di queste relazioni sociali, cioè dei movimenti sociali, della loro storia e del loro rapporto spesso conflittuale con gli Stati, Zibechi ha parlato nel corso del suo intervento.
Egli ha delineato un panorama generale della situazione dell’America Latina, dove attualmente c’è uno scenario completamente diverso rispetto a quello di qualche anno fa. Oggi su 10 paesi, 7 hanno dei governi progressisti o di sinistra.
Questo cambiamento della situazione politica latinoamericana tuttavia non è un fenomeno che è nato dal nulla ma trae la sua origine nel decennio 80/90 quando si verificarono i primi cambiamenti microscopici nella base della società di alcuni paesi.
Questi microcambiamenti hanno permesso la delegittimazione del modello neoliberale di Washington e quindi il formarsi dei movimenti sociali in America Latina e la successiva caduta di molti governi.
Possiamo quindi dire che i movimenti hanno svolto un ruolo decisivo nella formazione dei nuovi governi. E là dove non ci sono dei governi di sinistra come in Perù e in Colombia la forza dei movimenti è molto importante come alternativa sociale.
Nello stesso momento in cui si riconosce ai movimenti la loro forza propositrice e di coesione della base della società, bisogna però analizzarne anche i limiti e i rischi a cui essi vanno incontro. Innanzitutto il successo che hanno ottenuto può in alcuni casi trasformarsi in una trappola.
I governi di sinistra in America Latina hanno due tipi di genealogia:
Il Cile, il Brasile e l’Uruguay hanno governi di sinistra istituzionale di forma tradizionale.
L’Ecuador, La Bolivia e il Venezuela hanno avuto dei cambiamenti rivoluzionari nella politica dove si sono fusi alcuni elementi sociali più radicali.
Secondo Raul Zibechi, l’Argentina invece può considerarsi un caso intermedio.
La difficoltà comune a tutti i movimenti di questi paesi è che sono impreparati ad affrontare il modello neoliberale in quanto uno scenario nuovo e diverso rispetto a quello del passato non può che aprire sì innumerevoli possibilità ma anche essere teatro di nuovi campi d’azione e pertanto ancora in via di definizione e di studio.
Questo nuovo e diverso scenario vede contrapposti nuovi governi di sinistra a nuove forze di destra e quindi al centro del panorama politico non ci sono più i movimenti con le loro rivendicazioni, bensì l’opposizione che le forze di destra fanno con metodologie più o meno istituzionali ai governi cosiddetti “amici” o vicini i movimenti sociali stessi. Gli attori del conflitto quindi sono diversi.
I nuovi assetti economici e politici inoltre hanno determinato che in America Latina non ci sia più il dominio economico e politico ma anche culturale, degli Stati Uniti come avveniva in passato. Il Brasile ad esempio svolge un ruolo importante, soprattutto nei rapporti con la Bolivia, e anche il ruolo svolto da Unione Europea e Cina conferisce a questa regione un nuovo assetto multilaterale che apre innumerevoli possibilità per ogni paese.
I movimenti sociali, in questo quadro politico che si è andato delineando ultimamente, si trovano a dover affrontare una situazione nuova e pertanto complessa e piena di insidie: da una parte, essi si sentono vicini ai governi al potere e dall’altra, devono comunque, per non perdere il loro carattere peculiare di autonomia rispetto al potere medesimo, continuare a pungolare detti governi.
Non tutti i movimenti sociali sono preparati ad affrontare questa nuova situazione proprio perché si tratta di una realtà nuova e relativamente recente. L’affrontare con serietà questa nuova situazione presuppone innanzitutto uno sforzo analitico, cioè l’analisi e lo studio della realtà e questa senza dubbio è una nuova sfida, dice Zibechi, “per tutti noi della sinistra e per quelli come me perché si tratta di una nuova forma di vedere la società”.
Ci troviamo di fronte ad un nuovo luogo di incontro fra governi e movimenti, un luogo diverso dal precedente e contraddittorio, ma il cui aspetto innovatore non implica necessariamente che si tratti di uno spazio di incontro libero da insidie e pericoli.
E le domande che pone Rául Zibechi alla platea sono, come egli stesso afferma, le stesse che va ponendosi anche lui da qualche tempo.
Innanzitutto viene messo in discussione lo stesso concetto di movimento sociale, esso continua a rappresentare, come in precedenza, la forza e il potere della capacità collettiva oppure va acquisendo sempre più il carattere di un’istituzione?
L’organizzazione dei movimenti sociali in questa nuova fase rappresenta un avviarsi verso un’idea gerarchica del movimento oppure una conferma dell’ orizzontalità che ne ha costituito fino a questo momento il carattere di peculiarità?
Sono domande alle quali Zibechi sente per il momento di non poter dare delle risposte.
Il nuovo scenario latinoamericano è ben lungi da essere una primavera, ci sono voluti anni (e aggiungerei morti e desaparecidos e torture e dittatori sanguinari e una miseria dilagante) per arrivare a questo momento e ancora del tempo ci vorrà per poter rendersi conto se tale processo si approfondirà e sarà quindi una opportunità politica e sociale che darà frutti positivi, oppure se si sarà trattato solamente di un’occasione perduta.
Nell’intervento finale invece Rául Zibechi, ha posto l’accento su un aspetto nuovo e inquietante che coinvolge direttamente il ruolo delle ONG in Sud America, perché al fianco di tante organizzazioni non governative che sono effettivamente indipendenti dai governi e dalle loro politiche e che perseguono fini compatibili con le istanze politico-sociali a favore dell’ambiente e dei più deboli, ve ne sono altre il cui ruolo purtroppo è più ambiguo. Innanzitutto è l’atteggiamento stesso della Banca Mondiale che si è modificato, ultimamente la Banca Mondiale sta “parlando un linguaggio molto più umano e corretto” e con la complicità tacita di alcune ONG attacca direttamente i movimenti. La Banca Mondiale attraverso alcuni piani di sviluppo sociale, soprattutto nei paesi come Brasile, Uruguay e Argentina, dove la sua influenza è ancora molto forte, agisce direttamente nei territori più vicini ai movimenti stessi e dove questi hanno intessuto un maggior numero di relazioni per promuovere programmi di sviluppo ambientale e sociale in aperta conflittualità con quelli degli stessi movimenti e avvalendosi dell’appoggio delle ONG.
Tale politica “destabilizzatrice” non fa altro che produrre ambiguità tra movimenti e governi e soprattutto non fa altro che minare alla base il consenso sociale da cui i movimenti traggono la loro forza e linfa vitale.
In Uruguay per esempio è lo stesso governo che contatta le ONG affinché creino dei movimenti sociali, creando ambiguità tra il ruolo dei funzionari governativi che si travestono da “militanti” e i militanti stessi che magari lottano da una vita.
Le uniche ONG che lavorano bene e mantengono l’onestà necessaria non solo economica, ma anche di intenti per rendere veramente un servizio a coloro i quali tale servizio dovrebbe essere diretto, sono quelle che si fanno portavoce dei movimenti e che sono subordinate ad essi.
I movimenti sociali sono per loro stessa natura radicati nel territorio dove vivono i loro attivisti, dove essi lavorano, dove si educano e dove si occupando della loro salute e dei loro compagni e dove sviluppano le loro relazioni sociali.
Una se pur minima confusione fra il movimento inteso come istituzione (per esempio il sindacato) e i movimenti intesi nel senso appena citato di società organizzata, non fa altro che generare confusione nel cittadino e minare il consenso al movimento nella sua stessa base.
Ad un interlocutore che gli ha posto infine la fatidica domanda “Cuba quanto ha influito nella nuova realtà latinoamericana?” Zibechi ha risposto:
Vi sono alcuni movimenti più forti di altri, alcuni, soprattutto quelli della generazione precedente, indubbiamente hanno risentito dell’influenza di Cuba e per questo sono stati anche molto criticati, quelli di più recente formazione invece sono molto meno relazionati con la realtà cubana ma per tutti comunque questa rappresenta solamente una componente aggiuntiva e assolutamente non è il modello di riferimento principale dei movimenti sociali.
Sergio Ciancaglini
Docente di comunicazione sociale a Buenos Aires, giornalista e autore del libro Sin Patrón sull’esperienza delle fabbriche recuperate argentine.
Dopo aver analizzato e studiato il ruolo e i mezzi che il giornalismo aveva a sua disposizione in Argentina ed essere arrivato alla conclusione che questo non stava realmente compiendo il suo dovere, cioè non raccontava ciò che realmente accadeva, Sergio Ciancaglini insieme ad altri colleghi giornalisti fonda a Buenos Aires nel 2001 La Vaca , mezzo di informazione sociale che ha sviluppato in questi anni sue proprie reti di comunicazione, seminari gratuiti per studenti di giornalismo e alcuni corsi di controinformazione che hanno riscosso un discreto successo. Contemporaneamente è nato anche lo spazio web www.lavaca.org e un rivista che si chiama MU.
In Argentina, con la crisi del dicembre 2001 ha trovato espressione una moltitudine popolare che si è dimostrata capace di organizzare e strutturare spazi sociali ed economici indipendenti da quelli della cosiddetta democrazia rappresentativa.
Le nuove generazioni pertanto hanno attuato l’orizzontalità senza ricorrere alle istituzioni, orizzontalità che si può definire come la genetica delle nuove forme sociali.
E’ sorto così il movimento dei piqueteros, si è sviluppato il fenomeno delle fabbriche occupate e poi autogestite e si sono costituite numerose assemblee popolari.
Il movimento dei piqueteros, dei disoccupati, di coloro cioè che si erano venuti a trovare al di fuori di ogni ciclo produttivo, aveva dei progetti ben definiti da portare avanti, aveva intenzione di creare delle nuove forme di relazione tra le persone e aveva un carattere distintivo, cioè quell’orizzontalità che presuppone che non ci siano capi, dirigenti o direttori, in pratica che non ci sia un vertice.
Il piquete è una forma per dire NO, espressa poi nel celebre “que se vayan todos!” (andatevene tutti!) di quegli anni diretto alla classe politica.
Gli operai che avevano perso il lavoro presero in quel momento due decisioni importanti: la prima fu di non aspettare con le mani in mano una soluzione piovuta dal cielo, e la seconda di non dipendere dai sindacati. Da qui la decisione di resistere, di occupare le fabbriche e produrre.
Occuparono le fabbriche impedendo così che i proprietari sottraessero tutti i beni e i macchinari che erano di proprietà delle imprese e senza nessun sostegno economico e finanziario,in quanto consapevoli del fatto che ogni prestito bancario nasconde delle insidie, riuscirono a prendere decisioni politiche su argomenti che non erano politici, dove per politica si intende il “modo di agire di chi partecipa al governo della vita pubblica”.
Un altro movimento che si formò in Argentina a seguito di un tragico evento fu quello chiamato Cromañon dal nome della discoteca República Cromañon dove in un incendio il 30 dicembre 2004 persero la vita 194 giovani a causa delle inesistenti misure di sicurezza del locale. Il tetto inoltre era coperto con un materiale che al contatto con il fuoco emanò cianuro di idrogeno e diossido di carbonio oltre ad altre sostanze letali. I genitori di questi ragazzi, si unirono dando vita al movimento Cromañon chiedendo a gran voce le dimissioni di Anibal Ibarra, allora capo del governo di Buenos Aires e chiedendo miglioramenti nelle misure di sicurezza dei locali pubblici della città.
Fu così che una esperienza terribile di dolore personale e privato si trasformò in un fatto politico come già era avvenuto 30 anni prima con las madres de Plaza de Mayo.
Una nuova forma di organizzazione dal basso che unisce istanze ambientaliste e sociali è l’Assemblea ambientalista cittadina che si è costituita a Gualeguaychú, nella provincia di Entre Ríos nel 2005, in occasione della crisi con l’Uruguay per le cartiere (las papeleras).
L’Assemblea, negando l’autorità politica ha ricostituito piquetes come anni fa, ha bloccato le strade e ha dato vita alla più grande manifestazione ambientalista della storia argentina il 30 aprile scorso nella cerimonia simbolica di abbraccio al fiume che ha riunito più di 100 mila persone.
Edmundo Vargas
Sindaco di Cascales nella provincia nordorientale di Sucumbios, in Ecuador, al confine con la Colombia e il Perù, da sempre impegnato nelle questioni indigene.
Questa zona dell’ Ecuador è al centro di molte problematiche diverse tra loro, il petrolio, la guerriglia, il narcotraffico e più che altrove forse sono ben visibili i danni del neoliberismo che hanno avuto gravi ripercussioni sui settori più poveri della popolazione ecuadoreña cioè gli indigeni e i contadini.
Le popolazioni contadine ed indigene si trovano spesso loro malgrado coinvolti nella guerra civile colombiana tra paramilitari e guerriglieri delle FARC. Spesso in passato si sono visti costretti, nei periodi di maggior intensificazione del conflitto armato, ad abbandonare le loro case per rifugiarsi all’interno della foresta amazzonica, vengono inoltre accusati dai paramilitari di essere alleati dei guerriglieri e quindi vengono sottoposti a gravi rappresaglie.
Un altro grave problema è rappresentato dalle “fumigaciones” che la Colombia effettua per distruggere le piantagioni di coca nei suoi territori non rispettando la linea del confine con l’Ecuador e quindi gettando il potentissimo glisofato direttamente in terra ecuadoreña su popolazione civile, bestiame e campi coltivati.
In questa difficile realtà si trova ad operare Edmundo Vargas, sindaco di Cascales, una cittadina di circa 10mila abitanti.
In questa zona le organizzazioni indigene hanno cominciato ad organizzarsi dal 1960 in poi, ma il loro movimento acquista visibilità pubblica solo verso il 1990. Dal 1995 invece hanno iniziato a programmare vere e proprie forme diverse di organizzazione sociale e sono diventati quindi un movimento politico che riunisce tutte le forze progressiste. Al movimento indigeno non è gradita la definizione di movimento di destra o di sinistra bensì esso si identifica come movimento progressista con un preciso punto di riferimento rappresentato dalla famiglia.
Edmundo Vargas è già stato rieletto una volta e la comunità indigena del suo paese a gran voce chiede la sua rielezione.
Pablo Romo
Ex domenicano messicano, fondatore del Centro di diritti umani Fray Bartolomé de Las Casas (Chiapas-Messico). Attualmente coordinatore dell’Osservatorio sulla conflittualità sociale in Messico.
Pablo Romo parla del “suo” Messico così “lontano da Dio e così prossimo agli USA”, e così lontano anche dal resto dell’America Latina. Il Messico che si era sempre distinto per essere un paese ospitale e che adesso invece è lo stesso paese che chiede il visto d’ingresso agli immigrati latinoamericani dietro precise disposizioni del governo USA. Tutto ciò ha causato un rottura significativa del Messico con il resto della regione. Inoltre la rottura si è inasprita (diventando crisi diplomatica con il Venezuela), a proposito dell’ALCA (Area di Libero Commercio delle Americhe), questa forma di accordi di libero commercio con gli Stati Uniti sono stati infatti duramente contestati da gran parte degli stati latinoamericani a Mar del Plata alla fine del 2005, mentre il Messico era tra quelli che li sostenevano con più entusiasmo.
Paese dalle mille anime, il Messico e dalle mille contraddizioni, un paese di uomini ricchissimi ma con il 20% di messicani che vivono con meno di 1 dollaro al giorno e con una classe media uscita molto divisa dal recente processo elettorale. Processo elettorale che ha creato un grande malcontento popolare e causato delusione in tutto il paese, in cui perfino le istanze più progressiste come la Otra Campaña e la sinistra hanno avuto momenti di tensione. Il tessuto sociale ne è uscito fratturato, sofferente e deluso, sia dalle affermazioni di Marcos che da quelle di López Obrador.
Questo è il primo grande problema del Messico.
Il secondo è rappresentato dal problema della sicurezza soprattutto dovuto al narcotraffico, ci sono stati 2600 omicidi in un anno legati a questioni di droga e i messicani non si sentono sicuri nel loro paese. In realtà, ci sarebbe da aggiungere, secondo me, che il discorso è molto più complesso, in quanto proprio le forze armate che sono quelle che dovrebbero combattere la criminalità legata al narcotraffico e che sono molto vicine al Presidente Calderón come egli stesso ha recentemente affermato, sono le più “compromesse” con il crimine, e forse l’impegno più grande che dovrebbero avere le istituzioni messicane sarebbe quello di prevenire la corruzione dilagante e la penetrazione dei cartelli della droga nelle istituzioni sia pubbliche che private. E qui si giunge infatti al terzo problema brevemente accennato da Pablo Romo nella sua conclusione che è quello del riciclaggio di denaro sporco che rappresenta “una grande industria” nel paese.
Francesco Martone
Senatore PRC
Il fatto nuovo che in America Latina alcuni governi stiano lentamente prendendo le distanze dal modello neoliberista è dovuto alla convergenza di alcuni fattori diversi.
Innanzitutto, la regione è stata il laboratorio del neoliberismo e in questa realtà le istituzioni finanziarie internazionali hanno svolto il loro ruolo che praticamente è stato quello di rappresentare la lunga mano di Washington nella regione. Ricordiamo, per esempio, che il FMI (Fondo Monetario Internazionale) è stata la fonte di legittimazione dei governi dittatoriali. In Argentina e in Cile ha svolto un ruolo fondamentale nella convergenza tra interessi privati e privatizzazioni, creando così un nesso tra queste ultime e l’indebitamento estero. In Bolivia per esempio la privatizzazione dell’acqua era una condizione espressamente richiesta al fine della concessione dei prestiti.
Con la crisi del neoliberismo e delle sue politiche economiche, che seguendo le indicazioni del FMI avevano ridotto in miseria la maggior parte della popolazione latinoamericana, e quindi, con la crisi delle istituzioni che applicavano queste politiche economiche, (e cioè il FMI e la BM), si vede la necessità per queste di rielaborare la loro facciata. Queste istituzioni stanno cercando infatti di rielaborare sia un loro ruolo diverso all’interno dell’America Latina, sia nuove forme di interventi.
L’altro fattore è che in conseguenza di tali politiche sfavorevoli alla popolazione, si sono formati dei grandi movimenti di base che hanno incontrato punti di sinergia con i governi progressisti che si stavano formando.
L’America Latina si è trovata quindi ad affrontare una questione difficile, da un lato le vecchie politiche neoliberiste avevano dimostrato tutto il loro fallimento, dall’altro c’è comunque il fatto che l’emancipazione politica presenta sempre un costo in termini economici molto elevato. In questo panorama dai contorni nuovi, la regione non ha trovato nemmeno valide proposte alternative nel grande blocco d’oltreoceano rappresentato dall’Unione Europea in quanto le sue istituzioni economiche e finanziarie propongono le stesse ricette neoliberiste delle loro omologhe americane. Si passerebbe solamente dal consenso di Washington a quello di Vienna.
La filosofia di fondo è la medesima e la Banca Europea degli Investimenti (istituzione finanziaria dell’Unione Europea) ha le stesse funzioni della Banca Mondiale.
Ecco perché è importante che finalmente l’America Latina trovi in se stessa e nell’unione e nella cooperazione tra i suoi stati il vero antidoto e alternativa al neoliberismo.
Giuseppe De Marzo
A Sud
Le lotte di tutti i movimenti sociali latinoamericani sono caratterizzate da alcune istanze che le accomunano e gli conferiscono caratteri di complementarietà. Innanzitutto tutti i movimenti hanno in comune la partecipazione popolare, la richiesta della nazionalizzazione delle risorse, la difesa dei beni comuni, il rifiuto dei TLC , la domanda di maggior democrazia partecipativa. Da questi elementi sarebbe quasi possibile partire per la redazione di un manifesto dei centri sociali.
Se ci riferiamo alla democrazia come al governo del popolo per il popolo, è chiaro allora che la democrazia non esiste. Il popolo ovviamente si reca a votare, ma di fatto non elegge realmente le figure economiche, finanziarie e politiche che influiscono sulla vita. Il popolo, noi, non eleggiamo per esempio il presidente della BM, ed è noto che le scelte operate dalla BM influiscono enormemente sulla vita di tutti noi. Noi non possiamo votare per esempio sull’allargamento o meno della base americana di Vicenza, e non abbiamo nessuna influenza sulle decisioni che regolamentano gli accordi economici che l’Italia stabilisce con gli altri paesi
Le scelte economiche, che sono quelle che poi maggiormente ci riguardano, sono prese da istituzioni che si trovano al di fuori di ogni processo democratico. Quando la democrazia rappresentativa viene svuotata e snaturata dalla democrazia economica, allora la democrazia è solo uno stereotipo.
Dall’America Latina invece ci giungono segnali e indicazioni su quale sia il percorso da seguire per riappropriarsi della democrazia, il che non ha nulla a che vedere, come spesso si crede qui nel nostro paese, con l’essere “terroristi” o “no global”.
Poiché si registra un progressivo allontanamento tra le istituzioni e la società civile e tale distanza è destinata ad aumentare, ciò fa capire che le attuali forme con cui si attua la democrazia sono da rivedere. In America Latina ci stanno già pensando, lo dimostra il fatto che il tema fondamentale del dibattito interno ai nuovi governi di sinistra o di centro sinistra verta intorno alle Assemblee Costituenti.
L’America Latina è lì a dimostrarci che non si sta parlando di movimenti utopistici o folcloristici ma di movimenti capaci di riorganizzare la politica dal basso.
La vittoria del movimento dell’acqua di Cochabamba nel 2000 dimostra che si può prendere il potere senza prendere le armi e che degli indios “colorati” sono stati in grado di fiancheggiare le richieste della BM.
L’America Latina in parole povere ci sta insegnando cosa voglia realmente essere la democrazia, cosa voglia dire prenderla in mano, riconquistare gli spazi partecipativi e infine mostrare chiaramente il concetto secondo il quale il movimento non punta a prendere il potere ma a disperderlo. Abbiamo noi e i nostri movimenti questo coraggio?
Serena Romagnoli
Comitato di appoggio Movimento Sem Terras
Amig@sMst – Italia
“La terra non l’abbiamo ricevuta dai nostri padri ma ereditata dai nostri figli”.
Serena Romagnoli dà una panoramica della nascita e del consolidamento del Movimento Sem Terras in Brasile, nonché dei suoi rapporti con l’attuale governo Lula.
Il MST è nato nel 1984 per volontà di alcuni rappresentanti di movimenti contadini e fin dall’inizio ha fatto la sua scelta di autonomia rispetto al governo e alla politica istituzionale.
I movimenti contadini infatti per esperienza, sapevano che se si fossero collegai ai partiti politici avrebbero avuto vita breve.
Nello stesso momento hanno stabilito la loro autonomia anche rispetto al potere religioso. Ciò che li doveva distinguere era il fatto di essere un movimento di massa aperto alla partecipazione di tutti. Il movimento ha una direzione collegiale, e qualora ce ne fosse bisogno si rapporta con le istituzioni tramite delle delegazioni e non attraverso la figura di un solo leader.
In effetti non c’è un solo leader che “rappresenta” il movimento, anche se la sua figura più carismatica è Pedro Stédile, e questo è uno delle caratteristiche che distinguono il MST, e ciò perché lo scopo del movimento fin dall’inizio è stato quello di trasformare “i senza volto” in cittadini e non quello di creare uno stato nello stato.
L’obiettivo prioritario del MST è la lotta al latifondo, che in Brasile rappresenta l’elemento tangibile e visibile della disuguaglianza sociale.
Oltre alla riforma agraria, il MST, che ha gestito i suoi accampamenti in piena autonomia, domanda che vengano riconosciute e finanziate a livello nazionale le scuole e le cooperative che in questi anni sono state create negli accampamenti stessi.
Nonostante ci sia la piena consapevolezza che una riforma agraria giusta non si possa realizzare nell’ambito di una politica neoliberista, c’è la grande sfida di far sì che l’esperienza degli insediamenti, che pure rappresentano delle isole felici, venga superata a favore di una politica agraria più diffusa e capillare su tutto il territorio e che sia indirizzata verso forme di gestione collettiva della terra e delle sue risorse.
Infatti il MST ha sempre cercato collaborazioni sia in Brasile che fuori, tanto è vero che è stato tra i promotori del forum sociale mondiale e ha avuto rapporti cordiali con quei governi considerarti di sinistra e cioè con Cuba, Bolivia e Venezuela, sebbene sia con quest’ultimo che il movimento ha un rapporto privilegiato.
Con il presidente brasiliano Lula esiste invece un rapporto difficile, fatto di “tira e molla” e di promesse a volte mancate. All’inizio del suo mandato, tra le altre cose, Lula aveva promesso di distribuire terre coltivabili a 400 mila famiglie ma solo 235 mila di queste hanno potuto beneficiare di tale programma. Ciò nonostante il MST non è entrato mai in scontro diretto con il potere politico e sebbene gli abbia mosso critiche dirette e circostanziate presentando anche un documento nel maggio 2005, il rapporto con il potere politico ha sempre avuto la connotazione di apertura e mai di chiusura, addirittura quando nel giugno del 2005 il governo si trovò in difficoltà per gli scandali politici, il MST ha incondizionatamente appoggiato Lula da Silva contro le strumentalizzazioni che tali scandali potevano e hanno inevitabilmente provocato.
Le nuove sfide a questo punto che il MST propone possono riassumersi in questi punti fondamentali:
–programmi sociali e politici scritti in accordo con il popolo medesimo a cui questi sono diretti
–non repressione delle lotte sociali in quanto queste sono utili per cambiare i rapporti di forza che fanno il gioco politico
–unità nei vari movimenti
–mezzi di comunicazione di massa alla portata di tutti
–dialogo tra la classe dirigente, la Chiesa e la base
–dialogo con i giovani delle città
Raffaele K. Salinari
Presidente della Federazione Internazionale Terre des Hommes.
Terre des Hommes è membro del Consiglio internazionale del World Social Forum
Raffaele Salinari proprio il giorno dell’incontro, il 27 gennaio, era di ritorno da Nairobi dove si trovava per il World Social Forum e quindi il suo intervento è stato incentrato intorno alla sua partecipazione a questo evento mondiale.
Innanzitutto ricorda che fortunatamente il WSF non presenta mai delle conclusioni ma getta sempre le basi per future discussioni.
Egli inoltre dà una sua visione che rispecchia poi quella della di gran parte della sinistra occidentale ed europeista, rispetto alla “statualità” dei movimenti, cioè del loro rapporto con le istituzioni e lo Stato.
Facendo il paragone con il WSF di Caracas, sostiene Salinari, dove il governo “amico” ha in qualche modo cercato di “comprare” i movimenti, i quali in virtù di questo fatto hanno avuto qualche difficoltà ad affermare la loro autonomia, a Nairobi, in un luogo più “ostile” agli stessi movimenti sociali, e che di fatto non ha sostenuto affatto l’organizzazione del WSF, questo problema non si è sentito. A Nairobi, il governo adducendo motivi di sicurezza ha anche osteggiato alcune iniziative quali per esempio la lunga marcia della pace di apertura.
Ovviamente questa considerazione rispecchia secondo il mio parere, una visione europeista del rapporto dei movimenti con i governi cosiddetti amici soprattutto con quello di Caracas, e infatti tale posizione è stata criticata da persone presenti all’incontro tra il pubblico.
In realtà chi ha uno sguardo più proiettato verso il Sud, libero da legami con il Nord del mondo, sostiene che il forum di Caracas del 2006 in realtà abbia segnato il passaggio dell’egemonia dei movimenti europei a quelli del Sud. La preoccupazione della “Chavezazione” del forum è stato forse a mio avviso, più un timore degli occidentali legato alla personalità e al dinamismo del presidente Chávez che a fattori reali e comunque un incontro a priori con lo stesso Chávez fu tenuto dal Consiglio internazionale per il WSF per spiegargli la natura stessa del Forum ribadendo le sue posizioni non governative e apolitiche.
Ben più reali invece forse sono i rischi di interventi dei partiti della sinistra moderata nella struttura del WSF. Infatti, dice Salinari si è riscontrato un forte tentativo da parte di alcuni partiti moderati dell’ Internzionale Socialista di assumere la leadership del WSF, con lo scopo di imprimere un’accelerazione del dialogo del Forum con i governi ma che avrebbe unico risultato quello di diminuire il grado di autonomia dei movimenti sociali, trasformando la dialettica in un dialogo tra partiti del “capitalismo dal volto umano”.
Lo stesso Governo Italiano, che è stato uno dei finanziatori del WSF a Nairobi, aveva numerosissime personalità presenti sul posto, e ciò inevitabilmente ha creato delle contraddizioni con la natura stessa già ribadita di autonomia del Forum.
Ricordo a questo proposito il dibattito che si è aperto a Nairobi in merito agli Epa, accordi imposti dall’UE in Africa e che sono causa di miseria e impoverimento per milioni di contadini.
E proprio mentre Emma Bonino decantava anche dalle pagine de Il Manifesto in una lettera i vantaggi di tali accordi e le possibilità insite nella globalizzazione, parlando di un “presunto movimento panafricano”, tale movimento a Nairobi, ha espresso chiaramente alla Commissione Europea e al Governo Italiano tutta la sua critica agli sviluppi che gli Epa stanno portando in quelle realtà.
Questi contadini africani, a cui si sono uniti quelli di tutto il mondo, hanno protestato contro un pacchetto di proposte e misure prese senza la loro partecipazione attiva nella discussione e chiedono soltanto di essere maggiormente tutelati rispetto alle potenze mondiali.
Salinari poi conclude riassumendo i temi trattati nel Consiglio internazionale del Forum che sta vagliando la possibilità che lo stesso venga organizzato in futuro sempre nel Sud del mondo e cioè nei luoghi dove più evidenti sono le contraddizioni sociali, e sta aprendo delle consultazioni sul futuro stesso dei WSF in quanto reale è il rischio che si trasformi in un braccio operativo dell’internazionale Socialista o in una “Woodstok” essenzialmente commerciale e nulla più.
Era assente dall’incontro Maurizio Chierici de L’Unità.
Que pases buena semana
bss
Ciao Annalisa, sempre interessanti i tuoi post.
Mi raccomando continua così, ti leggo sempre.
Speriamo che il Senato domani faccia il bravo…
Ti saluto. Un abbraccio. Luca.