Javier Couso: La guerra non vuole spettatori
di Annalisa Melandri
per il manifesto – 16 gennaio 2013
José Couso morì l’8 aprile del 2003 a Baghdad, in seguito all’attacco di un blindato statunitense contro l’Hotel Palestine, dove in quel momento alloggiava la gran parte della stampa internazionale.
Aveva 38 anni, era sposato con due figli e quel giorno, dal balcone del 14°piano dell’hotel insieme ad altri colleghi, stava seguendo i preparativi per l’imminente invasione della città da parte delle truppe statunitensi, dopo tre settimane appena dall’inizio dell’invasione in Iraq. Era operatore della televisione spagnola Tele5, con lui morì anche il cameraman ucraino della Reuters, Taras Protsiuk, che si trovava sul balcone del piano superiore.
Il 9 aprile, il giorno successivo all’attacco contro il Palestine e contro altre sedi della stampa indipendente, non controllata dal Pentagono, l’esercito statunitense occupò Baghdad, senza immagini in diretta. L’unica immagine che la comunità internazionale vedrà di quel giorno sarà quella della statua di Saddam Hussein che viene tirata giù dagli iracheni.
Javier Couso è il fratello di José. Giornalista come lui, dal giorno della sua morte sta portando avanti una strenua battaglia per avere giustizia per la morte di José.
In questa intervista ce la racconta e ci spiega a che punto sono le indagini.
Javier, sono passati ormai dieci anni dall’assassinio di tuo fratello José a Baghdad; tu e la tua famiglia li avete trascorsi nella ricerca di giustizia. A che punto è il caso oggi?
Il caso è ancora aperto e si trova in fase di indagini preliminari presso l’Audiencia General a carico del magistrato Santiago Pedráz. Gli imputati sono tre: il sergente Gibson, il capitano Wolford e il tenente colonnello DeCamp, nei confronti dei quali è stato emesso un mandato di cattura internazionale in quanto accusati di un crimine contro l’umanità contro la Comunità Internazionale. Inoltre sono imputati gli alti vertici della III Divisione di Fanteria Corazzata dell’Esercito degli Stati Uniti nel momento dell’invasione in Iraq: il colonnello Perkins e il Generale Bufor. Agli imputati è stata applicata una cauzione di 3milioni di dollari per cui è stata intrapresa una rogatoria internazionale per gli embarghi di legge negli Stati Uniti o in Spagna. L’ultimo fatto accaduto rilevante è stata la dichiarazione della giornalista Amy Goodman, conduttrice del programma Democracy Now che ha intervistato l’ex sergente dell’Intelligence Militare Adrienne Kinne che si occupava di spiare i giornalisti all’Hotel Palestine e che affrontò i suoi superiori quando si rese conto che l’hotel sarebbe stato attaccato nonostante fosse un obiettivo civile.
Il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha realizzato un’indagine di quanto accaduto? Quali sono state le conclusioni?
Più che un’indagine si è trattato di un’ autoassoluzione costruita a tavolino, senza riferimenti, senza dati, che ha riportato solo la versione dell’esercito. Chi ha elaborato quel rapporto è stato nello stesso tempo giudice e imputato. Sicuramente non è stata, nemmeno lontanamente, un’indagine indipendente. Questo rapporto è stato redatto dopo la richiesta di spiegazioni da parte del governo dell’Ucraina per l’omicidio di Taras Prosyuk, morto con José durante lo stesso attacco. La conclusione a cui arriva potrebbe benissimo essere stata scritta per un copione per un film di fiction di Hollywood.
Basandosi infatti, sulle dichiarazioni fornite da un giornalista embedded ed ex membro dell’esercito, racconta che, grazie all’intercettazione di una radio irachena si scoprì che nei piani alti dell’Hotel Palestine era ubicato un posto di osservazione dell’esercito dell’Iraq che dirigeva il fuoco contro i carri armati statunitensi e che una volta sparato contro di questo, il fuoco sulle unità blindate statunitensi cessò immediatamente. Si tratta di una versione che si smentisce da sola perché le immagini diffuse mostrano che i carri armati non si trovarono mai sotto la minaccia delle armi controcarro, e che rimasero alcune ore sul ponte, quindi in posizione più esposta e che durante i 35 minuti precedenti all’attacco contro l’hotel non c’erano combattimenti. Una pseudo indagine realizzata ad hoc per assolvere alcuni criminali di guerra.
Tu e la tua famiglia avete realizzato invece indagini parallele, con quali conclusioni?
La stessa denuncia e lo sviluppo delle indagini preliminari sono di per sé un’investigazione legale. Il magistrato nel corso del procedimento giunge alla nostra stessa conclusione: si trattò di un attacco premeditato e disegnato a tavolino. Tutti gli elementi, quali l’assenza dei combattimenti, imezzi di visione dei carri armati, la posizione tattica su di un ponte delle unità blindate e l’attacco ai tre segnali in vivo (Al Jazeera, Abu Dhabi e Reuters) realizzati dalla stessa compagnia, vanno in questa direzione. Elementi condivisi con i periti della famiglia (specialisti in Ottica Fisica e Fisica Applicata dell’Università Complutense) e con quelli dell’Audiencia Nacional, nonché le prove realizzate a Baghdad dal magistrato Santiago Pedráz determinano che con gli apparecchi di visione in dotazione al carro armato M-1 Abrams A1 si potevano distinguere perfettamente sia mio fratello che Taras e si poteva distinguere bene che erano giornalisti e non combattenti.
Come hai appena detto, lo stesso giorno dell’attacco all’Hotel Palestine, l’esercito nordamericano aveva attaccato altri mezzi di comunicazione a Baghdad, la televisione di Abu Dhabi e il canale di Al Jazeera, lasciando un saldo totale di tre giornalisti morti. Fu quindi un attacco deliberato contro la stampa internazionale? E con quale scopo?
Vennero neutralizzati tutti i segnali che trasmettevano quella mattina in diretta: Al Jazeera, Abu Dhabi e Reuters. Non ci sono altre immagini in diretta della presa di Baghdad, l’unica immagine rimasta a testimoniare la presa della città fu quella della folla che buttava giù la statua di Saddam, un’ icona fotografica, come quelle fabbricate per la presa di Iwo Jima o del Reichstag. Quel giorno hanno ottenuto quello che volevano: un blackout informativo per poter diffondere l’immagine che volevano e una lezione alla stampa che non era embedded con le truppe.
Qual è stato in tutti questi anni l’atteggiamento politico del governo spagnolo rispetto al caso di tuo fratello?
Una chiara opposizione da parte dei governi del Partito Popolare e più dissimulata da parte invece di quelli del Partido Socialista Operaio Spagnolo che venne poi resa nota dalla pubblicazione di alcuni cables dell’ambasciata Usa. In ambedue i casi si cercò di interferire per non far avanzare l’inchiesta sempre in collaborazione e quasi agli ordini della delegazione di una potenza straniera. Indignante, non solo per la Giustizia ma anche per la stessa Sovranità Nazionale.
Sei giornalista, come tuo fratello. Di fronte a questa tragedia avvenuta nella tua famiglia, come sei riuscito a portare avanti l’impegno e le sfide che comportano l’esercizio di questa professione?
Ho fatto molte cose nella mia vita e anche se mi sono diplomato come giornalista audiovisivo, mi considero più un cameraman o un documentarista. Considero che sia un imperativo morale contribuire con il mio piccolo granello di sabbia alla battaglia tra la verità e i grandi mezzi di informazione che sempre sono al servizio degli interessi delle multinazionali e del potere finanziario.
Quella della stampa indipendente contro il potere sembra una battaglia contro i Titani… Credi che ci siano delle possibilità per il futuro della libera informazione?
E’ complicato e credo che stiamo perdendo per goleada. Tuttavia, le possibilità che ha offerto la rivoluzione tecnologica digitale in campo audiovisivo con il calo dei prezzi delle apparecchiature e la diffusione attraverso le reti sociali hanno aperto una piccolo varco nell’ assoluto controllo della comunicazione da parte delle multinazionali della (dis)informazione. D’altra parte, il consolidamento dei processi sovrani in America latina e l’assunzione dell’importanza informativa che ha aperto il cammino a nuove leggi per la stampa volte a garantire la pluralità o la creazione di nuovi strumenti come per esempio TeleSur, rappresentano un’impulso formidabile affinché i popoli possano avere accesso a un’informazione più veritiera. Questi elementi: calo dei prezzi, internet e sovranità mediatica ci danno una boccata di ossigeno per continuare ad affrontare l’industria della menzogna nella quale vogliono convertire tutto il giornalismo.
In una recente intervista tu hai parlato della memoria. So che le commemorazioni non ci restituiscono i nostri cari,ma possono essere una buona occasione affinché la memoria collettiva continui a fare il suo lavoro e continui a tracciare il cammino che porta alla verità. Quali sono le attività programmate per il prossimo 8 aprile?
La memoria è fondamentale per continuare ad andare avanti, gli assassini dei nostri familiari infatti ci vogliono smemorati.
Se si dimentica si legittimano gli omicidi e il tempo cancella tutto ponendosi al servizio dell’impunità. Come ci insegnano le madri e le nonne di Plaza de Mayo solo la tenacia frutto della memoria ottiene giustizia. Per questo continuiamo ad andare avanti, perché José e i suoi compagni possano continuare a vivere nella nostra memoria.
Il prossimo anniversario saremo di nuovo di fronte all’ambasciata Usa a Madrid combinando come sempre musica e denuncia. Quella settimana avremo inoltre alcune giornate caratterizzate da incontri con madri che lottano contro l’impunità in diversi paesi. Sarà un omaggio a mia madre e a tutte le madri, che, anche se distrutte dal dolore, si rialzano per dare ancora una volta la vita ai propri figli assassinati o incarcerati.