Felicidades.
Aun la Iglesia excluye siempre más, y las festividades navideñas según Joseph Ratzinger deberían ser prerrogativa exclusiva de los verdaderos cristianos, creo que esas fiestas sean un derecho de todos.
Recuerdo que la iglesia, entendida como templo de culto, sobretodo en el pasado, ha sido, por los cristianos y no solamente por ellos, lugar de acogida y no de exclusión, ha sido la puerta siempre abierta para quienes tenían miedo o frío, para quienes eran solos, para los que no tenían donde ir o simplemente para los que querían sentarse un rato a descansar.
Es esta la cristianidad que respeto. La que acoge en silencio, no la que se veste de trajes de oro y predica.
Por eso FELICIDADES y que todos tengan su Niño Jesús esa noche, porqué eso no es sino que otro nombre de la esperanza, y esa, lo sabemos, no pide papeles de cristianidad.
Antonio Iannazzo, sindaco di Corleone, sfratta il Centro internazionale di documentazione sulla mafia. Ma che logica ha l’impaginazione della notizia per la Repubblica?
Lo so, la qualità dell’immagine non è delle migliori, non sono una maga con lo scanner, ma non è quella la cosa importante, sono le proporzioni invece che contano e che fanno la differenza.
Anzi le sproporzioni.
La notizia piccola in alto a sinistra è questa:
PALERMO:
“Al comune di Corleone servono i locali e per questo motivo, con una delibera, sfratta dal complesso monumentale San Ludovico il Centro internazionale di documentazione sulla mafia inaugurato il 12 dicembre 2000 dall’allora capo dello Stato Ciampi. Nel Centro vi sono anche conservati i faldoni dei maxiprocessi a Cosa Nostra. Alla decisione della giunta di centro-destra guidata dal sindaco Antonio Iannazzo, assunta il 17 settembre scorso, si è opposto lo stesso Centro che ha fatto ricorso al tar e nell’attesa della sentenza ha bloccato il trasloco. Il restauro del complesso era stato finanziato con i fondi stanziati in occasione della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità transnazionale svoltasi nel 2000”
Ben più leggibile, visto lo spazio che le è stato concesso, è la notizia quella dello “Scandalo nella serie A elvetica…” piccantissima…12 giocatori fanno sesso con una 15enne…terribile in verità ma pur sempre una notizia di cronaca estera.
Entrambe si trovano a pagina 29 della Repubblica del 14 novembre scorso.
E pensare che facciamo tanto di commemorazioni ufficiali per i nostri morti ammazzati dalla mafia…con tanto di discorsi…proprio in questo momento sta andando in onda su MTV un’interessante trasmissione, “La memoria ha un costo”…
Che costo ha l’impaginazione di un quotidiano?
Che costo ha la logica di mercato per la quale una notizia di abusi sessuali commessi in un altro paese merita mezza pagina e la notizia che una giunta comunale, quella di Corleone, non una qualsiasi, si piega alla mafia?
Ah..dimenticavo l’altra mezza pagina era occupata dalla pubblicità della WIND…
Cristina Carreño torna in Cile. E’ la prima vittima cilena del Plan Condor.
Cristina Carreño, la prima donna cilena detenuta e scomparsa a Buenos Aires nell’ambito di quella grande operazione del terrore che prese il nome di Operación Condor, e che coordinò negli anni 70/80 le dittature latinoamericane, torna nella sua terra, in Cile.
Torna dalla sua famiglia che l’ha cercata per 27 lunghi anni e che in questo momento si trova in Argentina per organizzare il viaggio di ritorno in patria.
Il corpo di Cristina arriverà da Buenos Aires in un volo speciale il 28 dicembre.
Il suo funerale verrà celebrato il giorno 30 presso il Memorial del Detenido Desaparecido presso il Cimitero Generale di Santiago del Cile.
Cristina quando scomparve aveva appena 33 anni.
Suo padre, comunista, operaio del salnitro, fu detenuto e torturato fino alla morte nel 1974.
Cristina Carreño, dirigente della Gioventù Comunista del Cile si trovava a Buenos Aires per organizzare la Operación Retorno con la quale rientrarono clandestinamente nel paese militanti e dirigenti del Partito Comunista Cileno, tra i quali Gladys Marín segretaria generale della Gioventù Comunista nel governo Allende.
Fu sequestrata nel 1978 a Buenos Aires da agenti della polizia politica, la CNI (Central Nacional de Informaciones) e condotta prima nel centro di detenzione argentino “El Banco” e poi in quello tristemente famoso di “El Olimpo” dove fu l’unica prigioniera cilena. Da lì si persero definitivamente le sue tracce.
Il suo corpo, insieme a quello di altre 8 persone, fu ritrovato sulla costa atlantica nel dicembre del 1978, restituito dal mare dopo esservi stato gettato da un aereo in volo.
Il “trasferimento”, era questo il nome che l’apparato repressivo della dittatura dava alla pratica dei voli della morte con i quali migliaia di detenuti oppositori dei regimi venivano fatti sparire nelle acque dell’Oceano Atlantico.
I voli della morte sono stati confessati pubblicamente nel 1995 da Adolfo Scilingo (ex dittatore argentino ed attualmente in carcere in Spagna) al giornalista Verbitsky che ha pubblicato la testimonianza nel suo libro “Il Volo”.
I corpi dei detenuti ritrovati sulle coste atlantiche a partire dal 1978 vennero sepolti come NN nel cimitero di General Lavalle nella provincia di Buenos Aires.
Riesumandoli nel 2006, il Gruppo Argentino di Antropologia Forense (EAAF) ha identificato quello di Cristina Carreño e di altre 8 persone vittime della repressione.
L’identificazione di questo gruppo di persone segue quella avvenuta poco prima delle Madri della Plaza de Mayo Azucena Villaflor, Esther Ballestrino y Mari Ponce, e della suora francese Léonie Duquet e di Angela Auad.
L’annuncio dell’identificazione è stato fatto nello stesso Olimpo lo scorso 16 agosto (simbolicamente nello stesso giorno dell’inizio delle attività del centro di detenzione, nel 1978) in una conferenza stampa tenuta dal presidente dell’EAAF, Luis Fondebrider, con la partecipazione dei familiari degli scomparsi e del segretario dei diritti umani Luis Duhalde.
Lorena Pizarro, presidente del Raggruppamento dei Familiari dei Detenuti Scomparsi, (AFDD) conferma che Cristina “è la prima vittima dell’Operación Condor di cui riusciamo a recuperare il corpo. Questo dimostra ciò che abbiamo sempre denunciato, che la dittatura cilena non agì in maniera isolata, ma che c’era una coordinazione con le altre, organizzata da Pinochet, e che applicava in maniera sistematica il terrorismo di Stato, politica avallata dalla CIA e che registra vittime cilene e straniere, tra le quali Cristina, che è la prima donna scomparsa che riusciamo a trovare”.
Il rientro di Cristina in Cile, prova tangibile degli orrori del Plan Condor, segna un momento importante per la ricerca di verità e giustizia, la sorella Dora e altre cinque donne di Paraguay, Uruguay e Argentina, portano avanti infatti da anni una causa contro le dittature dei loro paesi per la scomparsa di Cristina ed altre sei persone tra il 1976 e 1978 in Argentina.
Le ricordiamo con le parole di Pablo Neruda, con la stessa poesia con la quale si è conclusa, nel luogo dove sono state torturate e uccise, la conferenza stampa che ne ha annunciato il ritrovamento:
LOS ENEMIGOS
Ellos aquí trajeron los fusiles repletos
de pólvora, ellos mandaron el acerbo
exterminio,
ellos aquí encontraron un pueblo que cantaba,
un pueblo por deber y por amor reunido,
y la delgada niña cayó con su bandera,
y el joven sonriente rodó a su lado herido,
y el estupor del pueblo vio caer a los muertos
con furia y con dolor.
Entonces, en el sitio
donde cayeron los asesinados,
bajaron las banderas a empaparse de sangre
para alzarse de nuevo frente a los asesinos.
de pólvora, ellos mandaron el acerbo
exterminio,
ellos aquí encontraron un pueblo que cantaba,
un pueblo por deber y por amor reunido,
y la delgada niña cayó con su bandera,
y el joven sonriente rodó a su lado herido,
y el estupor del pueblo vio caer a los muertos
con furia y con dolor.
Entonces, en el sitio
donde cayeron los asesinados,
bajaron las banderas a empaparse de sangre
para alzarse de nuevo frente a los asesinos.
Por esos muertos, nuestros muertos,
pido castigo.
pido castigo.
Para los que de sangre salpicaron la patria,
pido castigo.
pido castigo.
Para el verdugo que mandó esta muerte,
pido castigo.
pido castigo.
Para el traidor que ascendió sobre el crimen,
pido castigo.
pido castigo.
Para el que dio la orden de agonía,
pido castigo.
pido castigo.
Para los que defendieron este crimen,
pido castigo.
pido castigo.
No quiero que me den la mano
empapada con nuestra sangre.
Pido castigo.
No los quiero de embajadores,
tampoco en su casa tranquilos,
los quiero ver aquí juzgados
en esta plaza, en este sitio.
empapada con nuestra sangre.
Pido castigo.
No los quiero de embajadores,
tampoco en su casa tranquilos,
los quiero ver aquí juzgados
en esta plaza, en este sitio.
Quiero castigo.
…
Guardiano della Fede
Langer — Argenpress.info
Cile, centenario del massacro di Santa María de Iquique, 21 dicembre 1907
“Quando uno rivolge il suo sguardo alla pampa abbandonata
e con l’orecchio attento penetra nel suo silenzio,
c’è bisogno di tenere il cuore con tutte e due le mani”
Floreal Acuña
“ Signore e Signori, racconteremo ciò che la storia non vuole ricordare. Accadde nel Grande Nord, fu Iquique la città. Il millenovecento sette segnò la disgrazia”.
Così inizia la Cantata Santa María de Iquique, composta nel 1969 da Luis Advis e diventata celebre nella versione dei Quilapayún che la eseguirono per la prima volta nel luglio 1970 durante il secondo Festival della Nuova Canzone Cilena e che di questo movimento divenne una delle opere principali.
I nastri originali della Cantata Santa Maria de Iquique furono distrutti dopo il golpe militare e l’esecuzione della canzone fu proibita dalla dittatura di Pinochet fino al 1990.
La canzone narra i fatti avvenuti nella scuola Santa María di Iquique, dove “tremilaseicento sguardi si spensero, tremilaseicento operai vennero uccisi”.
Tra il 15 e il 21 dicembre 1907, sotto la presidenza di Pedro Montt, circa 10.000 minatori del salnitro(nitrato di potassio usato come fertilizzante e nella produzione della polvere da sparo) della regione di Tarapacá scioperarono per le precarie condizioni di vita e di lavoro a cui erano sottoposti.
Le loro richieste, come narrato anche nella celebre canzone, andavano dall’eliminazione dei buoni con i quali erano pagati e che potevano essere spesi solo nei negozi delle stesse imprese che li emettevano, scuole serali per gli operai, aumento degli stipendi, maggiore sicurezza sul lavoro e rispetto della dignità degli operai che spesso erano sottoposti anche a punizioni fisiche.
In Cile agli inizi del ‘900 gli operai cileni non avevano nessuna legislazione sociale che li tutelasse ma già si stavano velocemente diffondendo tra di essi gli ideali socialisti e anarchici e il massacro della scuola Santa María di Iquique rappresentò lo spartiacque nella storia del movimento operaio cileno.
Possiamo dire che nell’arido deserto del Cile, nel dicembre 1907 si consolidò la coscienza di classe degli operai, si organizzò il loro movimento e la loro lotta prese forma.
Protestarono gli operai delle miniere di salnitro, quelli delle ferrovie, quelli portuali, prima timidamente, nei primi giorni di dicembre, poi con sempre più vigore.
Il 10 dicembre furono bloccate le attività della fabbrica di salnitro di San Lorenzo e successivamente quelle della fabbrica di Santa Lucia. La miccia ormai era accesa e tutti gli operai della pampa paralizzarono le loro attività.
Ma era ad Iquique che bisognava andare a far sentire la protesta, dove avevano sede le multinazionali straniere che stavano sfruttando le risorse del paese, quelle naturali e quelle umane.
E così tra il 15 e il 21 dicembre si radunarono nella scuola Santa María di Iquique più di diecimila persone, gli operai pampinos con le loro famiglie, in attesa che le loro richieste venissero accettate dalle multinazionali.
Le trattative non ebbero nessun esito positivo e di fronte al rifiuto dei dirigenti del movimento operaio di far evacuare la scuola, il generale Silva Renard dette ordine di sparare.
Lo stato cileno ammetterà solo 195 deceduti e 390 feriti ma altre fonti parleranno di 3600 morti, come nella canzone…
I lavoratori non avevano manifestato violenza, il loro era uno sciopero pacifico, ma imponente, a Iquique si erano riversati migliaia di operai, con le loro famiglie, le loro cose, mentre la cittadina si era rintanata nelle case e le attività commerciali erano paralizzate.
Dichiarò Silva Renard: “si doveva far scorrere il sangue di alcuni ribelli o abbandonare la città nelle mani dei faziosi, che fanno passare i loro interessi e i loro stipendi prima dei grandi interessi della patria. Di fronte a questo dilemma, le forze della nazione non hanno esitato”.
L’esercito cileno si mise al servizio dell’oligarchia delle multinazionali e fece fuoco. Non si poteva permettere che fosse messo “in pericolo il rispetto e il prestigio delle autorità e della forza pubblica” come ammise il generale.
Quella strage più che una sconfitta fu però però l’inizio di un grande cambiamento, il movimento operaio cileno si organizzò e nuove leggi sociali a tutela dei lavoratori vennero emesse.
Oggi, 21 dicembre 2007 in Cile è giorno di lutto nazionale.
…
Vedi anche
Leggi anche:
Cantata Santa María de Iquique
Cantata Santa María de Iquique — 1 parte (la seconda alla fine del testo)
1. Proclama
Signore e Signori
racconteremo
ciò che la storia
non vuole ricordare.
Accadde nel Grande Nord,
fu Iquique (1) la città.
Il millenovecentosette
segnò la disgrazia.
Là, il povero “pampino”
uccisero tanto per uccidere.
Saremo i narratori,
diremo la verità.
Verità che è la morte amara
degli operai del salnitro(2).
Ricordate la nostra storia
di dolore senza perdono.
Quanto più passa il tempo
non bisogna mai dimenticare.
Ora vi chiediamo
di fare attenzione.
2. RACCONTO I
Se contemplate la pampa e i suoi scorci
vedrete le aridità del silenzio,
il suolo senza vita e le fabbriche vuote,
come l’ultimo dei deserti.
E se osservate la pampa e la immaginate
ai tempi dell’industria del salnitro,
vedrete la donna e il triste focolare,
l’operaio senza volto, il bambino triste.
Vedrete anche la baracca diroccata,
la candela che illuminava la sua miseria,
alcune incrostazioni alle pareti
e per letto, i sacchi e la terra.
Vedrete anche punizioni umilianti,
un ceppo al quale legavano l’operaio
per giorni e giorni sotto il sole;
non importa se alla fine moriva.
La colpa dell’operaio, molte volte,
era il dolore altero che mostrava.
Ribellione impotente, un’insolenza!
La legge del ricco padrone è legge sacra.
Vedrete anche la paga che gli davano.
Non vedevano denaro, solo buoni;
uno per ogni giorno di lavoro,
e venivano cambiati con cibo.
Attenti a comprare da altre parti!
Non si poteva in nessun modo,
anche se le cose fossero meno care.
Era stato vietato dalla Fabbrica.
Il potere di acquisto di quel buono
era diminuito con il tempo
ma continuavano pagando la stessa giornata.
Per niente al mondo un aumento.
Se contemplate la pampa e i suoi scorci
vedrete le aridità del silenzio.
E se osservate la pampa com’era,
sentirete, soffocati, i lamenti.
3. CANZONE I
Il sole nel grande deserto
e il sale che ci bruciava.
Il freddo nelle solitudini,
camanchaca (3) e notte lunga.
La fame di pietra secca
e i lamenti che ascoltava.
La vita di morte lenta
e la lacrima che scorreva.
Le case espropriate
e l’operaio che aspettava
il sonno, che era dimenticare,
soltanto un rimpianto rimandato.
Il vento nella pampa immensa
mai più sarebbe cessato.
Durezza di aridità
per sempre sarebbe rimasta.
Il salnitro, pioggia benedetta,
diventava malvagità.
La pampa, pane quotidiano,
cimitero e terra amara.
Continuava a passare il tempo
e continuava la brutta storia,
durezza di aridità
per sempre sarebbe rimasta.
4. RACCONTO II
Si erano accumulati tanti mali,
molta povertà, molte ingiustizie;
non se ne poteva più e le parole
dovettero chiedere ciò che era dovuto.
Alla fine del millenovecentosette
si preparava lo sciopero a San Lorenzo;
e nello stesso momento tutti ascoltavano
un grido che volava nel deserto.
Da una Fabbrica all’altra, come raffiche,
si udivano le proteste degli operai.
Da una Fabbrica all’altra, i Padroni,
il volto indifferente o il disprezzo.
Che cosa gli può importare della ribellione
dei nullatenenti, dei paria.
Presto torneranno pentiti,
la fame li riporterà a capo chino.
Che fare allora se nessuno ti ascolta?
Si domandavano fratello e fratello.
Sono giuste le richieste e sono così poche
dovremo perdere dunque le speranze?
Così con amore e dolore
si furono radunando volontà,
si sarebbero raccolti in un solo luogo,
bisognava scendere al grande porto.
5. CANZONE II: ANDIAMO DONNA
Andiamo donna,
partiamo per la città.
utto sarà diverso,
non devi dubitare.
Non devi dubitare,
fidati e vedrai,
perché a Iquique
tutti capiranno.
Prendi donna il mio mantello,
ti coprirà.
Prendi il bambino in braccio,
non piangerà.
Non piangerà, fidati
sorriderà.
Gli canterai una ninna nanna,
e si addormenterà.
Che succede?,
dimmi, non tacere più.
Una lunga strada
devi percorrere
attraversando montagne,
andiamo donna.
Andiamo donna, fidati,
dobbiamo arrivare alla città
potremo vedere tutto il mare.
Dicono che Iquique è grande
come una miniera di salnitro,
che ci sono case bellissime,
ti piaceranno.
Ti piaceranno, fidati
come è vero che esiste Dio
là al porto tutto
sarà migliore.
Che succede?
dimmi, non tacere più.
Andiamo donna,
partiamo per la città.
Tutto sarà diverso,
non devi dubitare.
Non devi dubitare, fidati,
vedrai, perché a Iquique
tutti capiranno.
6. RACCONTO III
Dal quindici al ventuno,
del mese di dicembre,
durò il lungo viaggio
attraverso i pendii.
Ventiseimila uomini
o anche di più
con i silenzi consumati
nelle miniere di salnitro.
Scendevano ansiosi,
arrivavano a migliaia
dalla pampa,
gli emarginati.
Non mendicavano nulla,
solo chiedevano
risposta alle richieste,
risposte chiare.
Alcuni a Iquique
li capirono
e si unirono a loro,
erano i Sindacati.
E solidarizzarono con loro
i carpentieri,
Le maestranze,
i carrettieri,
gli imbianchini e i sarti,
i lavoratori a giornata,
i barcaioli e i muratori,
i panettieri,
i gasisti e magazzinieri,
i facchini.
Sindacati giusti,
di povera gente.
I Padroni di Iquique
avevano paura;
erano troppe richieste
da tanti operai.
Il “pampino” non era
uomo onesto,
poteva essere ladro
o uccidere.
Intanto le case
erano chiuse,
guardavano solo
da dietro le finestre.
Il commercio chiuse
anche le sue porte,
bisognava difendersi
da tante bestie.
Meglio che li riunissero tutti
in qualche luogo,
se circolavano per le strade
era un pericolo.
7. INTERLUDIO CANTATO
Si sono uniti con noi
compagni di speranza
e gli altri, i più ricchi,
ci voltano le spalle.
Siamo arrivati fino a Iquique
ma Iquique ci vede come stranieri.
Ci capiscono solo alcuni amici
ma gli altri ci negano la mano.
8. RACCONTO IV
Il luogo dove ci portarono
era una scuola vuota
e la scuola si chiamava
Santa María.
Lasciarono gli operai
e li lasciarono con sorrisi.
Dissero di aspettare
soltanto qualche giorno.
Gli uomini si fidarono,
non gli mancava la pazienza
visto che avevano aspettato
una vita intera.
Aspettarono sette giorni,
che divennero d’inferno,
mentre il pane si sta barattando
con la morte.
L’operaio è sempre un pericolo.
E’ necessario cautelarsi.
E così fu dichiarato lo stadio d’assedio.
L’aria portò un annuncio,
si udiva un tamburo lontano.
Era il giorno ventuno
di dicembre.
9. CANZONE III
Sono operaio “pampino” e sono
più vecchio che mai
e inizia a cantare la mia voce
con il timore di una tragedia.
Quello che sento in questa circostanza,
lo dovrò comunicare,
qualcosa di triste accadrà,
qualcosa di orribile ci succederà.
Il deserto mi è stato
infedele,
solo terra sbrecciata e sale,
pietra amara del mio dolore,
roccia triste di aridità.
Sento solo silenzio
e agonie di solitudini
solo rovine di ingratitudine
e ricordi che fanno piangere.
Che nella vita non si deve aver paura
lo ho imparato con gli anni,
però dentro sento un grido
che ora mi fa tremare.
E’ la morte che sorgerà
galoppando nell’oscurità.
Apparirà per il mare,
sono ormai vecchio e so che verrà.
10. RACCONTO V
Nessuno dica niente,
che arriverà
un nobile militare,
un Generale.(4)
Egli saprà come parlarvi,
con l’attenzione che il gentiluomo
usa per i suoi lacchè.
Il Generale arriva
con molto trambusto
e ben cauto
con i suoi soldati.
Le mitragliatrici
sono disposte
e strategicamente circondano la scuola.
Parla da un balcone
con dignità.
Questo è ciò che dice il Generale
“Che non serve a niente
questa commedia.
Che smettano di inventare
tanta miseria.
Che non capiscono i loro doveri
sono ignoranti.
Che disturbano l’ordine,
che sono delinquenti.
Che sono contro il paese,
che sono traditori.
Che rubano alla patria,
che sono dei ladri.
Che hanno violentato le donne,
che sono indegni.
Che hanno ucciso dei soldati,
che sono degli assassini.
Che è meglio che se ne vadano
senza protestare.
Che nonostante chiedano e chiedano
non otterranno nulla.
Che lascino allora
questo luogo,
che se non obbediscono agli ordini,
vedranno ciò che accadrà”.
Dalla scuola, “El Rucio”,
operaio ardente,
risponde senza vacillare
con voce coraggiosa,
“Lei, Signor Generale
non ci capisce.
Continueremo ad aspettare,
costi quel che costi.
Non siamo animali,
non siamo pecore,
alzeremo la mano
con il pugno in alto.
Daremo nuova forza
con il nostro esempio
e il futuro lo saprà, glielo prometto.
E se vuole minacciare
io sono qui.
Spari al cuore
di questo operaio”.
Il Generale che lo ascolta non ha vacillato,
con rabbia e con un gesto presuntuoso
gli ha sparato,
e il primo sparo è l’ordine
per il massacro
e così inizia l’inferno
con gli spari.
11. CANZONE LITANIA
Morirono in tremilaseicento,
uno dopo l’altro.
Tremilaseicento
li ammazzarono uno dopo l’altro.
La scuola Santa María
vide sangue operaio.
Sangue che conosceva
solo miseria.
Erano tremilaseicento
sordi
e furono tremilaseicento
muti.
La scuola Santa María
fu lo sterminio
della vita che moriva,
solo urlo.
Tremilaseicento sguardi
che si spensero.
Tremilaseicento operai
uccisi.
12. CANZONE IV
Un bimbo gioca nella scuola
Santa María.
Se gioca a cercare tesori
che troverà?
Gli uomini della pampa
che vollero protestare
li ammazzarono come cani
perché bisognava uccidere.
Non si deve essere poveri, amico,
è pericoloso.
Non si deve parlare, amico,
è pericoloso.
Le donne della pampa
si misero a piangere
e ammazzarono anche loro
perché bisognava uccidere.
Non si deve essere povera, amica,
è pericoloso.
Non si deve piangere, amica,
è pericoloso.
I bambini della pampa
che guardavano, solo per questo,
ammazzarono anche loro
perché bisognava uccidere.
Non si deve essere poveri, bimbo,
è pericoloso.
Non si deve nascere, bimbo,
è pericoloso.
Dove sono gli assassini
che giunsero per uccidere?
Lo giuriamo su questa terra,
li troveremo.
Lo giuriamo sulla vita,
li troveremo.
Lo giuriamo sulla morte,
li troveremo.
Lo giuriamo, compagni,
quel giorno giungerà.
13. CANZONE DI COMMIATO
Signore e signori,
qui termina
la storia della scuola
Santa María.
Ed ora con rispetto
vi pregherei
di ascoltare la canzone
di commiato.
14. CANZONE FINALE
Voi che avete ascoltato
la storia che si narrò
non state lì seduti
pensando che ormai è successo.
Non basta solo il ricordo,
il canto non basterà.
Non basta solo il lamento,
guardiamo la realtà.
Chissà domani o dopodomani,
o forse un po’ più avanti,
la storia che avete ascoltato
accadrà di nuovo.
E’ il Cile un paese così grande,
mille cose possono accadere,
se non ci prepariamo
decisi a lottare.
Abbiamo ragioni vere,
abbiamo di che lottare.
Abbiamo le mani dure,
abbiamo con cosa vincere.
Uniamoci come fratelli,
che nessuno ci vincerà.
Se vogliono schiavizzarci,
non ce la faranno mai.
La terra sarà di tutti
sarà anche nostro il mare.
Ci sarà Giustizia per tutti,
ed anche Libertà.
Lotteremo per i diritti
che tutti devono avere.
Lotteremo per ciò che è nostro,
e che di nessun altro sarà.
…
Testo e Musica di Luis Advis
Traduzione di Annalisa Melandri
Questa canzone fu composta da Luis Advis alla fine del 1969. Il gruppo Quilapayún la eseguì la prima volta nel luglio 1970 nel secondo Festival della Nuova canzone Cilena e di questo movimento divenne l’opera principale.
I nastri originali della “Cantata Santa María de Iquique” furono distrutti dopo il golpe militare e l’esecuzione di questa canzone fu proibita dalla dittatura di Pinochet fino al 1990.
La canzone narra dei fatti avvenuti nella scuola Santa María di Iquique tra il 15 ed il 21 dicembre 1907, sotto la presidenza di Pedro Montt, e cioè il massacro di 3600 minatori del salnitro che si trovavano in sciopero per le precarie condizioni di lavoro e di vita a cui erano sottoposti.
Il regista cileno Miguel Littín, ha tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore cileno Patricio Manns il suo film del 1975 Actas de Marusia con Gian Maria Volontè.
Vedi anche:
Leggi:
“Ora che la solitudine ha
conficcato il suo canino nel paesaggio della pampa
e solo restano ciminiere spente
simulando un fumatore stanco
rivolgete il vostro sguardo al suolo
e vedrete insieme a me
come piangono, sanguinano e protestano
di notte le sue ferite.”
Floreal Acuña
(1) Città ed importante porto del Cile settentrionale, capoluogo della prima regione di Tarapacà, sulla costa pacifica. Nel passato fu un’importante città mineraria per i grandi giacimenti di nitrato di potassio della “pampa del tamarugal”. Oggi la sua risorsa principale è la pesca ed è il maggior porto mondiale per l’esportazione della farina di pesce. Dal 1975 è zona franca e questo ha contribuito al suo sviluppo.
(2) Nitrato di potassio, usato come fertilizzante e nella preparazione della polvere da sparo.
(3) Nebbiolina costiera densa e dinamica che si produce grazie all’anticiclone del Pacifico.
In alcuni luoghi della costa cilena si usano sistemi per produrre acqua dalla camanchaca con ottimi risultati.
(4) Le forze militari erano guidate dal Generale Roberto Silva Renard
Georgina Gubbins: Lettere dal deserto/Cartas dal desierto
Iquique, 23 dicembre 1907
Mia cara Nonna,
Si ricorda che le raccontai che mio padre era preoccupato per i problemi nelle officine, che c’erano continui scioperi a Iquique e nella pampa e per questo non potevamo uscire?
Come un ronzio lontano, gli uomini scendevano dalla pampa. Erano molti: uomini, donne, bambini, nonni e nonne. Portavano anche i loro cani che correvano tra le loro gambe, come se sapessero che partecipavano ad un avvenimento importante. Le donne portavano canestri ‚pentole e mestoli, i neonati contro il petto e gli uomini con i loro figli più piccoli sulle spalle.
Faceva molto caldo in quei giorni. La camanchaca non portava il suo refrigerio abituale.Il calore si posava sulla città come un pesante mantello. Passavano i giorni e nonostante la quantità di gente, c’era un’atmosfera di speranza.
Secondo Juan, i pamperos dissero che avrebbero aspettato fino a che le loro richieste fossero state accettate. Volevano cambiare molte cose, Nonna, come per esempio eliminare i buoni, avere scuole serali o una migliore assistenza medica. Ma gli andò male. Arrivarono le truppe, le autorità si spaventarono, ci furono scontri seguiti da grida e spari.
Nonna alla fine i pamperos non ritornarono nella pampa. Li uccisero con i loro fucili e le grida che schiacciarono la città furono sostituite da un pianto profondo e disperato come quello di un cane ingabbiato.
Tanti morti solo per voler vivere meglio. Ancora l’aria odora di polvere e paura. Non si preoccupi per noi, stiamo bene. Mio padre vuole che andiamo a Tiviliche a riposare e lì passeremo l’Anno Nuovo.
Addio, cara Nonna. Mi scriva.
Sua nipote Isabelle..
Georgina Gubbins: Cartas del Desierto
Ingrid Betancourt: la sua lettera politica manipolata anche da La Repubblica
Meno male che Ingrid Betancourt è un pò francese, meno male che è elegante e che è pure bella.
“Liberiamo il nostro cuore” come ci consiglia di fare Francesco Merlo sulle pagine di la Repubblica e guardiamo il video di You Tube che la riprende nella selva, depressa, con il capo chino, smagrita e pallida, sorvegliata dai suoi carcerieri.
E’ quella che ognuno di noi, pur senza aver visto il video ha immaginato fosse in tutti questi anni la condizione di Ingrid Betancourt, e quella degli altri prigionieri nelle mani dei guerriglieri.
Meno male che Ingrid invece, caro Merlo, da bella che era è diventata pallida ed emaciata, meno male che aveva le catene ai polsi, meno male che ha inviato una lettera struggente alla madre.
Meno male infine, che Ingrid Betancourt è prigioniera delle FARC. Meno male che esiste ed è viva, perchè solo questo dà una speranza di vita a tutti gli altri prigionieri.
Mi chiedo cosa ne sarebbe degli altri se per un fortunato evento fosse liberata solo lei.
Parliamoci chiaro, il mondo guarda alla Colombia perchè in Colombia in mezzo alla selva c’è Ingrid Betancourt, incatenata e sofferente. Il mondo guarda e ipocritamente si stupisce di trovarla trascurata e con lo sguardo spento, vestita solo di una “rozza tunica” come se nei tanti e lunghi giorni dell’oblio, in cui spesso la Colombia sprofonda nella sua condizione di “paese democratico moderno in lotta con un problema di terrorismo interno”, la Betancourt fosse in vacanza. Ogni tanto i riflettori si accendono su una barbarie che dura da mezzo secolo perpetrata sistematicamente contro un popolo che sopporta con dignità anche l’insopportabile. I riflettori si accendono e ci si ricorda degli ostaggi e diventa evidente l’incapacità del governo colombiano di trattare, mediare, salvare. Un governo accecato da logiche di potere per le quali trattare vuol dire essere sconfitti. Vuol dire riconoscere che nel paese c’è una forza antagonista che chiede, sicuramente con metodi sbagliati (ma probabilmente gli unici vista la violenza istituzionale ben più cruenta), di essere riconosciuta come voce in capitolo in una storia che da sempre è la storia degli esclusi contro le oligarchie, dei contadini contro i latifondisti, degli indigeni contro le multinazionali che saccheggiano il territorio.
Il mondo guarda alla Colombia non perchè è il paese dove muoiono ammazzati più sindacalisti che in qualsiasi altra parte del mondo, non perchè è il paese dove fare il giornalista rappresenta il mestiere più rischioso o dove la presenza militare degli Stati Uniti (addestramento, armi e presenza umana) è pari a dieci volte quella di ogni altro paese latinoamericano. Il mondo guarda alla Colombia per la sorte di Ingrid Betancourt.
Perchè ci sono i suoi figli che appaiono in televisione, perchè c’è la madre che rilascia interviste a mezzo mondo, perchè c’è Sarkozy che riceve Chávez.
Perchè c’è una sua lettera, manipolata ad arte come solo la propaganda governativa colombiana sa fare in questi casi, che ha scosso giustamente gli animi, ma che per mostrare “la gratuità della sofferenza inflitta a una donna” da “guerriglieri marxisti con le bombe esplosive nelle tasche e le bombe ideologiche nella testa” come ricorda Merlo nel suo lungo quanto insulso articolo, è stata data alla stampa contro la volontà della famiglia che ha protestato definendo l’arbitrarietà del gesto una “violazione dell’intimità”. In questo caso riusciamo a comprendere appieno la gratuità della sofferenza inflitta a una madre.
La lettera.
Troppo facile iniziare a leggere e fermarsi a metà della lunga lettera. La prima parte è quella che racconta la vita pratica di Ingrid, le privazioni, i particolari crudeli di una prigionia ingiusta, l’amore per i figli, le speranze, i dettagli che hanno fatto sì che le parole di Ingrid Betancourt, accompagnate dalle immagini del video, generassero tanta indignazione toccando le corde più sensibili del nostro animo, ma anche quelle più impressionabili da quel gusto sottile e morboso che abbiamo per le tragedie altrui, così che sembra inaccettabile che alla Betancourt le FARC non permettano di avere un dizionario enciclopedico ma non sorprende invece che nel cuore della foresta colombiana lei riesca a sentire tutti i giorni i messaggi della mamma e dei figli via radio.
La stessa morbosità che fa sì che si legga a metà la lettera e non si colgano invece passaggi ben più importanti, quasi tutti condensati nell’ ultima parte, quelli scritti da Ingrid Betancourt non madre , né figlia o moglie, ma donna politica, che lotta anche incatenata perchè la Colombia sfugga all’occhio miope di tutto il mondo.
“Per un lungo periodo, siamo stati come i lebbrosi che rovinano la festa. Noi, i sequestrati non siamo un tema politicamente corretto suona meglio dire che bisogna affrontare con fermezza la guerriglia ‚anche se dovesse costare il sacrificio di vite umane”.
Un’accusa pesante al presidente Uribe, che si evince ancor di più nella versione originale della lettera, perchè questa dopo aver subito la manipolazione della propaganda uribista, incorre in Italia anche in quella de la Repubblica (dove sebbene in incipit si legga “questa è la lettera scritta come prova… etc etc da nessuna parte specifica che non è la versione integrale).
Ebbene Ingrid scrive: “suena mejor decir que hay un ser fuerte frente a la guerrilla, aún si se sacrifican algunas vidas humanas. Ante eso el silencio” che suona molto diversamente da quel “bisogna affrontare con fermezza la guerriglia”. Ingrid vuole proprio dire: c’è un uomo forte, un potere forte di fronte alla guerriglia, anche se si sacrificano alcune vite umane e di fronte a questo solo il silenzio. E’ una condanna esplicita alle soluzioni militaristiche di Uribe, forse un riferimento alla morte degli 11 deputati di qualche mese fa. Non nomina il nome di Uribe invano la Repubblica, preferisce tergiversare, anche con una traduzione.
Segue Ingrid scrivendo degli Stati Uniti, della “loro grandezza” e di Lincoln: “Cuando Lincoln defendió el derecho, a la vida, y a la libertad de los esclavos negros de América, también se enfrentò con muchas Floridas y Prateras. Muchos intereses económicos y políticos que consideraban eran superiores a la vida y a la libertad de un puñado de negros”. Il riferimento ai sequestrati, alla loro situazione e alle trattative per lo scambio umanitario è evidente, ma ha un curioso modo di proporre la traduzione la Repubblica: “Quando Lincoln ha difeso il diritto alla vita e alla libertà degli schiavi neri in America, egli ha anche affrontato molti interessi economici e politici considerati superiori alla vita e alla libertà di un pugno di neri”.
Florida y Praderas non sono spariti casualmente a mio avviso dalla traduzione di questo passaggio della lettera di Ingrid Betancourt.
Florida y Pradera rappresentano il NO di Uribe ad ogni tentativo di iniziare un dialogo con le Farc, di fatto il NO alla smilitarizzazione di questi territori ha permesso che le trattative per lo scambio umanitario non venissero nemmeno iniziate. Come si poteva inserire una chiara accusa di Ingrid Betancourt a Uribe nel contesto di due pagine volte a mostrala soltanto come bellissima nel suo dolore e depressa e affranta vittima della ferocia marxista delle FARC?
Ma Lincoln “ganó” scrive Ingrid, “vinse e rimase impresso nell’immaginario collettivo della nazione la priorità della vita dell’essere umano su qualsiasi altro interesse”. Lincoln non è Uribe però.
Tra i ringraziamenti che fa Ingrid Betancourt particolari parole di stima e affetto sono per Chávez e per Piedad Cordóba, per il loro “interessamento per una causa che è la nostra e che risalta così poco perchè il dolore degli altri, quando non fa parte delle statistiche, non interessa a nessuno”. Simbolico e carico forse di significato politico quel “Gracias Presidente” con il quale saluta Hugo Chávez.
Ovviamente dei passaggi su Chávez la Repubblica propone soltanto una banalissima riga, ovviamente la meno significativa: “A Piedad e a Chávez, tutto, tutto il mio affetto e la mia ammirazione. Le nostre vite sono lì, nel loro cuore, che so essere grande e generoso”.
Sono importanti anche le parole rivolte all’ex candidato presidenziale impegnato nelle trattative per un accordo umanitario Álvaro Leyva : “E’ stato vicino ad ottenere qualche risultato ma forze che stanno contro la libertà di questa manciata di dimenticati sono come un uragano che tutto vuole demolire. Non importa. La sua intelligenza, la sua nobiltà e la sua costanza, hanno fatto riflettere molti qui e più che la libertà di alcuni poveri pazzi condannati nella selva, si tratta di prendere coscienza di quello che significa la dignità dell’essere umano”.
Ancora una volta parole dure contro la politica, contro il governo, contro Uribe che rappresenta quei poteri che non vogliono la sua liberazione e quella degli altri e che volendo cogliere un senso di più ampio respiro nelle parole di Ingrid, sono quei poteri che calpestano la dignità del popolo colombiano.
Grande e bellissima Ingrid Betancourt, hai fatto sentire la tua voce di condanna anche da dove ti trovi, peccato che da pochi è stata recepita.
E intanto la famiglia Betancourt, protesta contro il governo colombiano per la lettera data contro la loro volontà alla stampa, ma soprattutto protesta per la cessazione delle mediazioni di Chávez nelle capacità del quale a livello mondiale si riponevano grandi speranze,
“Se la sua mediazione fosse continuata, molto probabilmente entro la fine dell’anno o al massimo al principio del 2008 avremmo avuto i nostri cari liberi” dice il marito di Ingrid Betancourt , Juan Carlos Lecompte in una recentissima intervista rilasciata a El Clarín, ed aggiunge: “ma il problema è Uribe, sono 5 anni e mezzo che dimostra la mancanza di volontà politica per giungere ad un accordo…se è per Uribe, i prigionieri possono anche morire”.
Certo, Uribe non è Lincoln e lo dice anche la bellissima Ingrid Betancourt dalla selva.
Fujimori, “por qué no te callas”?
E’ iniziato lunedì (casualmente nella stessa data in cui si celebra la Giornata Internazionale dei Diritti Umani) in Perù il processo ad Alberto Fujimori per violazione dei diritti umani e corruzione.
Rischia quasi 30 anni di carcere e il pagamento di circa 34 milioni di dollari di indennizzo ai familiari delle vittime, in un processo che nel paese è considerato storico per essere la prima volta che un ex capo di stato risponde davanti alla giustizia per reati commessi durante il suo mandato.
Fujimori è accusato del sequestro e assassinio di nove studenti e di un professore dell’Università la Cantuta nel 1992 ed il massacro di altre 15 persone nel 1991 a Barrios Altos a Lima.
L’udienza è stata sospesa perchè l’imputato ha accusato ipertensione dopo avere gridato a gran voce e con le braccia in alto la sua innocenza. Il suo show gli è costato il richiamo all’ordine da parte del giudice César San Martín.
Intanto da Washington arriva un documento della DIA del 1997 che prova l’ordine dato dallo stesso Fujimori di non lasciare vivo nessun prigioniero Tupac Amaru nell’operazione di riscatto Chavín de Huántar, in cui furono uccisi a sangue freddo, nonostante si fossero arresi, i ribelli che tennero in ostaggio per quattro mesi nella sede dell’Ambasciata giapponese a Lima, centinaia di ostaggi.
Falce e martello, addio…
“La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi” scrivevano Marx ed Engels nel 1848.
Ed emblematicamente oggi, la lotta di classe è rappresentata dall’estintore della Thyssenkrupp: troppo pieno per i padroni, troppo vuoto per gli operai.
Nel 1977 una nota scoperta da Felice Casson in uno stabilimento della Montedison impartiva questa direttiva in materia di sicurezza: “spendere solo quando è assolutamente e comprovatamente indispensabile…negli altri casi bisogna correre dei ragionevoli rischi”.
Se questo è l’imperativo che muove la logica padronale, quale potrebbe essere allora quello che ha mosso la logica sindacale che ha permesso agli operai dell’acciaieria di lavorare e di morire a Torino, non “in un angolo dell’Africa” come ha detto Pietro Ingrao, in condizioni di sicurezza inaccettabili?
Sembrerebbe casuale ma allora non lo è, che mentre a Roma spariscono dal simbolismo politico italiano la falce e il martello, a Torino il fuoco vivo del progresso, del riformismo, del laisser-faire, ha carbonizzato quattro operai.
Sembrerebbe casuale ma non lo è, allora anche quello sbiadire del rosso “comunista” che si è trasformato in un brutto arancione sulla prima pagina di uno storico quotidiano; sembrerebbe casuale ma non lo è che la storia della sinistra si sia ridotta a un ridicolo album di figurine.
E allora servirà una nuova figurina, quella con la falce e il martello e la didascalia a ricordare ai posteri che prima ancora di significare “comunismo” , la falce e il martello significavano movimento operaio e movimento contadino.
Ma la falce e il martello da tempo hanno perso il loro potere di generare fermento sociale e rivendicazione operaia e “comunismo” è diventata ormai una parola scomoda e un po’ fuori moda.
Basta guardare la mancanza di slancio, di rabbia con la quale si sta vivendo la tragedia di Torino, la farsa delle collette ai familiari, il lutto cittadino, basta leggere quel tragico : “si accetta di tutto per la paura di restare senza un posto di lavoro” sulle pagine dei giornali, per rendersi conto che il movimento operaio in Italia è morto. Parlo di quel movimento capace di pretendere sicurezza e dignità sul lavoro, che ci avevano insegnato non molto tempo fa non essere più solo merce; quel movimento partecipe nei sindacati, capace di guidarne lotte e rivendicazioni, piuttosto che accettare compromessi e patteggiamenti.
Se così è, allora che spariscano davvero la falce e il martello e tutti di nuovo in fabbrica domani.