Voci del coraggio a Oaxaca — Violazioni dei diritti umani delle donne nel conflitto sociale e politico
PRIMA PARTE
Dedico questa parte del diario messicano a mi amiga Monique Camus, valiente y sensible mujer oaxaqueña.
Ricevo tramite mail da parte di Sara Méndez, de
Lo tradurrò per il diario messicano in più riprese in quanto si compone di varie sezioni. La versione originale si può scaricare in formato pdf da qui. Credo che sia interessante perché al di là di quanto già è stato detto sulla situazione politica attuale in Messico che chiunque sia dotato di buona volontà a questo punto dovrebbe già conoscere, al di là anche degli episodi di violenza più eclatanti che si sono verificati in questi ultimi mesi a Oaxaca, ci sono poi aspetti e modalità diverse della repressione di cui se notizie generiche vengono fornite dalla stampa straniera nessun riferimento appare su quella italiana o europea. Possiamo solo immaginare che sulle donne la repressione sia stata particolarmente cruda e violenta, possiamo immaginare con quali modalità essa sia stata attuata, ma l’immaginare soltanto non rende giustizia a queste donne che con coraggio e determinazione stanno portando avanti una battaglia che è iniziata ancor prima del verificarsi degli incidenti di Oaxaca. E proprio per questo, per la loro determinazione e per il loro coraggio sono state duramente colpite. Un donna che protesta e lo fa a volto scoperto fa più paura di un uomo perché nei suoi occhi si legge un dolore antico.
INTRODUZIONE
“Se non abbiamo un luogo dove si possa vivere con dignità e giustizia, non possiamo vivere da nessun parte” cita enfaticamente Leyla Centeno mentre racconta la storia della sua partecipazione al movimento e di come si sono organizzate le donne per conquistarsi un proprio spazio e un riconoscimento all’interno del movimento sociale sorto a Oaxaca a partire dal conflitto che da sei mesi monopolizza la società.
Il movimento sociale di Oaxaca ha la consapevolezza che, come spiega Leyla, la dignità è qualcosa di intrinseco all’essere umano, e che devono esistere diritti che devono essere garantiti dallo Stato affinchè siano reali. Di fatto queste garanzie sono state violate e perfino cancellate da un governo autoritario e sordo alle necessità dei suoi cittadini e cittadine e per questo uomini e donne lottano per far sì che le persone possano vivere degnamente: rispetto, libertà, sicurezza personale, integrità, autonomia, giustizia e uguaglianza.
Oaxaca è uno stato multiculturale, con caratteristiche geografiche, ambientali e di sviluppo molto diverse.
È il terzo stato più povero del Messico e concentra la maggior parte della popolazione indigena del paese, con 16 etnie che rappresentano il 31% delle 52 che esistono in Messico.
Oaxaca si è caratterizzata per avere un sistema di governo monopartitico da più di mezzo secolo. Il Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI) nell’agosto 2004 vinse le elezioni per il rinnovo del locale Congresso e per la nomina del Governatore in un clima di scandali e accuse di corruzione e di discussione sociale e giuridica tra i diversi soggetti politici e i cittadini e le cittadine.
La disuguaglianza sociale, politica ed economica accumulata nel corso della storia, insieme con la crisi della transizione democratica, hanno oggi come una delle ultime conseguenze un contesto di corruzione, impunità e violazione dei diritti umani e colpiscono sempre di più le popolazioni indigene e particolarmente le donne.
Voci del coraggio a Oaxaca. Violazioni dei diritti umani delle donne nel conflitto sociale e politico, rappresenta uno sforzo collettivo delle donne dei coordinamenti della società civile di Oaxaca ed è appoggiato da un gran numero di donne e organizzazioni, scritto con il fine di essere uno strumento di denuncia delle violazioni dei diritti umani delle donne.
Inizia con una breve descrizione del ruolo che queste hanno giocato nel movimento sociale.
Racconta storie che non sono ancora Storia, non solo perché non sono ancora state scritte ma perchè non sono storie definite, periodi terminati, ma sono storie ancora aperte, in svolgimento o che reclamano ancora giustizia . Storie che sono piene di donne con i loro mormorii, le loro grida e il loro dolore. Voci di donne che rompono il silenzio e che ci danno una lezione di resistenza, di lotta, di organizzazione, di partecipazione sociale e di coraggio. Insieme denunciano e chiariscono gli aspetti differenti del tipo di violenza esercitata contro di esse e che condizionano la loro vita.
La prima parte di questo materiale racconta le storie di quattro donne, i cui avvenimenti accadono in un momento storico anteriore al conflitto degli ultimi mesi e riflettono la situazione cronica dell’abuso di potere da parte del PRI al governo, violazioni commesse contro donne in quanto tali o per la loro etnia, per pratiche dispotiche o per il malfunzionamento delle istituzioni. Nella seconda parte si trovano dieci delle migliaia di voci di donne di Oaxaca che hanno infranto il silenzio. Ci mostrano come si sono organizzate in questi ultimi sei mesi di conflitto per conquistarsi un proprio spazio ed essere attrici principali del movimento sociale. Le loro voci ci raccontano come direttamente o indirettamente sono state colpite nei loro diritti fondamentali e quanto coraggio hanno avuto per affrontare situazioni di pericolo e di difficoltà. Le voci unite creano un clamore. La voce di ognuna di queste donne desidera essere ascoltata da tante altre; affinchè sia clamore, con le loro voci e le vostre: fermiamo questa Tragedia, questa Impunità, questa Infamia.
Voci del coraggio a Oaxaca vuole essere un clamore per
Abbiamo la convinzione che sommando gli sforzi possiamo poco a poco far sì che Oaxaca sia un luogo dove tutte le persone in particoalre le donne possano vivere con dignità e giustizia e come dice lo slogan femminista: che possano camminare senza paura per le strade.
CONTESTO
Sei mesi di resistenza pacifica a Oaxaca. Un movimento sociale emergente nel quale la partecipazione delle donne è stata fondamentale. Protagoniste e partecipi di centinaia di azioni pubbliche, di resistenza e di discussione, difenditrici dei diritti dei familiari vittime delle violazioni ai loro diritti individuali e voci levate contro la impunità. Senza l’apporto delle donne, questo movimento senza dubbio sarebbe la metà in numero e in importanza di ciò che è stato.
Loro, le colone, le indigene, le contadine, le maestre, le femministe, le casalinghe, le studentesse, tutte hanno contribuito a tessere la storia odierna di questa organizzazione e forse del Messico intero. Dall’audace e insospettata presa della televisione statale e di diverse stazioni radio che sono state le principali vie di comunicazione e di articolazione del movimento, fino al sostegno dei presidi e delle barricate che sono servite come protezione agli operativi notturni dai gruppi di banditi del governatore che in distinte occasioni hanno attaccato la popolazione. Dall’organizzazione dei fori di discussione fino al dar voce alle atrocità.
È noto che questo capitolo della storia inizia il 14 giugno del 2006, giorno dello sgombero violento del presidio dei maestri nello zócalo di Oaxaca, le offese per lungo tempo accumulate nella storia del popolo di Oaxaca hanno causato la crisi. Il discoso della governabilità e della democrazia a Oaxaca , come una cortina di fumo, si è dissolto per mostrare strade piene di centinaia di migliaia di pugni indignati, di voci che in coro ci hanno sorpreso con la loro tenacia: “È caduto, Ulises è già caduto!” Sintesi ultima delle richieste sociali, del debito storico con uno dei popoli più poveri, violentati e dimenticati del Messico.
Si sono sommati allora il rifiuto popolare al tentativo di sgombero e le richieste irrisolte di diversi settori e movimenti sociali: gli indigeni, i contadini, le donne e i sindacati tra gli altri. È sorta così l’Assemblea Popolare dei Popoli di Oaxaca (APPO) richiesta ampia e plurale che raggruppa gran parte del movimento sociale.
E se il fattore unitario è stato la richiesta di dimissioni di Ulises Ruiz, il pensiero e l’ideale collettivo hanno girato intorno alla trasformazione profonda di Oaxaca. Trasformazione politica, sociale, che restituisca realtà alla Democrazia, alla Giustizia, ai Diritti Umani, l’Uguaglianza tra uomini e donne,
E a Oaxaca il popolo, cioè le donne con le loro stoviglie, gli indigeni e le indigene, i giovani impulsivi, gli anziani e le anziane dal passo lento e la saggenzza antica, sono i creatori e le creatrici delle barricate, delle marce di massa. Sono coloro i quali hanno espresso il loro consenso nelle riunioni e nei dibattiti; coloro i quali integrano le organizzazioni e nominano i rappresentanti per il tavolo unitario di negoziazione con
Per le donne la crisi ha rappresentato un’opportunità. Centinaia di migliaia sono uscite per le strade e hanno reclamato spazi e tempi negati loro fino a questo momento. L’organizzazione delle Donne di Oaxaca Primo Agosto è un esempio concreto, un mezzo di partecipazione di donne del popolo, formatosi per potenziare la loro presenza e azione all’interno del movimento stesso.
Ciò nonostante, la mobilitazione pacifica, spalla a spalla, la protesta motivata, l’iniziativa davanti al Congresso hanno dato frutti indesiderati: più di seimila effettivi della Polizia Federale Preventiva (PFP) occupano dal 29 di ottobre il centro storico della città di Oaxaca; si contano già 17 morti, 450 detenuti e detenute, ci sono ancora 30 casi di persone scomparse, innumerevoli feriti e persone prelevate dalle loro stesse abitazioni.
Tra le vittime della repressione si contano decine di donne detenute, scomparse, minacciate e picchiate. Ci sono anche tutte quelle che hanno subito conseguenze per la repressione e per l’assassinio dei loro familiari.
Proprio il 25 novembre scorso, paradossalmente,
Ci sono leader del movimento minacciati e arrestati, difensori dei diritti umani perseguitati, giunge voce che ci siano più di 200 ordini di apparizione e un clima generalizzato che sembra più corrispondere agli anni ’ 70 che non al XXI secolo.
In silenzio
“…los de abajo
conocen el silencio, padecen el silencio,
mas no se callan”.
Julio Carmona
Mi rivesto di silenzio,
denudando per un attimo i ricordi del passato
affinché possano prendere luce e godere.
Se fosse facile,
con una sola parola gridata forte
cancellare
il silenzio di tante voci, di tanto dolore!
Il silenzio non è solo una parola,
magari sussurrata piano,
il silenzio ce l’hai nel cuore.
Si prenderanno per mano negli anni a venire,
il silenzio di chi non ha voce e il mio,
raccontandosi storie antiche
senza tempo.
In silenzio i fratelli amanti
uscirono dalle acque gelide del lago
per fondare l’ Impero del Sole.
Con gran baccano d’armi e di croci
giunsero dal mare orde di uomini feroci,
increduli al cospetto di cotanta bellezza,
accecati da tanta ricchezza.
E dopo il sangue e il ladrocinio
fu il silenzio…
Guido Piccoli: Colombia, uno scontro interno all’oligarchia fa traballare Uribe
Da Il Manifesto del 28 dicembre 2006
Narcos e generali, la resa dei conti
La Colombia sull’orlo del caos. Dal computer di un capo paramilitare escono nomi di politici, generali e narcotrafficanti, «committenti» di omicidi e stragi. Lo scandalo innesca confessioni, accuse, ricatti. Emerge tra gli altri il nome di un famigerato comandante, cittadino italiano: ma perché l’ambasciata d’Italia ha dato il passaporto a Salvatore Mancuso?
Guido Piccoli
Nelle prossime settimane la Colombia potrebbe conoscere un bagno di sangue peggiore di tutti quelli accaduti nella sua travagliata storia. Paradossalmente però potrebbe anche avviarsi a diventare un paese normale.
Cosa sta accadendo? L’attuale caos è stato determinato da alcuni episodi. Come il casuale ritrovamento del computer di un capo delle Auc (Autodefensas Unidas de Colombia, famigerata organizzazione paramilitare di estrema destra), Jorge 40, contenente nomi di politici e generali suoi soci. O la scoperta di decine di fosse comuni con i resti delle vittime dei paramilitari, e poi le confessioni e reciproche accuse di alcuni detenuti eccellenti, mandanti ed esecutori di omicidi. Col passare dei giorni questi scandali stanno sconvolgendo, con un imprevisto effetto domino, lo stato e la società colombiani.
C’è di più: probabilmente in Colombia è arrivato al capolinea un regime corrotto e criminale, ma anche sofisticato, fatto di democrazia formale e di terrore sostanziale. E, non a caso, accade sotto la presidenza di un personaggio come Alvaro Uribe, ricattabile per i suoi legami antichi e recenti con narcos e paramilitari, ma anche incapace di portare, nonostante i suoi metodi autoritari, una sorta di pace nel paese. Quando s’insediò la prima volta a Palacio Nariño i paramilitari cantarono vittoria e cominciarono a «passare in cassa», decisi a farsi ripagare per i loro servizi di morte per conto dello stato. «Non saremo più il rotweiler del palazzo» annunciò il loro capo, Carlos Castaño. Da allora, però, le loro ruberie e le loro pretese sono aumentate fino a diventare insopportabili anche all’oligarchia tradizionale, che si era beneficiata dei loro omicidi mirati e dei loro massacri.
La crisi attuale non è causata solo da quei pochi settori dello stato che mantengono un minimo d’indipendenza da Uribe (come la Corte Costituzionale o la Corte Suprema di Giustizia), e neppure dalla resistenza popolare al neo-liberismo, dall’opposizione legale che sta crescendo intorno al Polo Democratico o dall’azione delle Farc, per nulla intaccate dalla recrudescenza del conflitto armato.
Conta forse di più la determinazione dell’oligarchia tradizionale di non farsi estromettere da quella mafiosa e paramilitare. Alvaro Uribe non può accontentare la prima, che l’ha votato nel maggio scorso, ritenendolo «insostituibile» (come scrisse il quotidiano El Tiempo) e neppure la seconda, che gli chiede di mantenere le promesse d’impunità assoluta e di legittimazione del potere acquisito col sangue.
I boss chiedono protezione
Come un Arlecchino creolo «servitore di due padroni», Uribe non sa più come destreggiarsi nella contesa che contrappone i paramilitari e la Casa Bianca, che vorrebbe rinchiudere questi ultimi nelle carceri statunitensi, anche se solo nella veste di narcos. Il presidente vive ormai alla giornata, senza una strategia. Una settimana fa ha fatto trasferire i capi paramilitari dal club turistico, dove godevano di ogni confort e della più assoluta libertà, al supercarcere di Itaguì. Forse Uribe voleva ammansire gli Stati uniti, sempre più irritati dall’immunità «politica» concessa ai narcos.
Se è vero che in Colombia sono stati sistematicamente insabbiati tutti gli scandali, per Uribe e il suo schieramento, sembra essere arrivata l’ora della resa dei conti. Tutti accusano tutti: perfino Uribe ha denunciato la tolleranza verso i paras dei presidenti che l’hanno preceduto.
I capi paramilitari, che minacciano di rivelare le loro relazioni con lo stato e la politica, temono di essere scaricati come fu a suo tempo il gran capo Pablo Escobar. E proprio come fece il boss, nei suoi ultimi anni, chiedono protezione alla sinistra. Uno di loro, tale Salvatore Mancuso, ha chiamato il senatore Gustavo Petro, ex guerrigliero dell’M-19 e ora esponente del Polo Democratico, diventato (anche per il suo ruolo di denuncia del para-stato) il più probabile candidato d’opposizione in caso di elezioni anticipate.
In un’intervista pubblicata in prima pagina da El Tiempo domenica scorsa proprio Petro, oltre a definire i paramilitari «sicari alle dipendenze di uno stato mafioso», ha fatto previsioni tetre: «I datori di lavoro del paramilitarismo — narcos, generali dell’esercito e della polizia, politici, imprenditori — i cui nomi stanno per essere resi pubblici, cercheranno di impedire che la verità venga a galla. Alcuni nuclei tenteranno destabilizzare il paese e generare un caos cieco, colpendo non soltanto l’opposizione, il Polo, me e la mia famiglia, ma anche lo stesso presidente Uribe». Per evitare di finire come tanti altri coraggiosi colombiani che si sono opposti al terrorismo statale, Petro gira con un giubbotto antiproiettile e una scorta di una ventina di guardie del corpo.
Secondo Petro, anche Uribe rischia. Sebbene sia l’ultimo governante di fiducia degli Usa nel loro traballante «cortile di casa», Uribe potrebbe essere scaricato dalla nuova maggioranza democratica a Washington. E saltare: letteralmente (per opera dei suoi soci) come paventato da Petro, o pacificamente, grazie a un «impeachment», possibile per il contributo decisivo e documentato dei paramilitari alle sue due elezioni presidenziali o perchè coinvolto dagli scandali di questi giorni, visto che tutti i personaggi accusati di paramilitarismo sono amici suoi.
In questa polveriera appare sempre più decisivo il ruolo del Polo Democratico, unica forza capace di far uscire il paese dal caos. Magari alleandosi con la parte del partito liberale non coinvolta col paramilitarismo, e anche intavolando un dialogo con la guerriglia che resiste senza difficoltà alle roboanti quanto impotenti azioni militari del nuovo Plan Victoria (discendente dei falliti Plan Patriota e Plan Colombia). «Questa emergenza merita la convocazione urgente di nuove elezioni. Bisogna lavorare per un’alleanza che salvi la nazione. Le organizzazioni politico-sociali, i partiti e i movimenti democratici, i militari rispettabili, tutti i colombiani che hanno a cuore la patria devono unirsi per costruire un’alternativa decorosa al governo», ha detto Ivan Márquez, comandante delle forze guerrigliere nel nord della Colombia membro del segretariato delle Farc. Almeno nell’opposizione, la politica potrebbe prendere il sopravvento sulle armi.
«El Mono» e la ‘Ndrangheta
Nel frattempo quel Salvatore Mancuso sta diventando un caso — anche in Italia, visto che è un cittadino italiano. Detto «El Mono», la scimmia, da anni alterna le stragi di umili contadini con i trasporti di droga nell’Atlantico. Molti fingono di non saperlo. Stando alle intercettazioni telefoniche che un mese fa hanno reso possibile l’operazione «Galloway Tiburon» (realizzata dalle polizie italiana, spagnola, colombiana e dalla Drug Enforcement Administration, l’antidroga statunitense, e conclusa con un centinaio di arresti), qualcuno della nostra ambasciata di Bogotà avrebbe concesso a Mancuso il passaporto italiano, prendendo per buona la sua dichiarazione di buona condotta. «Mancuso potrà viaggiare tranquillamente in Italia per realizzare i progetti che ha in mente», diceva il suo amministratore di fiducia parlando con Giorgio Sale, un imprenditore romano, arrestato insieme con i suoi tre figli con l’accusa di riciclare, attraverso ristoranti, pub e una cinquantina di negozi di abbigliamento di Bogotà, Barranquilla e Cartagena, i ricavi del narcotraffico
del boss.
Nell’operazione è caduto anche un pezzo da novanta, José Alfredo Escobar, presidente del Consiglio superiore della magistratura colombiana, che controlla le risorse della giustizia, la carriera dei magistrati e ha la facoltà di distribuire i casi ai tribunali civili o a quelli militari. Secondo gli inquirenti, dall’inizio dell’indagine, le Auc avrebbero fatto arrivare otto tonnellate di cocaina purissima, soprattutto sulle banchine del porto di Goia Tauro, destinate alle varie famiglie della ‘Ndrangheta diventata, secondo la Direzione Centrale per i Servizi Antidroga, egemonica nel «traffico internazionale di cocaina, grazie ai canali diretti di approvvigionamento dai Paesi del Sudamerica e alla dimostrata abilità nel gestire complessi sistemi di riciclaggio». Agli occhi dei narcos colombiani, «la ‘Ndrangheta è l’organizzazione più affidabile, perchè quasi impermeabile al fenomeno del pentitismo», ha detto Nicola Gratteri, giudice della direzione antimafia di Reggio Calabria.
Per ora il sogno di Salvatore Mancuso di tornare con i suoi immensi bottini di guerra nella terra dei suoi avi paterni, sulla costa meridionale salernitana, è sfumato: a causa dell’iniziativa della magistratura italiana, che rimase inerte dopo altre inchieste che l’avevano coinvolto in passato (come la «Decollo» del gennaio 2004). Nei prossimi giorni, su richiesta di Nicola Gratteri, dovrebbe partire la richiesta di estradizione del leader delle Autodefensas Unidas de Colombia per narcotraffico.
Le possibilità che Mancuso arrivi ammanettato in Italia sono al momento nulle, vista l’immunità concessa a lui, all’intero vertice narco-paramilitare e al loro esercito dal presidente Alvaro Uribe. Ma questo provvedimento agevolerebbe comunque la comprensione della natura del parastato colombiano da parte del nostro governo.
Tra gli interlocutori della Farnesina non sono mancati sinistri figuri. Coloro che dirigevano fino a pochi mesi fa l’ambasciata e il consolato di Milano, Luis Camilo Osorio e Jorge Noguera, quando erano a capo della Fiscalía (la magistratura inquirente) e del Das (la più potente delle polizie segrete colombiane), facilitarono spudoratamente la penetrazione paramilitare nelle istituzioni colombiane. L’attuale ministro degli esteri, María Consuelo Araújo, ha un fratello senatore indagato per paramilitarismo e fa parte di una famiglia sotto protezione del capo paramilitare Jorge 40. Infine il nuovo ambasciatore a Roma, Sabas Pretelt: quando era alla direzione del ministero degli Interni e della Giustizia (significativamente unificati sotto il regime uribista) fu l’architetto del farsesco «negoziato» con le Auc e in quella veste assicurò ai capi paramilitari che non avrebbe fatto estradare negli Usa se si fossero impegnati a far vincere nelle scorse elezioni Uribe e lui in quelle del 2010 — questo secondo le confessioni di alcuni capi paras riportate sull’ultimo numero della rivista Cambio. Tutta gente «per bene» con troppi scheletri nell’armadio.
Amnistia? Impunità per i «paras»
La legge di «giustizia e pace» è un indulto di fatto generalizzato per i paramilitari. «Ha offerto legittimità internazionale a assassini, terroristi e capi narcos», secondo Amnesty. L’Unione europea esprime dubbi, ma ha dato un «appoggio condizionato»
G. P.
«Immaginati in fila con altri disgraziati, legato mani e piedi, sulla riva del rio Magdalena. Di fronte a te, due uomini che affilano i loro machete. E intorno, i tuoi familiari e gli abitanti del villaggio che ascoltano i tuoi gemiti di terrore, e le tue urla quando ti squarteranno e nessuno potrà avvisare la polizia per non finire, quella stessa notte, a pezzi nel fiume. Adesso a quei due, come a tutti gli altri, Uribe ha applicato un paio d’ali da angelo. Ma che cazzo di paese è il nostro?». Questo è il commento di un lettore di Tiempo alla notizia dell’indulto che il governo Uribe ha concesso ai membri delle Auc: impunità su misura per i paramilitari che hanno aderito alla «Legge di Giustizia e Pace».
Il decreto governativo sancisce che l’indulto sia applicato soltanto a coloro che non risultino colpevoli di «delitti di lesa umanità». In realtà significa a tutti, o quasi, visto che i giudici inquirenti non hanno tempo e mezzi (e forse nemmeno voglia) per indagare sulle malefatte di ciascuno e visto che è difficile che eventuali vittime o testimoni dei loro delitti vincano la sfiducia nella giustizia e il terrore ancora esercitato dai paras in molte regioni.
A quei due delle Auc, come a tutti gli altri, basterà quindi una semplice autocertificazione per uscire puliti. Obbrobri del genere, che stanno alla base della legge di Giustizia e Pace e fanno da cornice giuridica alla legalizzazione delle Autodefensas, non sono bastate finora a indignare l’Unione europea. Pur continuando ad esprimere dubbi sull’effettivo smantellamento delle strutture paramilitari, la vaghezza della definizione del delitto politico, l’insufficiente tempo per indagare sulle confessioni e sull’insufficienza delle pene massime previste, l’ultima dichiarazione del Consiglio dei ministri europei sulla Colombia del 3 ottobre 2005 ribadisce il suo appoggio al governo Uribe e alla sua «politica di pace».
Sono rimaste inascoltate le proteste degli organismi di diritti umani colombiani e di Amnesty International che ha accusato l’Unione Europea di «offrire una legittimità internazionale a una legge che non rispetta le norme su verità, giustizia e riparazione», e che secondo il New York Times garantisce «l’impunità per una massa di assassini, terroristi e capi narcos». Tra la Francia, che si è detta contraria alla farsa in atto, e la Spagna di Zapatero, la Gran Bretagna e la Germania, che la sostengono, è finora prevalsa la linea, ambigua e ipocrita, portata avanti da Italia, Olanda, Danimarca e Finlandia di «appoggio condizionato», con richieste di modifica sistematicamente ignorate da Bogotà e impegni di verifica che si rivelano cortine di fumo.
«Invece di aiutare le vittime, i finanziamenti europei rischiano di sostenere il reinserimento bellico dei paramilitari», sostiene l’eurodeputato Vittorio Agnoletto del gruppo della Sinistra Europea. Buona parte dei soldi infatti finisce nelle regioni, in progetti di ridistribuzione di ex paras (come nel caso dei cosiddetti «guardaboschi»), che ubbidiscono soltanto alla logica di «controllo territoriale militare» da parte del governo centrale.
Salvatore Mancuso
La carriera di un massacratore
Tra i massacri di cui Salvatore Mancuso è stato mandante o esecutore (e per i quali potrebbe scontare al massimo una condanna di 8 anni, grazie alla legge del suo socio e vicino di fattoria Alvaro Uribe), i più noti sono quelli di El Aro, nella regione di Antioquia, e di El Salado, in quella del Sucre. A El Aro, il 22 ottobre 1997, trenta suoi uomini del Bloque Catatumbo torturarono e ammazzarono 14 contadini, tra i quali un tredicenne, dopo aver incendiato e saccheggiato le loro case. A molte vittime furono strappati gli occhi e i genitali. Per questo massacro, Mancuso è stato condannato a 40 anni di carcere.
A El Salado, en Sucre, il 16 febbraio 2000, 38 contadini (tra i quali un bambino di 6 anni) furono mutilati atrocemente prima di essere uccisi. Prima di dare il colpo di grazia, i paras obbligarono le loro donne a denudarsi e a ballare al suono di un vallenato. Secondo Amnesty International, le donne furono violentate.
Il 19 dicembre scorso, dopo un conflitto a fuoco in un villaggio della regione di Antiochia, che ha provocato due vittime, è stato catturato un altro italo-colombiano delle Auc: Alberto Laino Scoppeta, proprietario di una rivendita di auto blindate ed erede di Jorge 40 alla testa del Bloque Norte. L’uomo stava per ritornare in Italia. Un altro «angioletto» col passaporto in regola? (g.p.)
Considerazioni di fine anno.
Immagine di AURELIO ANTONA
Ascoltando: Papá cuentame otra vez — Ismael Serrano
L’operazione psicologica dell’ambasciata USA in Perù
Da una recente inchiesta del El Commercio, risulterebbe che la popolarità del presidente peruviano Alan García negli ultimi sei mesi, abbia registrato un calo di consensi pari a 17 punti.
Le sue roccaforti continuano ad essere Lima e la costa nord, dove tra l’altro ha ottenuto il maggior numero di voti nelle recenti elezioni presidenziali del maggio scorso.
Varie sono le interpretazioni: secondo l’analista politico Eduardo Toche questa tendenza è dovuta al fatto che la popolazione inizia a esigere l’applicazione di misure governative che possano dare risultati concreti a breve termine.
Altri analisti invece credono che la caduta di popolarità del presidente sia dovuta in realtà al fatto che il popolo lo sente troppo vicino alla destra, troppo interessato alla risoluzione dei problemi dell’oligarchia del paese e veramente troppo onnipresente nei mezzi di comunicazione, quasi come un “maestro di cerimonie”.
Probabilmente hanno avuto un ruolo importante anche le pressioni che sta portando avanti con il Congresso per il ripristino della pena di morte contro i terroristi e lo scandalo che lo ha coinvolto poco tempo fa quando si è visto costretto al riconoscimento di un suo figlio nato fuori dal matrimonio e di cui aveva sempre negato l’esistenza.
Alla luce di tutte queste interpretazioni appare quindi quanto meno senza fondamento la denuncia fatta dall’ambasciata statunitense a Lima secondo la quale esiste un complotto organizzato da imprenditori della destra e da militari per attentare alla vita di Alan García.
Ci sono in merito, alcune considerazioni importanti da fare.
Innanzitutto il rapporto dell’ambasciata statunitense è stato divulgato dalla televisione tramite il Canal N che appartiene alla stessa famiglia proprietaria del quotidiano El Commercio. Secondo questo rapporto, il piano per assassinare Alan García è stato ideato nel mese di ottobre 2006 e dovrebbe essere messo in pratica a Gennaio 2007 con la modalità di un attentato all’aereo presidenziale in uno dei viaggi del presidente in Perù. Questo piano sarebbe stato messo in atto per la crescente preoccupazione da parte di alcuni settori dell’imprenditoria riguardo al fatto che il presidente possa tradire i loro interessi.
L’ambasciatore degli Stati Uniti a Lima ha subito fatto dietrofront affermando che la delegazione diplomatica del suo paese “non considera credibile” l’ipotesi dell’attentato a García ma che ha semplicemente “trasmesso la sua preoccupazione alle autorità peruviane”, le quali dal canto loro hanno avviato le indagini ma hanno seri dubbi sulla veridicità delle affermazioni.
Verrebbe da pensare che il lupo perde il pelo e non il vizio.
E’ evidente una goffa e traballante intromissione da parte della diplomazia degli Stati Uniti negli affari interni del Perù. E’ evidente che per questo viene utilizzato sfacciatamente un mezzo televisivo, infatti non si capisce come un rapporto diplomatico di “intelligence” che dovrebbe avere carattere di massima segretezza possa essere letto per televisione.
Alla fine è evidente, vista la premessa, anche lo scopo di tutto ciò. Dal momento che la popolarità del presidente Garcia è in calo dopo soli sei mesi dalle elezioni e dal momento che settori via via più ampi della popolazione scendono in campo sempre più a voce alta contro García e l’APRA si rende necessaria “un’operazione psicologica”.
Luis Arce Borja direttore de El Diario Internacional, dalle pagine del suo giornale, ce ne spiega il significato: “le operazioni psicologiche … si applicano in momenti di acuta crisi economica e di fragilità dello stato oppressore, cioè quando la fame, la miseria, la disoccupazione, la sottoccupazione, la miseria estrema aumentano in maniera vertiginosa e i cui effetti accelerano la lotta di classe”
Ora convertire “García Pérez da carnefice in vittima” può essere una operazione psicologica studiata a tavolino. Farlo passare da vittima dell’oligarchia quando in realtà la rappresenta fino in fondo è senz’altro un’operazione psicologica che dovrebbe insinuare questo dubbio nel popolo: se la destra lo vuole morto, evidentemente egli non è dalla parte dei ricchi e potenti, come invece noi crediamo. E come non segnalare che questa operazione psicologica ha anche lo scopo da parte della Casa Bianca di rafforzare la posizione di uno dei pochi vassalli fedeli al governo USA che rimangono in Sud America?
“Perché uccidere la gallina dalle uva d’oro ?” si chiede Luis Arce Borja e in effetti indicare come mandanti del complotto i militari e l’imprenditoria peruviana appare evidentemente come un gioco di fantasia, dal momento che nessuno come García difende gli interessi economici dell’oligarchia e dei gruppi di potere in Perù.
Proprio in questi giorni il El Diario Internacional sta pubblicando un lista di nominativi di bambini e bambine torturati e uccisi da militari e polizia durante il conflitto armato interno tra il 1980 e il 2000. Responsabili ne sono i governi genocidi di Belaunde, García Pérez e Fujimori.
La operación psicológica de la embajada EEUU en el Perú
Según una recièn encuesta de El Comercio, parecería que la popularidad del presidente peruano Alan García en los últimos seis meses de gobierno hubiera registrado una tendencia a la baja de 17 puntos.
Sus baluartes siguen siendo Lima y la costa norte, donde obtuvo los votos que le permitieron ganar en las elecciones del pasado mes de mayo.
Hay diferentes interpretacciones de esto: para el analista político Eduardo Toche esta tendencia se debe al hecho que la población ha comenzado a exigir medidas que tengan resultados concretos a corto plazo.
Otros analistas creen que la caída de popularidad del presidente en realidad se debe al hecho de que la gente lo percibe demasiado cercano a la derecha , demasiado interesado en la resolución de sus problemas y en verdad también demasiado presente en los medios televisivos casi como un “maestro de ceremonias”.
A la luz de esas interpretaciones parece entonces sin fundamento la denuncia hecha por la embajada estadunidense en el Perù según la cual existe un complot organizado por grupos empresariales de la derecha conjuntamente con los militares para atentar contra la vida del presidente Alan García.
Hay unas reflexiones importantes qué hacer.
Antes que todo la instancia de la embajada de EEUU ha sido difundida por la televisión por medio de Canal N que pertenece a la misma familia propietaria del diarío El Comercio. Según esa instancia, el complot para asesinar al presidente García ha sido planeado en el pasado més de octubre y debería ser realizado durante el més de enero 2007 en la forma de un ataque al avión presidencial en uno de sus vuelos domésticos en el Perú. Ese complot habría sido planeado por la creciente preoccupacción de algunos sectores de el empresariado sobre la posibilidad de que el presidente pudiera traicionar sus intereses.
El embajador de los Estados Unidos en Lima ha dado marcha atrás afirmando que la delegación diplomatica de su país “no cree posible” la suposición del atentado contra García pero que ha simplemente “comunicado su preocupación a las autoridades peruanas” las cuales están investigando la veradicidad de esas noticias.
El lobo muda el pelo más no el celo.
Es evidente una desgarbada y tambaleante injerencia de parte de la diplomacia de Estados Unidos en los asuntos internos de Perú. Es evidente que para eso se utiliza atrevidamente un medio televisivo, y no se entiende como una instancia diplomática de inteligencia que debería tener carácter de secreto pueda ser leído en televisión.
Es evidente, por fin, después la premisa que hicimos, también el objetivo de todo esto. Ya que la popularidad del presidente García registra una baja solamente seis meses después de las elecciones y dado que que sectores siempre más extensos de la población levantan la voz contra García y el APRA se hace necesaria una “operación psicológica”.
Luis Arce Borja director de El Diario Internacional, desde esas paginas nos explica lo que signifíca: “las operaciones psicológicas…se aplican en épocas de agudas crisis económicas y de fragilidad del Estado opresor. Es decir cuando el hambre, la miseria, la desocupación , el subempleo y la extrema miseria aumentan en forma vertiginosa, cuyos efectos aceleran la lucha de clases”.
Ahora convertir “García Pérez de victimario en victima” puede ser una operación psicológica planeada a la medida.
“Para qué matar a la gallina de los huevos de oro?” se pregunta Luis Arce Borja y efectivamente señalar a los militares y al empresariado como los artifices del complot parece verdaderamente como un juego de fantasia ya que nadie como García defiende los intereses económicos de la oligarquía y de los grupos de poder en el Perú.
Precisamente en estos días El Diario Internacional está publicando un listado de nombres de niños y niñas torturados y asesinados por los militares y policias durante el conflicto armado interno entre el 1980 y el 2000. Culpables son los gobiernos genocidas de Belaunde, García Pérez y Fujimori.
La morte dell’ex spia russa Litvinenko: pettegolezzi, ipotesi, elucubrazioni:
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Annalisa Melandri
Pancho visto da Paco
Ascoltando.…
Francisco (Pancho) Villa — Victor Jara
Pancho visto por Paco
Pancho es Pancho Villa, héroe de la revolución méxicana de 1910–1911. Paco es Paco Ignacio Taibo II, quien después de haber escrito una excelente biografía del Che Guevara quiere ahora contar la vida de uno de los héroes de su país.
El diario La Jornada anticipó el “capítulo cero”. La edición italiana serà en 2007 por la editorial Marco Tropea y por la traducción de Pino Cacucci.
Copio aquí en seguida un pasaje del “capítulo cero” en el cual con pocas palabras y librandóse magistralmente con aquel lenguaje que lo distingue, entre falsedad y verdad, entre realidad histórica y leyenda, Paco Ignacio Taibo II nos devolve la personalidad y el valor de Doroteo Arango Arámbula, por todos conocido como Pancho Villa.Yo creo que recordar ahora su valía y su personalidad puede contribuir a devolver a todo México la dignidad que ha sido pisada por los acontecimientos de esos últimos meses.
Y a nosotros, lectores lejanos, pero emocionalmente cercanos, puede de todas maneras ofrecer razón de participación a la lucha que non es solamente la de la APPO o de los maestros de Oaxaca o de los partidarios de AMLO pero es siempre y en cualquier caso compartida, la de cada pueblo y cada hombre cuando afirman y reclaman los derechos fundamentales de la vida.
“Esta es la historia de un hombre del que se dice que sus métodos de lucha fueron estudiados por Rommel (falso), Mao Tse Tung (falso) y el subcomandante Marcos (cierto); que reclutó a Tom Mix para la Revolución Mexicana (bastante improbable, pero no imposible), se fotografío al lado de Patton (no tiene mucha gracia, George era en aquella época un tenientillo sin mayor importancia), se ligó a María Conesa, la vedette más importante en la historia de México (falso; trató, pero no pudo) y mató a Ambrose Bierce (absolutamente falso). Que compuso La Adelita (falso), pero lo dice el Corrido de la muerte de Pancho Villa, que de pasada le atribuye también La cucharacha, cosa que tampoco hizo.
Un hombre que fue contemporáneo de Lenin, de Freud, de Kafka, de Houdini, de Modigliani, de Gandhi, pero que nunca oyó hablar de ellos, y si lo hizo, porque a veces le leían el periódico, no pareció concederles ninguna importancia porque eran ajenos al territorio que para Villa lo era todo: una pequeña franja del planeta que va desde las ciudades fronterizas texanas hasta la ciudad de México, que por cierto no le gustaba. Un hombre que se había casado, o mantenido estrechas relaciones cuasimaritales, 27 veces, y tuvo al menos 26 hijos (según mis incompletas averiguaciones), pero al que no parecían gustarle en exceso las bodas y los curas, sino más bien las fiestas, el baile y, sobre todo, los compadres.
Un personaje con fama de beodo que sin embargo apenas probó el alcohol en toda su vida, condenó a muerte a sus oficiales borrachos, destruyó garrafas de bebidas alcohólicas en varias ciudades que tomó (dejó las calles de Ciudad Juárez apestando a licor cuando ordenó la destrucción de la bebida en las cantinas), le gustaban las malteadas de fresa, las palanquetas de cacahuate, el queso asadero, los espárragos de lata y la carne cocinada a la lumbre hasta que quedara como suela de zapato.
Un hombre que cuenta al menos con tres “autobiografías”, pero ninguna de ellas fue escrita por su mano.
Una persona que apenas sabía leer y escribir, pero cuando fue gobernador del estado de Chihuahua fundó en un mes 50 escuelas. Un hombre que en la era de la ametralladora y la guerra de trincheras, usó magistralmente la caballería y la combinó con los ataques nocturnos, los aviones, el ferrocarril. Aún queda memoria en México de los penachos de humo del centenar de trenes de la División del Norte avanzando hacia Zacatecas.
Un individuo que a pesar de definirse a sí mismo como un hombre simple, adoraba las máquinas de coser, las motocicletas, los tractores.
Un revolucionario con mentalidad de asaltabancos, que siendo general de una división de 30 mil hombres, se daba tiempo para esconder tesoros en dólares, oro y plata en cuevas y sótanos, en entierros clandestinos; tesoros con los que luego compraba municiones para su ejército, en un país que no producía balas.
Un personaje que a partir del robo organizado de vacas creó la más espectacular red de contrabando al servicio de una revolución.
Un ciudadano que en 1916 propuso la pena de muerte para los que cometieran fraudes electorales, inusitado fenómeno en la historia de México.
El único mexicano que estuvo a punto de comprar un submarino, que fue jinete de un caballo mágico llamado Siete Leguas (que en realidad era una yegua) y cumplió el anhelo de la futura generación del narrador, fugarse de la prisión militar de Tlatelolco.
Un hombre al que odiaban tanto, que para matarlo le dispararon 150 balazos al coche en que viajaba; al que tres años después de asesinarlo le robaron la cabeza, y que ha logrado engañar a sus perseguidores hasta después de muerto, porque aunque oficialmente se dice que reposa en el Monumento a la Revolución de la ciudad de México (esa hosca mole de piedra sin gracia que parece celebrar la defunción de la revolución aplastada por una losa de 50 años de traiciones), sigue enterrado en Parral.
Esta es la historia, pues, de un hombre que contó, y del que contaron muchas veces sus historias, de tantas y tan variadas maneras que a veces parece imposible desentrañarlas.
El historiador no puede menos que observar al personaje con fascinación.”