Guerra in Libia: la rete ha ucciso la piazza?

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“E’ con grande piacere che do il benvenuto al ministro Gheddafi al Dipartimento di Stato. Noi attribuiamo grande valore alle relazioni tra gli Stati Uniti e la Libia. Abbiamo grandi opportunità per approfondire e ampliare la nostra cooperazione e personalmente ho la ferma intenzione di consolidare i nostri rapporti. Pertanto, signor ministro, sia il benvenuto tra noi”.   (21 aprile 2009. Mutassim Gheddafi viene ricevuto con tutti gli onori a Washington da Hillary Clinton)


Il mondo è in guerra. L’ennesima guerra neocolonialista-imperialista, questa volta per impossessarsi delle riserve di petrolio della Libia.

L’aggressione  è  stata realizzata tanto velocemente  (il tempo per l’ennesima  ridicola riunione  del Consiglio di Sicurezza dell’ ONU) quanto  evidentemente criticabile da ogni punto di vista, soprattutto da quello dello stesso diritto internazionale con il quale pure vorrebbe legittimarsi.  Non può essere infatti sostanzialmente valida  una risoluzione internazionale emessa ad hoc a legittimare un intervento armato con lo scopo di imporre la democrazia, quando  l’organismo che la emette diventa strumento nelle mani delle potenze mondiali. Perché infatti  non si è mai intervenuto allo stesso modo contro Israele, che continua impunemente, anche in queste ore,  a commettere un vero e  proprio genocidio sistematico contro il popolo palestinese?

Più passano le ore e più,  nel caos e nella confusione di dichiarazioni, smentite, dubbi sui ruoli e finanche sullo scopo,  l’intera operazione si profila come la stessa campagna mediatica che l’ha preceduta: maldestra, confusa, improvvisata e  grossolana.

Con quelle tombe in costruzione fatte passare per fosse comuni, con i bombardamenti inesistenti su Tripoli, smentiti allegramente dall’ambasciatore italiano e dal vescovo di Tripoli che proprio in questi giorni sta parlando  di guerra assurda e sta invocando  la “mediazione per risolvere i conflitti” (non era la stessa cosa che diceva Chávez qualche settimana fa?), bufale colossali, come i 10.000 ribelli morti e gli oltre 50.000 mila feriti, che quasi nemmeno il terremoto e lo tsunami in Giappone. Bufale che  gli stessi ideatori e disinformatori  di professione  hanno dovuto ritirare in fretta e furia  dal mercato di fronte all’evidenza dei fatti.

Campagna mediatica evidentemente  grossolana proprio perché si è reso evidente il fatto che non era necessario uno sforzo disinformativo eccezionale. Si disinforma chi  potrebbe, di fronte all’evidenza dei fatti,  reagire in qualche modo. Chi avrebbe dovuto reagire a questa nuova guerra, e come? L’ opinione pubblica internazionale?

Perché esiste l’opinione pubblica internazionale? Di cosa o chi stiamo parlando? Di quell’ “indignazione morale condivisa per infrazioni evidenti del comandamento contro la violenza e per massicce violazioni dei diritti umani”?[1] Dove sta? Dove e come  si esprime? Chávez a l’intera  coalizione dell’Alba,  da  sud tuonano contro le mire neocolonialiste di un pugno di stati che credono che le lancette del tempo siano ancora  ferme al XIX secolo, Putin, da nord  parla di “crociata medievale”… In mezzo c’è l’Europa, confusa politicamente e con la voce del suo popolo, della sua gente completamente assente oggi.

Dove stanno? Dove sono le voci dei popoli? Gli unici a levare proteste contro la guerra sono alcuni presidenti, qualche governo, qualche intellettuale… Dove sono i giovani?  Dove sta il sentimento pacifista che ha animato in passato le strade e le piazze europee e che è stato il fondamento, il pilastro di tutti i movimenti giovanili? Dove stanno le bandiere della pace che hanno colorato le strade e le piazze europee tra il 2002 e il 2003? Si calcola che allora in Italia quasi tre milioni furono  i balconi e le finestre dove il vessillo multicolore indicava che in quella casa, in quell’ufficio, in quella scuola si stava esprimendo  un forte e chiaro NO alla guerra! E le moltitudinarie proteste del febbraio 2003…

Questa è la ricostruzione che fa di quel sabato 15 febbraio 2003 lo storico statunitense J.J. Sheehan[2]:Sabato 15 febbraio 2003 si tenne la più grande dimostrazione della storia europea, contro la guerra che stava per colpire l’Iraq. A Londra una folla di circa un milione di persone si riversò in Trafalgar Square, riempiendo le strade cittadine dagli argini del Tamigi alla Euston Station; un milione di manifestanti marciò a Barcellona e a Roma, altri 600.000 a Madrid. A sfidare il gelo al Tiergarten di Berlino furono in 500.000, un numero quasi pari ai partecipanti alla Parata dell’Amore che vi si teneva in estate. Si trattava ovunque di folle pacifiche. Ci furono pochi arresti, nessun episodio di violenza. Le dimostrazioni attirarono una ricca varietà di partecipanti: c’erano alcuni adolescenti vestiti in pelle e con l’aria da duri e giovani che indossavano la kefiah palestinese o la sciarpa nera degli anarchici, ma nella stragrande maggioranza dei casi si trattava di cittadini dall’aspetto rispettabile, che indossavano caldi cappotti invernali e scarpe comode – pensionati, accademici di mezza età, membri dei sindacati, studenti delle superiori e universitari. C’erano tante famiglie, genitori e nonni che non partecipavano a una dimostrazione dagli anni Sessanta, bambini che per la prima volta facevano l’esperienza di quel caratteristico miscuglio di euforia e disagio delle manifestazioni politiche. Un quotidiano tedesco definì l’evento «una rivolta di persone comuni»…. Diversamente da chi in passato aveva manifestato contro la guerra in Vietnam, nessuno mostrava alcuna simpatia per l’altra parte; non c’erano bandiere irachene né ritratti di Saddam Hussein. Per la maggior parte di quelle persone, il vero problema non era chi aveva ragione e chi torto, ma se la guerra potesse essere considerata una risposta.”…In tutte le città coinvolte, guardando al di sopra della marea umana, la scritta che appariva più spesso era composta da una sola parola: «No».

Sicuramente, come si è visto, le proteste nulla hanno potuto contro la guerra, che a distanza di 8 anni continua cruenta ancora oggi. Tuttavia esprimevano un sentire comune, se non dei governanti,  quanto meno dei governati. Esprimevano un sentimento che riuscì anche solo per un breve, anche se inutile momento,  ad uscire dalle pance e a riversarsi nelle strade.

Guardando indietro con gli occhi di oggi, guardando oggi da  questa Europa folle che, nel tentativo di contrastare “l’unilateralismo missionario”  dell’interventismo statunitense di allora, riesce oggi ad essere soltanto una ridicola caricatura di se stessa, vediamo tuttavia che,   l’ottimismo  di alcuni intellettuali  dovuto allora alla  contemporaneità di quelle  moltitudinarie proteste contro la guerra,   appare oggi sicuramente esagerato. Junger Habermas e Jacques Derida nel loro appello dal titolo: Il 15 febbraio: ovvero, ciò che unisce gli europei auspicavano, credendola possibile, “la nascita di un’opinione pubblica europea” proprio a partire da quelle grandi e sentite manifestazioni di pacifismo, le “più grandi dalla fine della seconda guerra mondiale”. Oggi, rispetto ad allora, resta simile soltanto la spaccatura europea rispetto al ruolo della politica estera del continente. E all’interno dei singoli Stati le spaccature sulle posizioni da tenere, rendono tutto il gioco guerrafondaio ancora più sguaiato e meschino. Ai rumori della guerra fa eco il chiasso della politica e tutto intorno il silenzio…

Spostando la visuale, infatti, guardandoci da fuori, noi “persone comuni” del 2003,  dove siamo oggi? Dove sta la nostra rabbia contro la guerra? Dove sono i nostri giovani?

Io lo so e il saperlo mi riempie di tristezza e inquietudine. I nostri giovani stanno tutti al pc. Seguendo giorno per giorno gli avvenimenti. Certo,  partecipando, scrivendo (come sto facendo io stessa in questo momento), dibattendo, insultando questo o quel politico, Berlusconi come Sarkozy, Obama come Cameron, manifestando dissenso e rabbia, esponendo foto e scritte come si fa con gli striscioni in piazza.

Io non credo che sia casuale tutto questo. Io credo, sono fermamente convinta, che la rete sia una grande conquista della comunicazione, che sia una grande opportunità di crescita e di condivisione, di comunicazione e di scambio, di esperienze, di lotte, di battaglie e di informazioni. Credo però anche  che sia mancato uno studio serio e intelligente degli effetti che questo mezzo avrebbe potuto  avere sulla militanza, sulla protesta, sul dissenso. E questo ci ha fregati. Abbiamo pensato, nelle lunghe giornate d’inverno, o al fresco delle nostre case nelle estati assolate e torride,  che fare e produrre informazione comodamente seduti davanti ad un monitor fosse in qualche modo costruttivo. Abbiamo pensato che scrivere, e scrivere, e condividere notizie, e produrre dibattito,  fosse una maniera  diversa e più acculturata di apportare il nostro contributo alle cause in cui credevamo e crediamo.  Abbiamo pensato che far girare e condividere in migliaia di siti le orrende foto degli eccidi israeliani al fosforo bianco sui bambini palestinesi volesse dire contribuire in quale maniera a quella causa. Abbiamo pensato che mettere la bandiera della pace nelle nostre pagine web o nei nostri avatar fosse come mettercele addosso o esporle alle nostre finestre.

Sbagliavamo. Le piazze si sono svuotate, i cortei si sono fatti più silenziosi e noiosi, i colori sono lentamente sfumati. Nessuno grida più, nessuno torna a casa la sera stanco, sudato e senza voce dopo un corteo, tutti appaiono stanchi invece di tanto sbraitare e urlarsi addosso rabbia virtuale nei social forum.

Il potere ha vinto. La fantasia non è riuscita a dominarlo. In passato soffocata da tonnellate di  droghe gettate addosso alle menti migliori, quelle più fervide e ribelli, poi livellata  con il ventennio uniforme e squallido dell’avvento delle televisioni commerciali (che ha dato il colpo di grazia a cultura e originalità), così oggi, i centri di potere,  dandoci l’illusione della libertà di espressione, facendoci credere di essere tutti partecipativi nella creazione globale dell’informazione, con quel mezzo diabolico e terribilmente geniale e seducente che è internet,  hanno controllato, con meno morti e meno diffusione di malattie,  ogni velleità rivoluzionaria dei giovani.

In piazza a Roma la settimana scorsa contro la guerra hanno manifestato una cinquantina di persone, il gruppo in Facebook Fuori l’Italia dalla Guerra in Libia conta 697 persone, il gruppo No alla guerra in Libia piace a 150 persone, No alla guerra contro la Libia piace a 300 persone, Io non voglio la Guerra in Libia piace a 792 persone e così via…

Paradossalmente proprio questi mezzi, internet  e i suoi social Forum Facebook e Twitter, proprio quelli  che hanno contribuito a creare adesione e consenso intorno a tanti militanti di alcuni paesi lontani da noi sia geograficamente che culturalmente , sono stati quelli che li hanno maggiormente isolati, chiudendoli dentro le maglie repressive della rete.

La rete, quella è la vera piazza oggi. Questa è la vera sconfitta. La nostra e del pacifismo, violento o non violento che sia, più educato e rispettoso o sguaiato e rabbioso, non importa il modo o la forma. E’ la sostanza che manca, la grande assente.  Questa,  signori, è la sonora e scottante sconfitta della militanza.





[1] J. Habermas, L’Occidente diviso, Editori Laterza, Roma-Bari 2005

[2]J.J. Sheehan L’età post-eroica Guerra e pace nell’Europa contemporanea (Laterza)


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    Christian Luongo ha detto:

    Cara Annalisa,
    l’amarezza è tanta ma la mobilitazione nelle piazze è stata, negli ultimi anni almeno, sempre più appannaggio di forze politiche, ovvero parapolitiche organizzate. Lo “spontaneismo” insomma, si è andato, progressivamente, eclissando e la sensazione che raccolgo, per strada intendo, è quella di una assoluta indifferenza ; dalle mie parti c’è molto più fermento per il prossimo incontro del Napoli piuttosto che per la guerra in Libia di cui, detto per inciso, non gliene importa — praticamente — nulla a nessuno.
    Molto più succulento e pruriginoso occuparsi delle orge in quel di Villa Certosa, insomma.
    Magari mi sbaglierò ma non penso che la rete abbia influenzato, più di tanto, una fondamentale peculiarità della società italiana — attuale, naturalmente — connotata da una sorta di inerzia. Le preoccupazioni che raccolgo, nei limiti di quel che io possa fare naturalmente, risiedono, essenzialmente, nell’eventuale aumento del costo del carburante. Il che è tutto dire.
    Ti abbraccio.

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    Annalisa ha detto:

    Sicuramente caro Christian l´inerzia che rilevi c´e´stata ed esiste indipendentemente dalla rete. Basti pensare alla scomparsa della sinistra… tuttavia il mio é un discorso molto piú generalizzato, credo che la rete stia fungendo da anestetico rispetto a certe ribellioni giovanili…Un abbraccio

  3. Una domanda, che è anche un po’ una provocazione: se la stessa autrice confessa di aver compreso che le proteste di piazza nulla hanno mai potuto in questi anni contro la guerra, e che l’unico valore che effettivamente hanno è quello di convogliare dei sentimenti comuni, perché dare un valore inferiore alla piazza virtuale, se anche questa assolve a questa funzione, e magari in più riesce a fornire uno strumento di coordinazione e scambio di informazioni a livello globale?

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      Annalisa ha detto:

      Scusa se rispondo in ritardo innanzitutto
      Perché se é vero che le manifestazioni contro la guerra non servono a fermare le guerre, credo anche che sia importante dare il segnale di cosa pensino coloro i quali a quelle guerre sono contrari. Credo che quanto piú il dissenso sia manifesto, gridato, urlato, rumoroso, sbandierato, anche VIOLENTO tanto piú arriva alle orecchie di chi deve ascoltare. Un pó con tutti i reclami che si fanno… In pratica penso che i momenti siano due e ben distinti e cioé quello informativo a cui la piazza virtuale assolve in maniera egregia e quello del dissenso che se si limita alla piazza virtuale non serve assolutamente a nulla. Un governo non ascolta la piazza virtuale, praticamente é inutile, come vediamo sono inutili tutti gli appelli da firmare che arrivano a decine nelle nostre liste. Un governo é messo sicuramente in difficoltá piú da una ferrovia bloccata, da un boicottaggio fatto come si deve, da un sit in a oltranza, da una strada occupata.… Probabilmente nemmeno questo servirá in questo momento, perché va anche detto che sono pratiche che non si devono abbandonare, che non si devono esaurire con una sola guerra, ma andrebbero riproposte ogni volta che per esempio che il nostro governo in finanziaria destina piú soldi alle spese militari, quando le nostre imprese concludono contratti sulla vendita delle armi, andrebbe creato un vasto movimento per chiedere l´uscita del paese dalla NATO… etc etc di tutto ció non basta parlarne in rete e poi magari tirare fuori le bandiere della pace in una piazza. Deve essere una lotta quotidiana, inarrestabile.
      Per il resto va anche detto che se le piazze tacciono sulla guerra in Libia é anche e soprattutto perché anche la sinistra o quel che ne rimane, su questo intervento é profondamente divisa, si ha paura di manifestare per paura dio sentirsi dire : allora stai con quel dittatore di Gheddafi? Questa é una semplificazione inaccettabile.
      Ciao e grazie x il commento

      • Cinque anni fa ho iniziato un percorso che mi ha portato a conoscere centinaia di persone che ogni giorno lavorano per migliorare questa società. Tutte queste persone hanno trovato in internet lo strumento essenziale per poter comunicare ed organizzarsi, e scendere in strada solo ove fosse davvero utile (e col tempo si è imparato a capire quando sia più utile e quando sia invece una voluttuosa perdita di tempo).

        La piazza non è morta, è solo diventata più razionale, esigente, e soprattutto propositiva. Non ci si limita più alla protesta con la speranza che qualcuno “lassù” ci ascolti, oggi si scende in strada per conclamare che senza partiti e soggetti politici precostituiti si è stati in grado di istituire un referendum per l’acqua pubblica, ad esempio (Di Pietro è venuto solo dopo, ed il suo quesito è stato persino bocciato — ma non glielo sentirai mai dire).

        http://www.repubblica.it/politica/2011/03/26/news/piazza_referendum-14124128/

        C’era anche la protesta contro la guerra in quella piazza, ma consapevoli del fatto che la causa della guerra è soprattutto economica, è lì che le piazze moderne cercano di incidere.

        Nel proprio piccolo, nella vita di tutti i giorni. Ed ogni tanto in piazza. Quando serve.

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          Annalisa ha detto:

          Ciao Fabio, vedi sta lí il punto. Andare in piazza solo quando serve, che tradotto vuol dire scendo in piazza solo quando vedo toccati i miei interessi diretti, quelli che colpiscono casa mia e il mio orticello… é il trionfo di 30 anni di individualismo. Con la sinistra muore anche l´internazionalismo solidale che la animava e questo non mi piace, apre la porta ai nazionalismi.

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            Fabio ha detto:

            Mi spiace, ma non è lecito leggere nelle mie parole ciò che vi hai visto tu. Continui a parlare di sinistra quando le piazze sono andate ben oltre il concetto di “sinistra”. Non si bada affatto al proprio orticello: l’acqua pubblica ed i beni comuni sono il proprio orticello? Forse che non è un problema mondiale, sul quale si incentrano tutte le guerre? Persino la guerra di Palestina è una guerra per l’acqua: http://www.facebook.com/note.php?note_id=399327536266

            La tua tesi di partenza, mi permetto umilmente di ribadire, è errata.

  4. avatar
    bruno rosa ha detto:

    cara annalisa penso che i pacifisti vedendo deluse tutte quelle miliaia di iniziative che non hanno portato al nulla.
    essere statti frustrati per tante volte,credo abbia lasciato il segno,un brutto segno (il disinteresse per tutto,e rincretiniti dalla tv spazzattura,abbiano alzato bandiera bianca)
    milioni di persone sono scese nelle piazze,in passato senza aver concluso nulla,non contiamo proprio nulla.
    ciao

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