Le complicità della Chiesa con la dittatura argentina
di Annalisa Melandri in esclusiva per L’Indro — 22 febbraio 2013
Una sentenza di un tribunale argentino della provincia de La Rioja, emessa a dicembre ma diffusa solo la settimana scorsa, con la quale si condannano all’ergastolo alcuni ex militari argentini per l’omicidio di due sacerdoti avvenuto nel 1976, parla esplicitamente di’complicità’ della Chiesa Cattolica, indicandola come ‘un’istituzione che mostrò in molte delle sue autorità silenzio, adesione e complicità con il processo della dittatura’.
Sono stati condannati per crimini contro l’umanità gli ex militari Luciano Benjamín Menéndez, che all’epoca era comandante del III Corpo dell’Esercito, Luis Fernando Estrella e Domingo Benito Vera.
I due sacerdoti Gabriel Longueville e Carlos de Dios Murias, vennero sequestrati il 18 luglio del 1976 a Chamical, nella provincia argentina di La Rioja, a nordovest del paese, da persone che si identificarono come membri della Polizia Federale Argentina. Due giorni dopo furono rinvenuti i loro cadaveri, crivellati di proiettili, ammanettati e con evidenti segni di torture. Il 25 luglio toccò al laico Wenceslao Pedernera, trucidato a sangue freddo sulla porta di casa davanti alla moglie e alle tre figlie. Wenceslao, originario con la sua famiglia di Mendoza, si era trasferito a La Rioja nel 1973, attratto dal lavoro comunitario svolto dai contadini del luogo e organizzato dal vescovo di La Rioja, monsignor Enrique Angelelli, del quale lui divenne stretto collaboratore.
Ai funerali dei due sacerdoti, il 22 luglio, il vescovo Angelelli commentò ad alcuni fedeli: “Il prossimo sarò io”, dopo aver tenuto un’omelia dai toni accesi. “Non c’è nessuna pagina del Vangelo che comandi di essere stupidi […] Vi ripeto, non abbiamo gli occhi chiusi, né le orecchie tappate, abbiamo l’intelligenza comune di ogni essere umano. […] Ci sono per caso nostri fratelli che possono immaginare, pensare o programmare violenze e ci sono poi altri che le eseguono? O forse le due cose coincidono?” aveva gridato indignato e commosso ai fedeli dall’altare.
Il 4 agosto, quindici giorni dopo, un “incidente” automobilistico lo uccise. Portava con sè tre cartelline con alcuni documenti frutto della sua corrispondenza con l’arcivescovo di Santa Fe, monsignor Vicente Zaspe, dove il vescovo Angelelli denunciava, come altre volte aveva fatto in passato alle alte gerarchie ecclesiastiche, le persecuzioni, le minacce e il clima di ostilità in cui si trovavano a vivere e a svolgere la loro pastorale, i membri della curia di La Rioja. In una delle cartelle c’erano i risultati delle indagini personali che aveva svolto sull’omicidio dei sacerdoti.
La curia di La Rioja aveva infatti precedentemente denunciato: “La nostra situazione si fa ogni volta più pesante e difficile, la nostra attività pastorale viene segnalata come marxista e sovversiva. Presentano La Rioja come un covo di guerriglieri e Angelelli come il loro capo”.
La cartellina di Angelelli non venne mai ritrovata sul luogo dell’incidente, ma arrivò direttamente nelle mani del ministro dell’ Interno Harguindegui (colui che aveva deciso l’eliminazione dei sacerdoti) e nel corso del tempo, evidenti prove dimostrarono che effettivamente non si trattò di incidente, anche se per anni fu quella la versione ufficiale adottata dalla dittatura e dall’Episcopato argentino.
La causa aperta nel 1983, dopo la denuncia del padre Antonio Pinto, il principale testimone della morte del vescovo, che si trovava in auto con lui, si impantanò nell’impunità sancita dalle leggi di Punto Finale e di Obbedienza Dovuta del 1987, anche se già nel 1986 il giudice Aldo Morale decretò che si era trattato “di un caso di omicidio premeditato a freddo”. L’annullamento delle leggi che garantivano l’impunità ai militari della dittatura argentina, voluto dall’ex presidente Néstor Kirchner, permisero la riapertura del caso nel 2010 e si spera, ad oggi, che le testimonianze raccolte nel processo appena concluso per la morte dei sacerdoti, possano rendere presto anche giustizia per la morte del vescovo Angelelli.
Ha dichiarato Cristina Murias, sorella di uno dei due sacerdoti, che ci fu allora un chiaro intento di “distruggere la pastorale del vescovo” a La Rioja. Angelelli era giunto in quella provincia argentina nel 1968 designato da Paolo VI, lo stesso anno della II Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano di Medellín, che consolidò il movimento teologico noto come la Teologia della Liberazione, la ‘Chiesa dei poveri’, e si distinse subito per la sua missione sociale al fianco dei più deboli e diseredati. Organizzò il sindacato locale dei minatori e le cooperative di agricoltori, si assunse a difensore delle lavoratrici domestiche che erano trattate come schiave nelle famiglie dove prestavano servizio. Nel 1970 smise di celebrare la messa di Natale nella cattedrale di La Rioja per portarla tra le le strade dei quartieri più poveri. La persecuzione e le minacce contro di lui e i sacerdoti della sua curia iniziarono già molto prima del golpe del 1976, fin nel 1974 Angelelli era infatti nelle mire della Triple A, la Alianza Anticomunista Argentina.
Angelelli sapeva di essere al centro di “una spirale insieme ai suoi seguaci e alla sua Diocesi che portava direttamente a lui come obiettivo finale dell’eliminazione”, si legge nella sentenza dove si ipotizza addirittura che l’eliminazione dei sacerdoti, avvenuta non casualmente nel giorno del suo compleanno, sia stata una sorta di ‘macabro regalo’ per il vescovo.
Le lettere inviate alle gerarchie e alle autorità della Chiesa Cattolica, tra le quali anche il Nunzio Apostolico, che all’epoca era il controverso cardinale Pio Laghi, accusato da associazioni e da familiari di persone scomparse di essere stato complice della dittatura argentina tra il 1976 e il 1983, con le quali Angelelli denunciava il clima di intolleranza, le minacce e gli episodi di violenza dei quali erano oggetto lui e i suoi sacerdoti, non riuscirono a salvare loro la vita, anzi, le testimonianze nel processo hanno dimostrato“l’atteggiamento di silenzio complice che aveva adottato la cupola della Chiesa Cattolica durante e dopo i gravi avvenimenti che aveva subito la Diocesi di La Rioja”.
I sacerdoti che la componevano e il vescovo che la amministrava erano accusati, anche pubblicamente sui giornali, prima e durante la dittatura di essere “terzomondisti”, “marxisti” e “comunisti”, quando non apertamente “sovversivi” o “guerriglieri”, cosa che li poneva automaticamente nella posizione di “nemici della Patria” e quindi obiettivi politici da eliminare quanto prima.
Erano doppiamente colpevoli, di stare dalla parte “sbagliata”, ma anche e soprattutto di aver commesso un tradimento verso una istituzione, la Chiesa Cattolica, considerata dai vertici militari come parte integrante dell’apparato dittatoriale e repressivo.
I giudici di La Rioja fanno notare come, perfino nel corso delle indagini volte a chiarire i fatti oggetto del processo, ci sono statitentativi di manipolazione e reticenze da parte delle autorità religiose e di come sia “i membri del Popolo di Dio così come la società argentina si aspettano da un’istituzione tanto significativa come la Chiesa Cattolica un’atteggiamento di più nitido e chiaro ripudio verso i meccanismi e verso chi in una maniera o in un’altra ha permesso e ha consentito la commissione di gravissimi fatti come quelli che ora giudichiamo”.
Evidentemente quello di cui la Chiesa argentina ha bisogno è un grande “mea culpa” che ad oggi non è stato fatto. Il motivo forse è che alcuni protagonisti tra i quali, il cardinale Bergoglio, primate della Chiesa, sono ancora in vita. Il giornalista Horacio Verbitskyha scritto fiumi di parole e scovato prove contundenti sulla complicità della Chiesa Cattolica con la dittatura non risparmiando nemmeno il cardinale, che fu uno dei favoriti nel Conclave del 2005 per l’elezione del successore di Giovanni Paolo II. Si dice che nei giorni del Conclave, tutti i cardinali elettori ricevettero una mail di alcuni articoli del giornalista dove si spiegavano le complicità di Bergoglio nella scomparsa di due sacerdoti gesuiti e questo fu determinante nella scelta di Joseph Ratzinger al suo posto come Sommo Pontefice.
Nella sentenza di La Rioja c’è un passaggio interessante tratto dall’ultimo libro dello scrittore uruguaiano Eduardo Galeano, nel quale questi fa riferimento ad uno dei viaggi del Papa Benedetto XVI: “Maggio 28. Oswiecim. Nel giorno di oggi dell’anno 2006, il papa Benedetto, sommo pontefice della Chiesa Cattolica passeggia tra i giardini della città, che in lingua polacca si chiama Oswiecim. A un certo punto il paesaggio cambia. In lingua tedesca la città di Oswiecim si chiama Auschwitz. E ad Auschvwitz il Papa parlò. Dalla fabbrica della morte più famosa del mondo, domandò: - E Dio, dove stava? Nessuno lo informò che Dio non aveva mai cambiato di casa. E domandò ancora: – E perché Dio è stato zitto? E nessuno gli spiegò che chi era rimasta zitta invece era stata la Chiesa, che nel nome di Dio parlava”.