Vittoria stretta di Maduro in Venezuela. Proteste e violenza
Elezioni Venezuela 2013
Gli impegni dei prossimi 6 anni, all’insegna del progetto politico della Rivoluzione Bolivariana — Intervista con Gennaro Carotenuto
di Annalisa Melandri in esclusiva per L’Indro - 17 Aprile 2013
Alle 23.16 ora locale di domenica sera, 14 aprile, il presidente del Consiglio Nazionale Elettorale (CNE) ha diffuso i risultati del processo elettorale che si era svolto per tutta la giornata in Venezuela.
Un po’ più tardi del previsto – già il nervosismo era palpabile anche per alcune dichiarazioni di inconformità rispetto ai tempi e per euforiche dichiarazioni su presunti risultati a lui favorevoli da parte del candidato di opposizione della Mesa de la Unidad Democrática (MUD), Enrique Capriles Radonsky - e con un 99,12 per cento di sedi elettorali scrutinate, Tibisay Lucena Ramírez, comunicava ai venezuelani che Nicolás Maduro si era confermato presidente eletto con un 50,66 per cento (7.505.338 voti) contro il 49,07 per cento (7.270.403 voti) ottenuto da Enrique Capriles.
Un margine strettissimo, di appena 234.935 voti, pari al 1,59 per cento. I risultati finali di poche ore dopo, confermeranno la tendenza: Nicolás maduro ottiene il 50,75 per cento (7.559.349 voti) contro il 48,98 per cento (7.296.876 voti) di Enrique Capriles, per un 1,77 per cento di scarto
L’opposizione non riconosce il risultato – La violenza
Un margine tanto stretto che ha portato Capriles nelle ore successive a non riconoscere il risultato, a definire Nicolás Maduro presidente “illegittimo”, a chiedere il riconteggio manuale del 100 per cento dei voti (anche se nella serata di domenica, alla presenza di tutte le forze politiche era già stato riconteggiato il 54 per cento dei voti, come da prassi) e a convocare ‘la piazza’, incitando i suoi sostenitori a scendere per strada in cacerolazos (proteste rumorose usando pentole e mestoli) e alla protesta di fronte alle sedi regionali dei Consigli Elettorali.
Sono ore decisive in Venezuela queste, il CNE ha confermato Maduro alla presidenza del paese e ha invitato Capriles a chiedere, come si fa generalmente in questi casi, il riconteggio dei voti secondo le procedure istituzionali. Le autorità hanno invitato alla calma e al senso di responsabilità civile.
Troppo tardi, lo sconsiderato appello rivolto da Enrique Capriles ai suoi era stato ormai raccolto, con conseguenze disastrose: si parla di almeno sette morti tra i sostenitori di Maduro, decine di feriti, veicoli bruciati, sedi del Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV) assaltate e date alle fiamme, assediata la casa della presidente del CNE, assaltata la sede del canale televisivo TeleSUR, assaltati e distrutti supermercati e centri medici dove lavoravamo medici cubani, scontri con le forze dell’ordine.
La procedura di conteggio dei voti, messa in discussione da Enrique Capriles e completamente automatizzata da anni in Venezuela è una delle più sofisticate e precise al mondo, e la sua attendibilità e sicurezza è riconosciuta da numerosi organismi internazionali osservatori del processo elettorale nel paese, come il Centro Carter (che recentemente aveva definito il processo elettorale venezuelano come uno dei più trasparenti al mondo) e l’Unasur, Unione delle Nazioni Sudamericane.
In molti paesi del mondo e dell’America latina il bipartitismo divide l’elettorato praticamente a metà. Nelle ultime elezioni messicane dell’anno scorso, il Partido Revolucionario Institucional, con Enrique Peña Nieto ha preso il 38,21 per cento dei voti contro il 31,59 per cento del Partido de la Revolución Democrática di Andrés Manuel López Obrador. Le elezioni furono caratterizzate da alcuni episodi di violenza, da compravendita dei voti, da furti di urne, da sparatorie nei seggi. Manuel López Obrador gridò, prove alla mano, ancora una volta al ‘fraude’ come aveva già fatto nelle elezioni precedenti, ciò nonostante l’OSA (Organizzazione degli Stati Americani) avesse avallato il risultato e nessun’altra nazione si è sognata di metterlo in discussione. È stato riconteggiato nei giorni successivi il 54,5 per cento dei voti (mentre in Venezuela avviene di prassi al termine della stessa giornata elettorale) che hanno confermato la vittoria di Peña Nieto. In Repubblica Dominicana invece, Danilo Medina del Partido de la Liberación Dominicana, ha vinto lo scorso anno su Hipolíto Mejía, candidato del Partido de la Revolución Dominicana con uno scarto di appena 193 mila voti; anche in questo caso il PRD gridò al ‘fraude’ mentre tutti gli osservatori, compresa l’OSA confermarono la legittimità del risultato. Questo tanto per citare quanto avvenuto recentemente in due paesi relativamente diversi in termini politici ed economici.
Ma perché una differenza così minima, causa invece tanta preoccupazione e fa tanto parlare in Venezuela? Innanzitutto l’estrema polarizzazione della società venezuelana, che a differenza che altrove, non avviene intorno a un progetto politico reale ma si basa essenzialmente su ideologie diverse: socialismo contro neo liberismo. Poi, sicuramente, il ruolo svolto dagli altri paesi, Stati Uniti in testa (ancora una volta) che non condividono o vedono come minacciosa per i loro interessi (ancora una volta)l’ideologia del socialismo. Già poche ore dopo la comunicazione ufficiale del risultato da parte del CNE, e quasi contemporaneamente alla richiesta del riconteggio totale dei voti da parte di Capriles, l’OSA dichiarava “di appoggiare l’iniziativa”, gli Stati Uniti dichiaravano che “una verifica dei risultati elettorali in Venezuela sarebbe un passo necessario e importante“, mentre Spagna, Gran Bretagna e Francia si sono dimostrate molto caute sull’accettazione del risultato.
L’analisi del risultato del campo chavista
Premesso questo, e pur con la vittoria certa in tasca, ora il chavismo, ammesso che politicamente abbia ancora senso parlare di chavismo dopo la morte del suo leader, inevitabilmente dovrà fare un esame serio sugli esiti del voto.
Nelle elezioni del 7 ottobre scorso, Hugo Chávez contro Enrique Capriles riuscì ad ottenere il 55.07 per cento (8.191.132 voti) contro il 44.31 per cento (6.591.304 voti) del suo avversario.
Due cose vanno fatte notare: innanzitutto l’affluenza, in calo domenica scorsa di almeno tre punti percentuali rispetto ad ottobre e per la prima volta in 14 anni, durante i quali sono stati 18 gli appuntamenti elettorali per il popolo venezuelano, una trasmigrazione di voti, circa un migliaio, dall’elettorato chavista a quello dell’opposizione.
Chiediamo a Gennaro Carotenuto, docente di Storia del Giornalismo e Storia Contemporanea presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università di Macerata, nonché profondo conoscitore della realtà politica e sociale del Venezuela, di ritorno da Caracas, che analisi possiamo fare del processo della Rivoluzione Bolivariana, in corso nel paese, alla luce di questi dati: “Metà paese - spiega Carotenuto — o un po’ meno, non ha mai condiviso il progetto, e questa non è una una novità. Non è che una società sia meno polarizzata se la minoranza ha il 40% invece del 49%. Inoltre chi pensava che un dirigente straordinariamente popolare e rispettato come Chávez, con quel livello innato che possedeva di umanità e di comunicazione, potesse automaticamente trasferire il consenso su un dirigente ‘normale’, semplicemente sbagliava”.
Questo potrebbe spiegare il risultato attuale, anche se una certa stanchezza tra le file chaviste si notava già da qualche tempo; a quell’ “elettorato freddo e scettico”, come lo definisce Carotenuto, bisogna dare adesso risposte certe.
“Alcune problematiche esistono, come l’approssimazione e l’inefficienza nella gestione della pubblica amministrazione o la corruzione, e possono aver distanziato, impaurito e talvolta disgustato, questa parte di elettorato” continua Carotenuto.
Qual è quindi la sfida che dovrà raccogliere il governo per i prossimi sei anni? “Chiarito che questi sono i punti cruciali sui quali lavorare e che sicuramente non si può gettare il bambino della rivoluzione con l’acqua sporca, una volta vinte le elezioni, non si può continuare a far finta che vada tutto bene. Il partito si trova adesso nel punto in cui molte rese dei conti potrebbero essere necessarie, anche se tutto questo comporta dei rischi”.
Ma il rischio più grande sicuramente, se non si metterà mano urgentemente alle problematiche citate da Gennaro Carotenuto,“potrebbe essere quello dell’avanzamento della destra endogena, rappresentata dai nuovi ricchi, dai burocrati di professione, che con il tempo hanno lentamente sequestrato tutto il processo rivoluzionario” come avvertiva Marcelo Colussi,analista politico argentino in questa intervista di una settimana fa.
È fuor di dubbio che l’opposizione usa strumentalmente, come cavallo di battaglia, argomenti quali la corruzione, la violenza e l’inefficienza nella gestione pubblica, dimenticando che sono mali strutturali endogeni della società latinoamericana nel suo complesso. Tuttavia è pur vero che se si promette al popolo un mondo migliore e soprattutto più egualitario, l’esistenza di una “boliburghesia hummera” come viene definita talvolta la borghesia bolivariana, arricchitasi all’ombra di PDVSA, la compagnia petrolifera statale, che pur parlando di socialismo e di potere popolare si circonda di beni di lusso, come i potenti veicoli Hummer, in una società che va verso il socialismo non può essere tollerata.
Il progetto politico della Rivoluzione Bolivariana si è confermato, a dispetto della quasi totalità degli analisti occidentali che lo volevano sepolto con il suo leader e sicuramente andrà avanti per i prossimi sei anni, ma si può parlare di progetto politico di un paese se questo è condiviso solo dalla metà della popolazione? Tutto dipenderà per il futuro dalle condizioni nelle quali arriverà il Venezuela al prossimo appuntamento elettorale nel 2019.
Avrà davanti un lavoro immane Nicolás Maduro, sicuramente tanto e forse anche più difficile di quello realizzato dal suo predecessore. Nei prossimi sei anni dovrà sicuramente risolvere con determinazione il problema della corruzione, incancrenitosi per lunghi 14 anni, dovrà parallelamente debellare l’impunità, rimettere in moto l’economia, ridurre il livello di inflazione, aumentare la produzione interna, regolare il sistema dei tassi di cambio, risolvere problemi come quello della violenza, solo per citarne alcuni. Diversamente, tra sei anni, il progetto della Rivoluzione Bolivariana, non avrà un’altra possibilità.