Ancora violenza razzista per le strade di Roma
E siamo qui, come in una distesa sempre più buia
spazzati da allarmi confusi di lotta e di fuga,
dove eserciti ignoranti si affrontano nella notte.
(Dover Beach, Matthew Arnold)
L’anno scorso proprio in questo periodo nel quartiere romano nel quale vivo accadeva un grave episodio che ebbe vasta eco su stampa e televisione.
Una banda di incappucciati in pieno pomeriggio davanti alla scuola elementare effettuò una “spedizione punitiva”, come fu definita qui in zona, in un bar abitualmente frequentato da rumeni, picchiandoli a sangue sul marciapiede tra i bambini spaventati che uscivano da scuola e le vecchiette con le buste della spesa. Il bar fu distrutto e dato alle fiamme.
E’ passato un anno e oltre alla presenza di un posto di polizia mobile purtroppo nulla è stato fatto da parte degli enti e degli organi preposti per rendere vivibile un quartiere già penalizzato da anni di abbandono istituzionale.
Un anno fa, con l’associazione culturale di zona con la quale collaboro (Insieme per il Trullo) avevamo deciso di coinvolgere maggiormente le istituzioni per rendere vivibile il quartiere ma soprattutto per creare spazi di aggregazione giovanile, per ridare luce a una realtà sommersa che ha bisogno di essere sviscerata per poterla liberare dal demone.
Ci abbiamo provato nel nostro piccolo, ci stiamo provando tutt’ora, con impegno e serietà, con scarsità di mezzi ed entusiasmo, soprattutto soli, e purtroppo il demone è ancora lì.
E si chiama intolleranza, insofferenza, razzismo.
La notte scorsa un ragazzo di nemmeno 20 anni è stato inseguito per strada da un gruppo di venti giovani come lui, ma italiani, inseguito fra le auto in sosta, perfino nei cortili delle case, inseguito e picchiato, preso a mattonate in testa solo perchè rumeno.
Ed episodi come questo, mi dicono qui in giro, avvengono quasi tutte le sere, abbiamo le nostre strade popolate di giustizieri notturni che decidono chi deve essere punito e chi no in base a valutazioni del tutto arbitrarie sul grado di sobrietà, sulla nazionalità, sulla decenza del malcapitato di turno.
Quelli che potrebbero essere i nostri figli, ragazzini, poco più che adolescenti, vanno in giro armati di mattoni e spranghe per picchiare altre persone.
Questa è la realtà del quartiere, signori. E non posso fare a meno di chiedermi: dove sono i genitori che non sanno leggere l’odio negli occhi dei loro figli quando questi rientrano a casa? Dove è la scuola che è cieca e sorda? E gli amici? E i vicini? Le istituzioni? Le ragazze? Chi è il responsabile?
Può serpeggiare la violenza per le strade di notte ed essere tacitamente accettata da tutti come se si trattasse di un elemento di arredo urbano?
Questa è la realtà di un quartiere che l’anno scorso in più di un’occasione venne definito “estrema periferia romana” ma che posso con certezza affermare essere un quartiere semicentrale, adiacente alla zona ospedaliera, confinante con una delle zone più belle ed esclusive di Roma , la Valle dei Casali e il Casaletto, protesa verso la campagna ma vicinissima al centro.
Eppure sembra di vivere in un’ altra epoca per le strade del Trullo, la globalizzazione intesa nella sua accezione più positiva, e cioè terreno di scambio prima culturale che economico, reciproco dare e ricevere, la globalizzazione del diverso modo di sentirsi cittadini del mondo, qui è ancora un concetto astratto. Qui non si ha nemmeno chiaro il concetto dell’essere “cittadini” e il mondo è ancora troppo lontano…
E’ una lotta fra poveri quella che si svolge nel quartiere, una guerra per il territorio violenta e animalesca nelle sue manifestazioni, un delirio adolescenziale di manifestazione di potere e di potenza facilitato da un ambiente dove ancora sono dominanti vecchi valori arcaici e tribali.
Valori portati fin qui avvolti in pochi stracci, nelle valigie di cartone degli immigranti abruzzesi e calabresi durante e dopo la guerra, perchè qui, romani “de Roma”, non ce ne sono.
E allora veramente non si capisce che identità stiano difendendo questi giustizieri “fai da te”, quale territorio stiano delimitando con i loro raid notturni alla stregua di gruppi di cani randagi, alzando la gamba e pisciando contro i lampioni ad ogni testa spaccata di un rumeno.
L’economista Amatya Sen, premio Nobel, dice che “l’identità può anche uccidere, uccidere con trasporto”.
Ma qui non è l’identità che porta ad uccidere, è la paura di non averla, è il senso di smarrimento, il vuoto.
Si riempie di violenza quella mancanza di identità, mancanza di identità principalmente con se stessi e poi con una comunità che convive con noi e come noi, tra difficoltà e problemi e come gli abruzzesi e i calabresi giunti qui 50 anni fa, tra paure e solitudini, con il dolore e il rimpianto per una terra lontana.
Una comunità che, come noi, è formata da cittadini europei, cittadini di quell’Europa che ormai non dovrebbe avere più confini se non quelli che creiamo con l’ignoranza e l’arroganza, ma formata soprattutto e innanzitutto da esseri umani, come noi.
“Nel mondo contemporaneo esiste un’impellente necessità di interrogarsi anche sui valori, sull’etica e sul senso di appartenenza che dà forma alla nostra concezione del mondo globale, oltre che sull’economia e sulla politica della globalizzazione. In una visione non solitarista dell’identità umana, impegnarsi su tali questioni non impone di sostiture le nostre fedeltà nazionali e le nostre lealtà locali con un sentimento di appartenenza globale…che si rflette nell’operato di un gigantesco “Stato mondiale”.
Anzi, l’identità globale può iniziare a riscuotere quanto le è dovuto senza cancellare le altre fedeltà.
(Amatya Sen)
“E non posso fare a meno di chiedermi: dove sono i genitori che non sanno leggere l’odio negli occhi dei loro figli quando questi rientrano a casa? Dove è la scuola che è cieca e sorda? E gli amici? E i vicini? Le istituzioni? Le ragazze? Chi è il responsabile?“
Purtroppo la risposta, anche se dolorosa, è che hanno appreso l’odio proprio da quelli che hai elencato. E non vedo soluzioni se non si cambia questo sistema che non può che produrre tutto questo.
Non perdiamo tempo in “Partiti Democratici” o “Cose rosse” ma investiamo le nostre energie per cambiare il sistema. Il male è il capitalismo, di destra o di sinistra che sia.
Ti avevo “rubato” l’idea del countdown di Bush..!! ma non entra nel mio template.… Apprezzo molto il tuo blog che ho scoperto leggendo il post su OKNotizie. Saluti. franco
Te sigo.…
Monique.
Franco grazie, mi sembra che il countdown ci fosse anche di altre dimensioni o forse ricordo male.
Ciao.
bla bla bla, bla bla bla parole su parole di buonisti che dovrebbero portarseli tutti a casa loro, immigrati,delinquenti,assassini.
Il problema è chi si tiena a casa Alex. Immigrati, delinquenti e assaassini sono sicuramente meno impegnativi, la stupidità è impossibile da guarire.……