Il Messico vota per non cambiare

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Il neo presidente Enrique Peña Nieto: simbolo di un modello fallimentare

Lo stato del Nordamerica ha paura di guardare al futuro, ma soprattutto di rimettere in gioco potere e clientelismi

di Annalisa Melandri 19 settembre 2012 per L’Indro*

 

Si sono tenute il primo luglio le elezioni presidenziali in Messico per scegliere il nuovo presidente della Repubblica. Ha vinto Enrique Peña Nieto, avvocato di 46 anni, con il 38,21% dei voti, candidato del Partido Revolucionario Institucional (PRI), che resterà in carica 6 anni, a partire dal primo dicembre prossimo.

Lascia un paese quasi in stato di emergenza nazionale, il presidente uscente FelipeCalderòn Hinojosa, conservatore, del Partido de Acciòn Nacional (PAN), di destra, al termine di quello che i messicani hanno definito el sextenio lutuoso (il sessennio luttuoso) per l’elevato numero di morti, circa 60mila, che la lotta al narcotraffico portata avanti daCalderón e realizzata in concerto con il governo degli Stati Uniti, ha lasciato come saldo.

Oltre ai morti, si registrano numeri da macelleria sociale: circa 15mila persone scomparse, migliaia di detenuti innocenti e di casi di tortura, le carceri in una situazione esplosiva. Per non parlare del traffico di armi che è cresciuto in maniera esponenziale anche grazie all’ingerenza, a volte poco chiara, degli Stati Uniti; il riciclaggio di denaro che permea quasi ogni attività economica; il traffico di influenze, il nepotismo e l’infiltrazione di narcotraffico e delinquenza ai massimi livelli istituzionali.

È questo il paese che oggi eredita il PRI, storico partito di massa, di tendenza socialdemocratica, le cui origini si rifanno alla gloriosa Rivoluzione messicana del 1910. L’esperienza del PAN invece, durata dodici anni, dal 2000 al 2012 con la presidenza diVicente Fox Quesada prima e di Felipe Calderón Hinojosa poi, è stata catastrofica. E tuttavia il 24.41% dei messicani a giugno hanno votato ancora una volta per un suo candidato, l’economista Josefina Vásquez Mota, che ha ottenuto così il terzo posto, dopo l’eterno rappresentante di sinistra Andrés  Manuel López Obrador, che ha ottenuto una percentuale del 31,59%.

Evidentemente il Messico ha paura di guardare al futuro, ma soprattutto di rimettere in gioco potere e clientelismi, e preferisce cambiare per non cambiare nulla. Il PRI ha guidato ininterrottamente il paese dal 1929 al 2000, 71 anni di governo condotti non sempre con metodi democratici, pur rappresentando, soprattutto agli occhi della comunità internazionale, un’opzione socialdemocratica, almeno nella forma, nel panorama politico messicano.

Ricordiamo come emblematico dell’arroganza di quel potere, il massacro compiuto contro il movimento studentesco e sociale del ’68 messicano a Piazza delle Tre Culture, avvenuto il 2 ottobre di quell’anno. Sia precedentemente che successivamente, il PRI al governo non ha mai risparmiato nessuna forma di repressione violenta verso proteste popolari organizzate. 

Un partito troppo burocratizzato, con troppo potere, con troppo clientelismo e rigidità. Un partito che, fatto tesoro degli errori del passato cerca di rimediare puntando tutto, troppo, sull’estetica, sulla forma, e poco o nulla sulla sostanza di un cambiamento invece necessario. E così Peña Nieto diventa il candidato glamour, la cui immagine, studiata a tavolino forse più da un equipe di estetisti che da un comitato politico, punta a risollevarel’animo degli elettori. E purtroppo lo fa quasi stridendo amaramente con il degrado sociale nel quale si trova il paese.

Poco importa che Enrique Peña Nieto sia accusato di avere amicizie tra i narcotrafficanti, o che mentre era governatore dello Stato del Messico, a San Salvador Atenco, tra il 3 e il 4 maggio del 2006, la polizia sotto il suo diretto controllo condusse una delle repressioni più violente che i messicani ricordino, le cui denunce sono ora al vaglio della Corte Interamericana dei Diritti Umani.

Due morti, torture, violenze sessuali contro le donne da parte della polizia, detenzioni illegali e ingiuste anche contro minorenni, tutto ciò contro un movimento popolare che stava portando avanti da tempo una protesta contro la costruzione del nuovo aeroporto di Città del Messico, progetto poi mai realizzato. Tutto rimasto nell’impunità più assoluta.

Peña Nieto, in chiusura di campagna elettorale, si è visto costretto ad ammettere pubblicamente “l’uso sproporzionato della forza” a San Salvador Atenco da parte della polizia e le sue dirette responsabilità in quella vicenda.

A questo brusco e anacronistico ritorno al passato non ci sta Andrés Manuel López  Obrador,AMLO, il candidato di sinistra, rappresentante del Movimiento Progresista (una coalizione formata sia dal suo Partido Revolucionario Democratico che dal Partito del Lavoro e dal Movimento Cittadino), che alla vigilia del risultato elettorale, come già avvenuto nel 2006, non ha riconosciuto il risultato e minaccia una campagna di ’disobbedienza civile’.

Tuttavia non lo fa come in passato, tra le fila del suo partito, il PRD, ma anticipando il passaggio definitivo al suo Movimiento de Regeneración Nacional (Morena), che potrebbe diventare soggetto politico per le prossime elezioni del 2018.

La storia sembra ripetersi. Già nel 2006, AMLO dopo la sconfitta di allora contro Felipe Calderòn, aveva convocato nello Zócalo di Città del Messico la I Convenzione Nazionale Democratica alla quale avevano partecipato più di un milione di persone, con lo scopo — al di là della denuncia di una enorme frode elettorale — di organizzare azioni future. Si creò un governo parallelo, da lui guidato: AMLO giurò fedeltà al suo popolo come presidente legittimo il 20 novembre del 2006. Tutto si risolse in una bolla di sapone, molti discorsi, tante promesse e poche azioni concrete. Il ’presidente espurio’ (illegittimo) come la stragrande maggioranza dei messicani chiamava Felipe Calderón, che aveva vinto con appena lo 0,56% di margine rispetto a López Obrador, governò 6 anni, con i risultati nefasti che oggi sono sotto gli occhi di tutti.

Anche oggi, come nel 2006, il risultato elettorale è stato confermato dal Tribunale Elettorale dopo circa due mesi dalle elezioni, e questo ha respinto la richiesta, avanzata dal Movimiento Progresista, di annullarle.

Anche oggi, come nel 2006, la frode ben prima di manifestarsi nelle urne (’fraude eletronico’, la chiamarono) era presente già ben incancrenita nell’intero sistema ’democratico’ di campagna elettorale.

Lo scrittore e accademico messicano Fernando del Paso, scriveva su ’La Jornada’ il 5 luglio 2006 : “Si c’è stata una frode. Non la dobbiamo tuttavia cercare nelle mille, tremila o cinquemila cartelle elettorali con evidenti manomissioni. La frode, la grande frode, era già lì, tra di noi, molto prima del 2 luglio. Era presente nella forma meschina, imperdonabile, irresponsabile con la quale si è costruita una grande bugia, una immensa bugia. Era nella paura che aveva inculcato nell’elettore la campagna politica più sporca che si sia mai vista in Messico. Era in ogni parola e in ogni immagine di questa campagna di calunnie, meschinità, finanziata con il denaro degli elettori per confondere gli stessi elettori, per provocare la loro incredulità e sfiducia. E in molti casi per provocare perfino il tradimento ai loro propri principi, alle loro prime intenzioni, alle loro illusioni”.

Il denaro, nelle democrazie moderne, diventa il vero elettore. L’arma della democrazia. Le ultime elezioni messicane di questo 2012, in questo senso non sono state diverse dalle precedenti.

Manuel López Obrador, e non solo, ha denunciato chiaramente e con dovizia di prove,il fenomeno dell’acquisto del voto, con metodi diversi. Fenomeno, c’è da dire, non solo messicano, ma che in questo caso stride con l’imponenza del sistema elettorale di uno dei paesi chiave delle economie emergenti, membro del G20 e un colosso di oltre cento milioni di abitanti, appendice naturale ed economica degli Stati Uniti.

Hugo Benìtez Thomas, direttore della rivista messicana ’Pulso’ e collaboratore della rivista ’América Latina en Movimiento’ scrive non a caso che “le elezioni del presidente del Messico nel 2012 sono state segnate dalla disuguaglianza sociale”.

Si parla addirittura di un ’contratto elettorale’ tra il principale canale televisivo del paese,’Televisa’ (l’impresa di telecomunicazioni in lingua spagnola più grande del mondo) ed Enrique Peña Nieto per la promozione multimediale della sua immagine come candidato e futuro presidente del paese. Lo stesso ’The Guardian’ ha denunciato di aver avuto accesso a una documentazione secondo la quale un operativo segreto di Televisa aveva prodotto video da diffondere pubblicamente con lo scopo di screditare gli oppositori politici di Peña Nieto, e soprattutto Manuel López  Obrador.

A poco servirà al tabasqueño AMLO cambiare contenitore politico e ricandidarsi ancora una volta tra sei anni se in Messico non si inizierà a mettere seriamente il discussione il sistema economico vigente, frutto del modello neo liberale imposto fin dagli anni ’90 dal’Washington consensus’Modello che Enrique Peña Nieto seguirà diligentemente per i prossimi anni.

 

*Pubblicato in esclusiva su L’Indro www.lindro.it e qui ripubblicato per gentile concessione

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