Los celos de Alan García
Mi amiga Rosina Valcárcel, reconocida antropóloga, periodista, escritora y poeta de Perú, además de miltante y luchadora , desde tiempo impulsa una campaña en defensa del líder del MRTA (Movimiento Revolucionario Túpac Amaru) Víctor Polay Campos, quien conoce desde tiempo.
Víctor Polay , hijo de Víctor Polay Prisco, fundador del Partido Aprista Peruano, fundó el MRTA en el año 1982.
En 1993 fue condenado a la cadena perpetua por los “jueces sin rostro” de la dictadura fujimorista.
Esa condena fue cancelada por la presión de los organismos internacionale de defensa de los Derechos Humanos.
En marzo de ese año la Corte Suprema de Perú lo ha condenado a 35 años de carcél por terrorismo.
Víctor Polay se encuentra desde 17 años en el penal de maxima seguridad de la Base Naval del Callao, la nueva condena a 35 años por lo tanto equivale a una cadena perpetua.
Rosina Valcárcel, cree que el presidente de Perú, Alan García, nunca dejará salir de la carcél a Víctor Polay por el hecho que el fascinante líder del Movimiento Túpac Amaru en su juventud tuvo una relación amorosa con Pilar Nores antes que esa fuera la esposa del mandatario peruano.
Lo ha declarado en una entrevista al programa radial del periodista César Hildebrandt.
Le strane percezioni di Bruno Vespa
Bruno Vespa a Cortina d’Ampezzo a fine luglio, dal palco del Cortina Incontra dove si trovava per intervistare Renato Brunetta, Ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione, (meglio conosciuto “come ministro castigastatali”), riesce a vedere tra gli 800 presenti all’iniziativa, non solo alcuni fortunati “esponenti della laboriosa e media impresa del Nord” che si possono permettere vacanze a Cortina (e più in generale che si possono permettere vacanze) ma anche “persone medie, statali d’ogni grado e insegnanti”… Tutti lì ad acclamare addirittura con una “standing ovation” il ministro.
Povere persone medie, poveri statali, quanto gli sarà costato di stipendio trascorrere qualche giorno a Cortina? E come ha fatto Vespa a riconoscerli tra il pubblico? Forse erano vestiti male o forse le donne non avevano nasi e tette rifatte? E chissà poi perchè cita gli insegnanti?
Forse perchè li considera più intelligenti e colti dei loro duemila colleghi statali,
che il giorno seguente a Roma dal Campidoglio, scrive, ha visto sfilare fischiando proprio il ministro in una fiaccolata diretti verso il Colosseo?
Non ha dubbi Vespa, quelle duemila persone che hanno sfilato contro il “decreto ammazzastatali” di Brunetta il 28 luglio scorso, erano tutti Fannulloni (con la F maiuscola).
E sicuramente più poveri e sfigati dei loro colleghi che erano in vacanza a Cortina. Vuoi mettere una fiaccolata con il caldo del 29 luglio a Roma e il PalaLexus a Cortina magari anche con l’aria condizionata a palla?
Yo apoyo a Evo
Auguri a me!
Se necesita reparador de sueños…
conozco muy buenos reparadores de sueños en México, así que preparen las herramientas que nunca se sabe…
La vera storia di Ramón il terrorista che Omero Ciai ha nascosto ai lettori di Repubblica
Raúl Reyes a Fiumicino con la moglie Olga Marín ed altri leader FARC
Due articoli apparsi uno il 27 luglio sul sito di Radio Caracol e uno due giorni fa sull’edizione online del quotidiano El Tiempo, dichiarano che le autorità colombiane sono a conoscenza dei nomi, saltati fuori dal computer di Raúl Reyes, dei presunti “fiancheggiatori” delle FARC in Europa e che tali informazioni sarebbero state già trasmesse ai governi dei paesi interessati.
Anche l’Italia figura fra questi, il sito di Radio Caracol fa infatti riferimento a un certo “Ramón”, mentre quello di El Tiempo cita due persone che usano gli “alias” di Ramón e “Consolo” e “le cui identità sarebbero già note”.
In Italia la stessa notizia è stata ripresa ieri dal quotidiano La Repubblica a firma del suo latinoamericanista Omero Ciai, che in un ignobile articolo dal titolo “Ecco chi aiuta le FARC dall’Italia”, scrive: “degli Italiani si conoscono solo i “nomi di battaglia” estratti dal computer di Reyes (“Ramon” e “Consolo”) ma, sempre secondo El Tiempo, la polizia italiana ne conosce la vera identità e l’ha già comunicata ai colombiani”.
Si lascia sfuggire una grande occasione Omero Ciai, quella di fare il suo mestiere come andrebbe fatto, e cioè usando la curiosità ma soprattutto la conoscenza dell’argomento trattato, per riportare una notizia in modo corretto e onesto.
Per chi fosse infatti appena dentro le vicende colombiane (come dovrebbe esserlo il latinoamericanista di un grande quotidiano nazionale) non era difficile immaginare che “Ramón” e “Consolo” non erano affatto degli “alias” come riporta El Tiempo e tanto meno dei “nomi di battaglia” come inventa Omero Ciai colorando il suo articolo con un tocco di fantasia.
Ramón e Consolo sono in realtà Ramón Mantovani e Marco Consolo, il primo ex parlamentare del Partito di Rifondazione Comunista, il secondo dirigente del gruppo, da anni impegnati per il raggiungimento di un accordo di pace nel conflitto che da circa mezzo secolo insanguina la Colombia.
Chi segue le vicende colombiane sa benissimo che sia Ramón Mantovani che Marco Consolo con Raúl Reyes e sua moglie Olga Marín ( figlia di Tirofijo) intrattenevano rapporti di amicizia oltre che di collaborazione in virtù di uno scambio di prigionieri tra le FARC e il governo colombiano. Raúl Reyes e sua moglie vennero in Italia invitati da Rifondazione Comunista una prima volta nel 1997 e in quell’occasione furono ricevuti anche dalla Farnesina. “Noi facemmo in modo che venissero ricevuti dalla Farnesina. Era utile che il governo italiano conoscesse le intenzioni delle FARC circa un eventuale processo di pace. Venne deciso che FARC e governo italiano avrebbero intrattenuto una relazione stabile presso l’ambasciata italiana in un paese terzo”. Questo scriveva Ramón Mantovani in un suo articolo pubblicato il 6 marzo scorso su Liberazione, appena tre giorni dopo la morte di Raúl Reyes, avvenuta in seguito ad un’ incursione illegale in territorio ecuadoriano da parte dell’esercito colombiano, nella quale morirono oltre a lui e sua moglie, altre venti persone.
Quell’incontro tra il governo italiano e quello che era il portavoce delle FARC portò alla liberazione unilaterale di un prigioniero che si trovava nelle mani della guerriglia colombiana.
Successivamente Reyes ebbe modo di incontrare, grazie alla mediazione di Ramón Mantovani, anche la Commissione Esteri della Camera dei Deputati e la Segreteria di Stato Vaticana, mentre numerosi furono i viaggi dei due politici italiani in Colombia organizzati e attuati completamente alla luce del sole e in accordo con l’ambasciata italiana a Bogotá, come gli stessi Mantovani e Consolo hanno reso noto in una conferenza stampa realizzata oggi stesso presso la sede di Rifondazione Comunista di Via del Policlinico a Roma.
Raú Reyes, e questo Omero Ciai dovrebbe saperlo, in qualità di “ministro degli Esteri” delle Farc ha sempre viaggiato tantissimo, ha incontrato politici e intellettuali in vari paesi europei e li ha ricevuti nella sua tenda in Colombia nella selva. Incontri volti esclusivamente al raggiungimento di accordi di pace tra le parti di quella che forse è una delle guerre civili più lunghe ancora in corso. Quando il dialogo e gli accordi di pace erano ancora ipotizzabili forse in una Colombia sì martoriata ma non ancora messa nelle mani armate della politica di sicurezza democratica di Álvaro Uribe. Incontri pubblici come quando nel 2000 in Spagna Reyes fu invitato e ricevuto con tutti gli onori insieme all’Alto Commissario colombiano per la Pace Víctor Ricardo, come dimostra la foto,dall’allora dirigente del Partido Popular e presidente della Generalidad Valenciana, Eduardo Zaplana.
Temendo la possibilità di un riaccendersi del dibattito circa il conferimento dello status di belligeranza alle FARC, Álvaro Uribe nel mese di gennaio di quest’anno, ha organizzato un viaggio in Europa per sferrare un’ “offensiva diplomatica” alla guerriglia colombiana, incontrando alcuni capi di stato europei e denunciando il “carattere terrorista” delle FARC e dell’ELN, l’atro gruppo ribelle che combatte da anni in Colombia e richiamando l’attenzione dei suoi omologhi sui presunti “legami internazionali”delle FARC.
Si è prestato bene quindi alla politica del governo colombiano il nostro latinoamericanista.
Dopo i combattenti Ramon e Consolo, tira in ballo nel suo articolo anche l’Associazione Nuova Colombia, colpevole di organizzare pubblicamente dibattiti e cene.
In conclusione del suo articolo un fugace riferimento alla “relazione, citata dal procuratore Pietro Grasso, tra alcune organizzazioni criminali italiane legate alla camorra e alla ‘ndrangheta e le Farc”. Ricordiamo a Omero Ciai che l’esempio più noto di vincolo tra ‘ndrangheta e Colombia è rappresentato da quel Salvatore Mancuso, capo indiscusso delle Auc, Autodefensas Unidas de Colombia, gruppo paramilitare di estrema destra, estradato negli Stati Uniti poco tempo fa perchè in Colombia stava parlando troppo sui vincoli tra potere politico e paramilitarismo e il cui computer a differenza di quello di Reyes, recuperato intatto dopo un bombardamento aereo, è invece “sparito” dalla sua cella prima del suo trasferimento all’aeroporto.
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Leggi anche:
Il ponte dell’11 settembre — un saggio di Antonio Mazzeo
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Pubblico qui di seguito un saggio dello scrittore e giornalista Antonio Mazzeo sui presunti finanziatori arabi del Ponte sullo Stretto si Messina, e i loro collegamenti con i traffici d’armi internazionali e l’attentato alle Torri Gemelle di New York ‘ l’11 settembre 2001.
IL PONTE DELL’11 SETTEMBRE
di Antonio Mazzeo
Non ci sarebbe stata solo la mafia italoamericana a volere investire milioni di euro per la realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina. Stando alle indagini della Procura di Roma, una parte dei soldi potrebbe essere stata promessa da misteriosi finanziatori arabi. Giuseppe Zappia, l’ingegnere accusato di associazione mafiosa per i lavori del Ponte, ha rivelato l’identità di uno di essi. Si tratterebbe di uno dei congiunti della casa reale dell’Arabia Saudita. Spuntano così pericolosi trafficanti d’armi e agenti segreti, faccendieri e terroristi internazionali. E il sogno del Ponte s’incrocia con le indagati per gli attentati alle Torre Gemelli di New York, l’11 settembre del 2001…
Dal Canada allo Stretto di Messina via Arabia Saudita[1]
Non ci sarebbe stato solo il boss italo-canadese Vito Rizzuto, fedele alleato del clan dei Cuntrera-Caruana, ad aver dato l’assalto al Ponte sullo Stretto di Messina. Tra le carte dell’inchiesta denominata “Brooklin” coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Roma, che ha individuato l’operazione di Cosa Nostra per riciclare cinque miliardi di euro nella realizzazione del Ponte, c’è pure una pista parallela che porta direttamente in Arabia Saudita.
L’ingegnere Giuseppe “Joseph” Zappia, sotto processo con l’accusa di aver fatto da prestanome delle cosche italocanadesi e che aveva partecipato alla gara di pre-qualifica per la progettazione definitiva e la realizzazione del Ponte, si è difeso dando un volto differente ai suoi presunti finanziatori. “Non avevo né ho bisogno del finanziamento della mafia italo-canadese per costruire il ponte sullo Stretto di Messina”, ha dichiarato l’anziano professionista all’Ansa nel febbraio 2005. “Avevo altri canali perfettamente leciti che nulla hanno a che fare con la presunta organizzazione. E si tratta di finanziamenti che vengono da canali bancari italiani di istituti di primaria grandezza, ma anche di finanziamenti di aristocratici arabi”.[2]
Il Ponte con i dollari del petrolio dunque, anche se per i magistrati romani, la plausibile figura di un finanziatore arabo non esclude la “contestuale presenza di interessi mafiosi”. Le indagini hanno evidenziato infatti la spola tra Canada e Arabia Saudita di alcuni faccendieri vicini a Giuseppe Zappia e al boss Vito Rizzuto, i quali avrebbero intrecciato inquietanti relazioni con sovrani mediorientali e i manager di alcune delle maggiori società di costruzione in corsa per il Ponte sullo Stretto.
Sulla provenienza mediorientale dei soldi destinati al Ponte, il professionista originario di Oppido Mamertina ha rilasciato un’intervista fiume al quotidiano on-line L’Opinione diretto da Paolo Pillitteri, cognato del leader socialista Bettino Craxi e padre del legale presso cui ha sede la Zappia International (società partecipante alla prima fase della gara per il general contractor)[3]: “Ho conosciuto a Roma nel 2003 il signor Sivalingam Sivabavanandan, cittadino cingalese; gli ho espresso interesse nel partecipare al progetto per il Ponte di Messina, ed ho richiesto potenziali investimenti da parte del Regno dell’Arabia Saudita”. Giuseppe Zappia ha aggiunto di essere entrato in relazione a fine 2004 con una società di Ryadh, la Tatweer International Investment Company, operante nei settori dell’edilizia, dell’industria, delle telecomunicazioni, dei servizi medici e delle nuove tecnologie, e di avere incaricato l’avvocato Carlo Dalla Vedova a recarsi in Arabia Saudita per formalizzare l’accordo. “Il legale tornava a Riyadh all’inizio 2005, e con una delegazione perfezionava la proposta”, ha dichiarato l’ingegnere. “Gli arabi si impegnavano a finanziare integralmente il progetto, con piena garanzia del governo italiano per la restituzione entro 30 anni dell’investimento con un appropriato interesse”.
Giuseppe Zappia ha consegnato ai magistrati copia dell’affidavit sottoscritto con la società araba. “Il progetto che abbiamo preparato con la Tatweer International è basato su un programma “BOT”, ossia “Build own Transfer””, ha dichiarato Zappia a L’Opinione. Dietro la criptica formula lo schema classico di project financing con cui viene messa a gara la concessione di costruzione (build) e gestione (operate, own) di un’opera, con diritto di utilizzo commerciale limitato a un periodo di tempo determinato, e con obbligo finale di trasferire (transfer) al soggetto pubblico concedente il possesso delle opere o di rinnovare la concessione di gestione. “Naturalmente, le condizioni perché il “BOT” possa essere applicato riguardano soprattutto la capacità dell’infrastruttura di produrre redditi tali da poter remunerare l’investimento, quindi è necessario che l’opera pubblica produca servizi vendibili e un reddito”, ha chiarito il professionista. Il gruppo arabo-canadese ha un modello da imitare, quello già utilizzato per il tunnel della Manica. “In quell’occasione – è ancora Zappia a ricordarlo — dopo una lunghissima gestazione dell’assemblaggio del pacchetto finanziario, a fronte di quattro miliardi di sterline di crediti, venne raccolto un miliardo di sterline di capitale di rischio”.[4] Stranamente l’ingegnere sembra ignorare il flop finanziario generato dall’Eurotunnel: dopo essere costato ai privati quattordici miliardi di euro e, indirettamente, ai poteri pubblici altri venti miliardi, a fine 2003 aveva accumulato nove miliardi di debiti. Al punto che la direzione generale ha dovuto minacciare il fallimento della società nel caso in cui venissero a mancare ulteriori finanziamenti pubblici a copertura del deficit.[5]
Il gruppo Zappia si sarebbe dichiarato disponibile a mettere i capitali necessari per fare il Ponte, “senza alcun costo diretto od indiretto per il contribuente italiano”. Quasi un regalo ai siciliani per vincere il loro atavico isolamento dall’Europa che conta. “Ma inizio a credere che insistano in Italia poteri anti-italiani, che remano contro gli interessi del paese e, purtroppo, sono più forti di coloro che lavorano per costruire l’Italia migliore, quella del benessere e del lavoro”,[6] è stato però l’amaro commento dell’ingegnere Zappia dopo l’arresto per associazione mafiosa accanto al boss don Vito Rizzuto.
Il Principe Bin d’Arabia
Il nome del magnanimo saudita pronto a investire sì tanto denaro attraverso la Tatweer International Company è rimasto nell’ombra per un po’ di tempo, sino a quando non è stato rivelato da Giuseppe Zappia a Il Giornale di casa Fininvest, il 2 febbraio 2006. Si sarebbe trattato, niente poco di meno che, del principe Bin Nawaf Bin Abdulaziz Al Saud, uno dei nipoti di re Fahd d’Arabia. Un colpo da teatro alla vigilia del processo che lo vede imputato accanto ad uno dei più spietati mafiosi d’oltreoceano? No, Zappia non avrebbe bleffato. Anche i reali sauditi avrebbero perso la testa per l’affare del secolo.
Come il principe Bin Nawaf Bin Abdulaziz, un altro sovrano di un petrostato si era dichiarato nel 1998 disponibilissimo a finanziare la realizzazione del Ponte. “Ma lo sa che ci hanno già contattato delegazioni americane e giapponesi, per non parlare del sultano del Brunei, che sarebbe interessato a entrare nell’affare?”, dichiarava ad un periodico l’ingegnere Fortunato Covelli, funzionario della società Stretto di Messina.[7] Uno degli uomini più ricchi della terra, capo del governo, ministro della difesa, delle finanze, comandante supremo delle forze armate, guida dell’Islam, capo della polizia e dei servizi segreti del minuscolo paese incastonato nell’isola del Borneo, il sultano Haji Hassanal Bolkiah è noto per essere stato uno dei cofinanziatori della Contra in Nicaragua e per i suoi stravaganti e costosissimi acquisti in mezzo mondo. Recentemente ha offerto più di 800 milioni di euro per realizzare all’Acqua Vergine di Roma, zona Prenestrina, un parco divertimenti di 150 ettari interamente dedicato alla città sumera di Agarta. Al progetto sarebbero pure interessati l’ex segretario generale dell’Onu Perez de Cuellar, l’ex ministro democristiano Vincenzo Scotti, l’ex ragioniere generale dello Stato Andrea Monorchio, e il presidente dell’Unione industriali del Lazio, Giancarlo Elia Valori.[8] Nel 1996, Haji Hassanal Bolkiah aveva pure tentato di acquistare la principesca villa Certosa che il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi possiede in Sardegna. L’operazione vedeva pure protagonisti, accanto al sultano, i principi sauditi Mohamed Faruok e Mahdi (congiunti di Abdoullah Sultan, fratellastro di re Fahd), ma sfumò perché gli acquirenti s’infastidirono per l’eccessiva attenzione dei mass media alla trattativa. Berlusconi aveva acquistato Villa Certosa a fine anni ’80 per poco più di tre miliardi di lire dal faccendiere Flavio Carboni.
Per riscuotere dall’emiro
Stando alle risultanze dell’inchiesta dei magistrati romani sulla “Mafia del Ponte”, il denaro necessario per concorrere all’esecuzione dei lavori nello Stretto sarebbe dovuto arrivare anche dalla riscossione di una ingente somma di denaro in Medio oriente da parte dell’ingegnere Giuseppe Zappia e di alcuni associati di don Vito Rizzuto. Il professionista aspirava ad entrare in possesso di un miliardo e settecento milioni di dollari corrispondenti al valore di alcuni lavori realizzati ad Abu Dhabi dalla ZMEC — Zappia Middle East Company Ltd., società costituita nel protettorato britannico (e paradiso fiscale) delle Isole Vergini. Nel piccolo emirato arabo, tra il 1979 e il 1982, mister Zappia aveva progettato un acquedotto di oltre quattrocento chilometri ed ottenuto ben otto contratti di costruzioni civili. Sorsero però dei contrasti con gli enti committenti e la vicenda finì davanti ad un tribunale civile degli Stati Uniti d’America.
Secondo quanto dichiarato dallo stesso Zappia, ottenute le commesse e avviati i lavori ad Abu Dhabi, intorno alla metà del 1982, la ZMEC si vide prima ritardare il pagamento di una tranche, poi subire il blocco dei restanti pagamenti, nonostante la società avesse eseguito lavori “al di là di quelli specificati in contratto”. Per rimanere solvibile, Zappia fu costretto a farsi prestare del denaro dalla Emirates Commercial Bank con condizioni particolarmente sfavorevoli.
Il 10 gennaio 1983 l’ingegnere sottoscrisse un accordo con l’istituto bancario che prevedeva la sostituzione della ZMEC con un’altra società di costruzioni, la Bovis International Limited. “Ho dovuto sottoscrivere quest’accordo perchè mi minacciarono di mettermi in prigione”, ha dichiarato Giuseppe Zappia. “Mi costrinsero a consegnare il passaporto al Ministero degli Interni di Abu Dhabi. Riuscii ad ottenerlo indietro solo alcuni mesi più tardi”. Una decina di giorni dopo la firma dell’accordo, la Emirates Commercial Bank ottenne da Sheikh Kalifa bin Zayed Al Nahyan (emiro e presidente del consiglio esecutivo di Abu Dhabi), l’autorizzazione a prorogare i tempi dei lavori a favore della società che aveva sostituto la Zappia Company.
Nel luglio 1985 l’istituto ed altre due banche dell’emirato furono ricapitalizzate e si fusero nell’Abu Dhabi Commercial Bank. La Bovis International concluse i progetti pendenti e vendette le attrezzature che, a dire di Giuseppe Zappia, erano nella titolarità della ZMEC. Dopo aver chiesto inutilmente alle autorità dell’emirato un congruo rimborso per i beni di cui si sarebbero “ingiustamente impossessati”, nel 1994 l’ingegnere citò di fronte alla giustizia americana l’Abu Dhabi Commercial Bank e l’Abu Dhabi Investment Authority, ente d’investimento interamente in mano all’emiro Sheikh Kalifa bin Zayed Al Nahyan.[9] I documenti prodotti dai legali di Zappia non dimostrarono tuttavia il controllo diretto dell’emiro o della famiglia reale sulla banca commerciale di Abu Dhabi, ed il giudice distrettuale rigettò il ricorso. Nel giugno del 2000 arrivò per l’italo-canadese una sentenza d’appello altrettanto sfavorevole. “Non ci sono elementi per dimostrare un sufficiente livello di cointeressenza tra la banca privata ed il sovrano, né che questi abbia abusato della propria autorità sulla società”, dichiarò la Corte d’Appello.[10]
A questo punto, per ottenere il risarcimento, Giuseppe Zappia contattò il generale in capo dell’esercito USA ad Abu Dhabi ed alcune delle maggiori autorità arabe, tra cui il sovrano del Marocco, il presidente siriano, il re di Giordania e il leader palestinese Yasser Arafat. Gli scarsi successi ottenuti con l’opera d’intermediazione degli illustri conoscenti, costrinsero Zappia ad affidare la questione al franco-algerino Hakim Hammoudi, personaggio che per conto del boss Vito Rizzuto stava seguendo alcuni affari della “famiglia” in vari paesi europei e mediorientali.
Hammoudi si lanciò con energia nel tentativo di riscossione del credito, convinto di poterne ricavare una soddisfacente provvigione. Per accreditarsi ad Abu Dhabi, Hammoudi si raccomandò ad un misterioso “principe” dell’Arabia Saudita, forse lo stesso che si sarebbe offerto a finanziare una parte del progetto di realizzazione del Ponte sullo Stretto.
“Domani, lo incontrerò il principe, sono due che vengono, il principe che è più forte e le Cher”, comunicò telefonicamente il mediatore franco-algerino al boss mafioso Rizzato, il 29 ottobre 2002. “In Arabia Saudita in ordine di importanza, di ruolo, di gerarchia viene prima il principe e poi le Cher. Sì, va tutto molto bene lì, e anche riguardo al Ponte, il principe ha intenzione di investire, tutti metteranno qualcosa, dei soldi”.[11] Replicò Vito Rizzuto: “Sì, ma a noi interessa principalmente tutto ciò ruota intorno a Zappia, a Giuseppe!”. Hammoudi: “Lui è il primo, ciò è ufficiale, Zappia sta al primo posto, si lavora con lui, molto a stretto contatto. Stasera lo sentirò. Siamo già d’accordo e dopo aver affrontato e sistemato i tre punti principali, è fondamentale che il principe intervenga. Ci sarà una conferenza, si parlerà anche con Sullavan, finalmente si potrà fare tutto ciò di cui lui ha bisogno. C’è pure un dispositivo, un meccanismo per parlare con Siyad. Ci sarà qualcuno domani che verrà a raccogliere tutti i documenti necessari per Sivabavanandan, per l’Arabia Saudita”.
Nove mesi più tardi, la riscossione del credito vantato da Zappia ad Abu Dhabi sembrava essere in dirittura d’arrivo. In un colloquio con il suo stretto collaboratore Filippo Ranieri, l’ingegnere italocanadese veniva a sapere che la sera precedente il faccendiere cingalese e Vito Rizzuto si erano incontrati a Montreal. “Sivabavandan ha potuto raccontare a Vito che tutto è al suo posto e gli ha detto che sta aspettando dei documenti da parte tua. E gli ha detto che i primi 100 milioni sono Ok”, affermò Ranieri. “Ma Sivabavandan gli ha detto che il Principe sta cercando di produrre degli interessi su questa somma. Sta aspettando solo la chiamata e adesso è fatto. E l’altro gli ha detto che è perfetto, ma non deve prendere ulteriore tempo di quello stabilito”. Giuseppe Zappia era tuttavia perplesso: “Ha ragione, ha ragione… Adesso se ci danno 100 milioni di dollari e poi prendono tutto il loro tempo per pagare questi 100 milioni, con tutte le spese che abbiamo affrontato, non ci rimarrà molto. Un terzo se ne va per il Principe e con il resto bisognerà fare il giro del gruppo”.
Sì, erano proprio pochi cento milioni di dollari. Ma c’era la speranza, comune, di strappare presto una cifra maggiore. Il 19 luglio 2003, Zappia colloquiò telefonicamente direttamente con Vito Rizzuto ed Hakim Hammoudi. “Penso che stiamo arrivando alla fine adesso, o no?!”, domandò Rizzuto. “Comunque loro, da come la vedo io, vogliono dare qualche cosa ma non è abbastanza. Vediamo se possiamo prendere di più”.
Tra corsari e governatori
Intanto anche a Messina alcuni chiacchierati imprenditori in odor di mafia e politici più o meno in declino puntavano a sedere al grande banchetto all’ombra dei lavori per la costruzione del Ponte. Ad alcuni di essi ci ha pensato la Procura di Reggio Calabria a mettere i bastoni tra le ruote, con un’articolata indagine sulle loro presunte scorribande finanziarie in mezzo mondo. Gioco d’azzardo il nome in codice dell’operazione che nella primavera del 2005 ha fatto scattare decine di avvisi di garanzia, mettendo a nudo i cattivi affari di una classe politica ed economica che, partita dallo Stretto di Messina, è giunta ad acquisire la gestione e il controllo di attività commerciali a livello internazionale (innanzitutto hotel e casinò) e numerosi appalti pubblici e privati.[12]
Uno dei principali indagati di Gioco d’azzardo opera da tempo immemorabile nell’isola di Sint Maarten (Antille olandesi). Nato a Santa Teresa Riva (Messina), nutre anch’egli il sogno di vedere realizzata nelle acque dello Stretto, l’“Ottava Meraviglia del Mondo”. Rosario Spadaro, don “Saro” per gli amici, ha diretto buona parte delle attività turistico-alberghiere e il gioco d’azzardo di Sint Maarten. Spadaro è stato pure attivissimo in altre isole dei Caraibi. Si è pure introdotto in Venezuela per programmare insediamenti turistici ed operare nel mercato dei prodotti petroliferi. Una frenetica attività a 360 gradi che lo ha condotto a mietere successi finanziari in lungo ed in largo, ma con un cruccio o meglio, un “desiderio insoddisfatto”, come dirà ad un giornalista della Gazzetta del Sud che lo raggiunge nelle Antille. Quello di non riuscire a portare a termine la realizzazione di un complesso immobiliare su uno dei terreni che possiede nella fascia ionica del messinese. “Ho comprato per la mia vecchiaia una grande fattoria in Canada, un posto dove non userò il telefono tranne che per fatti urgentissimi, ma in definitiva preferirei poter invecchiare nei luoghi dove sono nato”, ha spiegato il finanziere. “Quasi venti anni addietro ho programmato ad Alì Terme la costruzione di un insediamento turistico con porticciolo e impianti sportivi. Un’isola nell’isola. Sono passati vent’anni e niente si è mosso. Recentemente ho fatto vedere a mio figlio il progetto e l’ho portato con me a parlare dal sindaco. L’ho fatto per impegnarlo, perché sono convinto che io non riuscirò a realizzare questo mio sogno. Badi bene, non è una speculazione ma un sogno e voglio che almeno quando sarò morto mio figlio continui a tentare. Sono convinto che Alì potrà avere un grande futuro turistico nel momento in cui, tra l’altro, verrà costruito il Ponte sullo Stretto, un’opera che avrà una grande ricaduta turistica su tutta l’isola”.[13]
Eravamo nel luglio del 1991 e la costruzione dell’infrastruttura tra le sponde di Calabria e Sicilia sembrava proprio una chimera. Lo scoppio di Tangentopoli con l’effimera ondata di arresti che colpì la cupola dei Signori delle Grandi Opere raffreddò ulteriormente l’ardore dei pontisti. Bisognava attendere i governi di centrosinistra Prodi-D’Alema-Amato perché l’idea-sogno prendesse forma e sostanza. Su richiesta del CIPE, il 19 febbraio 1999, il presidente del Consiglio Massimo D’Alema firmava una delibera con cui si procedeva alla nomina di due advisor internazionali (le associazioni di imprese Steinman International — Gruppo Parsons Transportation Group; e PricewaterhouseCoopers Consulting, Preicewaters Coopers UK, Sintra Srl, Net Engineering Spa e Certet-Bocconi) per la valutazione degli aspetti finanziari e ingegneristici dell’opera. Il costo dei due approfondimenti pesò sui conti pubblici per circa sette miliardi di vecchie lire, ma ne valse la pena, perché alla fine gli advisor certificarono la “fattibilità” del Ponte.
Ripartirono stime e progetti e il nuovo corso pro-Ponte conquistò l’attenzione dei mass media di regime e di certa imprenditoria assetata di commesse. Ovviamente ripresero con slancio e determinazione anche i piani di sviluppo turistico di Saro Spadaro & soci. L’8 dicembre 1999 l’imprenditore rientrò in Italia in compagnia dell’avvocato catanese, Giovanni Cavallaro. Obiettivo del viaggio quello di fissare una strategia finanziaria per realizzare, finalmente, un complesso termale nei terreni di Alì Terme. Fu costituita una piccola società, l’Alì 2000 Srl, strettamente collegata alla Resort of the World N.V., la cassaforte finanziaria del signore delle Antille. Per l’investimento venne fissato un impegno finanziario di ottanta miliardi di lire, sfruttando l’opportunità offerta dalla legge 488/92 sui cosiddetti “Patti territoriali”, nel cui ambito è possibile ottenere, per l’attuazione di iniziative dirette allo sviluppo economico di determinate aree del Paese, un finanziamento pubblico a fondo perduto pari a circa il 65% delle spese sostenute. A certificare “solidità” e “solvibilità” della società di Saro Spadaro, condizioni indispensabili perché il progetto termale fosse inserito nella graduatoria regionale, la Bank of Nova Scotia di Toronto.[14]
Nel settembre 2001 il programma fu ammesso a ricevere il contributo pubblico di sedici miliardi di vecchie lire, il terzo maggiore importo stanziato in ambito regionale. Archiviato con successo il capitolo terme, l’imprenditore si lanciava nell’affare porticcioli turistici, puntando alla realizzazione di due infrastrutture, la prima ad Alì Terme e la seconda a Sant’Alessio Siculo, comune quest’ultimo, dove sono in attesa di approvazione nuovi insediamenti immobiliari di Rosario Spadaro.
Campione dell’11 settembre
Gli altri due principali indagati dell’inchiesta Gioco d’azzardo sono i politici-imprenditori Salvatore Siracusano (assessore comunale Dc ai servizi anagrafici del Comune di Messina dal 1977 al 1985) e l’on. Santino Pagano, altro uomo di punta della balena bianca peloritana, parlamentare della Democrazia Cristiana, del Ccd e dell’Udeur, già sottosegretario al Tesoro nell’ultimo governo di Giuliano Amato.
In una prima fase delle indagini, era stato attenzionato pure l’architetto Alfio Balsamo, che avrebbe messo la propria competenza professionale a disposizione dei due costruttori Siracusano e Pagano (il professionista di origine catanese è stato tuttavia prosciolto dal Gip di Reggio Calabria nell’ottobre 2007). Già assessore ai lavori pubblici del comune di Campione d’Italia ed interessato alla gestione del locale casinò, titolare della Inarc Proget con sede in Lugano, Alfio Balsamo è un potente esponente politico del Nuovo Partito Socialista, legato a Gianni De Michelis e Nanni Ricevuto, quest’ultimo per breve tempo sottosegretario alle Infrastrutture del governo Berlusconi, con delega alla realizzazione del Ponte, ed odierno presidente della Provincia regionale di Messina.
A Campione d’Italia avrebbe operato contestualmente Youssef Mustafa Nada, un banchiere di origine araba ma residente nel Canton Ticino, titolare con Albert “Ahmed” Huber (cittadino svizzero convertitosi all’Islam, conosciuto per i suoi vincoli con la Germania nazista) della società finanziaria Al Taqwa (Timore a Dio), ribattezzata il 5 marzo del 2001 “Nada Management”.[15]
L’uomo d’affari è noto alle polizie di mezzo mondo che indagano sui presunti finanziatori della rete occulta del terrorismo di matrice fondamentalista islamica, a seguito degli attentati alle Torri Gemelle di New York, l’11 settembre 2001. Appena sei giorni dopo l’attacco mortale di Al Qaeda, il quotidiano di Zurigo Blick aveva riportato le dichiarazioni del capo dei servizi d’informazione svizzeri, in merito ad un possibile legame dell’impresa finanziaria Al Taqwa con Osama bin Laden. Sempre secondo il quotidiano elvetico, uno dei membri del consiglio d’amministrazione della Al Taqwa di Lugano (filiale della finanziaria Taqwa con sede a Panama), avrebbe ammesso di avere incontrato durante una conferenza religiosa a Beirut persone vicine al leader islamico. Il 21 settembre 2001 era The Wall Street Journal ad asserire che la società Al Taqwa era sotto indagine per presunti legami con la Fratellanza musulmana, un gruppo fondamentalista fortemente radicato in Algeria, Egitto, Giordania, Libano e Yemen, sospettato di essere entrato nell’orbita di Al Qaeda.[16]
Youssef Moustafa Nada, il 7 novembre 2001, veniva fermato dalla polizia di Lugano, condotto per un interrogatorio al Palazzo di giustizia e infine rilasciato. Contemporaneamente a Campione d’Italia, su rogatoria dell’autorità elvetica, veniva perquisita la villa di sua proprietà. Nonostante non venissero riscontrati elementi sufficienti a formalizzarne l’imputazione per reati connessi al terrorismo internazionale, il nome del finanziere veniva inserito nell’elenco predisposto dalle Nazioni Unite relativo alle organizzazioni ed alle persone sospettate di terrorismo per cui si chiedeva l’applicazione di speciali sanzioni come il divieto di viaggiare e il blocco dei beni. Nella speciale lista nera finiva pure il direttore di Al Taqwa, Ahmed Idris Nasredin. Si apprendeva infine che i servizi segreti di Washington avevano ipotizzato sin dalla primavera del 2001 che alcune società di Nada potevano essere state coinvolte nella raccolta di fondi in Kuwait e negli Emirati Arabi Uniti da destinare alla rete di Osama bin Laden e di Hamas, l’organizzazione politico-religiosa e militare attiva a Gaza e in Cisgiordania. L’elenco era lungo: Al Taqwa Prade, Property and Industry Company Ltd, poi Waldenberg AG (sede a Vaduz, Liechtenstein e Campione d’Italia); Bank Al-Taqwa Ltd.; Nada Management Organization (alias Al Taqwa Management Organization SA); Youssef M. Nada & Co. Gesellscaft M.B.H.. Le società finivano tutte nella “Terrorist Exclusion List”, pubblicata nel febbraio 2003 dal governo statunitense per impedire agli “individui appartenenti alle organizzazioni designate e ai loro fiancheggiatori” di entrare nel territorio americano ed espellerli nel caso in cui vi avessero già messo piede.[17]
Ma cosa sapevano del finanziere Nada i siciliani in missione a Campione d’Italia? In mano alla Direzione Investigativa Antimafia c’è la trascrizione di una conversazione intercettata il 26 settembre 2001, durante la quale Salvatore Siracusano ed Alfio Balsamo commentavano un articolo apparso qualche giorno prima sul Corriere della Sera, relativo alle indagini in Svizzera sui presunti legami tra Al Taqwa e l’organizzazione facente capo a bin Laden. Nel corso della telefonata Siracusano rivelava di conoscere l’intenzione di Nada di “aprire una banca a Nassau dieci anni prima”, la nazionalità “siriana” della moglie di costui e la “presenza nella sua villa di sofisticati sistemi di sicurezza”. Il 7 novembre successivo, Siracusano, in compagnia di Santino Pagano, comunicava a Balsamo di aver visto in televisione il servizio relativo all’arresto di Nada. “Noi, i bigliettini di visita li abbiamo strappati tutti”, aggiungeva il costruttore messinese, invitando Balsamo a fare la stessa cosa.
Il 13 novembre 2001 lo stesso Siracusano riceveva una chiamata da tale “Rino” che gli riferiva che il faccendiere egiziano, secondo il Pentagono, avrebbe finanziato direttamente l’operazione culminata con l’attacco alle Torri Gemelle. Sempre secondo il misterioso “Rino”, Nada avrebbe fatto a tempo a “cancellare e far sparire tutto” dato che “gli inquirenti avevano effettuato la perquisizione domiciliare dopo tre o quattro mesi dall’inizio delle indagini avviate nei suoi confronti”. Affermava infine che al finanziere sarebbe stata sequestrata “un’ingente documentazione per lo più scritta in arabo”. La sera stessa Siracusano raggiungeva telefonicamente Balsamo a Campione d’Italia, per parlare sempre di Nada. “Ma lo sai che gli è stata trovata, tra le carte, una fitta corrispondenza con un noto esponente politico della Prima Repubblica?”, domandava Balsamo. I due proseguivano ironizzando su chi potesse essere tale personaggio, rimandando i particolari a un successivo incontro.[18] Quattro giorni più tardi un nuovo articolo del Corriere della Sera rivelava ulteriori particolari sulla Bank Al Taqwa di Nassau: la presenza tra i suoi soci, accanto a Nada, di due investitori dai nomi sospetti, Huda Mohammed Binladen e Iman Binladen, anche se non era chiaro “se i due Binladen abbiano un rapporto di parentela con Osama”.[19]
Chiamato in causa da alcuni organi di stampa, Salvatore Siracusano dava mandato al suo legale, l’avvocato Gualtiero Cannavò (esponente massonico del Grande Oriente d’Italia, con un passato giovanile nel neofascismo), di chiarire il tenore delle relazioni tenute con il presunto finanziatore di Al Qaeda. “Il mio assistito, anni orsono, ha acquistato nel Comune di Campione d’Italia un terreno per la costruzione di edifici ad uso civile, confinante con altro di proprietà della società “Al Taqwa Trade, Property and Industry Co. Limited” con sede nel Liechtenstein, amministrata da tale Youssef Nada”, spiegava Cannavò. “Conseguentemente, il Siracusano ha raggiunto l’accordo per la lottizzazione con tutti i proprietari delle particelle interessate e, quindi, anche con l’amministratore della società Al Taqwa. I proprietari dei terreni dunque, diedero incarico all’architetto Alfio Balsamo per la realizzazione della lottizzazione n. 27, a fronte di un compenso convenuto di 40.000 franchi svizzeri, che avrebbero dovuto essere versati in parti uguali dalle due società maggiormente interessate, la Al Taqwa, e la Silcam Srl di Messina, riconducibile al mio assistito. Quest’ultima società ha correttamente provveduto a pagare gli accordi al professionista incaricato della lottizzazione, mentre la società Al Taqwa si è defilata rifiutando di adempiere ai propri obblighi. La Silcam, quindi, è stata costretta ad intraprendere un giudizio civile contro la società di Youssef Nada celebratosi innanzi al tribunale di Messina”.[20]
Un mero rapporto causale dunque, finito per giunta con un contenzioso contro la maggiore delle società del gruppo Nada entrata a far parte della “Terrorist Exclusion List” stilata dall’amministrazione Bush. In verità, come dichiarato dai giudici di Milano, “il mero inserimento di una persona nelle cosiddette black list di sospetti finanziatori del terrorismo internazionale, stilate dall’ONU e dal Consiglio d’Europa dopo l’11 settembre, non può costituire elemento di prova penalmente rilevante”, dato che l’inserimento “avviene all’interno di una procedura che muove principalmente da opzioni e proposte politiche”. Così, nel luglio 2007, il Tribunale ha archiviato il procedimento penale aperto nei confronti di Youssef Nada.[21]
Il finanziere di Campione d’Italia non è stato tuttavia l’unico partner economico arabo degli “amici del Ponte” ad essere sospettato di rapporti finanziari con la complessa rete del terrorismo islamico. Il socio saudita di Silvio Berlusconi in Mediaset, lo sceicco Al-Waleed Bin Talal (altro nipote diretto di re Fahd),[22] è risultato azionista della banca statunitense Citigroup, la più grande del mondo, anch’essa inclusa nella speciale lista nera delle entità che avrebbero tenuto rapporti di vario genere con Al Qaeda. Casualità vuole che nel novembre del 2007, una quota pari al 4,9% di Citigroup è stata acquisita dall’Abu Dhabi Investment Authority, l’autorità statale dell’emirato arabo da cui l’ingegnere Giuseppe Zappia sperava di recuperare un credito da reinvestire nell’operazione Ponte sullo Stretto.
Altrettanto compromettenti sono i legami con le organizzazioni dell’estremismo religioso di Sheikh Kalifa Bin Zayed Al Nahyan, l’emiro regnante di Abu Dhabi. Affascinato dal misticismo islamico e fanatico del destino divino della propria famiglia, negli anni ’60 Sheikh Kalifa Bin Zayed visitò il Beluchistan pakistano sotto la protezione di un anziano funzionario dei servizi segreti di quel paese, tale “Awan”, che lo mise in contatto con molti mistici locali. Fu proprio grazie a questi contatti in Pakistan che l’emiro di Abu Dhabi incontrò l’uomo d’affari Agha Hassan Abedi, divenendone grande amico e collaboratore sul piano economico-finanziario.[23] Abedi fu il fondatore della BCCI, la Bank of Credit and Commerce International, più nota come Criminal Bank, per diversi anni il più importante centro di “lavaggio” del denaro proveniente dal narcotraffico, utilizzata dalla CIA per la conduzione di operazioni clandestine a favore dell’ex alleato Saddam Hussein, del dittatore pakistano Mohammed Zia, della Contra nicaraguese e della resistenza islamica all’occupazione sovietica dell’Afghanistan.[24] Fu proprio grazie all’amicizia con il potente emiro Zayed Al Nahyan, che la BCCI ebbe la possibilità di aprire tre filiali negli Emirati Arabi Uniti, una delle quali proprio ad Abu Dhabi.
Grandi mercanti sauditi
Il pakistano Agha Hasan Abedi è, a sua volta, uno dei più importanti soci del miliardario saudita Adnan Khashoggi, noto trafficante d’armi e, nei primi anni ‘80, intermediario per conto dell’amministrazione USA del trasferimento di strumenti di guerra a favore del governo “nemico” di Khomeiny. Il rapporto del Senato sull’affaire BCCI, lo definisce letteralmente come “uno dei contatti chiave per l’intelligence degli Stati Uniti in Medio Oriente”. Oliver North, il tenente colonnello dei marines che coordinava le forniture d’armi clandestine, si avvalse nel 1986 di Khashoggi per far giungere componenti missilistiche alle forze armate iraniane. Determinante fu il ruolo del saudita nelle vendite di armi all’Argentina, orchestrate negli anni della dittatura militare dal cosiddetto “Comitato di Montecarlo”, vera e propria filiale internazionale della loggia P2 di Licio Gelli. Ma Adnan Khashoggi è pure ritenuto dall’Interpol come uno dei principali terminali internazionali delle organizzazioni che gestiscono i traffici di droga, l’investimento delle tangenti e delle estorsioni, lo spionaggio. Nella sua inchiesta su armi e droga, il giudice Carlo Palermo aveva ricostruito i legami affaristici tra il miliardario saudita, il faccendiere piduista Francesco Pazienza, il finanziere socialista Ferdinando Mach di Palmstein e l’imprenditore palermitano Maurizio Mazzotta, poi implicato nella vicenda Calvi-Banco Ambrosiano.[25]
Dati i suoi strettissimi legami con l’entourage della famiglia reale saudita, gli affari migliori di Khashoggi sono consistiti nel trasferimento di tecnologie militari occidentali agli Stati arabi del Golfo. Notoriamente vicini al faccendiere sono il cognato di re Faisal d’Arabia, Kamal Adham, ex direttore della BCCI ed uomo di vertice dei servizi segreti sauditi, e Gaith Pharaon, consigliere del sovrano e fondatore con Assan Abedi della Criminal Bank. Anche Gaith Pharaon è un personaggio particolarmente noto in Italia: a fine anni ‘80, dopo essere stato implicato in un presunto trasferimento di componenti nucleari alla Libia, acquisì una consistente quota del pacchetto azionario dell’allora Montedison diretta dal socialista Mario Schimberni.[26] Quest’ultimo aveva accumulato fondi neri per un valore di mille miliardi di lire presso società con sede a Curacao, Antille olandesi.[27]
Importante partner economico-finanziario del regime dell’Arabia Saudita, perlomeno sino agli attentati terroristici dell’11 settembre 2001, era il Saudi Binladin Group (SBG), il colosso finanziario della famiglia bin Laden. Prima impresa privata dell’Arabia Saudita per fatturato (nel 1991 si stimava che il suo giro di affari fosse di trentasei miliardi di dollari), la holding ha operato nei settori delle costruzioni, della distribuzione, delle telecomunicazioni e dell’editoria.[28] Grazie all’amicizia personale con il re Abdulaziz Al Saud, fondatore del regno saudita, fu accumulato un immenso patrimonio finanziario da Mohammad bin Laden, il patriarca della famiglia morto negli Stati Uniti in uno strano incidente aereo. Amico personale di re Fahd (recentemente scomparso) era pure il primogenito Salem bin Laden, succeduto nella conduzione della holding, anch’egli vittima nel 1988 di un incidente aereo in Texas, dove si era recato per trattare affari con George Bush padre.
Amministrato da Bakr bin Laden, fratello del più noto Osama, il Saudi Binladin Group è stato per lungo tempo il principale e unico cliente della famiglia regnante dell’Arabia Saudita per la costruzione e l’amministrazione dei luoghi santi del mondo islamico. Il legame economico conferma l’adesione della controversa famiglia bin Laden al “wahhabismo”, il movimento rigorista sunnita diffusosi in Medio oriente nel XVIII secolo e rilanciato dai regnanti sauditi nel Novecento. A partire dagli anni ’70, l’Arabia Saudita ha investito somme notevoli per l’esportazione del pensiero wahhabita, dando vita a una pluralità di movimenti islamisti radicali, spesso legati al fenomeno del terrorismo, nell’area afghano-pakistana, in Caucaso ed Asia centrale e nel Sud-est asiatico.[29] Si spiegano così i notevoli investimenti dei bin Laden nella Al-Shamal Islamic Bank utilizzata dal principe Mohamed Al-Faisal Al-Saud per finanziare i movimenti wahhabiti internazionali. I bin Laden sono pure azionisti di un altro istituto bancario filoradicale, la Dubai Islamic Bank di Mohamed Khalfan ben Kharbarsh, ministro delle finanze saudita.[30]
Nonostante la forte connotazione pro-islamica, il Saudi Binladin Group si è affermato nei maggiori mercati azionari mondiali, conseguendo partecipazioni in imprese statunitensi, canadesi ed europee, come ad esempio General Electric, Motorola, Nortel Networks, Iridium, Unilever, Quaker e Cadbury Schewwpes. La holding dei Bin Laden ha ottenuto il controllo della Forship Ltd, una delle maggiori società mondiali per i trasporti a nolo, operativa in Gran Bretagna, Francia, Egitto e Canada.[31] Ad SBG sono pure stati assegnati appalti miliardari per la realizzazione delle basi militari statunitensi in Arabia Saudita e la ricostruzione del Kuwait, dopo la prima Guerra del Golfo.[32]
Rilevanti infine i vincoli con alcuni dei maggiori gruppi finanziari transnazionali: il Saudi Binladin Group ha operato congiuntamente con Goldman & Sachs, Citigroup, Deutsche Bank ed ABN Amro.
Goldman & Sachs ha acquisito recentemente il 2,84% della società Impregilo di Sesto San Giovanni, capofila dell’associazione d’imprese general contractor per la realizzazione del Ponte sullo Stretto. ABN Amro, dopo essersi offerta di finanziare la realizzazione del Ponte, nel gennaio 2008 ha deciso di entrare direttamente nel capitale d’Impregilo accettando la richiesta di IGLI (la finanziaria di controllo formata dai gruppi Benetton, Gavio e Ligresti) di rastrellare sul mercato il 3% delle azioni Impregilo. Entro un anno IGLI si riserverà l’opzione di acquisire questo pacchetto; in caso contrario ABN Amro deciderà se restare nella società oppure trasferire a terzi le azioni.[33] La banca olandese è pure azionista di maggioranza, con il 7,68%, del gruppo bancario italiano Capitalia (oggi in Unicredit) che detiene, a sua volta, poco meno del 2% del pacchetto azionario della holding delle costruzioni.[34]
Kabul-Messina la rotta dei capi dei servizi segreti
Ci sono poi altre vicende in cui gli interessi dei congiunti dell’uomo più ricercato del pianeta s’incrociano con le spericolate operazioni dei sovrani sauditi. Yeslam bin Laden, altro fratello di Osama, compare alla guida della Saudi Investment Company (SICO), società finanziaria creata nel maggio 1980 a Zurigo con lo scopo di amministrare una parte dei profitti del SBG. Grazie alla SICO i bin Laden hanno eseguito i lavori di ristrutturazione delle moschee della Mecca e Medina, e costruito aeroporti, autostrade, centrali elettriche e palazzi in Arabia Saudita, Cipro, Giordania e l’immancabile Canada.[35] Una sezione periferica della SICO ha sede a Curacao, isola delle Antille olandesi dove il finanziere Saro Spadaro si è occupato della gestione di alcuni hotel con annessi casinò.
La Saudi Investment Company è pure una delle società sospettate di essere stata utilizzata dalla CIA per finanziare la resistenza afghana, quando l’ancora giovane Osama bin Laden era il fedele alleato di Washington nella lotta contro gli occupanti sovietici. Da comandante dei mujahidin in Afghanistan, bin Laden aveva ottenuto ingenti finanziamenti da re Fahd e dai servizi segreti pakistani. Il suo diretto referente nella famiglia reale era al tempo il principe Turki bin Faisal al-Saud (uno dei figli di re Faisal nonché nipote dello stesso re Fahd), per oltre vent’anni a capo dei servizi segreti sauditi, da cui venne misteriosamente esautorato il 31 agosto 2001, undici giorni prima cioè dell’offensiva terroristica contro gli Stati Uniti d’America.[36] Sarebbe stato proprio il suo antico e solido legame di amicizia con Osama bin Laden la causa dell’improvvisa uscita di scena di Turki bin Faisal, su pressione USA. Eppure il principe si era costruito una solida reputazione di professionalità ed efficienza nella conduzione dell’intelligence saudita. Considerato uno dei più brillanti strateghi politico-militari della famiglia regnante, dal 1977 era stato il principale anello di congiunzione tra i servizi segreti arabi filo-occidentali e gli omologhi di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna. Fu così che Turki bin Faisal divenne “l’uomo di contatto” per le operazioni saudite (e statunitensi) in Afghanistan e nell’Asia Centrale dopo l’invasione sovietica del 1979. Nel corso degli anni ‘80, il capo dei servizi segreti incontrò più volte Osama bin Laden per convincerlo a sostenere la lotta contro l’occupazione sovietica. Nel 1993 il principe Turki fece persino da mediatore tra le differenti fazioni in guerra in Afghanistan.[37] La sua innegabile simpatia, tuttavia, andava verso il gruppo islamico radicale dei Talibani, al punto che il nome del capo dell’intelligence saudita fu associato sempre di più ad Al Qaeda.
Stando a Turki bin Faisal, le sue relazioni con Osama bin Laden si sarebbero interrotte nel momento in cui quest’ultimo fu dichiarato “nemico pubblico” di Riyadh e gli fu cancellata la cittadinanza saudita. Sembrerebbe invece che il principe Turki visitasse regolarmente il quartier generale di Kandahar dove vivevano Mullah Mohammed Omar e Osama bin Laden almeno fino al 1996, anno in cui i Talibani conquistarono Kabul. Secondo il periodico francese Paris Match, i servizi segreti sauditi sarebbero però rimasti in contatto con i leader di Al Qaeda sino alla vigilia dell’11 settembre. All’ingresso delle truppe statunitensi in Afghanistan nel 2001, presso l’ambasciata saudita a Kabul funzionava ancora un servizio di logistica destinato ai combattenti di Al Qaeda. A occuparsene, la fondazione al-Haramain, promossa dal ministero della religione saudita e finanziata da ambienti wahhabiti e dalla famiglia reale.[38] Per tutto questo i familiari delle vittime dell’attentato alle Torri Gemelle hanno promosso una causa civile contro Turki bin Faisal ed il principe Sultan bin Abdul Aziz al-Saud, ministro della difesa saudita, richiedendo un risarcimento multimilionario per aver “finanziato direttamente, con banche e associazioni caritative, i terroristi coinvolti negli attacchi”.[39] Sembra incredibile, ma con tutti i suoi discutibili trascorsi, nel 2005 l’ex capo dei servizi è stato nominato ambasciatore dell’Arabia Saudita a Washington.
Ancora più incredibile invece la storia dell’uomo chiamato a sostituire Turki bin Feisal ai vertici dell’intelligence saudita, undici giorni prima, ripetiamo, dell’attacco aereo ai grattacieli di New York. Si tratta del principe Nawaf bin Abdul Aziz Al Saud, zio del suo predecessore, figlio di re Abd al-Aziz e fratello del principe Abdullah oggi sovrano d’Arabia.[40] Fresco di nomina, Nawaf bin Abdul Aziz in compagnia di Abdullah, partecipava il 19 settembre 2001 ad un summit a Riyadh con i vertici dei servizi segreti pakistani rientrati da una missione in Afghanistan presumibilmente finalizzata a “neutralizzare” Osama bin Laden e “disfarsi” del regime dei Talibani. Nulla di compromettente, anzi per certi versi in linea con l’inversione delle alleanze dopo gli attentati negli Stati Uniti. Il summit seguiva però una misteriosa visita lampo che il principe Abdullah aveva effettuato in Pakistan il 22 agosto 2001. Secondo l’accreditato periodico Asia Times, il saudita, in compagnia degli uomini a capo dei servizi segreti pakistani, si sarebbe incontrato proprio con il leader Mullah Omar per “tentare di convincerlo che gli Stati Uniti erano prossimi a sferrare un attacco in Afghanistan”; era pertanto opportuno che bin Laden raggiungesse l’Arabia Saudita “dove sarebbe stato tenuto in custodia senza possibilità di essere consegnato a paesi terzi”. Sempre secondo Asia Times, Abdullah, definito un “segreto supporter di bin Laden”, si sarebbe mosso proprio con l’obiettivo di salvare il leader di Al Qaeda. La proposta sarebbe stata tuttavia rifiutata da Mullah Omar.[41]
L’epilogo è contraddittorio. Dopo aver sostituito di gran corsa il pluridecennale capo dei servizi segreti con un congiunto senza alcuna esperienza d’intelligence, l’Arabia Saudita è divenuta una fedele partner degli Stati Uniti nella lotta a bin Laden e nella caccia agli estremisti islamici. Un ruolo pagato caro, dato che il Paese si è trasformato in uno dei bersagli privilegiati del terrorismo di marca islamica. Nel solo biennio 2003–2004 l’Arabia Saudita è stata vittima di ventidue attentati nei quali sono stati uccisi 90 civili e 39 poliziotti.[42] L’incapacità di prevenire quest’ondata di sangue è stata duramente stigmatizzata dagli stessi alleati USA, che alla vigilia del vertice internazionale sul Terrorismo di Riyadh (2005) hanno chiesto un forte impegno per il rilancio dei servizi segreti, le cui capacità erano andate “deteriorandosi” con la sostituzione di Turki bin Faisal.[43] Una decina di giorni prima del vertice, il principe Nawaf bin Abdul Aziz rassegnava le proprie dimissioni per assumere l’incarico di membro del Comitato Supremo del Centro per le scienze e la tecnologia “King Abdulaziz”.
D’obbligo spiegare come mai ci si sia soffermati a lungo su personaggi e vicende che nulla sembrerebbero compartire con i Padrini del Ponte. Ricordate i misteriosi “amici” arabi che dovevano intervenire a soccorso di mister Zappia per contribuire al finanziamento dell’opera di collegamento nello Stretto di Messina? Interrogato dai magistrati romani, l’ingegnere italo-canadese aveva fatto il nome di un principe saudita, “Bin Nawaf bin Abdulaziz Al Saud, uno dei nipoti di re Fahd d’Arabia”. Se non fosse per un bin di troppo e una leggera difformità nella trascrizione del nome, si potrebbe giurare che si tratti dello stesso “Nawaf bin Abdul Aziz Al Saud”, assunto a capo dei servizi segreti sauditi alla vigilia dell’11 settembre. O eventualmente di uno dei suoi più stretti congiunti. Esiste poi un’altra “coincidenza”: un altro strettissimo familiare del “principe”, Mohammed bin Nawaf bin Abdul Aziz Al Saud, ha ricoperto dal 1995 al 2005 l’incarico di ambasciatore dell’Arabia Saudita in Italia e Malta. Successivamente il diplomatico è stato destinato a rappresentare il regime arabo in Gran Bretagna ed Irlanda, sostituendo proprio l’ex capo dei servizi segreti Turki ben Al Feisal.
Eletto presidente del consiglio di amministrazione del Centro Culturale Islamico di Roma, nel settembre 1997 Mohammed bin Nawaf aveva coordinato la visita ufficiale in Italia dell’allora vice primo ministro e capo del dicastero della difesa e dell’aviazione saudita, principe Sultan bin Abdul Aziz Al Saud. Premier Romano Prodi, l’Arabia Saudita si affermò in quell’anno come il principale destinatario dell’export di armi “made in Italy”.[44] Con un’ulteriore inquietante “coincidenza”: il figlio del principe Sultan, Bandar, ha ricoperto dal 1983 il ruolo di ambasciatore saudita negli Stati Uniti, ma già due anni prima, da addetto militare a Washington, aveva svolto una determinate azione di lobby sul Congresso perché approvasse multimilionari trasferimenti di armi pesanti USA all’Arabia Saudita. “Più tardi, da ambasciatore, Bandar si sdebitò trasferendo dall’Arabia Saudita 10 milioni di dollari in una banca del Vaticano, così come lo ha raccontato The Washington Post; il denaro, depositato su richiesta di William Casey, al tempo direttore della CIA, fu utilizzato dalla Democrazia Cristiana in Italia contro il Partito Comunista. Successivamente, nel giugno 1984, Bandar avviò il pagamento di 30 milioni di dollari proveniente dalla famiglia saudita a favore del colonnello Oliver North per l’acquisto di armi diretto alla contra del Nicaragua…”.[45] Il racconto è di un testimone diretto, l’agente segreto Robert Baer, ventun’anni a servizio della CIA principalmente come ufficiale di campo in Medio Oriente.
Il cavaliere nero dell’Apocalisse
Un altro membro della dinastia saudita, Abdullah bin Saleh Al Obaid, è il fondatore della Lega islamica mondiale, con sedi in 120 paesi. In Europa, la Lega – che ha come fine il proselitismo religioso — ha al suo attivo, tra l’altro, la costruzione delle moschee di Copenaghen, Madrid e Roma.[46] Con un costo complessivo di cinquanta milioni di dollari (soldi forniti tutti dalla famiglia saudita), la grande moschea di Roma è stata realizzata a metà anni ‘90 da un’impresa italiana, la Federici, poi acquisita dal colosso Impregilo.[47] Nell’ottobre del 1996, alla stessa Impregilo (in associazione con la Rizzani de Eccher di Udine) è stato affidato invece il primo lotto di lavori per la realizzazione della più grande moschea del mondo (500 mila metri quadrati di superficie), quella di Abu Dhabi. Il megacomplesso religioso è stato voluto e finanziato dallo sceicco Kalifa bin Zayed Al Nahyan, lo stesso che aveva affidato alla Middle East Company dell’ingegnere Zappia, la realizzazione di importanti opere pubbliche nel piccolo emirato.[48]
Attraverso la controllata Fisia Italimpianti, Impregilo ha realizzato ad Abu Dhabi sette dissalatori. Proprio di recente la società ha sottoscritto con l’emirato un contratto per un nuovo dissalatore della capacità di cento milioni di galloni al giorno ed una centrale elettrica di 1.500 MW a Shuweihat, lungo la costa del Golfo Persico. Altri dissalatori sono stati realizzati da Fisia-Impregilo in Arabia Saudita, Qatar, Kuwait, Bahrain (3) e Dubai (4). Ad Abu Dhabi è presente pure una sede operativa di Grandi Lavori Fincosit, altra società con cui sarebbe entrato in contatto l’ingegnere Zappia in vista della gara per il Ponte. Fincosit ha inoltre costruito in Arabia Saudita il Centro direzionale Al Nowaisser di Gedda e la strada per la Mecca della lunghezza di 169 chilometri.
L’emirato di Abu Dhabi è stato il destinatario finale di una partita di cannoni svizzeri “Oerlikon” trattata nei primi anni ‘80 da tale Rosario Cattafi, avvocato originario di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina). Militante di estrema destra nei primi anni ’70 accanto a Pietro Rampulla, l’artificiere della strage di Capaci, Cattafi è stato “compare d’anello” del boss Giuseppe Gullotti, rappresentante di Cosa Nostra nel barcellonese.
I documenti sulla transazione di materiale bellico a favore di Abu Dhabi furono scoperti nel corso di un’inchiesta della procura di Milano interessata a verificare se dietro un viaggio del Cattafi a Saint Raffael c’era l’obiettivo di “stipulare per conto della famiglia Santapaola un accordo con la famiglia dei Greco per la distribuzione internazionale di stupefacenti”. Le indagini consentirono di accertare che il Cattafi aveva avuto accesso a numerosi e cospicui conti correnti in Svizzera e che lo stesso aveva tenuto “non meglio chiariti” rapporti con presunti appartenenti ai servizi segreti.[49] Rapporti con il variegato mondo degli 007 a cui ha fatto accenno pure il collaboratore catanese Maurizio Avola, ex killer di fiducia del clan Santapaola. Nel corso di un’intervista rilasciata ai giornalisti Roberto Gugliotta e Pietro Suber, Avola ha definito Rosario Cattafi una “persona molto potente”. “Per noi – ha aggiunto il collaboratore – Cattafi era più importante degli altri uomini d’onore perché eravamo convinti che fosse legato ai servizi segreti e anche alla massoneria. Cattafi rappresenta l’anello di congiunzione tra la mafia e il potere occulto”.[50]
Nei primi anni ’80, l’ambiguo personaggio era stato ritenuto dagli inquirenti uno dei capi di una presunta associazione operante a Milano responsabile del sequestro, avvenuto nel gennaio 1975, dell’imprenditore Giuseppe Agrati, successivamente rilasciato in cambio di un riscatto di due miliardi e mezzo di lire. All’“organizzazione” fu anche contestata la compartecipazione nei traffici di stupefacenti e nella gestione delle case da gioco per conto delle “famiglie” mafiose siciliane. Cattafi e gli altri indagati furono però prosciolti in istruttoria.[51] A sottolineare il rilevante ruolo di Cattafi ci ha pensato pure Angelo Epaminonda, indiscusso padrone delle bische clandestine di Milano. Nell’inverno del 1984, interrogato sulle modalità di penetrazione della mafia nella gestione dei casinò del nord Italia, Epaminonda dichiarò: “Fui contattato un anno fa da Rosario Cattafi. Mi disse che agiva come emissario di Santapaola e mi propose di gestire insieme alcune attività legate al casinò di Saint Vincent. Io però non ero interessato e rifiutai”. Il tentativo di scalata della mafia fu accertato nell’indagine che seguì al cosiddetto blitz della notte di San Valentino contro i colletti bianchi di Milano. E vide protagonisti il finanziere palermitano Carmelo Gaeta ed il cambista Maurizio Monticelli, uomo di fiducia del clan dei marsigliesi, poi trasferitosi a Sint Maarten per gestire il casinò “Il rosso e il nero” con don Saro Spadaro. Otto anni più tardi, Rosario Cattafi venne arrestato nell’ambito dell’inchiesta sui traffici di armi e droga dell’autoparco di Milano. Dopo una pesante condanna in primo grado, la sentenza fu annullata per un vizio procedurale. Rifatto il processo, Cattafi venne assolto perché in sede dibattimentale furono dichiarate inutilizzabili le intercettazioni ambientali che avevano documentato le sue frequentazioni presso l’autoparco di via Salomone.[52]
Sempre nel 1992, Cattafi aveva incrociato le sue disavventure giudiziarie con lo stesso signore delle Antille. Cattafi e Spadaro furono coinvolti in un’inchiesta dei giudici di Messina (Arzente Isola) su un traffico di armi prodotte da alcune imprese italiane ed inviate a paesi sottoposti ad embargo. Indagato pure il faccendiere Filippo Battaglia, altro personaggio originario del messinese, successivamente trasferitosi in Perù.
Amministratore unico della Battaglia Holding, della Corpelia S.A. e della Rami S.A., società finanziarie registrate all’estero, Filippo Battaglia aveva voluto Cattafi come proprio testimone di nozze.
Filippo l’Augusto
“Ho svolto l’attività di casellante all’autostrada Messina-Catania, per la precisione allo svincolo di Roccalumera. Dopo tre mesi venni trasferito negli uffici con mansioni superiori, fino a diventare poi il direttore del servizio del centro elettronico. Rimasi alla A-18 fino al 1978”. Esordisce così Filippo Battaglia in un’intervista rilasciata alla Gazzetta del Sud dopo un tentativo di acquisto nei primi anni ‘90, misteriosamente naufragato, della società calcistica del Messina. Il faccendiere era pure stato insignito del passaporto diplomatico: “Il ministro degli Interni del Perù mi ha nominato rappresentante all’Unfdac, la sezione dell’ONU di Vienna che si occupa della lotta al narcotraffico. Io ho combattuto per ottenere dal governo peruviano donazioni di mezzi per combattere il narcotraffico nel Sud America”.[53] Battaglia divenne così l’intermediario privilegiato per l’acquisto di armi e mezzi militari da parte dei governi di Perù e Venezuela.
Per conto dell’Agusta Spa, una delle protagoniste del mercato mondiale degli elicotteri da guerra e delle inchieste sui traffici di armi gestiti da faccendieri, mafiosi e piduisti,[54] Filippo Battaglia ha pure trattato, nella primavera del 1992, la vendita di dodici elicotteri CH47 per il trasporto truppe ed armamenti alla Guardia nazionale dell’Arabia Saudita. Comandante al tempo dell’istituzione militare, Abdullah bin Abdul Aziz, il principe (oggi sovrano saudita) che abbiamo incontrato accanto al congiunto Nawaf bin Abdul Aziz, aspirante finanziatore del Ponte.
Il trasferimento dei mezzi da guerra targati “Agusta” al regime di Riyadh vide scendere in campo gli uomini di punta del governo arabo. Nel corso di una telefonata del 15 giugno 1992 tra Filippo Battaglia e Domenico Maria Ruiz, direttore generale dell’industria bellica, il faccendiere forniva l’identità del suo diretto interlocutore: “È lo sceicco Hassan Hennany a tenere le fila con re Fahd. Hennany è il segretario del principe Feisal ben Fahd, il figlio del sovrano d’Arabia, e può darci una mano a vendere elicotteri anche al Marocco”. Il mese precedente, Filippo Battaglia, in compagnia di Felice Cultrera (un finanziere domiciliato a Marbella frequentatore di don Saro Spadaro), del commerciante catanese Aldo Papalia e di tale Gianni Meninno, era stato ospite del saudita a bordo del suo yacht ormeggiato a Cannes. I particolari di quell’incontro erano stati raccontati dal Papalia, responsabile per le relazioni estere di Forza Italia, al direttore commerciale di Pubblitalia-Fininvest Alberto Dell’Utri. “In questi giorni sapremo le date, te le comunico e ci incontriamo. Ok?”, chiedeva il Papalia. Poi aggiungeva: “Se per caso il tuo presidente, se potesse venire per dire… un incontro. Perché c’è pure in grande pompa magna quell’Hennany. Alberto, io non ci sto dormendo la notte!”.
L’identità del “presidente” prendeva forma nel corso di una telefonata intercorsa il 3 giugno 1992 tra il Cultrera e il Papalia, oggetto un appuntamento molto importante fissato da lì a cinque giorni. “Scusami Aldo, noi lunedì c’incontriamo. Possiamo parlare con questo Berlusconi o no?”, domandava Cultrera. “Gioia mia, mi auguro di sì. Io non te lo posso dire in questo momento e neanche lui me lo sa dire”, replicava Papalia. E Cultrera: “Sì, ma va bene. Sai perchè è importante. Non perché voglio parlare con lui, è che di solito, quando c’è un filtro non è la stessa cosa”.[55]
Nella trattativa con gli arabi non poteva far mancare il suo contributo il trafficante d’armi Adnan Kashoggi, socio d’affari dei sovrani sauditi e del padre di Osama bin Laden.[56] Il 13 aprile 1992, Filippo Battaglia e l’amico Roberto Ricciardi si recarono all’aeroporto di Catania Fontanarossa per accogliere il Dc9 privato in cui viaggiavano Kashoggi, la moglie Azam, il figlio Kabilia e tre mercanti d’armi di fama internazionale: il siriano Marwan Hamwik, l’americano Robert Shaneen (un ex ufficiale dell’esercito USA, da tantissimi anni braccio destro del miliardario saudita), il belga Josef Rogmans. Nella sala vip dello scalo siciliano, Battaglia formalizzò al saudita la proposta di vendita dei CH47 prodotti in licenza dall’Agusta. Alla vigilia della firma del contratto, Filippo Battaglia ricevette perfino una chiamata del chiacchierato uomo d’affari libanese Albert Chamad, ricercato dall’Interpol per l’omicidio del connazionale Samir Traboulsi, avvenuto nel 1982 a Parigi.[57] Traboulsi aveva lavorato alle dipendenze di Kashoggi sino alla seconda metà degli anni settanta, per poi mettersi in proprio e trasferirsi nella capitale francese.
Le triangolazioni belliche del gruppo Cultrera-Battaglia finirono sotto indagine dalla procura di Catania che, grazie alle intercettazioni e al racconto di alcuni collaboratori, ipotizzò pure l’investimento di presunti capitali mafiosi per la realizzazione di cinquemila appartamenti a Tenerife. I faccendieri siciliani avrebbero pure tentato di acquisire le società che gestivano alcune case da gioco ad Istanbul, Mamunia (Marocco) e Praga. Tra il 1992 e il 1994 il sodalizio avviò la trattativa per rilevare parte del patrimonio di Roberto Pasquale Memmo, l’immobiliarista e finanziere noto per dirigere l’omonima “Fondazione per l’arte e la cultura”, con sede a Roma nel prestigioso Palazzo Ruspoli. In particolare, dal tenore di una telefonata tra il Meninno e il Cultrera, si evince che i due personaggi erano particolarmente interessati all’acquisto delle quote dei casinò di Malta e Montecarlo di proprietà del Memmo che, secondo quanto riferito dal Meninno, “sarebbe anche in società con il Principe Ranieri di Monaco”. Scrive il Gip di Catania nell’ordinanza di custodia cautelare contro Cultrera e soci: “Memmo invita il Meninno e il Felice Cultrera a Montecarlo per una cerimonia (forse un vernissage) di una “Fondazione” da lui creata. All’affermazione di Meninno, che potrebbe essere questa l’occasione per presentarlo a Memmo e per fargli conoscere Pedro Poiares, Cultrera replica che preferirebbe portare Alberto, poi identificato per Alberto Dell’Utri. Nel corso della telefonata i due lo descrivono come un ottimo manager, ben inserito in un gruppo imprenditoriale serio e molto stimato dal Memmo. Il Cultrera, continuando a parlare dell’affare che debbono concludere con Memmo, specifica di voler fare mettere i soldi a quelli di Hong Kong».[58]
Le armi, l’acqua, il ponte
Rinviati tutti a giudizio per violazione delle normative sul commercio delle armi, Felice Cultrera, Filippo Battaglia e soci vennero successivamente assolti dal Tribunale di Catania, l’1 ottobre del 2003. Ma al di là dell’esito finale del procedimento, la lettura delle informative e della documentazione allegata fornisce uno spaccato dei vasti interessi dentro cui si muovevano i protagonisti della vicenda. Compreso – dieci anni prima della svolta decisiva – il progetto del Ponte sullo Stretto. Nel 1992, anno della trattativa per il trasferimento degli elicotteri Agusta al regime saudita, Filippo Battaglia diede vita ad un’operazione finanziaria tesa all’acquisizione della maggioranza del pacchetto azionario della “SICOS – Azienda Regionale Siciliana, Costruzioni e Servizi”, costituita appositamente a Palermo in previsione della costruzione del Ponte e dell’autostrada Catania-Gela e il cui pacchetto era detenuto dall’ESPI, l’Ente Siciliano per la Promozione Industriale di Palermo. Amministratore della SICOS era al tempo Armando Di Natale, strettamente legato al Battaglia. Per il rilevamento della SICOS si pensò di utilizzare come schermo una società in forte crisi di liquidità, la S.A.IN. (Società Appalti Internazionali), facente capo al costruttore Gioacchino Del Din.
Del Din era entrato da qualche tempo in rapporti d’affari con i siciliani; in particolare, grazie all’intermediazione di Felice Cultrera e Gianni Meninno, la società da lui rappresentata aveva sottoscritto un contratto di joint venture con la AMEC International di Londra per partecipare alla gara d’appalto per la costruzione di un tratto autostradale tra Cuneo e Borgo San Dalmazzo. In tale affare Battaglia aveva assunto la vece di procuratore speciale per conto della S.A.IN.. Successivamente Cultrera e Meninno avevano proposto a Del Din di entrare in società per l’acquisto di alcuni terreni a Vigo e il compimento di una serie di speculazioni immobiliari in altre località della Spagna; per di più Del Din aveva preso parte nell’aprile del 1992 ad una delle riunioni svoltesi a Nizza sul panfilo dell’emiro saudita Hassan Hennany.[59]
In vista dell’acquisizione della SICOS, Filippo Battaglia e Armando Di Natale si attivarono per usufruire di cospicui stanziamenti regionali. Tali iniziali stanziamenti sarebbero ammontati a dieci miliardi di lire ed erano finalizzati ad avviare nel frattempo un servizio agro-meteorologico regionale per il controllo a terra dei corsi d’acqua, la riutilizzazione delle acque reflue e il coordinamento delle risorse idriche delle dighe esistenti, quindi programmi di nuove dighe e nuovi lavori. Allo scopo Battaglia si recò a Palermo per incontrare l’allora presidente della Regione Siciliana. “La SICOS ha delle spese di gestione bassissime perché utilizza del personale regionale che è stato messo in parcheggio e che quindi non viene pagato dalla società”, spiegava in una telefonata il Battaglia a Del Din. Il messinese aggiungeva che il costo di rilevamento si aggirava sui 300 milioni più un costo aggiuntivo che gli avrebbe detto in separata sede.[60]
Battaglia operava pure in stretto contatto con l’allora presidente dell’ESPI, Francesco Pignatone, cointeressato unitamente a Di Natale al “CEOM Scpa”, il Centro Oceanologico Mediterraneo costituito agli inizi degli anni ‘90 dall’ENI e dalla Regione Siciliana per lo studio e lo sfruttamento delle risorse marine. Altro importante punto di contatto di Filippo Battaglia a palazzo dei Normanni, l’allora assessore regionale all’Industria Franco Sciotto, leader socialdemocratico originario di Milazzo (affiliato alla loggia massonica “La Maestra” del Grande Oriente d’Italia), successivamente transitato nel Ccd di Pier Ferdinando Casini. Sino al novembre 1986 Franco Sciotto aveva pure ricoperto il ruolo di amministratore unico della IDC-Italian Drinks Company, una società a responsabilità limitata con sede a Barcellona Pozzo di Gotto interessata alla “produzione e commercializzazione in Italia e all’estero di bibite, vini, latte e prodotti affini”, di proprietà di Rosario Cattafi.
Come accertato dal GICO della Guardia di finanza di Firenze, negli stessi mesi in cui Filippo Battaglia era sceso in campo per l’acquisizione della società pro-Ponte, il compare Cattafi tempestava di telefonate le utenze fisse ed i cellulari intestati alla Regione Siciliana, alla Presidenza di tale Ente e all’assessorato all’Industria. “Particolare non trascurabile – aggiunge il GICO — è che tutti e tre i soggetti (Battaglia, Cattafi e Sciotto N.d.A.) avevano a loro volta rapporti telefonici con l’onorevole Dino Madaudo, sottosegretario al Tesoro”.[61] Deputato nazionale del Psdi, poi sottosegretario alla Difesa, Madaudo è stato indicato dal collaboratore di giustizia Antonino Calderone come persona che avrebbe cercato di impossessarsi dell’eredità elettorale del ministro Giuseppe Lupis: nel 1979 si sarebbe rivolto alla cosca Santapaola per ottenere il suo appoggio in vista delle imminenti elezioni politiche; a dire del collaboratore i voti non gli sarebbero stati dati perché ritenuto poco affidabile.[62]
Conclusa l’esperienza parlamentare, Dino Madaudo si è dedicato prioritariamente alla produzione e commercializzazione di vini ed attualmente risulta pure cointeressato alla gestione di alcune sale Bingo tra Messina e Catania. Nel mese di maggio 2007, il suo nome è comparso nella lista degli “indagati a piede libero” della cosiddetta operazione Montagna sugli interessi economici delle cosche mafiose dell’area dei Nebrodi.[63] Pur frequentando i tavoli del centrosinistra peloritano, quando ne ha l’occasione Dino Madaudo non fa mancare il suo sostegno a favore dei paladini del progetto di collegamento stabile Calabria-Sicilia.
Filipopoo Battaglia, invece, rientrato in Sicilia qualche mese prima della provvidenziale assoluzione del tribunale di Catania al processo per la vendita di armi pesanti ad Arabia Saudita e Marocco, fu contrattato nell’estate 2003 dai manager dei Cantieri navali Rodriquez per avviare una trattativa con il governo di Hugo Chavez per la realizzazione di acquastrada e pattugliatori guardiacosta in joint venture con Dianca, l’azienda navale della Marina da guerra venezuelana. In occasione della visita in Sicilia dei militari latinoamericani, a Filippo Battaglia fu pure consegnato il grest del Comune di Messina, quale riconoscimento per il suo “impegno a favore dell’economia locale”. A fare gli onori di casa l’allora presidente del Consiglio comunale Umberto Bonanno e l’assessore di Forza Italia, Elvira Amata.
Altro instancabile sostenitore del Ponte sullo Stretto, Umberto Bonanno (che è pure braccio destro del socialista Nanni Ricevuto), è stato arrestato nel gennaio 2007 nell’ambito dell’inchiesta Oro Grigio, su alcune gravissime speculazioni edilizie che hanno devastato il territorio del Comune di Messina. Altrettanto sfortunato il Battaglia, che negli stessi giorni veniva condannato ad un anno e otto mesi di reclusione per abusivismo edilizio: aveva realizzato su una collina della Panoramica dello Stretto di Messina una villa-fortino di 350 metri quadrati di superficie.
I guai non sarebbero finiti. Stando al settimanale Centonove, Filippo Battaglia sarebbe sotto processo per evasione fiscale dopo un’indagine della Guardia di finanza che avrebbe svelato un giro di assegni e versamenti su conti correnti da società o imprese collegate per sei milioni di euro, “effettuati da soggetti vicini a Battaglia”.[64] Il finanziere sarebbe inoltre indagato – ancora una volta — per “traffico internazionale d’armamento”, relativamente al trasferimento al Venezuela, via Toscana, di imbarcazioni da combattimento (forse “gommoni d’assalto”).
Qualche analogia con la trattativa delle unità navali per cui il Battaglia è stato insignito dell’alta onorificenza del Comune di Messina?
[1]Il presente saggio è tratto dalla ricerca condotta dall’autore per conto del Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato” di Palermo, di prossima pubblicazione. Vi si rievocano alcune inchieste giudiziarie non ancora conclusesi. Tutte le persone coinvolte e/o citate a vario titolo, sono da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva.
[3]L’Opinione è tra i pochi organi di stampa non siciliani a sostenere senza tentennamenti la campagna a favore del Ponte. L’Opinione ha pure ospitato una lunga intervista all’amministratore delegato della Società Stretto di Messina, Pietro Ciucci. Cfr.: L. Tentellini, “Stretto di Messina, non sparate su quel ponte”, L’Opinione,Edizione n. 86 del 16 aprile 2005.
[4] R. Capone, “L’intervista — Il Ponte sullo Stretto possibile, raccontato da Giuseppe Zappia”, L’Opinione, 11 febbraio 2006.
[5] A. Mangano, A. Mazzeo, Il mostro sullo Stretto. Sette ottimi motivi per non costruire il Ponte, Edizioni Punto L, Ragusa, 2006, p. 58.
[6] R. Capone, “L’intervista — Il Ponte sullo Stretto possibile”, cit..
[9] L’Abu Dhabi Investment Authority è titolare del maggiore fondo d’investimenti statale del mondo, pari a 875 miliardi di dollari. L’Abu Dhabi Investment Authority, nel novembre 2007, ha acquistato il 4,9% di Citigroup, la principale banca internazionale; inoltre possiede il 25% dell’Arab Banking Corporation. Un altro 26% delle quote dell’Arab Banking Corporation è in mano alla Central Bank of Lybia del colonnello Gheddafi. L’Arab Banking Corporation possiede a sua volta circa il 5% delle azioni del gruppo bancario Capitalia (oggi in Unicredit), il 7,5% dello Juventus Football Club, il 2% della Fiat e il 9% di Fin.Part..
[10] U.S. 2nd Circuit Court of Appeals, Zappia Middle East Construction Company Limited, v. The Emirate of Abu Dhabi, Abu Dhabi Investment Authority, and Abu Dhabi Commercial Bank, Argued: December 14, 1999. Decided: june 12, 2000. Docket No. 99–7272.
[11] I testi delle intercettazioni telefoniche ed ambientali riportate sono tratti da: Tribunale Penale di Roma, Ordinanza di custodia cautelare in carcere e di arresti domiciliari nei confronti di Vito Rizzuto + 4, Proc. Pen. N. 6332/04 GIP, Roma, 22 dicembre 2004.
[12]Originariamente gli indagati di Gioco d’azzardo erano 63. Il 16 ottobre 2007, con decreto del Gip di Reggio Calabria, è stata archiviata la posizione di 41 persone. Escono così dal procedimento alcuni dei personaggi che vengono citati nelle pagine successive. Si tratta in particolare di Alfio Balsamo, Filippo Battaglia, Rosario Cattafi, Luigi Cavallaro, Felice Cultrera, Gioacchino Vincenzo Del Din, Armando Di Natale.
[13] R. Labate, “Ma vorrei trovare un jeans della mia taglia”, Gazzetta del Sud, 9 luglio 1991.
[14]Tribunale di Reggio Calabria – Ufficio del Giudice per le Indagini Preliminari, Ordinanza di applicazione di misure cautelari nei confronti di Siracusano Salvatore + 22, N. 2836/02 RGNR, Reggio Calabria, 2005,p. 169.
[15] W. Goobar, Osama Bin Laden el banquero del terror, Editorial Sudamericana, Buenos Aires, 2001, p. 179. Secondo The Wall Streat Journal (21 settembre 2001), Youssef Nada è stato pure componente di una commissione delle Nazioni Unite che si occupava dei rapporti con il mondo islamico e di cui facevano parte, fra gli altri, diversi membri del governo italiano, il senatore democratico Gary Hart e il consulente del Dipartimento di Stato americano Edward Luttwak. Sempre negli Stati Uniti, il banchiere è risultato essere particolarmente legato all’ex funzionario Onu, Giandomenico Picco, già alto dirigente del Gruppo Ferruzzi.
[16] R. Labévière, Les dollars de la terreur, Grasset, Parìs, 1999.
[17] A. Morigi, Multinazionali del terrore, Edizioni Piemme, Casale Monferrato, 2004, pp. 68–69.
[18] R. Gugliotta, G. Pensavalli, Messina campione d’Italia, Edizione IMGPress, Messina, 2005, pp. 162–164.
[19] Nello stesso articolo si asseriva che molte delle società di Youssef Nada con sede a Vaduz, erano state costituite con l’assistenza della Asat Trust, società “in passato legata alla famiglia del principe del Liechtenstein”. Alcune di esse si sarebbero pure appoggiate alle strutture della Fimo, la finanziaria di Chiasso accusata di aver riciclato miliardi per conto del clan mafioso dei Madonia con la collaborazione di Giuseppe Lottusi, poi condannato a 20 anni di carcere. (Cfr.: V. Malagutti, “Due Bin Laden e un italiano tra i soci di Al Taqwa”, Corriere della Sera, 17 novembre 2001).
[21] Nel giugno 2005 anche la Procura federale svizzera ha deciso l’archiviazione dell’inchiesta contro la Bank Al Taqwa, non avendo raccolto prove sufficienti sui legami con Al Qaeda. In Egitto le cose sono andate diversamente: nel febbraio 2007, Youssef Nada è stato deferito a un tribunale militare con le pesantissime accuse di finanziamento al terrorismo, riciclaggio di denaro sporco e tentativo di sovvertire le istituzioni dello Stato. Nel procedimento compaiono i nomi di altri 43 presunti dirigenti o finanziatori dei Fratelli Musulmani, tra cui un altro cittadino italiano, Ali Ghaleb Himmat, di origine siriana, vice-presidente della Bank Al Taqwa (Cfr.: Corriere della Sera, 24 luglio 2007).
[22] Al-Waleed Bin Talal è considerato uno degli uomini più ricchi del mondo. Possiede enormi partecipazioni nelle transnazionali Citigroup Inc. (dove sono presenti pure i bin Laden), Apple Computer, AOL Time Warner e nella catena di alberghi di lusso Four Season. Nel giugno 1994 ha acquisito circa il 24% del pacchetto azionario di Euro Disney, investendo oltre 500 milioni di dollari nel megaparco giochi alle porte di Parigi. Al Waleed è stato pure indicato come azionista della società immobiliare “Vetus”, il cui amministratore unico è Giuseppe Maranghi fratello dell’ex amministratore delegato di Mediobanca, Vincenzo Maranghi (Cfr.: La Repubblica, 26 agosto 1998).
[23] C. Palermo, Il quarto livello. 11 settembre 2001 ultimo atto? Dalla rete nera del crimine alla guerra santa di Osama bin Laden, Editori Riuniti, Roma, 2002, p. 86.
[24] Fu la National Bank of Oman a trasferire il denaro della Cia, via Pakistan, ai Mujaheddin e al giovane Osama bin Laden. Questo istituto era controllato per un 29% dalla BCCI.
[25] M. A. Calabrò, Le mani della Mafia. Vent’anni di finanza e politica attraverso la storia del Banco Ambrosiano, Edizioni Associate, Roma, 1991, pp. 100, 139, 197 e 202.
[27] I conti segreti dell’Eni presso la finanziaria di Curacao furono scoperti nel 1993 dalla procura di Milano a seguito dell’arresto del manager Montedison, Lino Cardarelli (Cfr.: La Repubblica, 15 dicembre 1993). Superato il ciclone di Mani Pulite, nel 2002 Lino Cardarelli entrò a far parte del consiglio d’amministrazione della Società Stretto di Messina, concessionaria statale per la realizzazione del Ponte. Alla fine della seconda guerra del Golfo, l’ex manager Montedison è stato nominato vicedirettore del PMO (Program management office), l’organismo sotto controllo degli Stati Uniti che si occupa degli aspetti economici, finanziari e industriali della ricostruzione in Iraq.
[29] R. Redaelli, Il fondamentalismo islamico, Giunti Gruppo Editoriale, Firenze, 2005, p. 76.
[30] W. Goobar, Osama Bin Laden el banquero del terror, cit., pp. 36–43.
[31] J. Brisard, G. Dasquiè, La verità negata. Una voce fuori dal coro racconta il ruolo della finanza internazionale nella vicenda Bin Laden, Marco Tropea Editore, Milano, 2002, p. 92.
[32]Anche l’ingegnere italocanadese Giuseppe Zappia ha concorso alla realizzazione negli Emirati Arabi di campi base utilizzati dalle forze armate Usa per sferrare l’attacco all’Iraq durante la prima guerra del Golfo.
[33] (P. Stefanato, “Impregilo, IGLI < > per crescere”, Il Giornale, 17 gennaio 2008). Negli ultimi mesi Impregilo è stata al centro di convulsi scambi azionari che ne hanno modificato sostanzialmente l’assetto societario. Usciti definitivamente la finanziaria Gemina della famiglia Romiti, il gruppo italoargentino Rocca ed Efibanca (merchant bank di BPI — Banca Popolare Italiana, ex banca Popolare di Lodi), importanti quote societarie sono state acquisite attraverso diversi fondi di gestione risparmio dai colossi bancari statunitensi Morgan Stanley International (8,01%) e JP Morgan Chase & Co. (2,08%). In Impregilo ha pure fatto ingresso la britannica Theorema Asset Management Ltd. (2,21%). Theorema ha sede a Londra e filiali nelle isole Bermude e Cayman; ed è stata fondata nel dicembre 2000 da Emanuele Antonaci e Giovanni Govi, due consulenti finanziari di origine italiana. Oltre ad IGLI (29,9%), altri importanti azionisti d’Impregilo sono Deutsche Bank (3,3%), le Assicurazione Generali (3,1%) e la Banca Popolare di Milano (3%) presieduta da Roberto Mazzotta, membro del Cda di Aedes Spa, la finanziaria immobiliare socia in Sicilia della famiglia Franza (gli oligopolisti del traghettamento privato dello Stretto). Durante la breve stagione di Mani Pulite, al tempo della sua presidenza della Cariplo, Roberto Mazzotta fu arrestato e processato per una storia di tangenti a Dc e Psi. Dopo una condanna in primo grado, è stato assolto in appello grazie alla modifica dell’art. 513 del codice di procedura penale che impedisce l’utilizzo delle accuse in fase istruttoria se non ripetute in aula.
[34] Capitalia controlla MCC-Medio Credito Centrale, già advisor finanziario della Società Stretto di Messina per uno studio sulle modalità di acquisizione dei capitali privati necessari alla realizzazione del Ponte.
[35] J. Brisard, G. Dasquiè, La verità negata, cit., p. 39.
[38]A. Morigi, Multinazionali del terrore, cit., p. 125.
[39]BBC, “Prince Turki al-Faisal, who is set to become Saudi ambassador to the US, is a former head of foreign intelligence”, London, 20 July 2005, http://news.bbc.co.uk/2/hi/middle_east/4700589.stm. Il controverso ruolo del principe Turki bin Faisal alla vigilia degli “attentati” dell’11 settembre, è pure al centro dello straordinario documentario di Michael Moore, Fahrenheit 911, dove viene pesantemente messa sotto accusa l’amministrazione Bush.
[40] Il principe ereditario Abdullah governava di fatto l’Arabia Saudita sin dal 1995, quando re Fahd, suo fratello, era stato colpito da un ictus.
[43]A. H. Cordesman, N. Obaid, Saudi Counter Terrorism Efforts: The Changing Paramilitary and Domestic Security Apparatus, Center for Strategic and International Studies, Washington, February 2, 2005, Pages 32–33.
[44]Il figlio del ministro della difesa saudita, Khaled bin Sultan bin Abdul Aziz Al Saud, già comandante in capo delle forze saudite durante la prima guerra del Golfo, fu fermato nel luglio 1995 dalla Guardia di Finanza mentre era in vacanza con il suo yacht a Capri, perché trovato in possesso di un vero e proprio arsenale militare: una trentina di mitragliette, fucili da guerra, pistole e oltre quattro mila munizioni. Le armi furono poi restituite al principe che potè riprendere indisturbato la sua crociera nel Mediterraneo (Cfr.: I. De Angelis, “Le mille armi dello sceicco”, La Repubblica, 24 luglio 1995).
[45]R. Baer, “The Fall of the House of Saud”, Atlantic Monthly, May 2003.
[46] J. Brisard, G. Dasquiè, La verità negata, cit., p. 66.
[48] Il valore della commessa assegnata ad Impregilo è stata di 120 milioni di dollari. Cfr.: A. G. Wright, “In Abu Dhabi, Sheikh Zhayed Builds A House for the Holy”, ENR — Engineering Nes Record, 3/15/2004.
[49] M. Torrealta, La trattativa. Mafia e Stato: un dialogo a colpi di bombe, Editori Riuniti, Roma, 2002, p. 126.
[50] R. Gugliotta, P. Suber, “E non chiamatemi pentito!”, Sette – Corriere della Sera, 10 marzo 1997.
[51] Commissione Parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare, Relazione finale di minoranza, Relatore on. Giuseppe Lumia, Roma, gennaio 2006.
[52] Rosario Cattafi è stato indagato (e prosciolto) anche nell’ambito dell’inchiesta sui cosiddetti Sistemi Criminali relativa ai presunti mandanti della strategia stragista del biennio 1992–93, conclusasi con l’archiviazione del Tribunale di Palermo. Secondo un rapporto della D.I.A. del 1994, sarebbero stati rilevati contatti telefonici fra le utenze utilizzate da Cattafi “con soggetti riconducibili a Licio Gelli e Stefano Delle Chiaie fra la fine del 1991 e gli inizi del 1992”. Nella stessa indagine sono stati pure indagati e prosciolti il finanziere messinese Filippo Battaglia, strettamente legato da amicizia ed affari a Cattafi, i boss mafiosi Totò Riina e Nitto Santapaola, il commercialista massone Giuseppe Mandalari e l’ex parlamentare reggino Paolo Romeo.
[53] F. Pinizzotto, “Filippo Battaglia: non ho scheletri nell’armadio”, Gazzetta del Sud, 4 settembre 1993.
[54] L’Agusta Spa ha un fatturato di oltre 2,5 miliardi di euro ed un portafoglio ordini per oltre 7,6 miliardi. L’Agusta opera in joint venture con la britannica Westland ed è controllata da Finmeccanica (ex IRI), società di cui è stato amministratore delegato l’ex Ad di Impregilo, Alberto Lina. Lina è oggi vicepresidente di Sirti, società ex azionista di IGLI-Impregilo, produttrice di sistemi avanzati di telecomunicazione militare. Anche l’attuale presidente del Cda di Impregilo, Massimo Ponzellini, è stato consigliere di Finmeccanica. Un altro ex consigliere d’amministrazione di Finmeccanica è stato pure il dott. Pietro Ciucci, odierno amministratore delegato della Società Stretto di Messina, nonché presidente di ANAS, l’ente che è azionista di riferimento della concessionaria pubblica per la realizzazione del Ponte. Un ex consigliere dell’Agusta, il professore Emmanuele Emanuele, cavaliere del Santo Sepolcro, è stato membro sino all’aprile 2005 del consiglio d’amministrazione della Società Stretto di Messina.
[55] A. Carlucci, “Siamo sicuri che Silvio verrà?”, L’Espresso, 3 febbraio 1995.
[56] Relativamente alle relazioni di affari intercorse da Kashoggi, la famiglia reale dell’Arabia Saudita e i bin Laden si consulti il volume di Ronald Kessler, Kashogui. El ombre más rico del mundo, Ediciones B, Barcelona, 1987.
[57] Tribunale di Catania – Ufficio del giudice per le indagini preliminari, Ordinanza custodia cautelare in carcere nei confronti di Cultrera Felice + 8, N. 6975/93, Catania, 5 maggio 1995, pp. 77–78.
[58] Ibidem, pp. 22–23.
[59] Tribunale di Catania, Ordinanza custodia cautelare in carcere nei confronti di Cultrera Felice + 8, p. 34.
[60] Guardia di Finanza — Servizio Centrale di Investigazione sulla Criminalità Organizzata, Gruppo Interprovinciale di Firenze, Rapporto alla Procura della Repubblica presso il tribunale di La Spezia, Procedimento Penale Nr. 876/95/21–3 R.G.N.R., Roma, 3 aprile 1996.
[62]Tribunale di Reggio Calabria, Ordinanza di applicazione di misure cautelari nei confronti di Siracusano Salvatore + 22, cit., p. 262
[63] Cfr.: G. Lazzaro, “Politici, funzionari e imprenditori tra i 57 indagati della Dda”, Gazzetta del Sud, 10 maggio 2007. L’operazione Montagna ha svelato le ramificazioni del clan Rampulla di Mistretta nella gestione di “imprese idonee ad acquisire appalti pubblici costituendo anche cartelli d’impresa finalizzati all’illecita gestione dei lavori relativi alle opere pubbliche, riuscendo inoltre a spartire gli appalti tra gli imprenditori “amici” mediante il sistema del subappalto”.
[64]A. Serio, “L’ultima Battaglia”, Centonove, 18 luglio 2008.
La Repubblica e le false interviste, il Venerdì in realtá non chiarisce nulla
…
Quella che doveva essere la smentita alla notizia (denunciata da un articolo di Maurizio Matteuzzi pubblicato sul Manifesto), che almeno una delle grandi interviste, quella al presidente colombiano Álvaro Uribe, realizzate da Jordi Valle e pubblicate dal Venerdì di Repubblica lo scorso 11 luglio era falsa, in realtá ben poco chiarisce su tutta la vicenda.
In particolare, la smentita, preannunciata da una lettera che lo stesso capo redattore del Venerdì, Attilio Giordano, aveva inviato nei giorni scorsi alla sottoscritta in risposta alla richiesta di chiarimenti sulla vicenda, avrebbe dovuto spiegare se Jordi Valle aveva incontrato, dove e come, Álvaro Uribe lo scorso 26 giugno. Incontro che era stato negato dalla stessa presidenza della repubblica della Colombia in un comunicato apparso sul sito ufficiale del governo.
In realtà sul Venerdì di Repubblica di ieri, quella che appare in un angolo poco visibile del giornale è una lettera dell’ambasciatore colombiano a Roma, Sabas Pretelt de la Vega, che non smentisce il suo governo ma piuttosto sembra rettificare soltanto una parte della presunta intervista, quella in cui Álvaro Uribe parla di politica statunitense: “Sfortunatamente, sul numero dell’11 luglio del vostro giornale è stato pubblicato un articolo che fa riferimento alla campagna elettorale negli Stati Uniti e mi permetto di chiarire che il Signor Presidente Alvaro Uribe Vélez giammai si è riferito in termini squalificanti verso nessun candidato alla Casa Bianca.”
La lettera continua senza riferimenti né a Jordi Valle, né all’intervista con le FARC (sulla quale pure esistono ragionevoli dubbi), né soprattutto al fatto che dal citato comunicato del governo colombiano risulta che il signor Jordi Valle non risulta essere entrato in Colombia : “Según registros migratorios del Departamento Administrativo de Seguridad (DAS), quien dice llamarse Jordi Valle,… no ha ingresado a Colombia.”
La lettera dell’amabasciatore colombiano Sabas Pretelt de la Vega, nulla chiarisce ma anzi rende tutta la vicenda ancora più vergognosa, sembra infatti il raggiungimento più un accordo tra diplomazia e grande editoria. E se i dubbi sull’onestà dei nostri mezzi di informazione li abbiamo da tempo, giova forse ricordare a questo punto di quale diplomazia si tratti. Di quella colombiana, che nel nostro paese in tre anni ha visto nell’ordine venire richiamati in patria prima il console colombiano a Milano, Jorge Noguera Cote, poi arrestato nel suo paese con l’accusa di aver permesso l’infiltrazione di gruppi paramilitari di estrema destra del DAS, successivamente l’ambasciatore a Roma Luis Camilo Osorio, prima trasferito in Messico e poi richiamato in patria per rispondere in tre processi tuttora aperti in cui è accusato di aver favorito l’ingerenza dei paramilitari quando ricopriva la carica di Fiscal General tra il 2001 e il 2005.Ora tocca all’attuale ambasciatore Sabas Pretelt de la Vega, inquisito nel suo paese per lo scandalo della Yidispolitica, cioè la vendita di voti per permettere la rielezione di Uribe. Sabas Pretelt avrebbe corrotto direttamente la senatrice Yidis Medina che si trova attualmente in carcere quando egli era ministro dell’interno nel suo paese. Probabilmente anche lui presto sarà richiamato in patria, non senza aver rilasciato prima favori a qualcuno qui da noi.
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qui di seguito l’articolo di Maurizio Matteuzzi pubblicato sul Manifesto del 2 agosto:
LA POLEMICA
Due lettere e tante interviste impossibili
Maurizio Matteuzzi
Sul manifesto del 20 luglio è uscito un articolo intitolato «Gli scoop di Jordi, la nostra invidia» in cui si sollevava qualche dubbio, misto a meraviglia, sulle strabilianti interviste firmate di recente da Jordi Valle — interviste impossibili per noi mestieranti: Garcia Marquez, Hugo Chavez, Alfoso Cano (il nuovo leader delle Farc, ben due volte), Alvaro Uribe — e anche qualche perplessità sulla loro collocazione. «Relegate» sul Venerdì di Repubblica, anziché «sparate» nel quotidiano, la nave ammiraglia, come avrebbe fatto qualsiasi altro giornale del mondo.
Subito dopo Jordi Valle ha inviato una lettera al manifesto. Questa qui sotto (leggermente ridotta per ragioni di spazio).
«Leggo il pezzo a firma Matteuzzi. Chapeau ci sta giusto bene, dato che Le Monde ha pubblicato e pubblicherà del famoso riscatto e di un Cano che non è vero non abbia rilasciato interviste da tempo. (…) Non voglio entrare nel merito del “relegare” (…). Per la stima che ho sempre ho avuto per Attilio Giordano. Anzi anche per il coraggio di fare “giornalismo”. Quel giornalismo che ha perso curiosità e la voglia di scandagliare e “cercare” le notizie! Sì, passione. Quella passione che genera la “ricerca”. (…) Ho vissuto lunghi anni in sud America (…), ho imparato a conoscere “gente”. E ne ho scritto (…). I tempi cambiano, le grandi firme invecchiano. Mi sembra che gli “scribacchini” (mi permetto un termine con cui chiamo me stesso, e solo me stesso) abbiano perso la curiosità. (…) Dopo la polemica, montata da un free lance colombiano con radio Caracol, c’è stata una precisa presa di posizione dell’Ambasciata Colombiana, che ringrazia il Venerdì di Repubblica per la collaborazione, e scuse in diretta (…) di Maria Molina su Radio Caracol. E una lettera che ho ricevuto autografa da pochi minuti di solidarietà del Marquez. (…). Senza curiosità il giornalismo scivola (anche al manifesto?) su chine di standardizzazione. (…)
Con stima, Jordi Valle».
Ringraziamo Jordi Valle per la lettera. Solo due precisazioni. La prima: «una precisa presa di posizione dell’ambasciata colombiana»? È vero che nella lettera uscita ieri sul Venerdì di Repubblica, l’ambasciatore Sabas Preteit De la Vega «ringrazia» il settimanale per l’affettuosa «collaborazione» alle gesta di Uribe e nega solo che «il Signor Presidente» abbia usato le parole «squalificanti» sul nero Barack Obama attribuitegli nell’intervista. Tuttavia «fonti dell’ambasciata« colombiana a Roma — che hanno nome e cognome — (mi) dicono che «per l’ambasciata la posizione resta quella del comunicato ufficiale della presidenza della repubblica». Che il 18 luglio parlava di «una lettera di smentita inviata alla direzione del giornale» (certo non la missiva dell’affettuoso ambasciatore uribista), di Uribe che «non si è mai incontrato con il signor Valle né gli ha mai concesso alcuna intervista», della polizia di frontiera a cui non risulta che nessun Jordi Valle «sia mai entrato in Colombia». La seconda: le «scuse in diretta di Maria Molina su Radio Caracol», dopo che l’emittente colombiana gli aveva dato del «mitomane». Maria Molina, raggiunta per telefono, (mi) dice che «nessuna scusa in diretta. Il signor Valle ha minacciato di querelarci ma noi non abbiamo niente da ritrattare».
Resta il mistero Repubblica. Che sia solo la vecchia pratica dei giornali italiani di spacciare fuggevoli incontri da lontano (o anche peggio) per «interviste esclusive»? Voci maligne (mi) dicono che una «intervista» a Cano (un’altra!) annunciata da Valle di imminente uscita su Le Monde sia stata rifiutata perché non corredata da prove inconfutabili di autenticità. Almeno finora. Ha ragione Jordi Valle. Per fare questo mestieraccio ci vuole curiosità, voglia di scavare, coraggio. E anche molta fantasia.
Subito dopo Jordi Valle ha inviato una lettera al manifesto. Questa qui sotto (leggermente ridotta per ragioni di spazio).
«Leggo il pezzo a firma Matteuzzi. Chapeau ci sta giusto bene, dato che Le Monde ha pubblicato e pubblicherà del famoso riscatto e di un Cano che non è vero non abbia rilasciato interviste da tempo. (…) Non voglio entrare nel merito del “relegare” (…). Per la stima che ho sempre ho avuto per Attilio Giordano. Anzi anche per il coraggio di fare “giornalismo”. Quel giornalismo che ha perso curiosità e la voglia di scandagliare e “cercare” le notizie! Sì, passione. Quella passione che genera la “ricerca”. (…) Ho vissuto lunghi anni in sud America (…), ho imparato a conoscere “gente”. E ne ho scritto (…). I tempi cambiano, le grandi firme invecchiano. Mi sembra che gli “scribacchini” (mi permetto un termine con cui chiamo me stesso, e solo me stesso) abbiano perso la curiosità. (…) Dopo la polemica, montata da un free lance colombiano con radio Caracol, c’è stata una precisa presa di posizione dell’Ambasciata Colombiana, che ringrazia il Venerdì di Repubblica per la collaborazione, e scuse in diretta (…) di Maria Molina su Radio Caracol. E una lettera che ho ricevuto autografa da pochi minuti di solidarietà del Marquez. (…). Senza curiosità il giornalismo scivola (anche al manifesto?) su chine di standardizzazione. (…)
Con stima, Jordi Valle».
Ringraziamo Jordi Valle per la lettera. Solo due precisazioni. La prima: «una precisa presa di posizione dell’ambasciata colombiana»? È vero che nella lettera uscita ieri sul Venerdì di Repubblica, l’ambasciatore Sabas Preteit De la Vega «ringrazia» il settimanale per l’affettuosa «collaborazione» alle gesta di Uribe e nega solo che «il Signor Presidente» abbia usato le parole «squalificanti» sul nero Barack Obama attribuitegli nell’intervista. Tuttavia «fonti dell’ambasciata« colombiana a Roma — che hanno nome e cognome — (mi) dicono che «per l’ambasciata la posizione resta quella del comunicato ufficiale della presidenza della repubblica». Che il 18 luglio parlava di «una lettera di smentita inviata alla direzione del giornale» (certo non la missiva dell’affettuoso ambasciatore uribista), di Uribe che «non si è mai incontrato con il signor Valle né gli ha mai concesso alcuna intervista», della polizia di frontiera a cui non risulta che nessun Jordi Valle «sia mai entrato in Colombia». La seconda: le «scuse in diretta di Maria Molina su Radio Caracol», dopo che l’emittente colombiana gli aveva dato del «mitomane». Maria Molina, raggiunta per telefono, (mi) dice che «nessuna scusa in diretta. Il signor Valle ha minacciato di querelarci ma noi non abbiamo niente da ritrattare».
Resta il mistero Repubblica. Che sia solo la vecchia pratica dei giornali italiani di spacciare fuggevoli incontri da lontano (o anche peggio) per «interviste esclusive»? Voci maligne (mi) dicono che una «intervista» a Cano (un’altra!) annunciata da Valle di imminente uscita su Le Monde sia stata rifiutata perché non corredata da prove inconfutabili di autenticità. Almeno finora. Ha ragione Jordi Valle. Per fare questo mestieraccio ci vuole curiosità, voglia di scavare, coraggio. E anche molta fantasia.
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Il Messico dice NO alla privatizzazione del petrolio
Domenica 27 luglio si è tenuta in Messico la Consulta Ciudadana, con la quale la popolazione è stata chiamata ad esprimersi sulla proposta di completa privatizzazione dell’impresa petrolifera PEMEX presentata da Felipe Calderón, il presidente del paese.
L’85% della popolazione ha detto NO.
Jordi Valle: lettera a Ezio Mauro, direttore di Repubblica
Al Direttore di Repubblica
Ezio Mauro
Al caporedattore del Venerdì di Repubblica
Attilio Giordano
Alla Direzione
del Gruppo Editoriale l’Espresso SPA
All’Ordine dei Giornalisti
Un articolo di Maurizio Matteuzzi, pubblicato il 20 luglio scorso sul Manifesto, denuncia che una serie di importanti interviste pubblicate dal suo giornale nel supplemento Il Venerdì a personaggi del calibro di di Fidel Castro, Gabriel Garcìa Màrquez, Álvaro Uribe, Hugo Chávez e per ultima quella al capo delle FARC, Alfonso Cano, a firma del vostro collaboratore Jordi Valle sarebbero false.
Particolarmente per una, quella al presidente colombiano Álvaro Uribe, pubblicata l’11 luglio 2007, esiste la smentita ufficiale pubblicata sulla pagina web del governo della Colombia che può essere letta qui: (http://web.presidencia.gov.co/sp/2008/julio/18/11182008.html)
Dove si legge anche che la direzione di Repubblica è già stata informata dal governo colombiano lo stesso giorno della pubblicazione dell’intervista.
Dopo la pubblicazione dell’articolo di Maurizio Matteuzzi sul sito annalisamelandri.it, inoltre decine di persone hanno lasciato sullo stesso (http://www.annalisamelandri.it/dblog/articolo.asp?articolo=613)
la loro testimonianza relativamente a truffe e raggiri di varia entità che avrebbero subito proprio dal signor Jordi Valle.
Tutto ciò configura un caso gravissimo di violazione di ogni deontologia professionale da parte non semplicemente del sig. Valle, ma da parte del suo giornale dal quale i lettori si attendono un ben altro livello di professionalità e di rispetto per i lettori. Visto che la notizia dei falsi scoop è oramai di rilevanza nazionale internazionale e suscita dibattito e preoccupazione, stride il suo silenzio e quello del suo giornale, per il quale, in quanto lettrice dello stesso mi attendo un chiarimento pubblico.