Essere malato in un carcere del Perú
Jaime Ramírez è deceduto questo sabato 27 ottobre nell’Istituto di Scienze Neurologiche dove era stato ricoverato. d’urgenza.
La situazione di Jaime Ramirez e di Emilio Villalobos
di Alberto Gáalvez Olaechea*
Cesar Vallejo in una delle sue opere di narrativa segnalò che il momento più difficile della sua vita lo aveva vissuto in un carcere del Perú. Eppure egli non era malato ed era stato dietro le sbarre per poco più di cento giorni.
Quella del carcere è una condizione anomala dell’essere umano ed è fonte di frustrazione e di sofferenza. Anche la malattia lo è. Però, quando molti fattori si sommano, il risultato che ne deriva è drammatico, quindi la carcerazione diventa tortura.
In questi ormai lunghi anni ho osservato molte situazioni angustianti sofferte dai prigionieri. Ho visto molte sofferenze mentali che hanno condotto alla pazzia, come sofferenze fisiche che hanno portato alla morte. Con gli anni, direi più precisamente, con i decenni, questo cerchio si è andato restringendo e gli uccelli rapaci volano girando attorno a noi, anche se questo può sembrare un po’ tetro.
Mi riferisco a due casi che conosco da vicino poiché riguardano vecchi compagni con cui in altri momenti ho condiviso la militanza nell’MRTA e con cui oggi condivido il carcere. Ora li osservo quotidianamente mentre combattono la battaglia più difficile della loro vita. Mi riferisco a Jaime Ramirez Pedraza e ad Emilio Villalobos Alva.
Jaime soffre di sclerosi laterale amiotrofica (SLA), che sta distruggendo il suo sistema nervoso, indebolendo le sue forze e causandogli una progressiva invalidità, il cui traguardo è la morte. La SLA cominciò a colpire le mani, di cui perse il controllo poco a poco, poi toccò ai piedi, al collo ed attualmente ha una crescente difficoltà a parlare e a respirare.
Non può assolutamente badare a se stesso e sono i suoi compagni che lo accudiscono e lo aiutano nelle sue incombenze più elementari: lo nutrono, lo lavano, lo vestono, ecc.
Egli rimane seduto per la maggior parte del giorno e teme di dormire coricato perché potrebbe soffocare nel suo stesso catarro..
Alcuni mesi fa, quando camminava ancora, s’inciampò e perse l’equilibrio. Non potendo proteggersi con le mani, si ferì alla fronte, battendo contro il pavimento e si resero necessari dieci punti di sutura..
Quella mattina, nell’infermeria del carcere, lo vidi piangere. Penso che non fosse tanto per il dolore, quanto per l’impotenza e la vulnerabilità a cui lo aveva portato la malattia.
Sentii un’immensa compassione per lui, per il modo con cui il male lo sta consumando. Confesso che provai un nodo alla gola, nonostante la vita mi abbia molto indurito.
Ogni giorno di Jaime è una battaglia per mantenere l’energia, per non crollare.
Egli nutre la speranza in un indulto umanitario, che gli possa permettere, fuori, di combattere la malattia. Cerca di fare esercizi di riabilitazione, anche se questa malattia è irreversibile. Cura la sua alimentazione e si sostiene in rapporto alla situazione. Non si rassegna e conserva il desiderio di vivere. Il suo coraggio e la sua grandezza sono ammirevoli.
Ammirevole è anche l’affetto quasi materno con il quale si occupano di lui i suoi compagni. Sono pochi, però gli prodigano le attenzioni come ad un bambino grande. Il dramma è che la maggior parte di loro sarà liberata alla fine di quest’anno poiché terminano la loro condanna, mentre a Jaime mancano ancora otto lunghi anni. Chi li sostituirà in tutto questo tempo, se non ottiene l’indulto umanitario che chiede?
Due volte ha presentato la richiesta di indulto umanitario, alla quale ha allegato tutta la documentazione riferita al suo caso. Due volte l’hanno respinta. “E’ stato un terrorista,” — dissero coloro che nella Commissione di Indulti e Grazie rifiutarono di concedere questo beneficio – “è pericoloso, perchè il suo corpo non funziona, ma il suo cervello sì.”-
La compassione verso un essere umano che sta morendo non era presente nel ragionamento di queste persone.
In una risposta alla Commissione Interamericana dei Diritti Umani lo stato peruviano ebbe la disinvoltura di affermare che Jaime riceve tutte le attenzioni che la sua malattia richiede. Non trovo le parole per qualificare una così grande sfacciataggine. Tutte le attenzioni che Jaime riceve sono quelle che gli forniscono i suoi familiari, i suoi compagni di prigione, i suoi amici e i cappellani del carcere. L’amministrazione penitenziaria non si preoccupa della sua situazione. Hanno altre priorità, senza dubbio più importanti, della vicenda di un “terrorista” che si sta consumando sotto gli occhi di tutti. Sono serviti a poco gli interessanti servizi giornalistici apparsi sul canale 9 Tv e sul giornale La Republica e che ebbero un buon impatto nell’opinione pubblica. Sappiamo che il sig. Pedro Pablo Kuczinsky ha mostrato interesse a questo caso.
Poco dopo aver assunto il suo mandato, il presidente Humala disse, riferendosi all’ex presidente Fujimori, che nessuno meritava di morire in un carcere. Dal dicembre 2011 i cappellani del carcere Miguel Castro Castro hanno realizzato diverse campagne e inoltrato pratiche per ottenere indulti umanitari in questa prigione, però fino ad ora non si è ottenuto nulla. Nel frattempo sono morte quattro persone aspettando il famoso indulto umanitario che non arriva. Una notizia per nulla rassicurante fu quella che annunciava che la Commissione di Indulti e Grazie Presidenziali si era sciolta perché un avvocato che vi lavorava fu scoperto a prendere una tangente nel carcere di Lurigancho. Ora si spera che la Commissione si ricostituisca ed esamini la terza richiesta di indulto umanitario.
Intanto la SLA avanza inesorabile nel corpo di Jaime.
Ora, dopo aver preso un po’ di fiato, parlo di Emilio, che ha avuto due ictus successivi nei mesi di marzo e di aprile 2012 che hanno colpito seriamente la sua capacità intellettuale e comunicativa.
Ebbe il primo ictus mentre facevamo sport una domenica mattina. Sebbene inizialmente fossero molto le colpite le sue funzioni corporali e cognitive, Emilio si riprese molto rapidamente, tanto fisicamente che mentalmente. Comunicava bene e stava recuperando le sue facoltà. Purtroppo arrivò un secondo ictus, che, nonostante fosse meno grave del primo, gli risulta più difficile superare.
Grazie all’appoggio degli amici lo si è potuto mandare a fare una risonanza magnetica che permettesse una diagnosi più accurata. Il medico gli prescrisse delle pastiglie che costano 8 soles (circa 3 dollari) ciascuna e deve prenderne tre al giorno, spesa che viene coperta dall’aiuto degli amici, perché l’amministrazione penitenziaria ritiene che ciò non le competa.
Da sempre la malattia di un prigioniero è un problema che ciascuno deve risolvere da solo, se può. Comunque fuori dal carcere la situazione a questo riguardo non è molto migliore.
A prima vista Emilio sta bene fisicamente e non si abbatte. Può badare a se stesso in tutti gli aspetti della vita quotidiana e vive in modo normale. Riconosce e si relaziona, anche se mantiene difficoltà di comprensione e soprattutto di comunicazione. Anche se può proferire parole comporre frasi scorrevoli, gli è ancora difficile sviluppare un discorso articolato. E’ molto cosciente della sua situazione e delle sue limitazioni e lo prende con un certo umore, però in un momento di stanchezza si chiese davanti a noi:“Perché a me?”. E non abbiamo avuto risposta.
Noi che lo conosciamo non ci rassegniamo alla sua situazione, perché egli fu uno dei motori importanti dell’ammirevole sforzo educativo e culturale che ha sviluppato in questo carcere per più di un decennio. Infaticabile professore di italiano, cominciava la sua giornata la mattina e non terminava fino alla sera, lavorando in diversi gruppi.
Siamo in molti che, grazie a lui, abbiamo imparato questa bella lingua, per la cui diffusione ha dato vita al laboratorio “Papà Cervi”, promuovendo, inoltre, la creazione di una biblioteca di testi in lingua italiana, realizzando conferenze e riuscendo anche ad instaurare un accordo con l’Istituto Italiano di Cultura. Sono innumerevoli le attività artistiche e culturali di vario tipo che ha organizzato in tutti questi lunghi anni, l’ultima e stata il Festival per la Vita che si è svolto sabato 8 febbraio di quest’anno. Appena due settimane dopo ebbe il primo ictus.
Ora non può insegnare, il suo potenziale intellettuale si è deteriorato e nessuno sa quanto possa recuperare. Il suo cervello dovrà riparare i danni neuronali. Nutriamo la speranza di vederlo di nuovo, in un tempo non lontano, con i suoi alunni davanti a una lavagna.
A differenza di Jaime, non ha una famiglia che lo circondi di attenzioni, per cui sono gli amici, coloro che se ne sono fatti carico. Non faccio nomi, per timore di omettere qualcuno, però ciascuno sa ciò che gli ha dato, soprattutto affettivamente. E’ il riconoscimento a una persona di grande pregio.
Termino queste righe, che non mi è stato facile scrivere, perché non sto parlando solo di altri, ma anche un poco di me stesso, di ciò che potrebbe accadermi nel momento più inaspettato. Quando eravamo giovani, avevamo idealizzato la morte, la vedevamo come un fatto eroico. Disposti a morire per i nostri ideali, non pesavamo il significato più profondo della vita. Oggi la morte ( dietro la maschera delle malattie gravi ) ci insegue e ci spia mentre stiamo diventando più vecchi, più vulnerabili e più coscienti della precarietà e della temporaneità della vita.
Carcere di Canto Grande (Lima, Perù), 16 agosto 2012
Alberto Gálvez Olaechea si trova da oltre vent’anni in carcere in Perú con l’accusa di terrorismo. Ha rinunciato all’MRTA nel 1992.
Ringrazio la professoressa Franca Pesce, che é stata anche insegnate di italiano nel carcere Castro Castro e che ha seguito fin dall’inizio la fondazione della scuola di italiano di Emilio Villalobos per aver segnalato e tradotto l’articolo di Albert Gálvez Olaechea. Franca ci aveva giá segnalato in passato la situazione delle carceri peruviane in questo suo articolo.
Altre notizie sulla scuola di italiano di Emilio Villalobos, la pagina web creata dalla professoressa Franca Pesce .
Emilio Villalobos è un prigioniero politico peruviano, condannato inizialmente all’ergastolo da un tribunale di giudici “senza volto”.
Jaime Ramirez è un prigioniero politico peruviano condannato a 25 anni di carcere