Foto: Luigino Bracci
A Caracas, nell’ultima settimana di marzo, si sono svolti contemporaneamente due incontri di significato diametralmente opposto e che hanno avuto come tema centrale la libertà di stampa e l’influenza che i media hanno nella vita sociale e politica dell’America Latina.
Si è tenuta infatti sia la riunione semestrale della Sociedad Interamericana de Prensa (SIP), che raggruppa editori e rappresentanti dei maggiori mezzi di comunicazione degli Stati Uniti e dell’ America Latina, fortemente critica con i governi progressisti della regione, e particolarmente con quello venezuelano, sia il primo convegno “latinoamericano contro il terrorismo mediatico” che questi governi subiscono da parte dei mezzi privati di comunicazione in un contesto più ampio di strategia al servizio delle grandi potenze e dei poteri economici organizzato dal Foro Latinoamericano e dall’Agenzia Bolivariana de Noticias (ABP) al quale hanno partecipato operatori della comunicazione e giornalisti di oltre 14 paesi.
La Sociedad Interamericana de Prensa, “il braccio giornalistico del governo americano” come la definisce il giornalista cileno e segretario esecutivo della Federación Latinoamericana de Periodistas (FELAP), Ernesto Carmona, ha ovviamente denunciato in questa riunione, come fa da tempo ormai, le presunte violazioni alla libertà di stampa commesse da parte del governo di Hugo Chávez.
Un paradosso, come lo stesso Chávez ha tenuto a sottolinerare: “condannano il Venezuela per le violazioni della libertà d’espressione dalla stessa Caracas dove affermano che si vive sotto dittatura”.
Ricordiamo che la stessa SIP lo scorso anno, consegnò il Premio alla libertà di Stampa , a Marcel Granier, l’imprenditore venezuelano proprietario dell’emittente RCTV alla quale il Venezuela non rinnovò la licenza alla sua scadenza e che ebbe parte attiva nel golpe dell’aprile 2002 contro il presidente Chávez.
Il quarto potere è esercitato dagli Stati Uniti e dalle grandi multinazionali che controllano i mezzi di comunicazione in America latina proprio attraverso la Sociedad Interamericana de Prensa alla quale sono legati gruppi oligarchici della regione che a loro volta controllano la stampa nei loro rispettivi paesi.
Come riferisce Ernesto Carmona, “uno sguardo ai nomi che compongono il direttivo della SIP” semplifica la comprensione di quanto sopra affermato.
La direzione amministrativa della società è in mano a sette persone, di cui cinque sono proprietari di quotidiani statunitensi e solo due sono latinoamericani, dei quali uno, il direttore esecutivo, con scarsa voce in capitolo è un cileno, Julio Muñoz Mellado, l’altro, che invece occupa la vicepresidenza della SIP, è un nome noto. Si tratta infatti del colombiano Enrique Santos Calderón . La sua famiglia, oltre ad essere proprietaria di El Tiempo, il quotidiano più diffuso in Colombia, ha due rappresentanti anche nel governo, che sono Francisco Santos Calderón, cugino di Enrique e Juan Manuel Santos Calderón, il fratello di Enrique ‚ rispettivamente vicepresidente e ministro della Difesa del paese.
La Sociedad Interamericana de Prensa, si avvale nella regione dell’appoggio di gruppi locali imprenditoriali, legati al mondo della comunicazione, spesso vincolati alla destra più conservatrice e reazionaria dei singoli paesi, la quale a sua volta mantiene stretti legami con la destra europea, particolarmente quella spagnola.
Il caso di Marcel Granier è emblematico in questo senso. Può ancora nel suo paese, in Venezuela, dove ha apertamente appoggiato un colpo di Stato, applicando tecniche di terrorismo mediatico dalla sua emittente RCTV, prendere parte alle riunioni della SIP dove esprimere quanto appreso al convegno dei neo-con ultraliberisti che si era tenuto qualche giorno prima a Rosario in Argentina presieduto da Mario Vargas Llosa e dove hanno preso parte ovviamente José María Aznar e quasi tutti gli ex presidenti latinoamericani legati alla destra e al neo-liberismo, dal messicano Vicente Fox al salvadoreño Francisco Flores, dall’ecuadoriano Osvaldo Hurtado al boliviano Jorge “Tuto” Quiroga.
Contro il terrorismo mediatico, portato avanti dalla SIP in America Latina, secondo questa direttrice che, dagli Stati Uniti non casualmente passa attraverso la famiglia Santos e quindi la Colombia, ha avuto grande successo a Caracas, nel Centro de Estudios Latinoamericanos Rómulo Gallegos (Celarg), ad appena un isolato di distanza dal grande Hotel Caracas Palace, dove era riunita la SIP, la denuncia che è stata fatta contro quello che Freddy Fernández direttore di ABN ha definito “l’uso dei mezzi di comunicazione come armi politiche contro alcuni governi della regione”. Una denuncia quindi, contro il tentativo, da parte di potenti gruppi economici e finanziari, di destabilizzare, nella logica di un conflitto a bassa intensità, i governi dei paesi che si stanno lentamente affrancando dal dominio economico, politico e militare del Nord.
Nella Dichiarazione di Caracas che è scaturita da questa denuncia, viene chiesto a tutti i capi di Stato dell’America Latina e dei Caraibi di includere il tema del terrorismo mediatico nei vertici internazionali, dal momento che, è segnalato nel testo “il terrorismo mediatico è la prima espressione e condizione necessaria del terrorismo militare ed economico che il Nord industrializzato utilizza per imporre all’Umanità la sua egemonia imperiale e il suo dominio neocoloniale”.
La condanna, oltre che alla Sociedad Interamericana de Prensa è stata estesa anche a quei gruppi come Reporter senza frontiere che “rispondono ai dettami di Washington nella falsificazione della realtà e nella diffamazione globalizzata” (e che ammette apertamente di essere finanziata dal governo statunitense a questo scopo) ma anche però all’Unione Europea, che compie questo ruolo rispondendo a vecchie alleanze e nuove egemonie economiche nella regione.
Noi giornalisti, comunicatori, studenti di comunicazione
dell’America latina, Caribe e Canada, riuniti a Caracas in questo primo incontro
latinoamericano contro il terrorismo mediatico, denunciamo l’uso della
manipolazione da parte delle multinazionali dell’informazione attuata come un’aggressione imponente e permanente verso i popoli ed i governi che lottano per la pace, la giustizia e l’integrazione.
Il terrorismo mediatico e’ la prima espressione e condizione
necessaria del terrorismo militare ed economico che il Nord industrializzato
impiega per imporre all’Umanità’ la sua egemonia imperiale e il suo
dominio neocoloniale. Come tale e’ nemico della libertà, della democrazia
e della società aperta e deve essere considerato come la peste delle
cultura contemporanea.
A livello regionale, il terrorismo mediatico, utilizzato come arma
politica al fine di rovesciare governi democratici di paesi come
Guatemala, Argentina, Cile Brasile, Panama, Grenada, Haiti, Perù, Bolivia,
Rep. Dominicana, Ecuador, Uruguay e Venezuela, e’ utilizzato oggi, per
sabotare qualsiasi possibilità di accordo umanitario, o soluzione
politica del conflitto colombiano e per regionalizzare la guerra nella zona
andina.
L’attuale lotta democratica in Ecuador, Bolivia e Nicaragua, insieme
a Brasile, Argentina ed Uruguay e Messico, conferma la volontà
politica delle nostre società di sbarazzarci dell’aggressiva e simultanea
campagna di diffamazione delle multinazionali dell’informazione e della (Sociedad Interamericana de Prensa) SIP. Cuba e Venezuela rappresentano
chiaramente i bersagli principali di questa battaglia ancora aperta. Siamo
inoltre obbligati a rinnovare i nostri sforzi davanti alla drammatica
situazione che attraversa il giornalismo democratico in Peru’, Colombia
ed altre nazioni.
Questo Incontro Latinoamericano ha mostrato la necessità di creare la
Piattaforma Internazionale contro il Terrorismo Mediatico che convoca
ad un nuovo incontro, da realizzarsi entro due mesi, al quale parteciperà insieme ad altre organizzazioni come la Federación Latinoamericana de Periodistas (FELAP), che con la crescita delle coscienze dei popoli latinoamericani e del Caribe ha difeso in maniera esemplare il diritto alla verità e al motto che incarna i suoi principi: per un giornalismo libero in libere patrie.
Impegnata a criminalizzare tutte le forme di lotta e resistenza dei
popoli, con il pretesto di una fallace nozione di sicurezza,
l’amministrazione fondamentalista di G.W. Bush si e’ resa responsabile della
sistematica aggressione terrorista degli ultimi anni contro i mezzi di
comunicazione alternativi, popolari e comunitari, compreso alcuni
imprenditoriali.
L’informazione non e’ una merce. Come la salute e l’educazione,
l’informazione e’ un diritto fondamentale dei popoli e deve essere oggetto
di politiche pubbliche permanenti.
Convinti che questa storia e’ iniziata 200 anni fa’, rinnoviamo
l’impegno di coloro che ci hanno preceduti con il proposito di
adeguarci all’esercizio etico della nostra professione, aderenti ai valori
della democrazia reale ed effettiva ed alla veridicità che merita la differenza di pensieri, credenze e culture.
Non solo la SIP, ma anche gruppi come RSF, Reporters Senza
Frontiere, rispondono alle direttive di Washington nel falsificare la realtà e la
diffamazione globalizzata. In questo contesto, l’Unione Europea svolge un ruolo
vergognoso che contraddice l’eroica lotta dei suoi popoli contro il
nazifascismo.
Nella forgia dell’unita’ dei popoli latinoamericani e caraibici, i
firmatari di questa dichiarazione chiamano i professori e gli studenti
di comunicazione sociale a considerare il Terrorismo Mediatico come
uno dei problemi centrali dell’Umanità. Convochiamo i giornalisti
liberi ad impegnarsi, ad impegnarsi a rinnovare i loro sforzi nella costruzione della
pace, lo sviluppo integrale e la giustizia sociale.
Con questo spirito esortiamo tutti i capi di Stato
dell’America latina e dei Caraibi ad includere il tema del Terrorismo Mediatico, in
tutti le riunioni e fori internazionali.
(Traduzione di Ciro Brescia)
Il presidente Álvaro Uribe ha ammesso ieri di essere oggetto di indagini per il suo coinvolgimento diretto in un massacro compiuto da paramilitari, che sarebbe avvenuto nel 1997 quando egli era governatore del dipartimento di Antioquia.
Nella località di El Aro, in sei giorni vennero assasinate e torturate 15 persone, distrutte 43 abitazioni, violentate donne e spinte all’esodo circa 800 persone della zona.
Le indagini sarebbero state avviate in seguito alla confessione di un testimone che lo accusa di aver preso parte ad una riunione alla quale erano presenti tra gli altri il generale Ospina, il generale Rosso e il capo paramilitare Salvatore Mancuso, riunione che aveva lo scopo di pianificare e organizzare il massacro.
Uribe, secondo il testimone, un ex paramilitare, avrebbe anche ringraziato personalmente gli autori materiali del massacro perchè nell’occasione riuscirono a liberare anche sei sequestrati tra i quali un suo cugino e che il fratello del presidente, Santiago Uribe, avrebbe “prestato” 20 paramilitari per compiere quel crimine.
Questa notizia giunge appena dopo l’arresto del cugino del presidente Uribe, Mario Uribe Escobar, in carcere oggi per vincoli con il paramilitarismo e nel momento in cui circa 30 parlamentari del congresso si trovano in carcere e una settantina sono inquisiti.
Ad essi si aggiunge adesso il Presidente in persona.
Si rende pertanto sempre più necessaria nel paese, come chiesta a gran voce in questi giorni dalle associazioni, dai movimenti sociali e dalle forze politiche di opposizione, in particolare dal Polo Democrático Alternativo, una Assemblea Costituente, con il fine di “rilegittimare le istituzioni del paese”.
Il presidente Uribe, ovviamente respinge tutte le accuse come prive di fondamento e nega la possibilità di convocare l’Assemblea Costituente.
Resta l’ipotesi delle elezioni anticipate ma è sempre più evidente che la Colombia potrebbe trovarsi ad una svolta decisiva per ristabilire la democrazia perduta tra massacri e fosse comuni.
Arrestato Mario Uribe Escobar, cugino del presidente colombiano Álvaro Uribe per vincoli con il paramilitarismo. Il cerchio intorno al parapresidente sembra stringersi sempre più. Nel parlamento colombiano 32 parlamentari detenuti e 70 inquisiti.…
Que se vayan todos…
E’ interessante la visione di questo video. E’ l’intervista che Hollman Morris, giornalista e scrittore colombiano, recentemente premiato da Human Right Watch per il suo impegno nella denuncia delle violazioni dei diritti umani nel suo paese, ha concesso a Perugia dove si trovava in occasione del Festival Internazionale di Giornalismo, a Maurizio Torrealta di RaiNews24.
E’ interessante e affascinante nello stesso tempo sentir parlare Hollman del suo paese e del conflitto colombiano. E’ terribile anche.
E’ illuminante l’intervista, in quanto dimostra chiaramente attraverso le prime due domande rivolte al giornalista dagli studenti di giornalismo, la visione “etnocentrica” del conflitto colombiano, che tante volte qui ho criticato. Ad un Morris che parla di sé e degli altri giornalisti, minacciati dallo stesso potere al governo, costretti a vivere sotto scorta, di un lavoro rischioso e pericoloso, ebbene sembra che la cosa più interessante e giornalisticamente importante per questi giovani ragazzi sia soltanto la sorte di Ingrid Betancourt. Sembra anche che Morris faccia una fatica tremenda per far capire poi che in Colombia non è che le Farc stanno da una parte, i paramilitari dall’altra e lo Stato in mezzo “a garantire un ordine”…ma Stato e paramilitari vanno a braccetto. E questo si sa, a queste latitudini sembra difficile da capire, soprattutto se viene attuato dal governo di un presidente “democraticamente eletto” come Uribe e con un così “alto consenso” come riportano tutti i sondaggi colombiani.
Sembra sussultare letteralmente Torrealta a queste parole di Morris: “insisto, sottolineo che oggi il presidente Uribe di fronte alle denunce che abbiamo fatto sulla corruzione dei funzionari di questa amministrazione, funzionari che sono legati ai paramilitari, quindi davanti alle denunce che ha fatto il mondo del giornalismo, il presidente ha iniziato a delegittimarci, a dirci che siamo dei bugiardi irresponsabili…” e cede prontamente la parola agli studenti di giornalismo.
Basta così Morris, stai parlando troppo anche in Italia.
di ABP Messico
16/04/2008
Fonte :ABP Agencia Bolivariana de Prensa
Traduzione di Annalisa Melandri
La denuncia presentata lo scorso 7 aprile alla Procura Generale della Repubblica (PGR) del Messico contro Lucía Morett ed altri 15 messicani, tra i quali i quattro studenti universitari morti in territorio ecuatoriano per mano dell’esercito colombiano, è opera dell’organizzazione cattolica di estrema destra conosciuta come El Yunque .
Il così detto Consejo Ciudadano para la Seguridad Pública y la Justicia Penal, A.C.
(CCSPyJP) propone una denuncia penale contro Morett e gli altri messicani per il reato di terrorismo con l’accusa basata su documenti che sarebbero stati passati dagli organismi di sicurezza messicani e colombiani a quotidiani, settimanali e televisioni controllate dalla destra di entrambi i paesi.
Il suo presidente José Antonio Ortega Sánchez è, come hanno segnalato ricercatori specializzati nello studio dell’estrema destra messicana, e in modo particolare il giornalista del settimanale messicano Proceso, Álvaro Delgado, dirigente di El Yunque.
Gli altri dirigenti del gruppo fascista messicano sono: Jorge Espina Reyes (ex presidente della Condeferazione Patronale Messicana , Coparmex) e Jorge Serrano Límon(presidente del gruppo antiabortista Provida) . El Yunque rappresenta l’ala più radicale e intollerante del Partito di Azione Nazionale (PAN), rappresentazione politica dell’attuale presidente Felipe Calderón.
Rispetto ai membri di El Yunque, Calderón è un moderato. Sono vari i contrasti che ci sono all’interno del PAN tra Calderón e l’organizzazione fascista messicana, di fatto, a suo dire Calderón non prende sufficienti misure repressive contro le organizzazioni sociali e la sinistra in Messico.
Il giornalista Álvaro Delgado, dopo alcuni anni dedicati a studiare questo gruppo di destra, conclude che i membri di El Yunque si caratterizzano per “essere nemici di tutte le libertà umane, estremamente intolleranti, anticomunisti, antisemiti e contro la sinistra (.…) e si dichiarano soldati di Dio”.
Con questa concezione, El Yunque ha creato organizzazioni di scontro responsabili di omicidi contro dirigenti di destra, sindacalisti, accademici, etc. I suoi gruppi più conosciuti sono stati Il Muro, DIHAC, Asociación Cívica Femenina, el Comité Nacional Pro-vida, la Unión Nacional de Padres de Familia, la COPARMEX e ovviamente il Consejo Ciudadano para la Seguridad Pública y la Justicia Penal, A.C.
Il caso dei messicani morti in Ecuador
Nei giorni scorsi, il CCSPyJP ha presentato una denuncia penale contro Lucía Morett, la messicana sopravvissuta all’attacco colombiano contro il campo delle FARC in territorio ecuatoriano, e altri quindici messicani. Il reato contestato è quello di “terrorismo internazionale”.
Secondo l’organizzazione yunquista i messicani morti, la ragazza ferita e gli altri, i cui nomi sono stati riportati da alcuni mezzi di informazione dominati dalla destra messicana e colombiana, sarebbero responsabili “di atti di terrorismo” in territorio messicano.
Nella sua pagina internet (www.seguridadjusticiaypaz.org) , il CCSPyJP fa affermazioni che per la loro grossolaneria e mancanza di fondamenta sembrano più un proclama ideologico che un’argomentazione giuridica. Per esempio il titolo del documento nel quale espongono la loro denuncia alla PGR dice: “ In quali sequestri e attacchi terroristici in Messico hanno partecipato i messicani che hanno ricevuto addestramento terroristico in Ecuador? Per commettere quali crimini sono stati addestrati? Cosa stanno tramando adesso?”
In un documento firmato l’11 aprile del 2008, il presidente di questa organizzazione cerca di supportare la sua denuncia con presunte prove che riescono solo a ridicolizzare il querelante. Per esempio: il 27 marzo 2008 l’emittente televisiva TC dell’Ecuador, filiale di RCN colombiana e poi la stessa RCN, hanno diffuso un video dove si vede Lucía Morett che indossa abiti militari e che riceve addestramento terrorista nello stesso campo delle FARC che fu attaccato il 1 marzo 2008. La registrazione però corrisponde al dicembre del 2007. E quindi Morett e gli altri messicani si sarebbero recati in varie occasioni ai campi delle FARC. Il video si può vedere qui:
Raccomandiamo al lettore la visione del video per farsi un’idea più chiara del livello di disinformazione e del montaggio propagandistico di stampo fascista che c’è dietro la campagna di El Yunque. E’ impossibile perfino per i periti più inesperti sull’argomento, confondere Lucía Morett con la persona indicata nella registrazione.
La CCPSPyJP segnala, nello steso documento che “nel suo viaggio di addestramento terroristico (sic), i 16 (messicani) avrebbero speso per lo meno 50 mila dollari, quantità di denaro fuori dalla portata di semplici studenti e sulla cui origine non è stata fatta chiarezza fino a questo momento”.
Così, senza dire secondo chi, o in che modo, si conclude che questa cifra fu spesa dagli studenti messicani. Questa cifra è stata inventata e diffusa sui mezzi di informazione di destra del paese.
Il suo documento conclude dicendo che: “Non c’è nessuno sforzo serio per superare il grave deficit di sicurezza del governo sul terrorismo. Il messaggio che tutto questo rimanda ai terroristi e alle altre persone fanatiche della violenza e della sovversione, è che lo Stato messicano è disposto a tollerare tutto, che sta in ginocchio davati a loro (sic) e davanti a questo invito a scatenare impunemente l’inferno , quale ammiratore messicano del Che o di Osama (sic) potrebbe resistere? Giudicate voi la stupidità del discorso yunquista.
E se non bastasse, il documento segnala che il governo messicano “invece di appoggiare la Colombia che si difende dal terrorismo e dall’aggressione esterna, mantiene una posizione secondo le necessità e gli interessi di Castro e Chávez (mentre questo ruba ai nostri compatrioti che investono in Venezuela)”
Merita essere preso in considerazione questo rabbioso proclama come denuncia penale seria e consistente? Tutto indica di no, ma sembra che alcuni settori della cancelleria e dell’apparato giuridico messicano, come coloro i quali che autorizzarono l’aggressivo interrogatorio della PGR a Lucía nell’Ospedale Militare di Quito, credono che questa propaganda di estrema destra sia sufficiente motivo per dare fondamento a una azione giuridica.
Qual’è l’obiettivo dell’estrema destra quando cerca di stravolgere il ruolo delle vittime messicane dell’attacco colombiano trasformandole in carnefici?
Sarà un pretesto per poter dare seguito definitivamente alla così detta Iniziativa Mérida di stampo statunitense? Che ruolo gioca in questo il governo narcoparamiliatre di Álvaro Uribe Vélez in Colombia?
Questo sì merita una indagine approfondita.
Venerdì 18 Aprile, ore 17,45 presso la sede di Carta — via dello Scalo San Lorenzo 67 — Roma
Le resistenze in Ecuador, il referendum “Agua bien publico” in Colombia, le vertenze locali e la legge d’iniziativa popolare in Italia.
A confronto esperienze di lotta e pratiche di partecipazione per rafforzare le resistenze sociali in difesa dell’acqua.
Intervengono
Ricardo Buitròn, Acciòn Ecologica (Ecuador)
Enrique Galàn Roa, Ecofondo (Colombia), campagna referendaria “Agua bien publico” in Colombia
Guido Piccoli, giornalista e scrittore, esperto di America Latina
Marco Bersani, ATTAC Italia, Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua
Antonio Valassina, CRAP (Coordinamento Romano Acqua Pubblica)
Francesca Caprini, associazione YAKU, Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua
Rappresentanti delle vertenze territoriali del Lazio
Coordina
Enzo Vitalesta, associazione YAKU, Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua
Partecipano
Grazia Francescato, parlamentare dei Verdi
Fabio Amato, responsabile esteri di Rifondazione Comunista
Per info: 347/64827
Un dimostrante mangia erba di fornte ad un casco blu dell’ONU durante le recenti proteste contro il carovita (AP Photo/Ariana Cubillos)
5 morti e decine di feriti. Questo è il saldo delle proteste avvenute a partire dalla fine di marzo ad Haiti contro l’alto costo della vita, in uno dei paesi più poveri dell’America Latina e dei Caraibi, dove l’80 per cento della popolazione vive con meno di due dollari al giorno e dove oggi, a differenza di 20 anni fa, quando si produceva il 95 % del riso consumato, se ne importa l’80% dagli Stati Uniti.
Proteste però anche contro i circa 9000 militari della Missione delle Nazioni Unite per la Stabilizzazione di Haiti (MINUSTAH), che dal 2004, cioè da quando il presidente Aristide in seguito ad un colpo di stato è stato costretto a rifugiarsi Sud Africa, presidiano il paese.
Militari accusati più volte dalla popolazione locale di aver compiuto, restando tuttavia impuniti, crimini che vanno dalle violenze sessuali alle torture.
Ed è proprio uno dei caschi blu dell’ONU di nazionalità nigeriana, una delle cinque vittime dei disordini, che, iniziati nel sud del paese, si sono ben presto diffusi in tutto lo stato.
Medici senza Frontiere rende noto che, a Port au Prince, molti dei feriti assistiti negli ospedali riportavano ferite da arma da fuoco. La situazione inoltre si è aggravata e complicata ulteriormente per lo sciopero dei camionisti contro l’aumento del prezzo del carburante che aveva paralizzato il traffico cittadino, rendendo difficoltoso il trasporto dei feriti negli ospedali.
I manifestanti più vicini al vecchio presidente Aristide ne chiedono il ritorno, nonostante le elezioni del 2006 abbiano confermato la presidenza di René Préval, sostenitore dello stesso Aristide, che ha vinto con il 51, 15% dei voti.
A causa dei disordini e della situazione di crescente tensione nel paese, il senato haitiano ha ritirato quasi all’unanimità la fiducia al primo ministro Jacques Edouard Alexis.
Préval ha predisposto intanto un piano di emergenza volto alla riduzione drastica del prezzo del riso, che in una settimana era passato da 35 dollari a 70 dollari il sacco, affermando in un discorso rivolto alla popolazione, che il paese “sta pagando le conseguenza di politiche sbagliate applicate da oltre 20 anni ad Haiti”.
Intanto è sempre più sotto esame il ruolo svolto dal MINUSTAH, composto per circa il 40% da effettivi provenienti da paesi latinoamericani con governi di sinistra o progressisti ( Brasile, Uruguay, Argentina e Cile).
Sembrerebbe, come denuncia anche il Premio Nobel per la Pace, Adolfo Pérez Esquivel, che nel primo anno della missione ONU siano morte 1200 persone per episodi di violenze. In altri due episodi, i caschi blu avrebbero sparato sulla popolazione disarmata nei quartieri più poveri di Port au Prince provocando decine di morti.
Adesso, dopo la riduzione del prezzo del riso, la situazione sembra essere tornata tranquilla.
Fino a quando?
E’ inevitabile e doveroso oggi, all’indomani del risultato elettorale, interrogarsi sul proprio ruolo, sul proprio posto nella società, su quello che ad essa si chiede e su ciò che si è disposti a dare.
Lo faccio e mi trovo più confusa che mai. Ma non è confusione data da incertezza, per carità . E’ solitudine. Quel guardarsi intorno e rendersi conto che nessuno ha da offrirti, o è nelle condizioni di poterlo fare, quello che tu chiedi e a nessuno ti senti più di concedere le tue energie, le tue risorse.
Sono questi i miei sentimenti oggi. E’ questo che mi ha lasciato il “voto utile”. Mi ha lasciato una grande amarezza aver votato solo per non far tornare Berlusconi. Un voto sterile, senza entusiasmo, senza crederci, un voto senza bandiera. che alla fine si è dimostrato anche un voto inutile.
Un voto che oggi lascia un senso di solitudine. Perchè io nel PD non ci credo e non ci ho mai creduto. Perchè per me la sinistra ha il colore rosso del fuoco vivo e non le tinte sbiadite dai ripetuti lavaggi dei compromessi. Perchè per ‚me la guerra è sempre stata senza se e senza ma; perchè io gli americani non ce li voglio, nè a Sigonella, ma nemmeno a Vicenza; perchè ho combattuto una volta per il nucleare e non ho intenzione che quel referendum, al quale nel mio piccolo ho lavorato, venga rimesso in discussione; perchè per me l’aborto è un diritto della donna e non posso credere che la “mia” sinistra possa pensare di governare un paese insieme a chi nel nome di Dio o di un cristo qualsiasi vada in giro a criminalizzare chi decida di usufruire di una legge che già troppe battaglie è costata.
Mi sento senza una casa, ecco. Ma è un viaggio senza meta iniziato da molto tempo e non so fino a che punto questo coincide, come spesso mi sento dire, con la maturità, con gli innumerevoli impegni, con i figli e i problemi quotidiani di ogni giorno che a volte ti tolgono anche la forza di pensare e di immaginare un futuro migliore.
Ti ritrovi a coltivare il tuo orticello, è vero, molto spesso, anzi quasi sempre da sola, vivi giorno dopo giorno avendo perso l’entusiasmo della giovinezza, quando era bello scendere per strada con una bandiera in mano e crederci veramente.
La gioventù e la politica, quando lottare per qualcosa aveva senso. Da grande ti ritrovi a lottare per sopravvivere.
Volgi poi lo sguardo lontano e ti accorgi che è più facile lottare per la Colombia o per il Messico che non per i morti della Thyssenkrupp. Partecipi con loro, con gli amici colombiani, messicani, alle loro battaglie, alle marce, perchè lì ha ancora senso.
Loro hanno bisogno che il mondo sappia, loro lottano di là e tu di qua, facendo informazione, per aiutarli, perchè muoiono da troppi anni.
Per loro ti senti utile.
In Italia è difficile sentirsi utili. Non serve esserlo, non serve a nessuno.
Mi interrogo in questi giorni chiedendomi cosa si può fare ancora per questo paese, cosa che non sia stato già fatto o sia stato già detto.
Cosa voglio io e cosa vogliono i miei compagni?
Quelli persi per strada, quelli imborghesiti, quelli incazzati, quelli amareggiati e delusi, quelli morti e quelli vivi ma soli.
Vogliono, vogliamo poter tornare a fare politica come una volta. Che scendere per strada non sia un conteggio di presenze o una giostra di recriminazioni. Vogliamo la politica nei quartieri e nelle scuole. Politica nei bar e nelle sezioni di partito.
Politica vissuta e partecipata. Politica sentita e non fuggita. Politica di strada, di quartiere e non di palazzo.
Vogliamo che la politica, la nostra politica, quella per cui abbiamo lottato e sofferto, forse l’unica che conosciamo, quella “ideologizzata” che fa tanto paura, a destra come anche a sinistra, torni nelle nostre vite forse perchè siamo stanchi di esserne spettatori passivi.
Da domani vogliamo anche partecipare.
Un assaggio di quello che sarà il livello culturale e politico del nostro paese nei prossimi cinque anni:
“manderemo Veltroni in Africa, ma forse è meglio di no perchè anche gli aficani meritano un futuro”…(Maurizio Gasparri, ieri 14 aprile in TV) .
e questo è stato Ministro delle Comunicazioni…
se non siamo oggi un paese di merda, lo diventeremo presto.