Carolus Wimmer (PCV): “L’impegno oggi é con la classe operaia”
Intervista a Carolus Wimmer, segretario delle relazioni internazionali del Partito Comunista del Venezuela
Carolus Wimmer (PCV): “L’impegno oggi é con la classe operaia”
di Annalisa Melandri - www.annalisamelandri.it
Ringrazio per la gentile traduzione dallo spagnolo i compagni del Centro di Cultura e Documentazione Popolare di www.resistenze.org
12/09/2011
Dal 4 al 7 agosto si é svolto il XIV Congresso del Partito Comunista del Venezuela, che ha confermato il suo appoggio al governo di Hugo Chávez e alla sua candidatura alle elezioni del 2012, ritenendola una “necessità politica [..] per dare continuità al suo agire politico in funzione di accrescere il carattere democratico, partecipativo e progressista che creatosi nella società venezuelana a partire dalla vittoria popolare nelle elezioni presidenziali del 1998”. Inoltre, il Comitato Centrale ha eletto il nuovo Ufficio Politico, confermando come Presidente e Segretario Generale del Partito, rispettivamente, i compagni Jerónimo Carrera e Oscar Figuera.
Il presidente Chávez, in collegamento telefonico col Congresso, ha dichiarato che “l’alleanza é decisiva” e ha esortato i presenti alla formazione del grande Polo Patriottico che riunirà tutte le forze rivoluzionarie del paese per continuare a rafforzare la Rivoluzione Bolivariana
In questa intervista inedita ed esclusiva, rilasciata il marzo scorso nell’Hotel Alba di Caracas a Carolus Wimmer, segretario degli Esteri del Partito Comunista del Venezuela e deputato del Parlamento Latinoamericano, Wimmer ci spiega in cosa consiste il “Polo Patriótico” e ci fa un bilancio dei progressi della Rivoluzione Bolivariana e delle sfide che sono ancora necessarie per parlare di Socialismo in Venezuela.
AM. — Il Partito Comunista del Venezuela quest’anno celebra i suoi 80 anni di lotta dalla sua fondazione nel 1931. Quale bilancio si può fare oggi?
C.W. — L’esistere, dopo 80 anni di lotta (e ricordiamoci che in passato il PCV ha fatto uso di tutti i tipi di lotta e per il futuro non ne scarta nessuno, naturalmente discutendoli e adeguamdoli al contesto storico) ha di per sé un grande valore, tanto che si può dire, nonostante gli errori, le divisioni, i tradimenti, le difficoltà… il Partito Comunista del Venezuela nella società venezuelana ha un alto prestigio. Ciò per la difesa, chiara e con tutti i sacrifici che comporta, degli interessi e dei desideri del popolo venezuelano, dei lavoratori e delle lavoratrici della classe operaia, dei contadini e di altri settori sociali. José Vicente Arangel, l’ex Vice presidente, l’oratore della cerimonia del 2 marzo (in occasione degli 80 anni del Partito) ha dichiarato che il PCV é il partito dei prigionieri, dei martiri, degli assassinati, dei torturati, dei desaparecidos – di molti compagni non sappiamo ancora che fine abbiano fatto – ma é pure il partito dei vivi e di oggi. Questa sintesi di José Vicente é emblematica di quello che hanno significato 80 anni di lotta e d’impegno sempre a fianco della classe operaia.
A.M. — Qual’é il contributo del PCV nell’attuale percorso bolivariano in Venezuela?
C.W. — Oggi siamo in prima linea, riconoscendo il momento storico incomparabile che viviamo e la leadership del presidente Comandante Hugo Chávez Frías. Certo, siamo al governo come forza indipendente. Concretamente, ora teniamo in alto la bandiera della Legge Organica del lavoro, la proposta del Partito Comunista concepita insieme alla classe operaia.
Questa legge, in 5 anni non è stata approvata dall’Assemblea Nazionale, forse per il contenuto oppure perché è stata proposta dal Partito Comunista. La lotta continua. Non possiamo fare un percorso rivoluzionario verso il socialismo senza tenere conto dei nuovi diritti della classe operaia, dei lavoratori, senza la Legge Organica del Lavoro, e senza la creazione dei Consigli Socialisti dei Lavoratori e delle Lavoratici, che sono un punto di forza.
A.M. — Qual é oggi, la situazione della classe operaia in Venezuela? Ci può parlare dei progressi rispetto al passato e delle battaglie ancora necessarie rispetto all’organizzazione del movimento operaio?
C.W. — La classe operaia sta ancora vivendo una fase di grande disorganizzazione, naturalmente prodotto della spaccatura sindacale e politica degli anni 80 e 90, poiché il Venezuela in America latina è stato l’avanguardia del neoliberalismo. In modo autocritico, segnaliamo che la classe operaia in sé oggi non è inserita nel processo rivoluzionario. Il Partito Comunista lotta in questa direzione e dà il suo contributo nell’organizzazione sindacale, in cui si notano segni positivi ma pure di molte pastoie che rendono difficile il lavoro unitario. A lato di questo lavoro per rafforzare il movimento sindacale, lavoriamo anche per creare e rafforzare il potere operaio. Sono due aspetti che si uniscono dialetticamente ma non sono la stessa cosa: una è la lotta sindacale, l’altro è la lotta politica per il potere, che noi consideriamo come potere operaio. Tutto ciò parallelamente alle Comuni e ai Consigli Popolari, che costituiscono il movimento sociale. Certo, il nostro partito dipende dal vecchio concetto della classe operaia avanguardia in un processo rivoluzionario e verso il socialismo. Qui stanno parte delle difficoltà, perché al momento in questo processo all’avanguardia c’è la piccola borghesia. Ecco perché l‘organizzazione e il rafforzamento della classe operaia e sindacale sono un lavoro lungo che portiamo avanti. Qualcosa che sta procedendo bene è la costruzione dei Consigli Socialisti dei Lavoratori. Nell’Hotel in cui ci troviamo, l’Hotel Alba, c’è un Consiglio Socialista di Lavoratori e Lavoratrici; in tutto 575 lavoratori, la maggioranza donne che si organizzano, qualcosa di molto interessante e con tutte le contraddizioni e le difficoltà del caso perché non esiste una legge al riguardo. Di fatto, stanno facendo qualcosa di “illegale” per far cadere la vecchia società. Indubbiamente, noi dobbiamo fare delle cose che il sistema borghese che sta dominando considera “illegale”. Non possiamo fare una rivoluzione sempre seguendo le regole del sistema borghese. Come si dice, non si può chiedere il permesso per fare la rivoluzione…
A.M. — Nel Piano 2011 del Partito Comunista del Venezuela ci sono gli elementi che porterete in Assemblea Nazionale. Quale crede che siano i progressi necessari per il rafforzamento del processo di Rivoluzione Bolivariana, o per andare verso il socialismo?
C.W. — Al momento noi abbiamo solo un deputato principale e ciò, logicamente, limita il nostro lavoro. Col segretario generale Oscar Figuera, uno dei pochi, se non l’unico che realmente viene dalla classe operaia, stiamo concentrandoci sul Potere Popolare e come spiegato prima, sulla Legge Organica del Lavoro. Noi non parliamo ancora di Socialismo, parliamo di una tappa del Fronte Antimperialista, di una fase preparatoria per raggiungere traguardi maggiori. Ma già in questa tappa antimperialista, naturalmente guardando al Socialismo, dobbiamo cominciare ad attaccare vecchi vizi, limiti e ingiustizie del sistema borghese e ciò implica, anzitutto, cambiare la legislazione lavorativa. Abbiamo una legislazione che rappresenta i rapporti di forza degli anni 80/90 e con una classe operaia divisa, un’organizzazione distrutta e con sindacati che sono delle mafie. Io spiego sempre che il sindacalismo venezuelano riformista, socialdemocratico, é stato creato, finanziato e sostenuto dall’Europa dagli anni 50 fino agli anni 80. Da lì vengono, perlopiù, i quadri del vecchio sindacalismo che finalmente si sta esaurendo. Tutti i dirigenti del CTV (Central de Trabajadores de Venezuela) si sono formati in Italia e in Germania, secondo i criteri di una scuola socialdemocratica e un sistema sindacale nettamente nordamericano. Qui non esistevano vere confederazioni sindacali, ma oggi ogni azienda ha il suo sindacato. Sono mafie sindacali, come negli Stati Uniti. Ora i lavoratori vengono assassinati costantemente. Una delle lotte più significative dell’anno scorso é stata quella della Mitsubishi, dove tutti i dirigenti sono stati assassinati dopo aver vinto una lotta sindacale. Non sono metodi europei, questi sono metodi introdotti dal sistema nordamericano che qui é quello dominante. Per il sindacalismo venezuelano abbiamo quest’immagine: le braccia in Europa e negli Stati Uniti. Quindi lottiamo per una legge e mobilitiamo con successo il partito dei lavoratori per un parlamento rivoluzionario socialista. Finalmente è chiaro: non abbiamo una legislazione del lavoro socialista. Dobbiamo dire la verità, non si può vivere d’illusioni.
L’altra parte del lavoro è l’organizzazione del Potere Popolare, dei lavoratori nelle imprese. Il Partito Comunista lo considera il compito principale. Ora tutto il Partito, tutti i suoi militanti sono impegnati in questo lavoro, nel lavoro con la classe operaia. Io ho seguito la formazione di tre Consigli Socialisti di Lavoratori e Lavoratrici, uno qui nell’Hotel Alba, l’altro in VTV (Venezolana de Televisión) e un altro nella Radio Nacional de Venezuela. E’ un lavoro fondamentale.
Secondo noi da ciò dipende il futuro della Rivoluzione Bolivariana. Se non si riesce a mobilitare e dare potere ai lavoratori, chi controllerà la via al Socialismo?
A.M. — In cosa consiste la proposta presentata al PSUV per la costruzione di un Polo Patriottico?
C.W. – Dopo varie riunioni del Comitato Centrale e aver portato il documento alla base del partito, abbiamo pubblicato la nostra proposta di “Polo Patriótico”. Mettiamo all’ordine un dibattito che non consideriamo verità assoluta. Ma il PSUV non ha ancora concluso il suo dibattito interno; in questo momento stanno discutendo delle famose 5 linee strategiche di cui una è dedicata al del Polo Patriottico e le altre quattro riguardano loro questioni interne. Per noi il “Polo Patriótico” è un fronte antimperialista che deve includere tutti i settori che in un modo o nell’altro sono minacciati dall’imperialismo.
AM. — Si tratta di una prospettiva elettorale?
CW.- Bella domanda. No, noi sottolineiamo che non si deve trattare di un’alleanza elettorale come abbiamo già vissuto e ne abbiamo abbastanza. Questa è una lotta di classe e dipende dalla tua visione di classe come guardi l’alleanza che in sé ha varie prospettive. La nostra è strategica, guarda lontano; altri hanno la prospettiva di vincere le elezioni, ma possiamo dire con sicurezza — per via degli avvenimenti degli ultimi anni — che c’è una presa di coscienza in tutti i settori che vogliono avanzare davvero nel percorso bolivariano, che non può essere limitato alle elezioni. Lo stesso presidente Chávez lo dice; solo sul piano elettorale, senza rivoluzione, senza cambiamenti profondi, naturalmente il nemico di classe ha il vantaggio, anche se ha subito dei colpi. Se non riusciamo a batterlo, alzerà di nuovo la testa.
A.M. — Sulla crisi economica mondiale che sta colpendo molto duramente tutti i paesi del mondo, il PCV come vede la situazione e quali sono le proposte del Partito per uscire dalla crisi a livello nazionale e internazionale?
C.W. - Anzitutto, dobbiamo constatare e noi lo diciamo apertamente, la crisi mondiale ha colpito il Venezuela. Non tutti lo dicono ma la crisi ha colpito l’economia del paese in modo duro. Abbiamo un’economia basata su un’alta percentuale d’importazione. Siamo ancora un paese che importa di tutto e questo è un altro fattore che dobbiamo superare. Essere dipendenti significa non essere liberi. Essendo tanto dipendenti bisogna fare dei compromessi internazionali, il che non é male di per sé, ma questo deve avere una prospettiva di cambiamento. Avviene da sempre nel settore industriale, tecnologico e scientifico, ma avviene pure nel settore agrario; si parla di un 70%, 80% di alimenti importati e su questo dobbiamo dare un’altra spiegazione rispetto a quella della destra. Ci sono dei fattori che devono essere analizzati da un punto di vista di classe. Supponiamo che ci sia l’80% di alimenti importati: la destra dice che il modello socialista è un fallimento totale, noi diciamo che non lo è, perché oggi la gente vive e mangia meglio di prima. Oggi gli alimenti sono accessibili, con qualche difficoltà si può obiettare, ma è vero che non si può dire che ci sia la fame. E’ una realtà che il governo oggi si preoccupa del problema, prima non avveniva. Negli anni 90 c’era la fame. Ma l’alta dipendenza è una cosa che deve essere risolta, specialmente in un momento di crisi. Dobbiamo rilevare che ne abbiamo la capacità.
In America Latina la situazione rispetto alla crisi generale è diversa che in Europa o negli USA, perché qui non sono state licenziate migliaia e migliaia di lavoratori. C’è gente senza lavoro ma non per una conseguenza diretta. Qui è andato perduto un certo potere della classe borghese, delle multinazionali, c’è un maggior controllo legale e governativo, certe cose non si permettono.
Noi vediamo una possibile soluzione della crisi nella maggior integrazione latinoamericana per non essere completamente coinvolti. Un solo paese può cercare soluzioni limitate e immediate, invece abbiamo bisogno di soluzioni strategiche, e una di quelle è proprio l’integrazione dell’America Latina che sta avanzando con successo.
A.M. — Quali sono le difficoltà al proposito?
C.W. — E’ un processo molto difficile, un processo unico. Simón Bolívar in ciò aveva fallito e in 200 anni non si é concluso nulla, per via dell’ingerenza straniera, europea prima e statunitense dopo. Si é andati molto avanti in appena 10 anni, che nella storia non sono niente, ma con risultati importanti; per esempio l’UNASUR, che ha evitato due guerre in America Latina, e non é roba da poco. In Europa quasi non si conoscono guerre di nuova generazione, l’ultima é stata quella in Yugoslavia. Qui ne avevano pianificata una fra Colombia ed Ecuador nel 2008, era già tutto pronto, gli Stati Uniti stavano facendo la massima pressione. Ma con una rapida decisone dell’allora presidente Michelle Bachelet, che invitò i presidenti di quest’organismo appena nato a riunirsi, si é riusciti ad evitare la decisione di Álvaro Uribe di attaccare. Sappiamo che là dove si suppone ci siano guerriglieri loro si sentono in diritto di attaccare come è successo l’anno scorso in Venezuela. L’intenzione, lo si è dimostrato con i documenti, era quella di attaccare presunti accampamenti guerriglieri in Venezuela, ma anche questo è stato smontato con l’UNASUR:
Poi c’é l’ALBA; per noi significa qualcosa di superiore, dove serve più coscienza e non tutti i paesi partecipano, ma è qualcosa di più che semplici rapporti internazionali, è solidarietà e cooperazione. Dove il denaro è un fattore secondario ed è già qualcosa di utopico, ma utopico e reale allo stesso tempo; dove si tratta il petrolio con sanità o cereali, ma non al prezzo della borsa di Londra, perché sarebbe impossibile, per esempio, per la Repubblica Dominicana fare affari col Venezuela.
Oggi c’è questa possibilità perché il petrolio è un mezzo simbolico, vale tante tonnellate di cereali e non 120 dollari al barile. Si tratta di qualcosa di molto interessante e quest’anno, il 5 luglio nascerà la Comunità degli Stati Americani e Caraibici (CELAC) dove partecipano tutti i governi. La decisione è stata presa l’anno scorso a Cancún; parteciperanno tutti i 22 paesi dell’America Latina e Centrale, tutti meno gli USA e il Canada. Naturalmente sarà problematico, ma il fatto che la proposta è stata fatta e approvata in Messico e non a Caracas o all’Avana, e poi formulata da Calderón, che sappiamo non essere un rivoluzionario, ci dimostra che questi governi pro imperialisti o pro yankee — come li chiamiamo noi, hanno grandi contraddizioni, specialmente nella società.
Quello che sta succedendo ora nel Magreb, nel Nord Africa sono contraddizioni esplosive nella società e perfino governi di destra, come quello di Santos in Colombia, devono fare delle concessioni per salvarsi e per salvare il sistema.
Tu conosci l’America Latina e sai che le contraddizioni sono altrettanto esplosive, e puoi immaginarti che la CELAC non avrà vita facile. E’ qualcosa che riporta allo sforzo di Simón Bolívar al congresso di Panama. Io segnalo sempre le dichiarazioni della cancelliera messicana della destra, Patricia Espinosa. Le sue dichiarazioni sono antimperialiste e m’immagino che sappia bene quello che dice — queste sono contraddizioni specifiche del sistema — in cui denuncia l’ingerenza statunitense e ripete più di Calderón (che non si azzarda nemmeno a dirlo), che senza gli USA il problema della droga e delle armi che provengono dagli Stati Uniti non sarebbe tale e non ci sarebbero tanti morti, ormai arrivati a 35.000.
Pertanto, vediamo che la politica rivoluzionaria non può essere bianca o nera, la politica rivoluzionaria é analizzare in che fase siamo, che alleati abbiamo disponibili per la lotta, sapendo che da soli non possiamo vincere questo mostro che é l’imperialismo, non solo nordamericano ma anche europeo. Dobbiamo allora cercare alleanze, e qui si trasforma la politica in scienza. Il famoso “rifiuto della politica” ha bisogno di un dibattito collettivo, quello che propone il Partito Comunista. Senza dubbio noi non abbiamo l’esclusiva della ragione e della verità, la verità la si costruisce collettivamente. Un altro punto è la direzione collettiva della rivoluzione, perché non si tratta solo di fare un apparato, ma di gestire quell’apparato. Quest’apparato ha bisogno di una direzione collettiva e questo in 12 anni non c’è stato; in qualcosa siamo avanzati, ma non ci siamo ancora arrivati. A livello popolare c’è sicuramente un progresso nella presa di coscienza, merito di Chávez, ma la coscienza oggi é così progredita che non si accetta qualcosa che non sia collettivo, ecco perché gli ultimi successi elettorali, la gente vuole partecipare e prendere decisioni collettivamente.
A.M. — Come valuta la situazione che si sta creando in Africa del Nord con quei sollevamenti popolari? Si può dire che la situazione in Libia, invece, è qualcosa di diverso?
C.W. — Per noi, come marxisti-leninisti, dogmatici, dinosauri…come rivoluzionari, é logico che il mondo continui a muoversi, che i popoli continuino ad avanzare lottando. Quello che non è sempre chiaro è dove sta la lotta. Sempre, in qualche posto, anche in assenza di una spinta rivoluzionaria, si giustifica un piccolo gruppo di resistenza, in modo da essere pronti con un nucleo quando la storia e i popoli decidano di passare dalla passività all’azione. Questo ora capita in Africa, le contraddizioni sono sempre esistite, non è che sono comparse quest’anno. C’era un sistema economico, politico e sociale per lo più medievale, un prodotto — dobbiamo ricordarlo — del colonialismo. Se dai uno sguardo alla mappa e la scorri in linea retta, vedi che non c’è nessuna frontiera naturale tra Libia ed Egitto, e c’è una linea retta che va verso sud. Questo è un prodotto del colonialismo, del saccheggio delle potenze coloniali del XIX e XX secolo, bisogna ricordarlo invece di dare la colpa ai popoli o a un uomo solo.
Ciò che succede ora in Libia è per noi in Venezuela molto importante e pericoloso, perché ci sono vari punti in comuni, questa è la mia opinione personale, col golpe in Honduras. Così come quello è stato un golpe contro l’ALBA, ora il golpe contro la Libia è stato un golpe contro l’OPEC. Possiamo dire che in generale il nemico pianifica strategicamente se rimarrà Gheddafi oppure no. Gli USA fanno una politica internazionale in quest’area che ora è in fiamme. Ma ci sono gli stessi morti e la stessa mancanza di democrazia in Mauritania, dove ammazzano manifestanti ogni giorno, oppure in Marocco (che occupa pure illegalmente la Repubblica Saharawi con più di un milione di persone espulse), solo che il Marocco e la Mauritania sono protetti dalla Spagna, per cui non affiora niente. In Algeria e Tunisia che sono protette da Francia e Germania, é successo qualcosa ma non fa più notizia. Lasciamo stare la Libia e consideriamo l’Egitto, dove ora c’è una situazione estremamente grave, dove il governo, il Consiglio Supremo delle Forze Armate, non è che una dittatura militare protetta da Mubarak che non è alla corte dell’Aja né alla Corte dei Diritti Umani, ma felicemente in un luogo di balneazione. Mubarak la settimana scorsa ha minacciato di chiudere il Canale di Suez se ci fosse ancora stata ingerenza straniera. Cos’è allora questo Consiglio? E l’ultra destra militare egiziana che non vuole la democrazia, che non é disposta a fare quello che il popolo ha chiesto e con parecchi morti. Zero, silenzio totale. Considera lo Yemen, dove qualche notizia esce, passa all’Oman dove capita lo stesso, e poi va al Bahrein, dove tre settimane fa hanno ammazzato tutti quelli che dormivano in una piazza, un protettorato dell’Arabia Saudita, se ne da notizia ma non lo si denuncia come un crimine. Non parliamo della Giordania.
Allora vedi che questa grande regione che perfino gli Stati Uniti considerano una potenza militare, ha una situazione che è davvero difficile risolvere. Tutte le loro guerre sono state contro paesi precisi: Vietnam, Corea, Iraq, Afganistan, alcune scaramucce in America Latina e ora questa regione che ha risorse naturali molto importanti. Allora: perché la Libia? Qual é la nostra posizione? In primo luogo, tutti i popoli hanno diritto a prendere le loro decisioni. La Libia é un caso complicato, non é uno stato occidentale, sono tre grandi tribù. Gheddafi ha cominciato con una posizione rivoluzionaria, anticoloniale, facendo cadere una monarchia e per noi era un caso positivo. Ma dal punto di vista tribale — che non deve essere criticato in sé perché nel mondo ci sono differenze culturali che non devono necessariamente coincidere con la democrazia occidentale o europea — una tribù ha escluso le altre due. Ora c’è la ribellione di una tribù dell’Est, di Bengasi contro Gheddafi, ma questa ribellione è chiaramente per il potere politico. Perché la Libia Perché è un paese petrolifero. Perché il suo governo ha sempre avuto, tranne negli ultimi anni, posizioni che davano fastidio alle grandi potenze, non era sottomesso. In Libia vediamo come l’imperialismo vuole dividere i nostri paesi, dividerli per dominarli, qualcosa che dobbiamo sempre rifiutare, come questa ipocrita concezione dei diritti umani. Chiudono un occhio su un paese e ne aprono due su di un altro. Ieri c’è stata la denuncia che la Libia ha armi chimiche, armi di distruzione di massa… ricordo Saddam Hussein… e se le ha, chi gliele ha vendute? O gli Stati Uniti o la Gran Bretagna, oppure la Francia, la Germania, qualcuno di quei paesi gliele ha vendute. Noi insistiamo sull’autodeterminazione dei popoli, delle tribù perché non c’é un popolo libico, che lottano per i loro diritti, siamo contrari a quelle grandi potenze imperialiste che si immischiano, perché ciò che sappiamo bene è che se s’immischiano dopo non ci sarà democrazia, non ci saranno diritti umani, non ci sarà autodeterminazione dei popoli, e l’unica cosa che succederà, come accade ora in Egitto, è semplicemente che toglieranno il clan Gheddafi per metterne un altro al fine di saccheggiare il paese e le sue risorse.
A.M. — A livello mondiale si osserva un fermento di diverse lotte, soprattutto di rivendicazioni di migliori condizioni lavorative. Crede che si possa cominciare a pensare ad una forza comunista internazionale. C’è stato un seguito alla proposta del presidente Chávez di una Quinta Internazionale?
C.W. — In Venezuela non se parla più, te ne sarai accorta. Io ero presente ad Avila quando il presidente lo disse ai delegati internazionali nel Congresso del PSUV. Allora, abbiamo condiviso la preoccupazione dell’unità della sinistra. Oggi il mondo è diverso e molto più complesso di anni fa, di decenni fa. Nel nascente capitalismo c’era il confronto fra due classi principali che per noi continuano a essere principali, ma oggi esistono settori che nel secolo XXI chiedono diritti sindacali ma chiedono anche diritti specifici da considerare. Non si può sempre pensare in generale, questa è la nostra visione come comunisti. Per esempio le donne, tutte le grandi richieste di genere, sono diritti non strettamente lavorativi, ma che oggi devono essere inclusi, i settori che prima non esistevano sono i più deboli, i bambini, le bambine, quelli della terza età, i diritti specifici professionali e culturali, e bisogna includere tutto ciò. Questo va al di là dei partiti politici specifici ma al momento non si è ancora trovata una forza organica che possa dirigere tutta questa diversità. Serve una qualche forza, in cui nessuno abbia l’esclusiva di essere rivoluzionario o progressista, servono organizzazioni che possano combinare ciò che è partecipativo con con ciò che è rappresentativo. Io sono molto critico con questa teoria nettamente orizzontale, da questo sorge spesso una persona che parla di più o che si mette più in mostra. Noi siamo per il collettivo.
Il movimento comunista internazionale al momento non esiste, ci sono molti sforzi in questo senso e per me sono tutti validi per concretizzare alcune azioni insieme, per il momento ci sono molti incontri, eventi e seminari, ma uno si chiede, e dopo?
L’imperialismo fa i fatti e ora noi in questo mondo siamo più comodi, prima uno andava in strada e rischiava la vita, ora chiedendo firme su internet il nemico di classe qui continua a esserci, quindi non abbiamo la soluzione concreta. Ciò che è interessante è che Chavez porti il dibattito sulle questioni, su argomenti che generalmente la gente non si azzarda ad affrontare, come all’ONU quando ha parlato di zolfo e ha ricevuto un applauso perché tutti lo pensano ma nessuno si azzarda a criticare pubblicamente un presidente degli Stati Uniti. Quindi si tratta di un compito collettivo, dove noi parliamo del movimento comunista, parliamo del Fronte Antimperialista, dove devono partecipare i partiti comunisti, gli operai. Allora la lotta continua, come nella concezione del Manifesto del Partito Comunista, siamo uniti, tutti gli uomini e le donne progressiste, che vogliono cambiamenti in questo mondo. Per questo oggi la solidarietà internazionale é più importante che mai, per questo siamo anche solidali con la situazione della Libia, non giustifichiamo meccanicamente un uomo senza vedere ciò che sta dietro, non crediamo automaticamente all’immagine dei supposti massacri. Ora si parla di una guerra civile. In quale guerra civile solo una parte soffre vittime e l’altra no? Bisogna piuttosto evitare che ci siano civili favorevoli agli interessi dell’imperialismo e mai a favore degli interessi dei popoli. Perciò serve questo movimento progressista, antimperialista internazionale, come lo chiamiamo noi; bisogna fare il massimo sforzo, e non è facile, perché includa tutti i settori e che li si rispetti, indipendentemente dalla quantità. Bisogna farlo in mezzo a una lotta di classe dove il nemico ha il vantaggio mediatico, del potere economico e militare, il vantaggio delle nostre divisioni, che non nascono per caso e senza dubbio, ma, concludendo in modo positivo, diciamo che l’America Latina nell’ultimo decennio ha dimostrato in modo reale che è possibile la lotta dei popoli. Noi speriamo sempre nell’estero, ora in Africa e nei paesi arabi, dove possono nascere queste lotte antimperialiste.
L’America Latina ha cominciato a tessere stretti rapporti con l’Africa, esiste l’alleanza Africa — Sud America (ASA) che é ancora all’inizio, forse un po’ burocraticamente, ma esiste già il rapporto. Prima c’era solo verso il nord, verso gli Stati Uniti e veso l’Europa. Vediamo positivamente questa difficile lotta di classe dove si gioca non il destino di un paese ma dell’umanità.
La pazzia che può esserci con le armi distruttive che sono in mano alle potenze imperialiste e non nelle nostre, come al solito, è grave. Come è grave che nei governi degli Stati Uniti, nel vecchio come nel nuovo, appaiano molte sette, dove non ci sono posizioni politiche, laddove puoi essere contro ma lo puoi riconoscere. Puoi definire una posizione conservatrice, una posizione socialdemocratica, non la condividi ma la puoi riconoscere, ma queste sette che compaiono ai massimi livelli del potere, il fatto che dietro un presidente ci sia un reverendo che tu non conosci, porta a un fanatismo che si vede da un lato in Afghanistan o in Iran, ma da un altro in Israele.
Oggi questo porta la politica in una dimensione sconosciuta, perché non ha un referente politico ma una follia, un fanatismo, e quei fanatici hanno un arsenale nucleare.
Questo è il grande pericolo che ci costringe ad unirci e superare. Non è un’opzione o una possibilità, ciò che abbiamo è un obbligo.