Intervista a Sandra Ramírez, vedova di Manuel Marulanda Vélez

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“E’ questo rispetto per la donna e la possibilità di progredire come persone, combattenti e professioniste”

di Hernando Calvo Ospina –20 novembre 2012

 

Intervista realizzata da Hernando Calvo Ospina, e pubblicata inizialmente dal quotidiano messicano La Jornada, 10/11/12

Sembra nervosa. E’ la prima volta che concede un’intervista. La incontro a l’Avana. E’ una delle 13 donne che formano il gruppo di 30 persone che, per le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia, FARC, stanno negoziando con il governo colombiano un possibile — e anelato– processo di pace. Con grande semplicità, ma anche con una naturale eleganza, fa parte di quel 40 per cento di donne combattenti. Accompagna le sue parole con i movimenti delle mani e il luccichio dei suoi occhi neri. Si chiama Sandra Ramírez ed è la vedova del leader storico dell’organizzazione guerrigliera, Manuel Marulanda Vélez. Alle mie prime due domande, risponde come se si trattasse di un discorso. Spengo il registratore per ricordarle che non le sto facendo un’intervista: voglio conversare con lei. Allora sorride e rivolge lo sguardo verso qualche luogo lontano, e inizia, con i suoi ricordi lontani e recenti.

“Verso il 1981 nella regione contadina dove vivevo con la mia famiglia iniziarono a transitare dei guerriglieri. Mio padre gli faceva da guida affinché conoscessero la regione. Mi stupì che c’era una donna al comando di quel gruppo. A causa delle condizioni economiche non fu possibile continuare gli studi secondari, e siccome quella donna era diventata un riferimento per me, poco dopo decisi di entrare nelle FARC.

“Mi resi conto che non c’era differenza tra uomini e donne al momento di combattere. Mi sorpresi anche che la lotta fosse contro il maschilismo e per l’uguaglianza di diritti e doveri tra uomini e donne. Non era facile, tenendo in conto che nelle FARC la maggior parte dei combattenti viene dalle campagne dove il maschilismo è più forte, oltre dal fatto che provengono da una società capitalista altamente maschilista. Nelle FARC abbiamo creato dei meccanismi per porvi fine e questa rappresenta una delle nostre battaglie quotidiane a fianco dei compagni. Perché la nostra lotta è per l’uguaglianza dei generi e per il loro benessere.

“E’ questo rispetto per la donna e la possibilità di progredire come persone, combattenti e professioniste, che ha fatto che tante di noi entrassero nelle fila delle FARC. Qui offriamo quello che le condizioni sociali ed economiche del paese non offrono alla stragrande maggioranza delle persone e men che meno alle donne.

“Una donna nelle FARC compie missioni e comanda, perché fin dal suo arrivo viene educata a prendere coscienza della sua condizione di persona e di combattente. Qui una donna può essere medico o infermiera, può prepararsi in informatica, in comunicazione e in ognuna delle nostre specializzazioni. Qui la donna esprime opinioni e propone, le decisioni delle FARC infatti si collettivizzano.

“Ovviamente non ci piace perdere la nostra femminilità. Per questo l’organizzazione ogni mese, quando le condizioni della guerra e le finanze lo permettono, ci fornisce creme per il corpo, smalto per le unghie, maquillage, oltre ad assorbenti igienici e anticoncezionali. Non è raro vedere donne che vanno sui luoghi di combattimento profumate e con i capelli ben ordinati.

“Le relazioni di coppia sono normali come quelle che avvengono a Bogotà o a Madrid. La propaganda mediatica del nemico racconta che noi guerrigliere siamo obbligate a stare sessualmente con i compagni. Questo non è vero. Noi decidiamo liberamente se stare con un compagno, se ci piace. Qui uno si innamora, si disamora e ha delusioni, come in ogni parte del mondo. Le nostre regole interne non incidono sulle coppie, salvo se il comportamento della coppia affetta al gruppo nel caso di continui conflitti.

“Per noi il controllo delle nascite è obbligatorio. Non si può essere guerrigliera e madre, purtroppo. Quando arriviamo accettiamo questa condizione. Non dimentichi che noi facciamo parte di un esercito. Quando c’è una gravidanza, la guerrigliera può scegliere se abortire o uscire dalle FARC e tenere suo figlio.

“Il nemico ci sminuisce per essere donne ma ha anche paura di noi. In generale quando catturano le compagne, le violano, le torturano e sono arrivati perfino a tagliare i seni, a mutilarle. Abbiamo avuto casi atroci. Ci trattano come bottini di guerra. Ci temono perché li affrontiamo da pari, dimostrando che possiamo essere agguerrite in combattimento. Per questo riversano su di noi la loro paura, rabbia ed impotenza quando catturano una compagna. E’ un caso eccezionale quando trattano bene la detenuta.”

Arriva il momento di rivolgerle l’ultima domanda. In quel momento lei cambia voce, le sale un nodo in gola, guarda il pavimento mentre stringe le mani. Prende fiato e risponde, senza lesinare sorrisi maliziosi in alcuni momenti del suo racconto.

“Nel 1983 io avevo 20 anni quando nell’accampamento vidi un uomo con il sombrero, con la pistola alla cintura, un fucile e senza uniforme. Domandai chi fosse. Rimasi di stucco, Il compagno Marulanda era la persona più semplice che lei possa immaginare. Era così con qualsiasi membro della truppa. Non lasciava percepire che era il capo, eravamo voi a vedere in lui l’autorità.

“Io non facevo parte del suo gruppo di sicurezza anche se stavo nell’accampamento del Segretariato, massima rappresentanza della direzione delle FARC. Nel maggio del 1984 mi toccò far parte del gruppo di appoggio che riceveva le commissioni, i politici, i giornalisti e inoltre le altre persone che venivano a La Uribe per discutere sugli accordi di pace che si stavano trattandocon il governo. Un giorno il compagno ebbe un incidente e si fratturò una costola. Come infermiera dovevo dargli le medicine ed applicargli la terapia. Fu durante quei trattamenti che iniziò la nostra relazione affettiva.

“Con lui vissi una relazione assolutamente normale. Io non avevo privilegi per essere la sua compagna, ma lui sí che era molto speciale con me. Ovviamente avevamo discussioni e difficoltà come ogni coppia, ma furono molte di più le gioie. Io lo aiutavo nelle sue responsabilità. Per esempio mi incaricava delle comunicazioni, in altre occasioni facevo da segretaria o gli preparavo i pranzi come piacevano a lui.

“A volte avevamo situazioni molto difficili di sicurezza proprie della guerra e perché lui era l’uomo più ricercato del paese. Molte volte abbiamo avuto l’esercito ben vicino ma lui con la sua calma ed esperienza ha sempre saputo proteggere le sue truppe. Era molto prudente e pianificava tutto. Ridevamo, quando ascoltavamo che lo avevano ucciso, mentre prendevamo il caffè. Perché lo uccisero molte volte.

“Le mie ultime ore con lui? Ancora ho difficoltà a parlare di questa parte della nostra vita di coppia. Ma va bene… Dati i sintomi pensavamo che avesse un problema di gastrite. E quel giorno (26 marzo del 2008 NdA) lo aveva trascorso scrivendo un documento, mentre ascoltava cumbia colombiana. Poi lo accompagnai alla doccia, prese del cioccolato e pensammo che avesse superato il problema. Alle 5 pm cenò quel poco al quale era abituato. Un’ora dopo ricevette le informazioni delle guardie e dette le disposizioni. Mi chiese di accompagnarlo al bagno. Io gli tenni il machete e la cintura con la pistola, cose che non abbandonava mai. Mi disse allora che gli girava la testa. Lo vidi cadere. Lo ressi e iniziai chiamare gli altri che stavano di guardia. Il compagno svenne. Ed è terribile vedere cosi qualcuno che e’ stato così forte. Lo portammo a letto e iniziammo a fargli massaggi cardiaci e respirazioni, ma non fece ritorno. Tutto accadde improvvisamente. Non soffrì, perfino in questo, perse il nemico. Nemmeno in questo gli dette soddisfazione.

“Io mi sentii triste, sola e indifesa, anche se tutta l’organizzazione stava con me”.

Traduzione di Annalisa Melandri – www.annalisamelandri.it

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