La Colombia punta alla Nato o viceversa?
di Annalisa Melandri — in esclusiva per L’Indro — 5 Giugno 2013
In queste ultime settimane, l’impressione che offre l’attento esame di alcuni avvenimenti di carattere non solo politico ma anche economico e strategico che hanno avuto luogo in America latina, è che la Colombia sembra ormai decisa a volersi allontanare il più in fretta possibile — a passi lunghi e ben distesi — dal progetto di integrazione regionale che fu tanto caro a Hugo Chávez e Néstor Kirchner, gli ex presidenti di Venezuela e Argentina entrambi ormai scomparsi.
Prima a livello economico, con la costituzione e promozione dell’Alleanza del Pacifico, un progetto neoliberale che vede la presenza oltre che della Colombia, del Cile, del Costa Rica, del Perú e del Messico, che gode della benedizione e del patrocinio di Washington e che va nella direzione diametralmente opposta a quella degli organismi promossi e realizzati dai governi più progressisti della regione quali il Mercosur, l’Alba e l’Unasur. Poi a livello diplomatico con il Venezuela dell’attuale governo del presidente Nicolás Maduro, con il quale le relazioni con la Colombia hanno recentissimamente preso una piega pericolosa. Sicuramente “l’amicizia” tra Juan Manuel Santos e Hugo Chávez era dettata più da pragmatismo politico che da sincera simpatia, tuttavia le buone relazioni tra i due capi di Stato, qualsiasi fosse stata la loro natura, avevano permesso la realizzazione di importanti obiettivi diplomatici, volti al ripristino di un clima di distensione nella regione, come accadde per esempio nella mediazione della crisi in Honduras, che permise il ritorno nel paese dell’ex presidente Manuel Zelaya destituito da un colpo di Stato nel 2009, e successivamente l’avvio dei dialoghi di pace a Cuba tra la guerriglia colombiana delle FARC e il governo di Manuel Santos in cui il Venezuela svolge il ruolo di mediazione.
L’incontro di Juan Manuel Santos avvenuto la settimana scorsa con il leader dell’opposizione venezuelana, Enrique Capriles, responsabile intellettuale di 11 morti tra i sostenitori chavisti del governo per aver incitato alla ribellione i suoi seguaci dopo le elezioni di aprile, che si rifiuta di riconoscere il risultato elettorale (Nicolás Maduro è risultato eletto con il 50,61 per cento dei voti) e che definisce Maduro “presidente illegittimo”, ha sollevato in Venezuela, nel seno del governo, un vespaio di polemiche.
Sabato scorso, infine, la dichiarazione di Juan Manuel Santos della firma di un accordo di cooperazione che la Colombia sottoscriverà con la NATO dando iniziando così ad “un processo di avvicinamento e di cooperazione, con lo scopo di poter entrare in questa organizzazione”, sembra voler rappresentare la classica ciliegina sulla torta.
Anche se alcuni osservatori, forse superficialmente, hanno considerato solo come provocatoria la dichiarazione del presidente colombiano, è senz’ altro vero che “il processo” è iniziato e che sia la Colombia che gli Stati Uniti non hanno reso smentite in tal senso. Le dichiarazioni da un lato e dall’altro, volte sicuramente a placare le polemiche in America latina rispetto alla posizione della Colombia che gli sono state mosse dai governi di Venezuela, Bolivia, Ecuador e Nicaragua, (“una pugnalata al cuore dei popoli della Nostra America” ha definito la notizia Daniel Ortega, presidente nicaraguense) tendono solo a precisare che la Colombia “non risponde ai requisiti geografici” per poter essere considerata paese membro della NATO. E questo se di per sé è abbastanza ovvio, è anche ovvio che esistono molteplici forme di cooperazione con le quali la Colombia potrà in qualche modo entrare a far parte o “cooperare” con il Patto Atlantico, senza esserne nei fatti membro.
Proprio qualche settimana fa il vicepresidente statunitense Joe Binden ha visitato sia la Colombia, ma anche il Brasile e Trinidad e Tobago (prossime tappe a ottobre). Il presidente statunitense Barack Obama, infatti, in questo suo secondo mandato ha deciso di rivolgere nuovamente lo sguardo a sud, dopo anni di evidente disinteresse per il “patio trasero”, il cortile di casa. Avranno discusso Binden e Juan Manuel Santos della possibilità dell’ingresso della Colombia nella NATO? Non si sa, anche perché ufficialmente la visita aveva per oggetto i dialoghi di pace attualmente in corso con le FARC, l’Alleanza del Pacifico e il Trattato di Libero Commercio in corso tra Stati Uniti e Colombia entrato in vigore un anno fa.
Tra i funzionari che accompagnavano Joe Binden, tutti di alto livello, anche la sottosegretaria di Stato per l’Emisfero Occidentale, Roberta Jacobson la quale, rispondendo alle polemiche sollevate dalla dichiarazione di Juan Manuel Santos ha dichiarato che «il nostro obiettivo è sicuramente quello di sostenere la Colombia come membro forte e capace di molte organizzazioni internazionali tra le quali anche la Nato».
Il ministro della Difesa Juan Carlos Pinzón invece, volendo smorzare il tono delle stesse polemiche ha in parte rettificato le dichiarazioni dello stesso presidente Santos, affermando che la Colombia «non vuole e non può essere membro della NATO», ma vuole solo essere socio cooperante in tre temi specifici: diritti umani, giustizia militare e addestramento alle truppe. Ha assicurato inoltre che non verranno permesse basi e truppe americane in territorio colombiano. Di fatto però già ci sono. L’attacco colombiano al accampamento delle FARC situato in Ecuador il 1 di marzo del 2008, nel quale sono stati uccisi oltre al numero due dell’organizzazione guerrigliera Raúl Reyes, anche 4 studenti messicani civili, è stato realizzato proprio con un ampio utilizzo di mezzi statunitensi.
La qualifica di “Major non NATO ally” (MNNA), cioè alleato importante non NATO viene conferita ad un gruppo di Paesi che pur non essendo a tutti gli effetti membri del Patto Atlantico (e quindi non partecipando al patto di difesa collettiva) mantengono con essa e con l’esercito statunitense, una strategia comune. Questo status venne concesso per esempio per decisione unilaterale degli Stati Uniti nel 1998 all’Argentina di Menem (in via di revisione) e più recentemente all’Afghanistan, ma, solo per citarne alcuni, ne godono anche il Giappone, l’Egitto e la Corea del Sud.
Potrebbe essere questa la via che probabilmente seguirà anche la Colombia, desiderosa come l’Argentina di allora di essere connessa “con la parte di mondo che conta” . In questo caso i vantaggi che questo Paese ne trarrebbe, oltre a quelli economici, avrebbero sicuramente a che fare con il potenziamento dell’esercito e la sua specializzazione come forza militare di importanza strategica nella regione, professionalizzazione delle truppe e invio notevole di denaro, uomini e mezzi da parte degli Stati Uniti senza aver bisogno del parere favorevole del Congresso.
Tenendo conto che tra la Colombia e gli Stati Uniti è ancora in vigore il tristemente (e fallimentare) noto Plan Colombia, un accordo bilaterale volto alla lotta al narcotraffico e all’ offensiva militare come strategia per risolvere il conflitto armato interno colombiano, nel quale gli Stati Uniti hanno investito solo tra il 2000 e il 2005 quasi tre miliardi di dollari con risultati del tutto discutibili su entrambi i fronti, non si può non vedere dietro all’ intenzione della Colombia di far parte della NATO, il pericolo di un’infiltrazione, o comunque di una presenza militare nella regione.
Già nel 2006 Álvaro Uribe, l’ex presidente colombiano, aveva manifestato l’intenzione del paese di far parte del Patto Atlantico e i due governi, quello colombiano e quello statunitense, avevano intrapreso dialoghi in tal senso. Oggi alcuni settori della sinistra latinoamericana tornano a temere quello che si temeva allora: che la Colombia possa diventare la punta di lancia in America latina di una possibile invasione statunitense (“esportando democrazia”) in Venezuela o di un supporto strategico in caso di colpo di Stato in quel Paese.
Il repentino cambiamento di atteggiamento del presidente colombiano verso Nicolás Maduro, l’avvicinamento di Santos a settori dell’opposizione venezuelana apertamente golpisti ed eversivi rappresentati dal leader politico Enrique Capriles, l’Alleanza del Pacifico, che rappresenterebbe comunque un comodo paracadute in caso di un repentino aggravarsi delle relazioni regionali, la necessità da parte degli Stati Uniti di contrastare l’imponente avanzata del colosso cinese in America latina e last but not least, i timori che ha Washington di un’infiltrazione dell’Iran nella stessa regione, oltre all’ “occasione” rappresentata dalla morte di Chávez, come momento di crisi interna al Venezuela, sono tutti segnali che sicuramente potrebbero far temere infatti, l’imminente arrivo di una “primavera latinoamericana”.