Simone Bruno: Álvaro Uribe e i testimoni scomodi
di Simone Bruno
Fonte: Carta
La liberazione di sei ostaggi decisa pochi giorni fa dalle Farc diventa l’occasione, per il presidente colombiano, per scagliarsi contro la stampa non allineata alle posizioni del suo governo e colpevole di dire che in Colombia è in corso una guerra.
Negli ultimi giorni l’attenzione dei colombiani non è stata catturata solo dalla liberazione dei sei sequestrati che le Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia [Farco] hanno deciso di rilasciare in maniera unilaterale. Il paese ha potuto scoprire anche che esistono giornalisti presidenzialmente corretti, alcuni che fanno «feste terroriste» con la guerriglia e che se tutti gli altri operatori dell’informazione vengono schedati dall’esercito non è poi così grave.
Le rivelazioni sono state rese note martedì scorso da un iracondo presidente Alvar Uribe de Velez sull’ uscio della casa di Alan Jara, ex governatore della regione del Meta, rilasciato quello stesso giorno dalle Farc.
Lo scontro con la stampa è cominciato durante la liberazione dei primi quattro sequestrati la scorsa domenica. In quell’occasione, tra i membri della commissione umanitaria c’era Jorge Enrique Botero, noto giornalista colombiano, colui che con un libro sui sequestrati parlò per primo delle condizioni disumane in cui erano tenuti i prigionieri delle Farc e che per primo rivelò l’esistenza del piccolo Emmanuel, nato durante il sequestro di sua madre Clara Rojas.
Botero fa parte di «Colombianas y colombianos por la paz» un’organizzazione di attivisti, intellettuali, giornalisti e gente comune che ora conta circa 130 mila persone e che ha ottenuto questa liberazione unilaterale dalle Farc dopo uno scambio epistolare lungo sei mesi.
Davvero una buona notizia per il paese, un primo passo verso il risveglio di una società civile assopita nelle città e che ignora la violenza che sconvolge la vita dei propri connazionali nelle zone rurali dove si concentra il conflitto.
Botero, in un collegamento in diretta con Telesur, la catena televisiva, con aspirazioni continentali e sede a Caracas aveva denunciato la presenza di aerei militari colombiani che sorvolavano la zona del rilascio, nonostante l’impegno del governo a sospendere ogni operazione militare per facilitare questa serie di operazioni umanitarie.
Secondo il governo, l’errore di Botero era quello di aver svolto il ruolo da giornalista, quando in quel momento sarebbe dovuto essere solo un garante, per di più aveva intervistato in diretta il comandante guerrigliero incaricato di scortare gli ostaggi fino agli elicotteri messi a disposizione dal governo brasiliano.
La reazione del governo per bocca di Juan Manuel Santos, ministro della difesa con aspirazioni presidenziali, è stata immediata e furente: «Il signor Botero si presta al gioco pubblicitario del terrorismo», è stato solo uno dei commenti piovuti domenica scorsa. Gli aerei erano certo lì, ma oltre i 20 mila metri che, secondo il governo, erano stati pattuiti e in ogni casi sono stati allontanati appena la Corce Rossa internazionale lo ha richiesto.
Lo stesso giorno, Hollman Morris, il giornalista colombiano più conosciuto e premiato all’estero [premio defender di Human rights watch, premio Canadian journalist for free expression, vari riconoscimenti di Reporter senza frontiere, premio Nuevo Periodismo 2007 e l’italianissimo premio Ciriello tra gli altri] era sul luogo del rilascio dei sequestrati per conto di Radio Francia International [Rfi], dopo aver passato vari giorni nella selva colombiana alla ricerca di un’intervista con un alto esponente della guerriglia.
Durante il ritorno verso la città di Florencia, Hollamn e il suo cameraman sono stati fermati dall’esercito con l’intento di sequestrare il materiale giornalistico. In seguito membri della Dijin, la polizia giudiziaria colombiana hanno schedato e fotografato i giornalisti per ragioni sconosciute e solo dopo molte ore e l’intervento di diverse organizzazioni per la difesa dei diritti umani sono stati rilasciati.
Il mattino seguente l’ira del governo si è abbattuta anche su Hollman, accusato di due cose. La prima di aver estorto interviste ai sequestrati minacciati dai guerriglieri e indotti a rispondere secondo i loro ordini, la seconda di essere scappato alla scorta incaricata di proteggerlo. La Corte interamericana dei diritti umani obbliga infatti lo stato colombiano a proteggere Hollman sin da quando ha subito gravi minacce di morte nel 2006 a seguito di una segnalazione del presidente Uribe. Anche in quell’occasione il presidente lo accusò di aver legami con la guerriglia, a causa di un lavoro svolto durante un attacco guerrigliero insieme alla Bbc di Londra. Poco dopo il presidente fu costretto a chiedere scusa pubblicamente.
Il governo fa finta di ignorare una sentenza della Corte costituzionale colombiana del 2008 che riconosce che se la persona sotto protezione è un giornalista, che vuole comunque continuare le sue indagini, allora la protezione non può intaccare la sua libertà di espressione e richiede quindi di accorgimenti particolari: «In particolare è ovvio che i comunicatori posso avere necessità di una certa riservatezza per poter intervistare fonti riservate o per poter fare alcune indagini», hanno scritto i giudici.
Hollman stesso ci ha raccontato il suo punto di vista sulle interviste pilotate dei sequestrati: «Le interviste pilotate ovviamente mi preoccupano, ma il giornalista ha sempre la possibilità di decidere cosa rendere pubblico e cosa no. È qui che a mio modo di vedere il giornalista si blinda. Uno decide cosa dire, cosa pubblicare, cosa rendere visibile e quali immagini far vedere. Io sono molto sorpreso, fino ad oggi non ho pubblicato una sola immagine del mio materiale e mi trovo nell’occhio del ciclone. Ho fatto due reportage dal posto per Rfi, dopo aver parlato con i sequestrati e in nessun momento ho utilizzato le loro interviste. Perché? Per la semplice ragione che non mi sembrava il caso. Quei ragazzi erano nelle mani della guerriglia e quindi quel materiale ha perso per me qualunque interesse, non ha nessun valore giornalistico, è per questo che non ho mai usato quelle interviste e non lo utilizzerò mai».
Hollman, che da quindici anni racconta la storia del conflitto colombiano, dando voce alle vittime che i grandi mezzi di comunicazione troppo spesso dimenticano è un testimone scomodo, come il titolo del film sulla sua storia che sta facendo il giro di vari festival europei. Qualcuno che racconta l’altra faccia del conflitto, quella violenta, quella delle vittime, quell’anima nera della guerra che il presidente nega quando nega l’esistenza stessa del conflitto, riducendo la guerriglia a semplici terroristi e ipotizzando che dopo averli sterminati il paese sarà in pratica la Svizzera andina. Il presidente fa finta di ignorare i problemi sociali, le ragioni per cui ancora oggi migliaia di ragazzini senza futuro non vedono nulla migliore nella vita che ir al monte.
«Se questo paese non si rende conto che esiste un conflitto armato – continua Hollman – un conflitto armato che è barbaro, non potremo mai parlare di pace. C’è gente a Bogotá, a Medellin che dice che in questo paese non c’è una guerra. Se non c’è la guerra è perché non la stiamo mostrando. E i pochi che la mostriamo siamo accusati di essere alleati della guerriglia. Cos’è che da profondamente fastidio al ministro Santos e che preoccupa profondamente certi settori del paese? Che in questo paese esistano giornalisti, o senatori, o leader d’opinione che parlano di pace. Per parlare di pace bisogna innanzi tutto riconoscere l’esistenza di un conflitto armato in questo paese. Il governo vuole dirci cosa possiamo e cosa non possiamo far vedere.»
Il prologo è proprio durante la conferenza stampa appena fuori la casa di Alan Jara che ha preferito lasciare il presidente solo davanti alle telec
amere. Uribe ha colto l’occasione per scagliarsi di nuovo contro Hollman Morris: «Una cosa sono i giornalisti e un’altra cosa i giornalisti amici dei terroristi […] Il signor Morris era lì per fare una festa terrorista» ha dichiarato livido in volto e con l’indice proteso al cielo. Il presidente Colombiano ha poi continuato dicendo che a lui «sta molto a cuore la libertà di stampa», per poi subito dopo evadere la domanda di un giornalista di Telesur, preferendo commentare che la catena internazionale deve stare attenta a non trasformarsi in Telefarc. Poco dopo un giornalista di CityTv, il canale di Bogotà, ha gridato la sua rabbia al presidente per i maltrattamenti che le forze dell’ordine avevano riservato alla stampa per tutto il giorno e per il fatto che gli stessi militari li riprendessero e fotografassero. «Queridos amigos – ha risposto il presidente calmando le acque – che problemi ci sono se vi riprendono, guardate quante camere avete voi!».
Calmandosi ha quindi affermato che ora i giornalisti in colombia si sentono più sicuri, riferendosi probabilmente a quelli che usano in maniera presidenzialmente corretta la loro etica professionale, come ad esempio Álvaro García, ex direttore del seguitissimo canale televisivo Rcn, il più vicino alle posizioni presidenziali.
García ha visto premiata la sua impeccabile etica con una fresca nomina ad ambasciatore in Argentina. Holmman invece al momento della nostra intervista aveva già ricevuto una decina di email di minaccia e d’insulti.
Le rivelazioni sono state rese note martedì scorso da un iracondo presidente Alvar Uribe de Velez sull’ uscio della casa di Alan Jara, ex governatore della regione del Meta, rilasciato quello stesso giorno dalle Farc.
Lo scontro con la stampa è cominciato durante la liberazione dei primi quattro sequestrati la scorsa domenica. In quell’occasione, tra i membri della commissione umanitaria c’era Jorge Enrique Botero, noto giornalista colombiano, colui che con un libro sui sequestrati parlò per primo delle condizioni disumane in cui erano tenuti i prigionieri delle Farc e che per primo rivelò l’esistenza del piccolo Emmanuel, nato durante il sequestro di sua madre Clara Rojas.
Botero fa parte di «Colombianas y colombianos por la paz» un’organizzazione di attivisti, intellettuali, giornalisti e gente comune che ora conta circa 130 mila persone e che ha ottenuto questa liberazione unilaterale dalle Farc dopo uno scambio epistolare lungo sei mesi.
Davvero una buona notizia per il paese, un primo passo verso il risveglio di una società civile assopita nelle città e che ignora la violenza che sconvolge la vita dei propri connazionali nelle zone rurali dove si concentra il conflitto.
Botero, in un collegamento in diretta con Telesur, la catena televisiva, con aspirazioni continentali e sede a Caracas aveva denunciato la presenza di aerei militari colombiani che sorvolavano la zona del rilascio, nonostante l’impegno del governo a sospendere ogni operazione militare per facilitare questa serie di operazioni umanitarie.
Secondo il governo, l’errore di Botero era quello di aver svolto il ruolo da giornalista, quando in quel momento sarebbe dovuto essere solo un garante, per di più aveva intervistato in diretta il comandante guerrigliero incaricato di scortare gli ostaggi fino agli elicotteri messi a disposizione dal governo brasiliano.
La reazione del governo per bocca di Juan Manuel Santos, ministro della difesa con aspirazioni presidenziali, è stata immediata e furente: «Il signor Botero si presta al gioco pubblicitario del terrorismo», è stato solo uno dei commenti piovuti domenica scorsa. Gli aerei erano certo lì, ma oltre i 20 mila metri che, secondo il governo, erano stati pattuiti e in ogni casi sono stati allontanati appena la Corce Rossa internazionale lo ha richiesto.
Lo stesso giorno, Hollman Morris, il giornalista colombiano più conosciuto e premiato all’estero [premio defender di Human rights watch, premio Canadian journalist for free expression, vari riconoscimenti di Reporter senza frontiere, premio Nuevo Periodismo 2007 e l’italianissimo premio Ciriello tra gli altri] era sul luogo del rilascio dei sequestrati per conto di Radio Francia International [Rfi], dopo aver passato vari giorni nella selva colombiana alla ricerca di un’intervista con un alto esponente della guerriglia.
Durante il ritorno verso la città di Florencia, Hollamn e il suo cameraman sono stati fermati dall’esercito con l’intento di sequestrare il materiale giornalistico. In seguito membri della Dijin, la polizia giudiziaria colombiana hanno schedato e fotografato i giornalisti per ragioni sconosciute e solo dopo molte ore e l’intervento di diverse organizzazioni per la difesa dei diritti umani sono stati rilasciati.
Il mattino seguente l’ira del governo si è abbattuta anche su Hollman, accusato di due cose. La prima di aver estorto interviste ai sequestrati minacciati dai guerriglieri e indotti a rispondere secondo i loro ordini, la seconda di essere scappato alla scorta incaricata di proteggerlo. La Corte interamericana dei diritti umani obbliga infatti lo stato colombiano a proteggere Hollman sin da quando ha subito gravi minacce di morte nel 2006 a seguito di una segnalazione del presidente Uribe. Anche in quell’occasione il presidente lo accusò di aver legami con la guerriglia, a causa di un lavoro svolto durante un attacco guerrigliero insieme alla Bbc di Londra. Poco dopo il presidente fu costretto a chiedere scusa pubblicamente.
Il governo fa finta di ignorare una sentenza della Corte costituzionale colombiana del 2008 che riconosce che se la persona sotto protezione è un giornalista, che vuole comunque continuare le sue indagini, allora la protezione non può intaccare la sua libertà di espressione e richiede quindi di accorgimenti particolari: «In particolare è ovvio che i comunicatori posso avere necessità di una certa riservatezza per poter intervistare fonti riservate o per poter fare alcune indagini», hanno scritto i giudici.
Hollman stesso ci ha raccontato il suo punto di vista sulle interviste pilotate dei sequestrati: «Le interviste pilotate ovviamente mi preoccupano, ma il giornalista ha sempre la possibilità di decidere cosa rendere pubblico e cosa no. È qui che a mio modo di vedere il giornalista si blinda. Uno decide cosa dire, cosa pubblicare, cosa rendere visibile e quali immagini far vedere. Io sono molto sorpreso, fino ad oggi non ho pubblicato una sola immagine del mio materiale e mi trovo nell’occhio del ciclone. Ho fatto due reportage dal posto per Rfi, dopo aver parlato con i sequestrati e in nessun momento ho utilizzato le loro interviste. Perché? Per la semplice ragione che non mi sembrava il caso. Quei ragazzi erano nelle mani della guerriglia e quindi quel materiale ha perso per me qualunque interesse, non ha nessun valore giornalistico, è per questo che non ho mai usato quelle interviste e non lo utilizzerò mai».
Hollman, che da quindici anni racconta la storia del conflitto colombiano, dando voce alle vittime che i grandi mezzi di comunicazione troppo spesso dimenticano è un testimone scomodo, come il titolo del film sulla sua storia che sta facendo il giro di vari festival europei. Qualcuno che racconta l’altra faccia del conflitto, quella violenta, quella delle vittime, quell’anima nera della guerra che il presidente nega quando nega l’esistenza stessa del conflitto, riducendo la guerriglia a semplici terroristi e ipotizzando che dopo averli sterminati il paese sarà in pratica la Svizzera andina. Il presidente fa finta di ignorare i problemi sociali, le ragioni per cui ancora oggi migliaia di ragazzini senza futuro non vedono nulla migliore nella vita che ir al monte.
«Se questo paese non si rende conto che esiste un conflitto armato – continua Hollman – un conflitto armato che è barbaro, non potremo mai parlare di pace. C’è gente a Bogotá, a Medellin che dice che in questo paese non c’è una guerra. Se non c’è la guerra è perché non la stiamo mostrando. E i pochi che la mostriamo siamo accusati di essere alleati della guerriglia. Cos’è che da profondamente fastidio al ministro Santos e che preoccupa profondamente certi settori del paese? Che in questo paese esistano giornalisti, o senatori, o leader d’opinione che parlano di pace. Per parlare di pace bisogna innanzi tutto riconoscere l’esistenza di un conflitto armato in questo paese. Il governo vuole dirci cosa possiamo e cosa non possiamo far vedere.»
Il prologo è proprio durante la conferenza stampa appena fuori la casa di Alan Jara che ha preferito lasciare il presidente solo davanti alle telec
amere. Uribe ha colto l’occasione per scagliarsi di nuovo contro Hollman Morris: «Una cosa sono i giornalisti e un’altra cosa i giornalisti amici dei terroristi […] Il signor Morris era lì per fare una festa terrorista» ha dichiarato livido in volto e con l’indice proteso al cielo. Il presidente Colombiano ha poi continuato dicendo che a lui «sta molto a cuore la libertà di stampa», per poi subito dopo evadere la domanda di un giornalista di Telesur, preferendo commentare che la catena internazionale deve stare attenta a non trasformarsi in Telefarc. Poco dopo un giornalista di CityTv, il canale di Bogotà, ha gridato la sua rabbia al presidente per i maltrattamenti che le forze dell’ordine avevano riservato alla stampa per tutto il giorno e per il fatto che gli stessi militari li riprendessero e fotografassero. «Queridos amigos – ha risposto il presidente calmando le acque – che problemi ci sono se vi riprendono, guardate quante camere avete voi!».
Calmandosi ha quindi affermato che ora i giornalisti in colombia si sentono più sicuri, riferendosi probabilmente a quelli che usano in maniera presidenzialmente corretta la loro etica professionale, come ad esempio Álvaro García, ex direttore del seguitissimo canale televisivo Rcn, il più vicino alle posizioni presidenziali.
García ha visto premiata la sua impeccabile etica con una fresca nomina ad ambasciatore in Argentina. Holmman invece al momento della nostra intervista aveva già ricevuto una decina di email di minaccia e d’insulti.