Honduras, tregua con le “maras” — Intervista a Félix Molina
di Annalisa Melandri — in esclusiva per l’Indro — 31 maggio 2013
Circa un anno fa in El Salvador iniziava un dialogo tra il governo e i principali capi delle due maras più violente e sanguinarie della regione, la Mara Salvatrucha (MS-13) e la Mara Barrio 18 (M18). Adesso è la volta dell’Honduras. Martedì scorso, nel corso di una conferenza stampa tenutasi nel carcere di San Pedro Sula, la seconda città del Paese, alla presenza di esponenti della Chiesa Cattolica e di funzionari dell’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), in sostanza gli stessi attori mediatori del processo salvadoregno, i capi delle “filiali” locali delle stesse maras, la MS-13 e la M18, separatamente, hanno chiesto perdono agli honduregni per i crimini commessi e hanno espresso l’intenzione di voler intraprendere una tregua per porre fine alla violenza nel Paese.
“Marcos”, uno dei membri della Mara Salvatrucha –13, forse la “pandilla” più sanguinaria e violenta, dedita praticamente ad ogni tipo di attività criminale possibile, dal narcotraffico all’estorsione, dal sicariato ai furti, dai sequestri alla tratta di persone, con il volto coperto, ha dichiarato alle telecamere: «Davanti a Dio vogliamo chiedere perdono alla società se in qualche momento abbiamo fatto del male, chiedere perdono anche alle nostre autorità […] vogliamo lavorare, vogliamo la pace con Dio, la pace per la nostra società e le autorità». Un altro, in segno di buona volontà, ha annunciato la donazione di alcuni letti, da loro prodotti in carcere, ad un ricovero per anziani. In cambio di una tregua e della cessazione delle violenze chiedono di «essere ascoltati, chiedono lavoro, chiedono il rispetto dei loro diritti».
Le maras sono organizzazioni criminali nate nel corso degli anni’80 a Los Angeles e in altre città degli Stati Uniti, formate principalmente da immigrati di origine salvadoregna che fuggivano in quegli anni dal conflitto armato. Successivamente, a causa delle deportazioni verso i loro Paesi di origine degli immigrati irregolari, si sono diffuse in tutto il Centroamerica e Carabi, dando al fenomeno un carattere transnazionale. La Mara Salvatrucha è la più potente e numerosa ‚e conta circa 100 mila membri in tutto il mondo, la maggior parte in Honduras, El Salvador, Guatemala e Stati Uniti.
Il processo in corso in El Salvador si trova attualmente in una fase di stancamento, i leader delle maras lo dirigono dalle carceri nelle quali sono rinchiusi dimostrando grande potere di negoziazione, soprattutto per quanto riguarda miglioramenti delle loro condizioni di detenzione, periodicamente vengono consegnate grandi quantità di armi e sebbene si stimi che il tasso di omicidi sia calato in un anno del 52 per cento, una cifra significativa, gli analisti dubitano che possa portare ad una tregua definitiva e duratura. L’Honduras è considerato il Paese più violento al mondo, con un indice di 85,5 omicidi ogni centomila abitanti e San Pedro Sula, la città più violenta del pianeta.
Rispetto alla tregua dichiarata martedì scorso in Honduras, L’Indro ne parla con Félix Antonio Molina, giornalista, produttore del programma Resistencias di Radio Globo, di Tegucigalpa, la capitale del Paese.
Félix ci racconti come ha reagito la società civile rispetto all’annuncio dato dalle maras? Ci sono aspettative, c’ è fiducia?
In linea generale c’è molta cautela. Non è un tema sul quale la gente si esprime molto per la sua complessità, inoltre difficilmente riesce a far sperare che possa essere “un patto con Dio”, in quanto è stato prima ancora “un patto con il Diavolo”. Le mutazioni del fenomeno nel tempo sono state impressionati, dagli adolescenti che fumavano marijuana agli angoli delle strade nei loro quartieri durante gli anni’80, fino alle organizzazioni criminali violente che controllano anche istituzioni chiave dello Stato. Si tratta del crimine organizzato che obbedisce ad ordini superiori, con una certa autonomia e con bandiere disseminate in tutto il territorio dove è proibito perfino transitare. Il tema non è quello dei quali puoi discuterne su un autobus, al bar e nemmeno dai microfoni di una radio, per lo meno non ancora.
Come è si è portato avanti in Honduras il processo che ha originato la tregua delle maras?
Il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti promuove da circa 15 anni nel Paese programmi di prevenzione della violenza e consumo delle droghe attraverso la Polizia Nazionale, che a sua volta lo fa attraverso le scuole superiori, con enfasi sul tema delle maras e delle pandillas; anche l’Organizzazione degli Stati Americani, le ONG e la Chiesa hanno affrontato il tema. L’arrivo nel 2001 a San Pedro Sula del vescovo Rómulo Emiliani che aveva lavorato alla pastorale penitenziaria e sulla prevenzione del consumo delle droghe a Panama, nel Darién, una zona al confine con la Colombia, ha dato una forte spinta alla mediazione; probabilmente Emiliani era l’unico vescovo in grado di parlare contemporaneamente ai vertici delle due maras ed avere una forte presenza mediatica. Oggi è lui a fare da anello di congiunzione tra lo Stato, l’ Organizzazione degli Stati Americani, le maras, la società e la stampa.
E tuttavia le maras non offrono la pace a cambio di nulla: chiedono lavoro, reinserimento nella società civile, chiedono di essere ascoltate e che siano rispettati i loro diritti. Pensi che la società honduregna e soprattutto il governo, sia in grado di dar seguito a queste richieste?
In teoria sì, il governo può anche dialogare rispetto al tema giuridico (riduzione della pena, indulto, velocità dei tempi processuali), ma non può garantire che altri gruppi autonomi cessino la violenza contro di loro o contro le loro famiglie. Rispetto al tema del lavoro non può offrire garanzie e opzioni reali quando oltre il 65 per cento della popolazione economicamente attiva di tutto il Paese si trova esclusa dal mercato del lavoro. Proprio una delle cause del fenomeno delle maras è stata infatti la mancanza di lavoro per gli adolescenti e per la gioventù honduregna.
Sarà sufficiente questa tregua per ridurre gli enormi indici di violenza che affliggono l’Honduras?
Assolutamente no. Il contributo delle maras alla violenza è importante ma loro non ne sono gli unici attori. Le istituzioni dello Stato, particolarmente la polizia, l’esercito, le imprese di sicurezza private e gli altri gruppi criminali autonomi sono ugualmente decisivi nello scenario dell’insicurezza e della violenza. Come anche i Pubblici Ministri e i Tribunali al momento di offrire impunità ai responsabili dei crimini.
In El Salvador c’è stato un processo simile un anno fa e alcuni analisti hanno visto questo fatto come l’evento più importante dopo i dialoghi di pace avvenuti negli anni ’80. Qual è la tua opinione al riguardo? Verso dove vanno le società centroamericane? Ci sarà pace e sicurezza sociale in queste regioni un giorno?
C’è un enorme desiderio di pace nella regione, uscita dalle dittature militari e dalle insurrezioni civili, passando per i riaggiustamenti strutturali delle loro economie con lo scopo di impoverirle ancora di più fino alla violenza attuale, particolarmente in Guatemala, El Salvador e Honduras. In questi tre paesi ci sono stati accordi di pace e commissioni nazionali di riconciliazione nel 1986, ma gli squilibri hanno continuato a tracciare linee molto fragili di governabilità sociale e politica fino ai nostri giorni. Il patto tra le maras in El Salvador ha contribuito a diminuire gli omicidi per un certo periodo di tempo, ma questi sono aumentati di nuovo a livelli molto alti. L’esempio del Nicaragua, con una polizia vicina alla cittadinanza, un esercito disciplinato di fronte al narcotraffico e un sistema politico che risolve le necessità basilari della gente con una visione aperta all’integrazione latinoamericana, sembra seducente e nello stesso tempo rappresenta una sfida. Gli Stati Uniti devono giocare meno geostrategia egemonica nel triangolo Nord del Centroamerica e permettere l’autodeterminazione di queste società.