Torino in movimento
Di Geraldina Colotti
Fonte: il manifesto – 19 maggio 2010
Anarchici, squatter, centri sociali… Per la questura sono un network itinerante del disordine e della violenza, per chi non ha niente e resta ai margini della società perbene, sono una sponda corsara e generosa, armata solo del proprio sarcasmo.
Venerdì, 14 maggio, verso le 4 del pomeriggio. Fra i pellegrini diretti al Duomo per l’ostensione della Sindone, molti nasi rivolti verso il cielo indicano un evento inaspettato: sulle Porte palatine, un gruppo di anarchici ha issato uno striscione che dice «Liberi tutti». Poco dopo, alcuni ragazzi verranno placcati da agenti in borghese, gettati a terra e ammanettati, alla fermata del tram. In serata, si saprà che due di loro sono stati arrestati con l’accusa di resistenza e lesioni. Uno verrà rilasciato sabato sera, prima ancora dell’udienza di convalida, l’altro invece domenica scorsa.
Per consentire la visione del sacro lenzuolo che, secondo la tradizione cattolica, ha avvolto il viso di Gesù Cristo (circa cinque minuti di sosta davanti alla teca che lo conserva), il prefetto di Torino, Paolo Padoin, ha ottenuto altri 200 uomini in più, arrivati da tutta Italia.
Massima sorveglianza. E linea dura contro quel «vero e proprio network itinerante del disordine e della violenza organizzata», così definito dal questore Aldo Faraoni. Gente da condannare senza troppi «formalismi», secondo Faraoni, il quale — nel suo intervento per i 158 anni della polizia di stato, ha manifestato il proprio disappunto per alcuni arresti effettuati nei mesi scorsi e poi revocati dalla magistratura: «Non sono abituato a fare polemiche — ha affermato — ma forse in alcuni casi bisognerebbe lasciare da parte certi formalismi».
Un network «armato» più che altro del proprio sarcasmo, che compie piccole incursioni e si fa beffe del clima incandescente, alimentato ad arte — dicono gli antagonisti — da certa stampa prona alle veline di questura: la quale — in barba alla legge sulla privacy — fornisce nomi e cognomi di presunti partecipanti agli scontri «senza neanche curarsi di verificare se questi nomi fossero in quel momento per lo meno nei dintorni del Duomo oppure invece a farsi gli affari propri in altri angoli della città». Così, uno striscione aperto all’improvviso diventa un’azione di forza passibile di arresti e bastonate, una pacifica incursione si trasforma in un «assalto ai pellegrini» con tanto di fermi, denunce e allarmi.
«A Torino, di questi tempi, si finisce in galera per uno striscione. Politici, media e magistratura vogliono tapparci la bocca, criminalizzando e inquisendo pratiche di solidarietà e resistenza che temono contagiose», dice Maria Matteo, della Federazione anarchica, che scrive articoli ficcanti sul giornale della Fai.
«Siamo abituati a fare i conti con la repressione, cerchiamo di non piangerci addosso — afferma Chiara del centro sociale Askatasuna — ma oggi qui c’è davvero un brutto clima, una risposta eccessiva per un livello minimo di resistenza».
Dello stesso parere è Barbara, del centro sociale Gabrio. E con voce analoga si esprimono anche i siti — come Macerie o Informa-azione — più vicini alle aree che preferiscono «creare informazione antagonista» piuttosto che parlare con la stampa.
Anarchici, «insurrezionalisti», centri sociali, squatter… Delinquenti da reprimere come vorrebbero questure e centrodestra o nuovi aedi, anticorpi di una Torino che cambia pelle senza sapere ancora quale fisionomia assumere?
La crisi — scrivono gli anarchici — morde con violenza le periferie, dove ogni giorno c’è chi perde il lavoro, va in cassa integrazione, si adatta a scaricare cassette per tre euro l’ora. Torino è una città in cui «si vive e si lavora come nell’800, precari e senza tutele». Le fabbriche sono diventate centri commerciali, con tanto di sponsor pubblici, ma non ci sono risorse per case, scuole, asili, ospedali, ambulatori, assistenza ad anziani e disabili, trasporti pubblici. Una città-vetrina «tutta luci d’artista, sindoni, grandi eventi e grandi opere» che nessuno deve sporcare, mentre «il ricatto del lavoro impone a tutti ritmi massacranti e salari da fame».
Chi non ci sta, resta ai margini. Agli immigrati — nuovi schiavi «di questa Europa di confini e filo spinato», va peggio, perché se perdono il contratto di lavoro, perdono il diritto legale di stare in Italia. La loro vita, vale poco o nulla. I figli di chi resta rischiano di non andare più a scuola, perché stabilire quote-limite alla presenza di bambini immigrati significa obbligare le famiglie a spostamenti fuori dal quartiere dove non possono arrivare. Chi alza la testa, chi «si mette in mezzo», viene inquisito, sorvegliato e arrestato, oppure perde il lavoro perché il suo nome è stato reso pubblico prima di qualunque sanzione.
«La cornice — racconta Maria — sono i fatti del 10 dicembre 2009: in una mattinata, furono sgomberati due posti occupati, Cà Neira e L’Ostile. Nel tardo pomeriggio quelli di Cà Neira occuparono un nuovo stabile, l’ex cinema Zeta, ma furono subito sgomberati. In 4 vennero portati in questura. Il presidio sotto L’Ostile fu duramente caricato in un carosello di auto blu in mezzo al corso e lacrimogeni. Si cercò di resistere. Una compagna ebbe una mano fratturata dalle manganellate e finì all’ospedale, 16 solidali finirono nel mirino della magistratura».
Antirazzismo, antifascismo, diritto alla casa, resistenza alla guerra e al militarismo sono i terreni in cui si ritrovano pratiche diverse. E fioccano denunce, inchieste, rinvii a giudizio. Il 18 giugno, due anarchici andranno a processo con l’accusa di aver diffamato e minacciato l’europarlamentare leghista Mario Borghezio. Alla vigilia del 25 aprile, davanti alla sede della Lega, apparve un fantoccio raffigurante Borghezio appeso a testa in giù, come Benito Mussolini a Piazzale Loreto. Analoghi manifesti vennero affissi sui muri della città. Un messaggio chiaro: il fascismo ha il volto della Lega, delle ronde, degli attacchi razzisti. E «non basta la testimonianza, non basta l’indignazione. Bisogna mettersi in mezzo».
A mettersi in mezzo, per impedire la piazza alla Lega e a Casa Pound, per un’azione di protesta simbolica davanti all’Unione industriali in occasione del G8 all’Aquila, sono stati in tanti. Uniti, nelle diverse pratiche e orientamenti, anche nel «cacerolazo» (la battitura di pentole alla maniera argentina) messo in campo, il 2 giugno del 2008, sotto la casa del colonnello e medico Baldacci: responsabile dell’allora Cpt dove un immigrato era morto senza cure il 23 maggio.
Insieme per l’occupazione simbolica dell’atrio del Museo egizio, il 29 giugno del 2008, per ricordare l’operazio egiziano ucciso dal padrone per avergli chiesto il pagamento del salario.
E ancora insieme a contestare lo sgombero della casa occupata dai rom in via Pisa, contro la proposta di prendere le impronte ai bambini rom, o a dimostrare davanti alla lavanderia La nuova, che lava i panni al Cie di corso Brunelleschi.
«Un’ottantina di iniziative messe insieme — spiega Emilio, della Fai — per cucire addosso a un po’ di anarchici un reato associativo che potrebbe portarli in galera». E il 24 settembre toccherà ad altri sei andare alla sbarra per una di quelle azioni di protesta. Intanto — prosegue Emilio — «circa 10.000 i torinesi vengono gettati in strada perché non possono più pagare affitto, bollette, retta dell’asilo per i figli. Occupare una casa vuota, resistere agli sfratti, è un delitto o un diritto? Noi suggeriamo che si può praticare fin da subito l’autogestione, il mutuo appoggio, la solidarietà concreta tra oppressi e sfruttati. E questo inquieta il potere, che si difende tutelando il diritto di chi ha molto contro chi non ha nulla».
Le voci «contro» disturbano. Disturba Radio Blackout, sotto sfratto perché «incompatibile» con i progetti di ristrutturazione del Comune (www.radioblackout.org). Disturba il centro di documentazione Porfido (Via Taurino, 12/C), che annoda i fili fra storia e presente.
Disturba un esempio di pratica condivisa e autogestita come l’occupazione di Corso Peschiera realizzata da rifugiati sudanesi, eritrei, etiopi. Un’occupazione che, dal 2008, ha costruito momenti aggregativi tra centri sociali, anarchici e associazioni del privato sociale (dalla Caritas migranti a Emergency).
Anche sulla scia di quell’esperienza, al Gabrio è nata la Microclinica Fatih, un ambulatorio popolare autogestito — spiega Claudio — «dedicato a Fatih, il trentottenne maghrebino, morto nel 2008, dopo aver chiesto invano di essere curato per una intera notte nell’allora Cpt di corso Brunelleschi, oggi Cie».
Il termine Microclinica — aggiunge Viola — «è un piccolo laboratorio di prima accoglienza mutuato dalla resistenza zapatista, un’esperienza dal basso per portare salute a tutti».
Dagli sgomberi del 10 dicembre 2009 prende avvio un’operazione di polizia che, il 12 maggio, porta in carcere sette antagonisti. Quattro posti occupati vengono perquisiti, 16 «solidali» finiscono nel mirino della questura per la resistenza alle cariche durante quegli sgomberi.
Il giorno dopo, una cinquantina di ragazzi compiono un blitz pacifico al Salone del libro. Di fronte allo stand dove il prefetto Paolo Padoin, insieme al procuratore generale Marcello Maddalena e al procuratore Giancarlo Caselli sta presentando il suo libro Il prefetto, questo sconosciuto srotolano lo striscione con la scritta «Tutti liberi» e improvvisano un corteo negli spazi del salone al grido di «libertà». L’ennesimo episodio di «gruppi fuori dalla storia e dalla società», dirà il sottosegretario agli interni Michelino Davico.
E un ampio schieramento di polizia accoglie i manifestanti che, sabato 15 maggio, danno vita nella mattinata a un presidio a Porta Palazzo: un appuntamento inizialmente indetto contro i Centri di identificazione e espulsione (Cie) e le morti in carcere come quella di Stefano Cucchi, e poi esteso alla denuncia degli arresti del 12 maggio.
Intorno all’una il presidio si trasforma in un piccolo corteo che gira per un’ora nel quartiere multietnico. «Fermati un minuto e pensa — megafona un antagonista — uno di questi giorni, il ragazzo che incontri al bar verrà portato in una galera per i “senza documenti”. Con la nuova legge ce lo terranno sino a sei mesi per poi deportarlo in un paese dove non può e non vuole più vivere. Fino a qualche mese fa faceva il muratore…».
La gente si ferma, ascolta. Un vecchio edicolante scuote la testa: «Ma guarda quanta polizia… Speriamo che non partano le manganellate come l’altra volta», dice.
Nel pomeriggio, il presidio si sposta davanti al carcere delle Vallette tra slogan, musica e «interventi di denuncia della violenza poliziesca». E ancora una volta, la Torino dei «solidali» cammina insieme.
Migranti, No tav, Pacchetto sicurezza, sportello legale e per il diritto alla casa, resistenza agli sfratti. «Su questi temi ci si ritrova — dice Chiara dell’Askatasuna — e si fa blocco contro la repressione che cerca di prendersela con chi pratica livelli di resistenza sul territorio e difende spazi sociali nella nostra città».
Terreni comuni in cui si ricostruisce il nuovo volto della Torino solidale.