Alfonso Podlech: certificato di impunità made in Italy

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“Su mio padre un processo politico”

Angelo M. D’Addesio — 26 luglio 2011

A due settimane dalla sentenza di assoluzione di Alfonso Podlech, il “piccolo Pinochet”, accusato della sparizione di Omar Venturelli nell’ottobre del ‘73 e centinaia di altri prigionieri, la figlia Maria Paz parla della sentenza e della sua lotta personale contro l’impunità per i torturatori.

D. Quale sensazione ha provato lo scorso 11 luglio quando la 1^ Corte d’Assise di Roma ha pronunciato la sentenza di assoluzione per Alfonso Podlech per tutti i reati attinenti alla sparizione di suo padre Omar Venturelli?

P.V. Sono rimasta autenticamente scioccata perché quando ho ascoltato la sentenza, avendo assistito a tutte le udienze, mi sembrava che quella decisione appartenesse ad un altro procedimento. Sono rimasta immobile e subito dopo mi sono girata verso il pubblico ministero chiedendo “Cosa succede adesso? Viene liberato?” e lui guardandomi negli occhi mi ha detto “Si, è libero per sempre”. Lì ho capito l’ineluttabilità della cosa, al di là di qualsiasi appello, di qualsiasi atto da parte nostra, Podlech sarebbe partito all’indomani per il Cile, libero ed innocente. Tale è stato lo shock, da non potermi muovere concretamente dall’aula. A mente fredda nei giorni successivi, ho provato molta rabbia, ripensando al danno reale e non solo morale ed ideologico che è stato provocato, perché quest’uomo ritornato in Cile può già intimorire i testimoni che sono venuti al processo oltre ad aver ottenuto, da assassino torturatore, un certificato di impunità made in Italy, quindi il “massimo della credibilità”, visto che la decisione è stata emessa addirittura in Europa.

D. Come vi muoverete adesso sia sul piano giudiziario che su quello politico?

P.V. Provo rabbia e compassione per chi ha emesso questa sentenza, applicando la giustizia in modo pilatesco, lavandosi le mani con motivazioni quali la prescrizione, l’insufficienza di prove, la non procedibilità per i vari capi d’accusa, pur nell’intrinseca convinzione della colpevolezza. Non so quanto i giudici avessero le mani legate, ma sarebbe bastato solo essere sufficientemente coraggiosi per supportare una tesi ed una decisione che appariva ovvia a tutti i presenti in aula. Adesso noi dobbiamo tenere gli occhi molto aperti a ciò che accade a Temuco per non lasciare soli i familiari delle vittime, ma anche le vittime stesse ed i testimoni, visto che Podlech è tornato in Cile più potente di prima, ancora perfettamente incorporato nell’esercito come generale. Articoli e dichiarazioni in Cile parlano dell’ultimo assalto dell’internazionalismo comunista che è fallito, secondo i sostenitori del pinochettismo, che sono molti, per cui siamo ancora in piena propaganda anni ’70, dove questo processo è apparso tutt’altro che come un atto a tutela dei diritti umani ed a salvaguardia delle vittime. E poi faremo appello, affinché la giustizia affermi sé stessa e ribadisca la verità inoppugnabile su tale vicenda. Prima o poi le istituzioni attesteranno questa verità di cui noi siamo già sicuri. Ho aspettato 35 anni per iniziare un processo in Italia ed è già stato un grosso risultato svolgerlo, vedere in carcere per tre anni Podlech, attuare una ricostruzione storica attraverso le testimonianze, ed ora bisognerà fare in modo che questa verità diventi istituzionale. Forse era ancora presto per ottenere questo risultato ma sono convinta che prima o poi ce la faremo.

D. Alfonso Podlech, appena sceso dall’aereo, a Santiago, ha dichiarato che tutti i tribunali cileni dovrebbero comportarsi come quelli italiani e chiudere definitivamente questa pagina di conflitto. Come pensa sia stata interpretata l’intera vicenda in Cile?

P.V. In Cile esiste già una legge di amnistia che copre tutti i reati compiuti dai militari e da tutti i civili che hanno coadiuvato le forze militari. Se teniamo presente che la repressione più forte è avvenuta negli anni 1973–74 e che l’amnistia copre tutti gli episodi fino al 1979, è molto difficile che si riesca a fare chiarezza su questi casi. Questa legge di amnistia, inoltre, viene interpretata in modo molto restrittivo perché non si cerca di costruire la verità, trovando i responsabili per poi amnistiarli, ma al contrario l’amnistia avviene a priori, non appena l’indagine riguarda membri dell’esercito, si procede all’amnistia e tutto viene archiviato senza indagini. Questa famosa pacificazione si basa sull’irrilevanza di tutto ciò che è accaduto in quegli anni: più di 3500 morti, migliaia di persone sequestrate, torturate, un governo rovesciato…Un paradosso per un paese democratico.

D. Pensa che questa sentenza sia stata una decisione politica, condizionata da fattori esterni provenienti dal Cile e dalle recenti visite del presidente Piñera nel nostro paese?

P.V. Credo che questo sia stato un processo interamente politico. Da questo si evince ancora di più la gravità della sentenza che avrà sicuramente delle ripercussioni ed infatti Podlech l’ha usata come spunto per dichiarare che si dovrebbe decidere in Cile così come è stato deciso in Italia per questi reati. La Corte non si è assunta la responsabilità di una sentenza che fosse unicamente di carattere giudiziario, sancendo l’impunità per crimini contro l’impunità e quindi attribuendole un chiaro valore politico. E’ una decisione poi che fa comodo ad entrambi i governi, quello italiano e quello cileno che sono in ottimissimi rapporti politici ed economici. Non a caso il presidente Piñera è stato in Italia tre volte, ci sono molte commesse di lavoro fra i due paesi e quindi una conclusione di questo tipo aiuta, perché l’Italia non effettua così ingerenze nelle vicende cilene ed il Cile gestisce la sua storia per proprio conto e non ha bisogno di contestare alcuna intrusione. In queste condizioni e con tale conclusione, la decisione può passare completamente inosservata, mentre ben maggiore sarebbe stato il rumore nel caso in cui fosse stata emessa una condanna.

D. L’intero processo si è svolto in Italia per ben due anni, ha coinvolto una famiglia italiana e molti testimoni ed un uomo accusato di crimini terribili eppure non ha fatto notizia. Come mai questo silenzio di stampa, politica su questa vicenda, in Italia ed in Cile?

P.V. In Italia il silenzio è dovuto alla nostra “malattia” per la politica interna ed al nostro scarsissimo interesse per gli avvenimenti esteri. Questa storia comunque rinvanga una questione che tutti ormai ritengono distante, sia nel tempo che nello spazio, perché avvenuta in Cile e senza dirette ricadute sulla politica italiana, sebbene riguardasse un cittadino italiano. L’altra motivazione rilevante è che si è trattato di un processo squisitamente politico e non di un processo di cronaca che riempie normalmente pagine e pagine di giornali e diventa un tormentone. In Cile poi, per questioni di immagine, non si potevano fare pubblicamente pressioni sull’Italia perché assolvesse un torturatore, né d’altro canto si poteva prendere una posizione contraria a quella che è l’opinione di una parte potente della società cilena, che si riconosce in Piñera, un premier appoggiato da partiti di destra e che ha vinto grazie ai militari, quindi è stato evitata qualsiasi posizione che creasse imbarazzi al governo. In Cile è da tempo in atto un lavoro di maquillage in cui si sottolineano gli sviluppi economici e democratici del paese, dimenticando le tristi vicende del passato sui diritti umani violati e sulle persone scomparse.

D. Lei ha parlato di sentenza politica, ma ha anche ammesso di sperare nella giustizia e nell’approdo alla verità? Come si conciliano le due cose?

P.V. Non posso agire diversamente. Nonostante la sentenza ricalchi il modello del potere più becero e che si autoconserva, i cittadini non possono smettere di pretendere che la giustizia come istituzione serva a qualcosa e quindi sperare che l’istituzione risponda a verità e giustizia. E’ il destino che accomuna tutti i familiari e non è vero che sono passati 35 anni, la storia di mio padre è un esempio di attualità: è adesso che mio padre non c’è, è adesso che non so dov’è il corpo ed è adesso che Podlech, dopo tre anni di detenzione ed un processo, non mi ha rivelato nulla. Non ho alternative, devo proseguire questa battaglia pur consapevole che mi scontrerò, come ho fatto in tutta la mia vita, con la politica e le istituzioni. Da quando abbiamo iniziato questa battaglia, molto tempo fa, in cui non esisteva neppure il concetto di desaparecidos, abbiamo raggiunto molti risultati e molti riconoscimenti. Lè anche la stessa convenzione internazionale sulla tortura, che pur ratificata dall’Italia, ma non è mai diventata legge. E’ un testo “dormiente” dal 2008 in Parlamento, considerato non urgente, mentre se fosse stata approvata questa legge, oggi avremmo potuto accusare Podlech per tortura ed ottenere una condanna. Le cose cambiano con il tempo e grazie a tutto il lavoro che svolgono i familiari delle vittime e cambieranno ancora. E’ una spinta continua della società civile verso le istituzioni e verso lo Stato.

D. Perché è importante conoscere la vicenda storica ed anche giudiziaria di Omar Venturelli?

P.V. Perché è una storia che parla della nostra vita. Il caso di Omar Venturelli è il mio caso, ma è anche il caso che si ripete per tutte le altre vittime e che può, per assurdo, coinvolgere qualsiasi cittadino. Questo è quello che bisogna evitare: l’importanza del lavoro sulla giustizia consiste nel permettere alla giustizia di affermarsi, di essere credibile, altrimenti l’impunità favorirà il ripetersi di vicende uguali o simili a questa e la nostra storia, anche in Italia, ci dice che queste cose possono accadere. Il caso Venturelli è un caso singolo ma è la rappresentazione del funzionamento della giustizia e dell’impossibilità di contrastare l’impunità ed ottenere giustizia per una violazione dei diritti umani.

I link della sentenza e del processo
Sentenza 1^ Corte d’Assise di Roma 
Processo Podlech 

Leggi il resto: http://www.linkiesta.it/blogs/nuovo-mondo/su-mio-padre-un-processo-politico#ixzz1TA7TbvlF

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