Contro la così detta “Direttiva di Ritorno” e cioè il pacchetto di normative approvate il 18 giugno scorso dal Parlamento Europeo, si sono espressi in vario modo già il presidente venezuelano Hugo Chávez, quello ecuadoriano Rafael Correa e il presidente della Bolivia Evo Morales, nonché tutto il Mercosur.
Particolarmente dure sono state le parole di Hugo Chávez che ha minacciato di sospendere la fornitura di petrolio a quei paesi che ratificheranno le nuove misure adottate.
Il 24 luglio, anche il governo delle Repubblica Dominicana, ha reso noto attraverso i maggiori mezzi di comunicazione del paese, la posizione ufficiale rispetto alla “Direttiva di Ritorno”.
Portavoce del governo in questa materia si è fatto il CONDEX (Consejo Nacional para las Comunidades Dominicanas en el Exterior) e cioè il consiglio Nazionale per le Comunità Dominicane all’Estero, un ente la cui costituzione è stata prevista all’interno della legge CONDEX, approvata all’inizio dell’anno in corso dallo stesso presidente della Repubblica Dominicana, Leonel Fernández.
Praticamente si tratta di uno strumento, assente fino a questo momento nel paese, che permetterà la costituzione di reti di appoggio e solidarietà alle comunità di cittadini dominicani residenti all’estero, facilitandoli nella ricerca di un lavoro, nella formazione di un’ educazione adeguata, nella costituzione di imprese commerciali.
A Barcellona, inmediatamente dopo l’approvazione della Direttiva di Ritorno, il vicepresidente del CONDEX, Alejandro Santos, nel corso di una conferenza stampa, aveva fatto sapere che l’ente era contrario a tali normative in materia di immigrazione e che era in preparazione un documento, il quale una volta sottoposto all’approvazione del presidente della repubblica, sarebbe stato reso noto. E così è stato.
Il documento, dopo una serie di considerazioni iniziali nelle quali vengono riconosciuti il diritto sovrano di ogni nazione di stabilire autonomamente i flussi migratori e il fatto che la Repubblica Dominicana appoggia tutte le iniziative multilaterali e bilaterali che sanzionano e prevengono il traffico di persone, conferma di aver preso in considerazione la posizione del Mercosur espressa nella Dichiarazione del suo XXXV vertice firmato dai paesi membri ( Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay e Venezuela in corso di adesione) e quelli associati (Bolivia Cile, Ecuador, Perù e Colombia) che hanno manifestato formalmente la condanna alla Direttiva di Ritorno dell’Unione Europea.
Il CONDEX inoltre considera che più di un milione di dominicani e cioè una decima parte della popolazione, risiede all’estero e invia rimesse al paese per una cifra che supera i tre milioni di dollari, circa il 12% del Prodotto Interno Lordo.
Nel documento inoltre si conferma la posizione del governo dominicano e quindi si ribadisce che “la decisione adottata dall’Unione Europea pone a rischio i cittadini dominicani e gli altri cittadini dell’America Latina e del mondo che sono emigrati in Europa per integrarsi tramite un lavoro degno che gli permetta di sopravvivere” e si pone l’accento sul fatto che la Repubblica Dominicana e i paesei della regione, in passato sono stati generosi e ospitali con i cittadini dell’Unione Europea quando essi sono stati costretti ad emigrare in questi paesi.
Si dichiara nelle conclusioni finali inoltre che:
- le misure adottate dal Parlamento Europeo relative alla detenzione per 18 mesi degli immigrati senza documenti nei centri speciali, aprono uno spazio pericoloso rispetto alle violazioni dei diritti umani.
- le misure adottate dal Parlamento Europeo contraddicono le valutazioni positive che vengono generalmente espresse riguardo all’immigrazione come opportunità di crescita per entrambi i paesi toccati dai flussi migratori, e cioè quello di partenza e quello di arrivo.
- si esorta i paesi dell’Unione Europea a rivedere la Direttiva approvata recentemente e ad incorporare in essa meccanismi e strumenti affinché venga preservata e tutelata la dignità umana.
- si fa un appello ai governi dei paesi dell’Unione Europea affinché abbandonino l’uso di misure di coercizione come la reclusione e l’esplulsione e al loro posto si applichino strategie di sviluppo che includano il contingente umano che e’ stato costretto ad abbandonare il suo paese di origine come una volta, decenni fa, sono stati costretti a farlo gli stessi cittadini europei quando l’America latina presentava migliori possibilità di vita che la stessa Europa.
- si rende noto che il livello di attenzione riguardo alla difesa della dignità e dei diritti umani dei cittadini dominicani residenti all’estero verrà tenuto elevato.
- il CONDEX come loro rappresentante si adopererà affinché le comunità dei dominicani residenti all’estero siano continuamente informate sui loro diritti e doveri offrendogli appoggio e sostegno e rimarrà attento di fronte agli eccessi di razzismo e xenofobia che possano scaturire dall’applicaziobne della Direttiva di Ritorno in ognuno dei paesi dell’Unione Europea.
Da leggere e diffondere. Inevitabilmente viene da ridere ma il fatto è gravissimo.
VENERDÌ DI REPUBBLICA
Gli scoop di Jordi La nostra invidia
Maurizio Matteuzzi
Chapeau a la Repubblica, anzi al Venerdì di Repubblica.
In metà anno ha fatto una serie di scoop strabilianti. In sequenza: il 18 gennaio un incontro-intervista con Gabriel Garcia Marquez a Cartagena, notoriamente non facile da avvicinare; il 9 maggio un’intervista al venezuelano Hugo Chavez nel palazzo di Miraflores a Caracas; il 6 giugno un’intervista «in un luogo segreto della foresta amazzonica» con i due leader massimi delle Farc dopo la morte di Tirofijo, Alfonso Cano e Mono Jojoy; l’11 luglio incontro-intervista, in un luogo imprecisato di Bogotá, forse lo stesso palazzo presidenziale di Nariño, con il presidente colombiano Alvaro Uribe, l’eroe della cinematografica liberazione della Betancourt di qualche giorno prima (il 2 luglio), un altro che per avvicinarlo bisogna sputar sangue; il 18 luglio in un luogo imprecisato della selva forse in Colombia forse in Ecuador, un nuovo incontro-intervista con Alfonso Cano nel giro di un mese. Straordinario, considerato che mezzo mondo cerca Cano, a cominciare dagli efficientissimi reparti anti-guerriglia di Uribe. E che, a quanto si sa Cano sono (erano) 8 anni che non dava interviste.
Scoop che si devono tutti a un solo uomo. Jordi Valle si chiama, un ingegnere petrolifero che è nato in Catalogna ma vive sul lago di Como e «scrive per divertimento» (lo dice lui). Un amateur quindi, ma uno che, a quanto si legge nelle sue interviste, conosce ed è conosciuto. «Ti trovo sempre bene, don Gabriel», dice a Gabo. «Gli ricordo che…» fa a Uribe. Chavez «lo interrompiamo per chiedergli…». Il Mono Jojoy lo «aspetta davanti a una birra». Intimità e autorevolezza, capacità di trovare e avvicinare in qualsiasi momento gente che i giornalisti di mezzo mondo (e in qualche caso anche i servizi segreti) non si sognano nemmeno di poter localizzare e avvicinare.
Roba da rosicare dall’invidia.
Cappello. Anche se — a nostro modesto parere — la Repubblica non li ha sfruttati come avrebbe dovuto, visto il timing straordinario di quegli incontri-intervista con personaggi di cui tutto il mondo stava parlando in quel momento. Anziché «spararli» sul quotidiano, l’ammiraglia della flotta li ha relegati — quasi volesse nasconderli — sul Venerdì. Non solo ma su nessuno di loro, eccetto l’ultimo, ci ha fatto la copertina, «sprecandoli» nelle pagine interne.
I colombiani, invidiosi anche loro, non ci stanno. Caracol, forse la radio più autorevole dell’America latina, dice di aver parlato con Valle al telefono e di aver concluso che è «un mitomane». L’ambasciata colombiana a Roma ha smentito l’intervista a Uribe, precisando che il presidente non concede interviste a nessuno da molti mesi. La stessa presidenza della repubblica colombiana (www.presidencia.com.co) ha addirittura diffuso venerdì scorso un comunicato in cui sostiene di aver scritto una lettera alla direzione di Repubblica già l’11 luglio per precisare che «il Presidente Alvaro Uribe non ha mai fatto le false dichiarazioni» attribuitegli dal «giornalista Jordi Valle». Anzi Uribe sostiene «di non aver mai incontrato il signor Valle né di avergli concesso alcuna intervista» e intigna ancora affermando che «il signor Valle dal 2002 non ha mai messo piede alla presidenza della repubblica». E non solo a Palazzo Nariño: dai registri di migrazione del Das, il Dipartimento amministrativo di sicurezza, non risulta che qualcuno «che dice di chiamarsi Jordi Valle sia mai entrato in Colombia».
Chissà che prima o poi non si faccia vivo anche Alfonso Cano.
…
per completare:
smentita ufficiale del governo colombiano sull’intervista a Uribe
Montenegrina – Questa giovane ragazza, fotografata prima della cattura, era sospettata di essere una collaboratrice dei partigiani. Fu uccisa schiacciandole la testa con una pietra: c’era l’ordine di non sprecare pallottole nelle esecuzioni dei “ribelli”.
“La storia d’Italia conservata nelle case” è il titolo di una trasmissione che andrà in onda a Radio Onda Rossa domani, 23 luglio alle ore 11.
Sarà diretta da Salvatore Ricciardi e si avvalerà della collaborazione dell’amico Gavino Puggioni, esperto e studioso di storia orale e scrittura popolare, che interverrà telefonicamente.
La trasmissione, alla quale seguiranno altre iniziative sia editoriali che in rete, ha per oggetto proprio lo studio della storia orale del nostro paese, fatta e scritta da coloro i quali l’hanno vissuta in prima persona.
Nel corso della prima trasmissione sarà presente Davide Conti,
autore del libro: L’occupazione italiana dei balcani – Crimini di guerra e mito Della brava gente (1940–1943). Ed. Odradek.
“La trasmissione di mercoledì 23 parlerà del Regio Esercito durante l’occupazione italiana dei Balcani negli anni 1940–1943.
Occupazione caratterizzata da una lunga serie di crimini di guerra, di cui una testimonianza sono le quattro fotografie, (di cui pubblicata su questo sito) scattate a Niksic in Montenegro da un soldato italiano tra il maggio e il novembre 1942. Delle quattro fotografie racconteremo le loro origini, il loro ritrovamento e le ricerche che ne sono seguite per raccontare la storia, le storie, di cui sono viva testimonianza.” (Gavino Puggioni)
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Qui la registrazione della trasmissione di Radio Onda Rossa
Ascolta l’intervista di Cecilia Rinaldini a Adolfo Pérez Esquivel al GR1.
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Il premio Nobel per la Pace, Adolfo Pérez Esquivel, presiederà a Bogotà il prossimo 23 luglio l’ultima udienza del Tribunale Permanente dei Popoli, sezione Colombia.
Verranno emesse in questa udienza finale le condanne a carico delle multinazionali straniere e delle imprese nazionali colombiane che hanno commesso violazioni dei diritti umani e crimini contro l’umanità verso tutte le popolazioni indigene e verso le comunità di contadini che si trovano nei territori dove queste operano e lavorano.
Il processo, iniziato a Berna due anni fa, conclude questa sua prima fase di indagine nella quale sono stati esaminati gli impatti delle politiche delle multinazionali sui territori e sulle comunità particolarmente nelle zone in cui maggiore è la loro attività e cioè quelle più ricche di risorse petrolifere e minerarie.
Sono state tenute davanti alla sezione Colombia del Tribunale Permanente dei Popoli 17 udienze preliminari nazionali e internazionali e sei udienze specifiche relative a questi settori: agroalimentario, petrolifero, minerario, della biodiversità, dei servizi pubblici e dei crimini contro le comunità indigene.
Le multinazionali accusate sono la Coca Cola, Nestlé, Chiquita Brands, BP, OXI, Repsol, Drummond, Cemex, Holcim, Muriel, Glencore-Xtrata, Anglo American, Bhp Billington, Anglo Gold, Monsanto, Smurfit Kapa – Cartón de Colombia, Multifruits S.A. – Delmonte, Pizano S.A e la sua filialel Maderas del Darién, Urapalma S.A, Dyncorp; Unión Fenosa, Aguas de Barcelona, Canal Isabel II, Endesa, Telefónica y TQ3, nonché i governi dei paesi dove queste aziende hanno sede e il governo colombiano per aver permesso lo sfruttamento delle sue ricchezze e per essere stato complice silenzioso nei crimini che tali multinazionali hanno compiuto nel corso di questi anni contro il suo popolo.
Alcune di esse, avvalendosi infatti dell’appoggio di gruppi armati vincolati in maniera piu o meno evidente con lo Stato hanno commesso crimini che vanno dallo sfollamento di intere comunità., agli omicidi contro dirigenti sindacali ed attivisti politici, alla sparizione forzata.
Particolarmente grave è la situazione dei lavoratori della Nestlè, denuncia il sindicato Sinaltrainal.
Dal 1996 al 2007 undici operai di questo gruppo sono stati uccisi, altri sono stati espulsi dalle loro terre ed altri ancora sono stati costretti costretti all’esilio per le minacce ricevute.
La stessa Nestlè è stata investita da uno scandalo circa un mese fa quando nel corso della trasmissione “Temps present” della televisione svizzera venne diffusa la notizia che la multinazionale, servendosi di una società di sicurezza privata, la Securitas, aveva spiato per più di un anno il lavoro del gruppo Attac, i cui militanti stavano scrivendo un libro dal titolo “Attac contro l’impero Nestlè”.
Almeno una infiltrata della Securitas partecipò alle riunioni del gruppo Attac e alla stesura del libro, tenendo accesso a informazioni strettamente riservate e importanti e potendo relazionare su di esse la dirigenza della società, che informò prontamente i vertici della multinazionale. Queste informazioni riguardavano tra l’altro nomi e indirizzi ddi membri del sindacato colombiano, dal momento che uno dei capitoli particolarmente importanti del libro era dedicato proprio alle violazioni dei diritti umani in Colombia commesse da parte del gruppo Nestlè.
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Pubblico questa riflessione giuntami dall’amico Raffaele Mangano, autore tra gli altri di “Il mio amico Abdul” recensito qui.
“Praticamente si pranzava sul marciapiede. Il cameriere andava avanti e indietro, sudato e accaldato, scusandosi per il ritardo del cuoco che doveva cucinare solo riso, verdure e un orribile pollo bollito. Ad un tratto un uomo cencioso attraversò la strada barcollando. Giunto nei pressi della locanda, stramazzò a terra. Giusto un brusio, poi gli avventori ripresero a darsi da fare con le portate. Sapevo già tutto, ma rimasi lo stesso turbato. Il poveretto era un paria, un intoccabile. Sarebbe morto e poi un carro della municipalità di Calcutta avrebbe rimosso il corpo, come se fosse un cane randagio.
Due bambine rom muiono sulla spiaggia. I bagnanti rimangono stesi sui lettini, bevono bibite fresche, fanno il bagno, leggono riviste di gossip.
Insomma ci siamo arrivati anche noi. La nuova Italia non ha più nulla da invidiare a nessuno. Evviva”
Estoy convencida de que la cosa más sabia que podía haber hecho Ingrid Betancourt –y que, como todos nos enteramos, no hizo– era declarar un prudente y sabio silencio ante la prensa y disfrutar de su familia por al menos un mes, el tiempo justo para restablecerse, formarse una idea de lo que ha ocurrido durante su ausencia, hablar con sus familiares y luego surgir consecuentemente. Me sorprende y molesta esta vehemencia logorréica que ha caracterizado su primera semana de libertad. Me sorprenden sus declaraciones que, según un análisis no dictado por la compasión y el “buenismo”, parecen demasiado apresuradas. Todos nosotros sentimos pena por el aspecto humano y doloroso que ha caracterizado su vicisitud; la lejanía de sus hijos, la reclusión en condiciones seguramente nada fáciles. Claramente consideramos inaceptable el secuestro cómo práctica de lucha revolucionaria. Pero nosotros, que con escritos, artículos, movilizaciones, llamados y solidaridad con las víctimas silenciosas y olvidadas de una guerra civil que no cesa desde hace casi medio siglo, nosotros que trabajamos para que sobre Colombia no baje el silencio rigurosamente impuesto por las multinacionales de la información, tenemos ahora más que nunca el deber de recordar que en Colombia se cometen contínuamente crímenes y barbaridades desde “la parte legítima” del país.
La misma que ahora aparece a los ojos del mundo como paladín de las libertades cíviles por restituir a Ingrid Betancourt su vida. Nosotros, coherentes con nuestras posturas, no podemos aceptar, por ejemplo, que un presidente corrompa a una diputada comprando su votación para la reelección. Coherentemente con nuestras posturas, no podemos aceptar que en lo que se hace llamar una democracia se pongan uniformes de la guerrilla y se mate a ciudadanos inocentes para testimoniar el éxito de la política de gobierno de Seguridad Democrática, o que se utilicen sus cadáveres cómo comprobante de gasto ante el Congreso de Estados Unidos.
No podemos aceptar y callar el hecho de que en Colombia la Fiscalía está investigando sobre la desaparición de 15 645 personas, de las cuales el 97% de las denuncias se dirigen contra los paramilitares y agentes del Estado, y solamente el 3% contra la guerrilla. De estas, 1 259 denuncias de desapariciones forzadas se refieren al periodo comprendido entre el primer mandato de Uribe y la mitad del año 2007.Y por eso, coherentemente con nuestras posturas –siempre expresadas con fuerza y determinación–, por todas esas razones, no entendemos por qué Ingrid Betancourt, que en el momento de su secuestro estaba al pie del cañon en la lucha contra la corrupción en Colombia y favorable al diálogo con la guerrilla, una vez liberada diga que “Uribe ha sido un buen presidente” o que “los colombianos eligieron libremente a Uribe”, o el “por qué no?” que se le escapó comentando la oportunidad de al menos un tercer mandato del presidente colombiano.
Son declaraciones fuertes y llenas de sentido político. Qué se podía esperar, por lo tanto? Decir que Felipe Calderón, presidente de México, puede ser de gran ayuda a Colombia para la liberación delos rehenes es una afirmación grave e imprudente. No creo que Ingrid Betancourt no sepa nada de lo ocurrido en Oaxaca hace dos años; no creo que Ingrid Betancourt no conozca la grave situación de violación de los derechos humanos en México, a tal grado que hasta los Estados Unidos condicionaron sus ayudas a la Iniciativa Mérida al respeto de ellos. Y si Ingrid Betancourt no sabía todo eso, hubiera hecho mejor en callarse e informarse primero.
Es difícil pensar que ella, en la selva, no estaba al tanto de lo que ocurría en el país y en el exterior. Ella tenía acceso a la radio cada día y hasta estaba informada sobre el cabezazo de Zidane a Materazzi, imaginémonos si no sabía que el segundo mandato de Uribe está en riesgo de ser juzgado ilegal. Imaginémonos si la guerrilla, si los jefes carceleros de los rehenes –con uno de los cuales Ingrid admitió tener una intíma amistad– no comentaban entre ellos y hasta con ella los escandálos casi diários de la parapolítica donde hay casi 70 parlamentarios investigados y 30 en la cárcel por diferentes delitos y vínculos con el paramilitarismo.
Entonces, si es verdad que nadie tiene el derecho de juzgar y condenar a quien ha pasado seis años como prisionera en la selva, alejada del cariño de los suyos, pensando día tras día en sus hijos, es también verdad que existen responsabilidades bien ciertas cuando uno decide revestir un rol público y político. E Ingrid Betancourt asume también ahora el rol de “paladín de los derechos del pueblo colombiano” como lo había asumido antes de ser secuestrada, dejando imaginar o postulando una próxima candidatura presidencial, y aún más declarando querer hacer de la liberación de los demás rehenes de la guerrilla su batalla.
Pero va a ser una batalla política, no militar, la que tendrá que conducir –ha declarado Ingrid que desearía ser un soldado más del ejercito colombiano–; política, porqué en Colombia los rehenes en la selva no están jugando al ajedrez. El hecho de estar ella misma prisionera por seis años, el hecho que están otros rehenes desde hace más tiempo todavía (recordamos al hijo del maestro Moncayo, secuestrado desde hace 10 años), el hecho que en las cárceles colombianas están centenares de guerrilleros en condiciones ciertamente no mejores de las que están los rehenes de las FARC, es una clara demostración, también para los que menos saben de la realidad de Colombia, de que en el país se está desarollando desde hace tiempo una guerra. Y para rescatar a los rehenes producto de una guerra hay que ser soldados o políticos.
Qué puede hacer Ingrid Betancourt una vez quitado el casco militar que le pusieron en la cabeza en el avión que la estaba llevando a la libertad? Una vez terminado el concierto en París donde cantará con Miguel Bosé, Manu Chao y Juanes; qué hará Ingrid Betancourt por todos los rehenes que todavía siguen prisioneros en Colombia? Y tiene claro ella que liberar a los prisioneros quiere decir también mediar por un Intercambio Humanitario, buscar una solución que no sea llevar diez mil hombres a pudrirse en una cárcel, o peor, a ser descuartizados por la represalia de las motosierras de los paramilitares?
Tiene claro Ingrid Betancourt que existe la guerrilla porqué existe conflicto social, y existe conflicto social porque hay injusticia, pobreza y represión? Parecería que sí; si declaró que mientras Uribe entiende el problema de Colombia vinculado a la seguridad y a la violencia, ella lo entiende como vinculado al malestar social que, consecuentemente, produce violencia.
Y entonces, ya que lo sabe, cómo se puede decir que Uribe ha hecho mucho por el país y que ha sido un buen presidente? Ingrid no descarta la posibilidad de candidatearse a la presidencia de Colombia, y un compañero de prisión liberado antes que ella nos cuenta de un programa electoral de 200 puntos ya listo, escrito en la selva.
Asumir una responsabilidad como ésta necesita obligatoriamete de prudencia. Quien dice no descartar la hipótesis de candidatearse como futuro presidente de Colombia no puede decir tres días después que por el momento no volverá a Colombia y no sabe cuándo volverá.
Quien se proclama líder de la batalla por la liberación de todos los rehenes de las FARC no puede decir tres días después que no puede ir a la manifestación del 20 de julio porqué teme por su vida, y entonces organiza una en la más comoda y segura Paris.
Preguntemos a Iván Cepeda, a Piedad Córdoba, al maestro Moncayo y a todos los valientes, anónimos y humildes defensores de los derechos humanos cuánto miedo tienen de luchar en Colombia, y todavía siguen haciendólo, a veces sin protección, a veces con Uribe que no los abraza como hizo con la Betancourt, pero sí los ataca a través de los medios televisivos y la prensa escrita, acusándondolos de ser simpatizantes de la guerrilla y, de hecho, condenándolos a muerte.
Le hubieramos podido preguntar a John Fredy Correa Falla, de los Comités Permanentes por la Defensa de los Derechos Humanos, si tuvo miedo cuando hace días fue asesinado por cuatro hombres armados. Él gozaba de algunas medidas de protección claramente insuficientes; él y su familia estaban amenazados por grupos de paramilitares de la zona.
Entonces me pregunto, cómo se puede hablar de liberación de todos los rehenes en la manera como lo está haciendo Ingrid Betancourt, entre una referencia a su pelo largo y otra a los perfumes y los pintalabios que le faltaron, entre un viaje a Lourdes y una audiencia papal?
Entendemos muy bien sus temores y los de su familia por claros motivos de seguridad, entendemos que las FARC ahora le puedan parecer como lo peor que haya en Colombia, y que si la hubiera rescatado Hitler personalmente lo hubiera abrazado como lo hizo con el general Montoya (controvertido personaje del ejercito colombiano vinculado con los paramilitares), pero Colombia , y eso Ingrid Betancourt debe saberlo, es un país difícil, donde se muere matados por todos los lados y donde la violencia del Estado supera la de la guerrilla y es mucho menos aceptable que ésta.
Por todas estas razones, creo que sería correcto un decoroso silencio por parte de Ingrid Betancourt. Al menos por ahora.
Questa è la copia di un documento di un rom censito (schedato?) a Napoli.
E se non è una pratica razzista perchè l’indicazione della religione e dell’etnia?
Chissà magari tra un po’ tireranno fuori che nel 2010 sarà obbligatorio per tutti quanti indicare al momento di chiedere il rilascio di un documento l’appartenenza alla religione cattolica o no, se praticanti o meno, se meno quante volte si saltano le messe comandate, se siciliani piuttosto che lombardi e se lombardi se si tifa per il Milan o per la Juventus.
Alcune ONG hanno reso noto in questi giorni i dati relativi all’applicazione della tortura in Colombia.
In tre anni, tra il giugno del 2004 e il mese di luglio del 2007, 346 persone sono state torturate, delle quali 234 prima di essere uccise. Soltanto nel 2007 sono stati denunciati 93 casi di tortura, 43 dei quali relativi a persone che poi sono state uccise.
Nel 90% di questi casi la responsabilità è da attribuirsi allo Stato, di cui nel 70,4% dei casi deriva da azione diretta di soldati o forze di polizia. Un 19,7% dei casi è da attribuirsi a violazioni dei diritti umani commesse da paramilitari e il 9,8% dai gruppi della guerriglia.
Tra il giugno 2002 e luglio 2007 i casi di esecuzioni extragiudiziali attribuibili alla Forza Pubblica sono stati 955, una percentuale in netto aumento rispetto agli anni precedenti. Erano infatti 577 i casi registrati nei quattro anni precedenti al 2002.
Lo studio è stato presentato dalla Coalizione Colombiana contro la Tortura, il cui portavoce Franklin Castañeda insieme al rappresentante in Colombia della Federazione Internazionale dei Diritti Umani (FIDH) e della direzione del Collettivo di Avvocati José Alvear Restrepo, Alirio Uribe fanno notare come questo periodo di tempo preso in considerazione sia quello in cui è stata applicata la “politica di sicurezza democratica” nel paese.
Il rapporto è stato inoltre reso noto alla presenza dello svizzero Eric Sottas, direttore dell’Organizzazione Mondiale Contro la Tortura il quale ha espresso la sua preoccupazione e quella dell’organismo della quale si trova a capo per la grave situazione dei diritti umani in Colombia.
Mc Cain nel suo recente viaggio in Colombia
“Sono un sostenitore totale del Trattato di Libero Commercio con il Centroamerica e del Trattato di Libero Commercio con la Colombia, e questa è la ragione per la quale un Trattato di Libero Commercio emisferico è una meta necessaria e degna per la quale è giunta l’ora”.