Per Repubblica.it l’omofobia è uno “sfottò” e un “gioco da ragazzi”. Ma poi si ravvede e cancella.
Repubblica.it ieri ha pubblicato questo articolo relativo al suicidio del ragazzo quindicenne per omofobia.
Tuttavia l’articolo in queste ore è stato modificato.
Ieri infatti, come si può vedere dallo screenshot pubblicato sopra, lo stesso articolo portava questa conclusione:
“Navigando su internet, però, si trova anche un altro profilo dedicato “al ragazzo con i pantaloni rosa”. Il nome è storpiato, la foto con la parrucca è sua, la bacheca sembra essere curata da qualcun altro che, ogni giorno, annota le sue frasi senza senso. Uno sfottò, certo. Ma nulla di omofobo, più un gioco tra ragazzi. Decisamente troppo per morire a 15 anni”.
Viola Giannoli e Maria Elena Vincenzi, queste le due giornaliste di Repubblica, pensano che aprire una pagina web dove “ogni giorno” un quindicenne omosessuale viene deriso, il suo nome storpiato, dove viene messa una fotografia e viene “ogni giorno”, cioè tutti i giorni, preso in giro, sia soltanto “uno sfottò”, un “gioco da ragazzi”.
Chissà se Viola e Maria Elena hanno figli. Si dice che il modo migliore per capire un’ingiustizia o un sopruso sia quello di mettersi, per un momento nei panni della vittima.
Ebbene immaginatevi di aprire ogni, giorno, tutti i giorni Facebook e trovare la pagina a voi dedicata, leggere ogni giorno le prese in giro, vedere la vostra immagine ridicolizzata, immaginate solo per un momento cosa possa aver voluto dire per il giovane Andrea, che alla fine, non ha retto a questa e ad altre situazioni, e ha deciso di togliere il disturbo. A quindici anni.
I giornalisti hanno una responsabilità sociale innegabile, anche quelli precari, anche quelli senza contratto, anche quelli sottopagati, anche quelli che scrivono per hobby, anche i pennivendoli. Nessuna testata, nessun giornale, nessun quotidiano, nessun mezzo di informazione in generale possono permettersi il lusso di pubblicare articoli dove un problema gravissimo come l’omofobia, dove quello che a tutti gli effetti è stato un’istigazione al suicidio, possa essere sminuito in siffatta maniera.
E’ inaccettabile paragonare l’omofobia a “un gioco da ragazzi”, a “uno sfottò”.
Andrea non ha giocato di certo con la sua sciarpa intorno al collo. Ed evidentemente quello era già troppo per lui, tanto da meritare la sua morte.
Chi siamo noi per decidere cosa è troppo o non è troppo per morire?
Ringraziamo chiunque sia stata la persona che avvedutasi del tremendo errore (mancanza di responsabilità?) nella redazione di Repubblica.it, ha deciso di rimuovere il contenuto dell’articolo.
Altre critiche per questo articolo ci sono state. Però almeno un riconoscimento pubblico dell’errore sarebbe stato necessario e doveroso. E’ sempre positivo quando una società, un paese, un giornalista, un politico, chiunque abbia una responsabilità sociale collettiva di grande portata, riesce ad interrogarsi, fare autocritica e porre rimedio serenamente all’errore.
E’ per questa cultura del nascondersi, della paura della condanna, del tirare la pietra per poi nascondere la mano che oggi, a due giorni dal suicidio di Andrea, ancora nessuno si sia assunto le sue responsabilità. E’ per questo che tra qualche giorno, se questo non verrà fatto, Andrea sarà considerato soltanto uno di più tra i tanti adolescenti, insicuri, fragili, poco inseriti nella società, magari con qualche disturbo psicologico…
Tutti assolti gli altri.
Se poi consideriamo che il sito “il ragazzo dai pantaloni rosa” era gestito dallo stesso Andrea…tutti e due gli articoli non hanno alcun senso, e l’omofobia non c’entra niente…mentre emergono verità diverse, genitori separati da un mese, lui e il fratellino che restano a vivere con il papà mentre la mamma torna dalla famiglia d’origine nel sud, non ultimo che il povero Andrea aveva già tentato il suicidio…adesso dovremo fare tutti un passo indietro e lasciare che questa famiglia possa elaborare il disastro che si è prodotto senza essere data in pasto ai giornali…che già nel latte dell’omofobia ha inzuppato pure troppo il biscottino nel sangue di un ragazzino di 15 anni