Flussi migratori “al femminile”: se le donne sfruttano altre donne
I flussi migratori moderni si stanno caratterizzando sempre piú per essere flussi migratori “al femminile”; si femminilizzano, come scrivono quasi tutti i piú recenti rapporti sulle migrazioni.
Questo nuovo aspetto dei fenomeni migratori è stato anche oggetto del IV Foro Sociale delle Migrazioni che si è tenuto a Quito, Ecuador, dal 8 al 12 ottobre del 2010.
Nella dichiarazione finale redatta dallˈAssemblea dei Movimenti Sociali che formavano il Foro Sociale delle Migrazioni si legge: “la femminilizzazione crescente dei flussi migratori mondiali si spiega in larga misura con lˈincorporazione delle donne nelle catene globali di assistenza familiare nei paesi di destinazione, caratterizzata da una gran precarietà lavorativa che comporta processi di degrado personali e con gravi problemi di impatto ambientale nelle comunità di origine, costituendo una delle nuove forme di schiavitù del secolo XXI. Con relazione alla tratta con fine di sfruttamento sessuale, in molti paesi si applicano le leggi di migrazione e non le leggi di protezione raccomandate dal protocollo di Palermo. [1]
Negli ultimi anni accade infatti sempre più spesso che sono le donne dei paesi più poveri del mondo che si fanno carico del ruolo di breadwinner allˈinterno delle loro famiglie, ruolo un tempo riservato alla componente maschile emigrante dei nuclei familiari. Le donne sono spesso lˈultima ancora di salvezza per milioni e milioni di famiglie schiacciate dalla povertà e impossibilitate ad uscirne. “Dei quasi 180 milioni di migranti, la metà sono donne, alcune delle quali non viaggiano più come accompagnatrici dei loro mariti ma sempre più spesso lo fanno autonomamente”[2] . Sono le donne oggi che decidono di allontanarsi dal loro paese per poter garantire ai propri cari una vita più decente e dignitosa. Lasciano la propria terra, il proprio nucleo familiare di origine, i figli e i loro mariti o compagni per emigrare allˈestero, in Europa o negli Stati Uniti, dove è sempre più richiesta una mano dˈopera al femminile per la cura delle famiglie benestanti di quei paesi.
La manodopera femminile proveniente da paesi sottosviluppati o in via di sviluppo si caratterizza per essere essenzialmente a basso costo, facilmente “addomesticabile” e ancora di più facilmente ricattabile per le peculiari caratteristiche di questo tipo di fenomeno migratorio. E a giudicare dal numero di donne sempre più elevato che trovano impiego presso le famiglie come collaboratrici familiari fisse o “ad ore”, come badanti o come baby sitter, si tratta di una manodopera per cui esiste una grande richiesta. Si calcola che il 10% circa delle famiglie italiane ricorre a una collaboratrice domestica o a una badante (la Repubblica, 2009).
La donna migrante, spesso è sola, irregolare (almeno la metà di quelle che lavorano nelle famiglie italiane) non conosce la lingua, e salvo qualche parente o amico che lˈ ha preceduta non ha nessun punto di riferimento affettivo o economico nel paese di destinazione. Ciò rende possibile una quasi dedizione assoluta da parte di queste donne alle famiglie autoctone. Soltanto in alcuni casi le reti di migranti costituiscono alternative valide alla solitudine.
La donna migrante si ritrova quindi molto spesso costretta ad integrarsi in maniera non spontanea e soprattutto non sana nella famiglia che le offre lavoro. Viene inglobata nelle case, quasi sequestrata, diventa invisibile alla società (ancor di più se non ha documenti in regola), è facilmente ricattabile, le viene chiesta dedizione assoluta anche nella sfera affettiva quando deve occuparsi per esempio dei bambini. In poche parole si annulla.
Si tratta in questi casi di relazioni lavorative fondate profondamente sul precariato, quando non su forme più o meno subdole di schiavitù vera e propria, che diventa arma di ricatto per pretendere ed ottenere sempre maggior dipendenza. Sono relazioni caratterizzate da una grave dipendenza economica ed affettiva “a senso unico”, dove il bisogno di “protezione” della migrante viene pienamente soddisfatto dalla famiglia che la accoglie e che riceve in cambio dedizione e disponibilità di tempo illimitata.
Tali relazioni lavorative hanno insite in sè processi di degradazione della persona, la quale finisce per annullarsi nel punto esatto in cui i componenti della famiglia che la ospitano ne ricavano tempo e risorse da investire nel miglioramento della qualità delle proprie vite e della gestione delle loro attività professionali. La serenità e qualità di vita decisamente elevate per le famiglie autoctone si raggiungono cosí al prezzo della disgregazione e della dispersione di migliaia di nuclei familiari del Sud del mondo. Le famiglie di origine delle donne migranti spesso si vedono private di un importante cardine di riferimento, soprattutto nelle comunità rurali e indigene. Si creano così le “famiglie trasnazionali” dove i vari membri sono dislocati in paesi diversi e il cui filo conduttore che li tiene uniti spesso è rappresentato unicamente dalle rimesse in denaro. Un terremoto relazionale di dimensioni impensabili e dalle conseguenze imprevedibili sulla stabilità del tessuto umano e sociale di interi paesi.
Ancora una volta spetta alla donna la cura del proprio nucleo familiare, anche da molto lontano. Con la femminilizzazione dei flussi migratori infatti sono proprio le donne che si devono farsi carico dei ricongiungimenti familiari, la cui realizzazione diventa sempre più difficile a causa delle nuove politiche anti-immigrazione dei governi europei.
Alcuni studi evidenziano tuttavia come alcune volte la migrazione femminile rappresenta per migliaia e migliaia di donne la possibilità di sfuggire a relazioni violente o pericolose nei loro paesi di origine e per altre costituisce effettivamente una possibilità di ottenere indipendenza e di potersi realizzare lontano da nuclei patriarcali fortemente limitativi o soffocanti,
In realtà le donne migranti rappresentano una fonte di manodopera a basso costo che ha come unica funzione quella di permettere ai nuclei familiari del primo mondo di mantenere uno stile di vita qualitativamente accettabile, nonostante i ritmi frenetici della vita nelle grandi città e la sempre maggiore quantità di tempo dedicata alle attività lavorative e imprenditoriali da parte delle donne occidentali.
Non solo. La presenza di donne immigrate nelle case delle nostre città, come badanti o baby sitter o come donne di servizio permette alle famiglie di poter sopperire a un prezzo relativamente basso alla sempre maggiore carenza nel welfare da parte dei governi europei e degli Stati Uniti.
Lˈ Italia, che ha per esempio il più alto numero di abitanti con oltre 65 anni di età è anche il paese che ha meno numero di posti letto in residenze per anziani e si colloca allˈ ultimo posto per il numero degli anziani assistiti a domicilio (appena lˈ 1%).
I servizi di assistenza familiare e di cura a bambini ed anziani, che in passato a prezzo di grandi lotte e rivendicazioni si era riusciti a rendere almeno in parte di competenza di alcune strutture pubbliche, stanno tornando a rappresentare un pesante fardello per molti nuclei familiari e questo a causa delle politiche di destra o di estrema destra di molti governi europei.
Spazi sociali in cui la partecipazione e la solidarietà riuscivano a dare un sostegno importante alle donne la cui individualità era schiacciata tra la cura dei figli, il lavoro e in alcuni casi la cura dei familiari più anziani del nucleo familiare, si perdono giorno dopo giorno in una società in cui gli spazi di condivisione con lˈaltro vengono quotidianamente annullati dallˈ idiozia teletrasmessa o dallˈ altra forma di idiozia generalizzata rappresentata dal consumismo sempre più compulsivo.
Si tratta, almeno in Europa, di intere società che stanno registrando una pericolosa regressione verso posizioni conservatrici o reazionarie per cui anche le donne europee che negli anni scorsi hanno lottato duramente per alcune conquiste in termini di liberazione e di raggiungimento di indipendenza economica ed affettiva e che oggi ne godono i frutti, si trovano ad applicare modelli di sfruttamento lavorativo e discriminatorio verso altre donne.
Eˈ tutta la società che sta registrando un pericoloso spostamento a destra della coscienza collettiva, creando nel caso specifico un sistema di cura delle famiglie improntato sulla formalizzazione, tramite queste particolari forme di rapporto di lavoro, delle classi sociali, concetto da molti revisionisti considerato fuori moda o antiquato.
Una tendenza al ribasso per lo sviluppo dellˈessere umano e che purtroppo non è caratteristico solo dei paesi occidentali o del Nord del mondo. In America latina la definizione delle classi sociali nellˈambito della cura e dellˈassistenza delle famiglie ha una struttura possiamo dire “piramidale”. Le collaboratrici domestiche che lavorano nelle case delle classi piú abbienti hanno a loro volta in casa baby sitter o bambinaie o donne ad ore proveniente da un gradino della scala sociale immediatamente inferiore a quello in cui si trovano e così via, creando vere e proprie catene di sfruttamento “al femminile”. Rari, in questo settore lavorativo, ovunque nel mondo, sono infatti i casi in cui si può parlare di rapporti di lavoro improntati sulla corretteza e sul rispetto del prossimo. Mancanza di veri e propri contratti di lavoro, salari sempre più bassi, violenze sessuali ed abusi, orario troppo lungo, maltrattamenti verbali e a volte anche fisici. Per tutta questa serie di motivi il Fondo delle Nazioni Unite per le Donne (UNIFEM) colloca lo sfruttamento delle collaboratrici domestiche tra le 16 diverse forme di violenza di genere, mentre alcuni studi arrivano a parlare di schiavitù o semi-schiavitù domestica.
Ai già noti fattori discriminatori ai quali sono sottoposti i migranti in genere e che sono quelli di razza e di classe, alla componente femminile dei flussi migratori si aggiunge anche quello di genere.
Si parla pertanto di una “doppia, tripla e a volte anche quadrupla discriminazione”, [3]una “trimurti di caratteri” impressa come un marchio a fuoco sul petto delle donne migranti.[4]
Tali forme di sfruttamento nelle nostre case, lo sfruttamento delle donne verso altre donne, quelle delle classi piú elevate su quelle povere, migranti o non, alla fine vuol significare una cosa sola: la donna non si è ancora liberata dai ruoli che la società le riserva da millenni. La cura della casa, dei bambini, dei genitori anziani se non può essere a carico della donna europea o statunitense che lo sia a carico di una filippina, di una rumena, di una peruviana ma purché rimanga strettamente a carico di una donna. La tanto sospirata parità allˈ interno della coppia la donna non lˈha sicuramente ottenuta ma è lungi dallˈ immaginarla anche allˈ interno della società.
Il fatto che la donna ricca, magari indipendente economicamente dal marito, con una vita professionale soddisfacente, abbia bisogno oggi di sfruttare altre donne per garantirsi la cura della propria casa o della propria famiglia, vuol dire soltanto che non è riuscita ad ottenere dal proprio compagno o marito la condivisione del lavoro nelle incombenze domestiche e nella cura dei figli. Rivendicazioni gridate a gran voce nei cortei femministi dei decenni scorsi, magari giustificate da manuali di moderna puericultura… la realtà dimostra purtroppo che certi compiti e ruoli sono ancora di esclusiva competenza dellˈ universo femminile.
[1] Protocollo delle Nazioni Unite sulla prevenzione, soppressione e persecuzione del traffico di esseri umani, in particolar modo donne e bambini. Entrato in vigore il 25 dicembre 2003
[2] CEPAL: “Mujeres migrantes de América Latina y el Caribe: derechos humanos, mitos y duras realidades” — Patricia Cortés Castellanos
[3] Ambrosini M. Sociologia delle Migrazioni, il Mulino 2005
[4] Campani 2003
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