Gabo e il bloqueo

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Trascrivo qui di seguito tre interi capitoli relativi al  bloqueo tratti dal  libro “Periodismo militante” di Gabriel García Márquez pubblicato nel 1978 e nel quale sono raccolti alcuni suoi reportages dall’America latina, alcuni in particolare proprio da Cuba che insieme a quelli realizzati dall’Angola gli valsero il Premio Mondiale di Giornalismo nel 1977.


Il blocco fu un feroce tentativo di genocidio


Il blocco non fu semplicemente, come credono molti, il taglio del cordone  ombelicale con gli Stati Uniti. Fu un feroce tentativo di genocidio promosso da un potere quasi illimitato i cui tentacoli si estendevano in ogni parte del mondo. Molte industrie di paesi occidentali che tentarono di commerciare con Cuba subirono le rappresaglie degli Stati  Uniti, e alcune, in Inghilterra  e in Spagna, furono da essi comprate per impedire gli scambi. Fino a pochi anni fa una nave della CIA pattugliava le acque territoriali cubane per intercettare i mercantili che trasportavano beni all’ isola accerchiata. La minaccia  permanente di invasioni armate, il sabotaggio sistematico, le provocazioni continue furono per i cubani un motivo di tensione e uno spreco di energie umane molto più grave dell’ assedio  commerciale.

Gli Stati Uniti dissero allora , e dicono, ancora, che il blocco non coinvolgeva i medicinali. Al ministro della salute pubblica, all’ Avana ho visto personalmente le lettere dei laboratori nordamericani che rifiutavano di vendere medicinali per timore di rappresaglie governative. Peggio ancora: quando Cuba propose di liberare i mercenari fatti prigionieri a Playa Girón in cambio di alimenti  per l’ infanzia  e medicinali, Gli Stati Uniti si presero i prigionieri liberati ma non consegnarono mai gran parte dei medicinali. Tuttavia l’aspetto  più infame del blocco fu forse il meno noto: la seduzione di tecnici e professionisti cubani da parte degli Stati Uniti. In un paese  in cui solo le persone di livello sociale ed economico  molto elevato avevano accesso all’istruzione, la gran maggioranza dei tecnici e dei professionisti indipendenti si identificarono con l’ imperialismo, né accettarono le offerte di stipendi favolosi e disertarono il loro paese. Molti si portarono via documenti e segreti vitali.

La medicina fu il campo in cui quella spoliazione umana toccò il più alto livello di criminalità. Dei circa settemila medici che esistevano a Cuba prima della rivoluzione, più della metà  lasciò  il paese, e i pochi che rimasero dovettero affrontare problemi inconsueti. “Non sapevamo neppure  quanta aspirina era necessaria per il mal di testa di tutti gli abitanti”, mi disse uno di loro. Il problema più drammatico era l’insulina  per i diabetici. I cubani commissionarono alla Polonia la quantità ritenuta sufficiente  per un anno, e i polacchi, sbigottiti, risposero che quella cifra copriva  il consumo di insulina di tutta l’ Europa  per dieci anni. Eppure fu quel piccolo gruppo  di medici che tanti fastidi aveva con l’aritmetica a ricostruire da zero la sanità cubana, che oggi sta diventando famosa come una delle più serie e originali del mondo.

Nell’  industria, nelle miniere, nei trasporti, nell’ agricoltura, la situazione era la stessa. Gli operai assunsero i compiti dei loro tecnici fuggitivi, e la produzione non solo fu mantenuta, ma ebbe un incremento immediato e costante. Nelle miniere di nikel si dovettero  ricostruire a memoria i piani di lavorazione e altri documenti vitali che gli yankee si erano portati via. Il vecchio  e simpatico tecnico  della distilleria di rum di Santiago  ci raccontò  che i suoi ex padroni gli avevano offerto una somma fantastica perché  scappasse negli Stati Uniti, non tanto per servirsi  delle sue conoscenze e segreti, quanto per impedire  che se ne servissero i cubani. La sua risposta fu esemplare: “Perché non mi avete offerto questa somma quando mi davate uno stipendio da fame?

In quella situazione una  sola cosa era insostituibile: il petrolio. Se non esistessero altri dati schiaccianti sull’ aiuto fornito dall’Unione  Sovietica  e altri paesi  socialisti alla rivoluzione cubana, basterebbe dire che nessuna attività si interruppe a Cuba per un solo minuto a causa della mancanza di petrolio, benché le petroliere sovietiche dovessero percorrere dodicimila chilometri.


I peggiori ricordi del blocco: chicharos e merluzzo

Condannati a morire di fame, i cubani dovettero reinventarsi dal nulla. Crearono tutta una tecnologia del bisogno, tutta un’economia della penuria, tutta una cultura della solitudine.

Le donne impararono a cucinare in un’altra maniera, secondo i cibi disponibili, e impararono a cucire in un modo nuovo, prelevando i fili dall’orlo della stessa camicia che dovevano rammendare. E prima, nella maggior parte dei casi, avevano dovuto affilare l’ago perché non possedevano che quello da diversi anni. L’età dei bambini era un grave problema domestico: i servizi sociali, che fornivano due vestiti e un paio di scarpe all’anno, non potevano  tener conto della rapidità di crescita.

Non c’era atto della vita quotidiana che non richiedesse uno sforzo particolare di ingegno e di decisione. E un morale molto saldo, perché  la radio e la televisione di Miami mantennero per anni e anni l’assedio costante di una propaganda insidiosa destinata a piegare l’integrità e la dignità dei cubani, e il governo rivoluzionario non poteva impedirlo. In realtà a Cuba basta accendere la radio o la televisione perché entrino di prepotenza i programmi nordamericani. “Figurati” mi diceva qualcuno con sarcasmo, “e hanno ancora il coraggio di dire che siamo un popolo male  informato”. Il tempo aveva assunto un valore diverso . Ci volevano molte più  ore per pensare, e l’insonnia era più  lunga e vuota in quello stato d’assedio paragonabile solo ai grandi silenzi storici delle pestilenze medioevali.

La differenza fondamentale e per capire meglio bisogna conoscere i cubani – e’ che a differenza dei prìncipi e dei pontefici del medio evo i cubani non occuparono il vasto tempo delle loro notti per pensare alla morte, ma che le notti divennero giorni e i mesi divennero anni per  inventare un nuovo modo di vivere e prosperare nel quadro del blocco.

La cosa più sorprendente è  che non ho incontrato nessun cubano che ricordi con rancore questa penuria.  Tutti quanti invece ricordano con orrore  due cose: il merluzzo e i piselli. Il  merluzzo che è  uno dei pesci più  appetitosi d’Europa , e i piselli che i cubani chiamano chicharos, furono per diversi anni la dieta basica imposta dalla  necessità  e rimarranno per sempre nella memoria dei cubani come un simbolo irreparabile dei tempi grami. In realtà  il razionamento alimentare di cui si è  tanto servita la propaganda imperialista, fu sentito più  per la sua monotonia che per il rigore. Ma non c’era troppo da scegliere : si distribuiva ciò  che si trovava e ciò  che si trovò nel mondo durante gli anni più  duri e interminabili del blocco furono i piselli e merluzzo. Nitza Villapol,  una donna straordinaria che non interruppe mail il suo temerario programma di ricette gastronomiche per la televisione, alleviò la noia della tavola con oltre duecento maniere di cucinare il merluzzo, facendolo sembrare pollo o vitello, o inventò  ogni sorta di travestimenti per i piselli. Uno scrittore cubano mangiò per due anni il dolce di batata, il suo dessert favorito, ma smise di mangiarlo quando scoprì per caso che si trattava di un dolce di piselli mascherati da batata.

La carne bovina e ovina naturalmente diventò mitica, non perché ce ne fosse meno di prima, ma perché c’erano sei volte in più persone in grado di mangiarla. Le statistiche dimostrano che già nel 1961, quando cominciò il blocco, si macellava più bestiame che in qualunque anno precedente. Ciò che pesava e che pesa ancora, è  il fatto che prima della rivoluzione mangiavano carne meno di un milione di persone, mentre ora a mangiarla sono otto milioni di persone, due volte alla settimana. Tuttavia il razionamento della carne e’ solo domestico, perché nei ristoranti la si trova sempre.

Dato curioso rispetto alla Colombia, dove tanto si specula sulla penuria dei cubani e dove l’immensa maggioranza degli abitanti soffre del razionamento massiccio e feroce della povertà, e la carne è  vietata due volte la settimana anche per chi ha la possibilità  di mangiare al ristorante. Invece il regime cubano è  tanto rigoroso nell’osservare l’uguaglianza  alimentare, che nelle località più remote della Sierra Maestra, dove non si alleva bestiame e non esistono sistemi di refrigerazione, i rifornitori governativi portano  le vacche vive, e le macellano sul posto prima di distribuirne la carne. Più  rigorosi ancora sono stati i distributori di apparati elettrici, che ci hanno messo due anni prima di accorgersi che li mandavano anche in posti privi di elettricità.


L’importanza politica della minigonna


A non meno di un centinaio di donne in diverse località cubane chiesi in che cosa le avesse colpite di più il blocco. Mi risposero quasi tutte la stessa cosa. “Per le scarpe”. In effetti, com’era accaduto per la carne, il problema delle scarpe fu che il governo rivoluzionario si impose il compito di calzare tutti i cubani senza eccezione, in un paese di contadini indigenti e bambini malarici che vivevano scalzi dalla nascita.

Ora le due cose che più  si notano a Cuba sono l’eguaglianza tra le classi e l’uso generale delle scarpe. Non senza intenzione offrii a mio figlio di pagargli 50 dollari per ogni foto di cubano scalzo; ne trovò  uno solo, ma era sulla spiaggia.

Inoltre le scarpe non sono più razionate e sono distribuite gratis ai bambini a scuola, ed essi hanno l’obbligo di usarle appena imparano  a camminare come prevenzione contro i parassiti.

Persino nei tempi più duri della carenza di abiti e scarpe, le cubane si tolsero lo sfizio di vestirsi alla moda. Perché’ un’altra ammirevole temerità cubana fu di continuare a pubblicare le riviste femminili con le informazioni sulla moda mondiale, e le donne trasformavano gli abiti vecchi secondo le stagioni, e riuscivano sempre a trovare un calzolaio che rialzava il tacco o modificava la punta delle scarpe secondo i dettami parigini. D’altro canto le donne si fabbricavano i cosmetici e le tinture per  capelli, e si facevano le calze, per la dignità di non sembrare da meno delle modelle da rivista.

L’esempio più bello di questa tremenda dignità della povertà si manifesta nelle minigonne delle cubane, che sono le più minime al mondo: strabilianti.

Oggi i cubani parlano di queste cose con una dignità  e un senso dell’umorismo incredibili. Non si lamentano dei loro disagi, ma ridono al ricordo di fantastici errori, come quello di un funzionario che lesse male un catalogo e importò due spazzaneve, e il fenomenale incidente dei fornitori distratti che distribuirono tutte le scarpe sinistre a oriente e tutte le destre a occidente. Tuttavia un coltivatore di tabacco del Pinar del Rio con cui parlavamo di questi pasticci del passato, ci fornì l’opinione più interessante e più realistica: “Prima, io sono vissuto fin dalla nascita come un cane rognoso, cercando di mangiare fra i campi. Invece poi, da quando è cominciato questo cazzo di blocco, mi ha risolto la vita: adesso non mi manca niente”. E concluse ridendo:”Per me, continuino pure”.

E naturalmente  il blocco yankee continua, ma i cubani l’hanno dimenticato, perché l’hanno spezzato loro stessi dall’interno.

A volte lo ricordano scherzando, mentre assaporano il sale della nuova vita cubana, che ha serbato solo il buono della vita precedente: la musica irresistibile e l’eterna voglia di ballarla, i sentimenti esplosivi e il senso dell’ospitalità. Del blocco é rimasto in loro un che di sfiducia e una certa misteriosità nel comportamento, che gli stranieri più stupidi interpretano come silenzio imposto dalla repressione poliziesca, mentre si tratta in realtà di una sorta di complicità nazionale affinché i visitatori non scoprano i  numerosi rammendi che ancora segnano la vita cubana.

M ai buoni sintomi sono schiaccianti. Il giorno in cui arrivai all’Avana c’erano quattordici navi provenienti da ogni parte  del mondo che facevano la coda per entrare un porto. Il giorno in cui partii erano ventidue, e un carico di automobili europee occupava il molo da un estremo all’altro. La città si svegliava a un’epoca  nuova di colori sgargianti, di sale da ballo spalancate, di beffe agli yankee coglioni che si erano fottuti da soli credendo di fotterci.

Era uno stato d’animo collettivo che si manifestava per la strada, dove c’erano tanti innamorati che facevano il comodo loro a qualunque ora, che un turista francese si chiedeva se non fossero stati razionati anche i letti. Nella festa di carnevale celebrata in quella splendida notte di giugno, l’anima dell’Avana esplose d’un ratto in un caos strepitoso. Era la festa totale, di tutti, che ballavano e bevevano birra in strada, con abbondanza di ubriachi che si prendevano a cazzotti, e una donna che scatenò uno scandalo pubblico avendo scoperto il suo uomo a letto con una compagna di fabbrica. Ma in mezzo a quella deflagrazione di umanità, nascosto fra le urla e la musica e i fuochi artificiali, c’era il sintomo definitivo della grandezza e della forza della rivoluzione, l’argomento definitivo contro i suoi detrattori del mondo intero: la polizia incaricata di mantenere l’ordine, signore e signori era disarmata.



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