Allons enfants de la Patrie…

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Vont enfin recevoir leurs prix!

Tout est soldat pour vous combattre,

S’ils tombent, nos jeunes héros,

La terre en produit de nouveaux,

Contre vous tout prêts à se battre!

Aux armes, citoyens…,




Fonte foto: http://www.boston.com/bigpicture/2010/10/france_on_strike.html



Flussi migratori “al femminile”: se le donne sfruttano altre donne

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I flussi migratori moderni  si stanno caratterizzando sempre  piú  per essere flussi migratori “al femminile”; si femminilizzano, come scrivono quasi tutti i piú recenti rapporti sulle migrazioni.

Questo nuovo aspetto dei fenomeni migratori  è stato anche oggetto del   IV Foro Sociale delle Migrazioni che si è tenuto a Quito, Ecuador,  dal 8 al 12 ottobre del 2010.

Nella dichiarazione finale redatta dallˈAssemblea dei Movimenti Sociali che formavano il Foro Sociale  delle Migrazioni si legge: “la femminilizzazione crescente dei flussi migratori mondiali si spiega in larga misura con lˈincorporazione delle donne nelle catene globali di assistenza familiare  nei paesi di destinazione, caratterizzata da  una gran precarietà lavorativa che comporta processi di degrado personali  e con gravi problemi di impatto ambientale nelle comunità di origine, costituendo una delle nuove forme di schiavitù del secolo XXI. Con relazione alla tratta con fine di sfruttamento sessuale, in molti paesi si  applicano le leggi di migrazione e non le leggi di protezione raccomandate dal protocollo di Palermo. [1]

Negli ultimi anni accade infatti  sempre più spesso  che sono le donne dei paesi più  poveri  del mondo che si fanno  carico del ruolo di breadwinner allˈinterno delle loro famiglie, ruolo un tempo riservato alla componente maschile emigrante  dei nuclei familiari. Le donne   sono spesso  lˈultima ancora di salvezza per milioni e milioni di famiglie schiacciate dalla povertà e impossibilitate ad uscirne. “Dei quasi 180 milioni di migranti, la metà sono donne, alcune delle quali non viaggiano più come accompagnatrici dei loro mariti ma sempre più spesso  lo fanno autonomamente”[2] .  Sono le donne oggi che  decidono di allontanarsi dal loro paese   per poter garantire ai propri cari  una vita più decente e dignitosa. Lasciano  la propria terra, il proprio nucleo familiare di origine, i figli e i loro mariti o compagni per emigrare allˈestero, in Europa o negli Stati Uniti, dove è sempre più richiesta  una mano dˈopera al femminile  per la cura delle famiglie benestanti di quei paesi.

La manodopera femminile proveniente da paesi sottosviluppati o in via di sviluppo si caratterizza per essere essenzialmente a basso costo, facilmente “addomesticabile” e ancora di più facilmente ricattabile per le peculiari caratteristiche di questo tipo di fenomeno migratorio. E a giudicare dal numero di donne sempre più elevato che trovano  impiego presso le famiglie come collaboratrici  familiari fisse  o “ad ore”, come badanti o come baby sitter,  si tratta di una manodopera  per cui esiste una grande richiesta. Si calcola che il 10% circa delle famiglie italiane ricorre a una collaboratrice domestica o a una badante  (la Repubblica, 2009).

La donna migrante,   spesso   è sola, irregolare (almeno la metà di quelle che lavorano nelle famiglie italiane) non conosce la lingua, e salvo qualche parente o amico che lˈ ha preceduta  non ha nessun punto di riferimento affettivo o economico nel paese di destinazione. Ciò rende possibile una quasi dedizione assoluta da parte di queste donne  alle famiglie autoctone. Soltanto in alcuni casi le reti di migranti costituiscono alternative valide alla solitudine.

La donna migrante si ritrova quindi molto spesso  costretta ad integrarsi in maniera non spontanea e soprattutto  non sana   nella famiglia che le offre lavoro. Viene inglobata nelle case, quasi sequestrata, diventa invisibile alla società (ancor di più se non ha documenti in regola), è facilmente ricattabile, le viene chiesta dedizione assoluta anche nella sfera affettiva quando deve occuparsi per esempio dei bambini. In poche parole si annulla.

Si tratta in questi casi di relazioni lavorative fondate profondamente sul precariato, quando non su forme più o meno subdole di schiavitù vera e propria,  che diventa arma di ricatto per pretendere ed ottenere sempre maggior dipendenza. Sono relazioni caratterizzate da una  grave dipendenza economica ed affettiva “a   senso unico”,  dove il bisogno di “protezione” della migrante viene pienamente soddisfatto dalla famiglia  che la accoglie e che riceve in cambio dedizione e disponibilità di tempo illimitata.

Tali relazioni lavorative hanno insite in sè processi di degradazione della persona,  la quale  finisce per annullarsi nel punto esatto in cui i componenti della  famiglia che la ospitano  ne ricavano  tempo e risorse da investire nel miglioramento della qualità delle proprie vite e della gestione delle loro attività professionali. La serenità e  qualità di vita decisamente elevate per le famiglie autoctone si raggiungono cosí al prezzo della disgregazione  e della dispersione di migliaia di nuclei familiari del Sud del mondo.  Le famiglie di origine delle donne migranti  spesso si vedono private di un importante cardine di riferimento,  soprattutto nelle comunità rurali e indigene.  Si creano così le “famiglie trasnazionali” dove i vari membri sono dislocati in paesi diversi e il cui filo conduttore che li tiene uniti spesso è rappresentato unicamente dalle rimesse in  denaro. Un terremoto relazionale   di dimensioni impensabili e dalle conseguenze imprevedibili sulla stabilità del tessuto umano e sociale di interi paesi.

Ancora una volta spetta alla donna la cura del proprio nucleo familiare, anche da molto lontano. Con la femminilizzazione dei flussi migratori infatti sono proprio le donne che si devono farsi  carico dei  ricongiungimenti familiari, la cui realizzazione diventa  sempre più difficile  a causa delle nuove politiche anti-immigrazione dei governi europei.

Alcuni studi evidenziano tuttavia  come alcune volte  la migrazione femminile rappresenta per migliaia e migliaia di donne la possibilità di sfuggire a relazioni violente o pericolose nei loro paesi di origine e per altre costituisce effettivamente una possibilità di ottenere indipendenza e di potersi realizzare lontano da nuclei patriarcali fortemente limitativi o soffocanti,

In  realtà le donne migranti rappresentano una fonte di  manodopera  a basso costo che ha come unica funzione quella di permettere ai nuclei familiari del  primo mondo di mantenere uno stile di vita qualitativamente accettabile, nonostante i ritmi frenetici della vita nelle grandi città e la sempre maggiore quantità di tempo dedicata alle attività lavorative e imprenditoriali da parte delle donne occidentali.

Non solo. La presenza di donne immigrate  nelle case delle nostre città, come badanti o baby sitter o come donne di servizio permette alle famiglie  di poter sopperire a un prezzo relativamente basso alla sempre maggiore carenza nel welfare da parte dei governi europei e degli Stati Uniti.

Lˈ Italia, che ha per esempio  il più alto numero  di abitanti  con oltre 65 anni di età è anche il paese che ha meno numero di posti letto in residenze per anziani e si colloca  allˈ ultimo posto per il numero degli  anziani assistiti a domicilio (appena lˈ 1%).

I servizi  di assistenza familiare e di cura a bambini ed anziani, che in passato a prezzo di grandi lotte e rivendicazioni si era riusciti a rendere almeno in parte di  competenza di alcune strutture pubbliche,   stanno tornando a rappresentare un pesante fardello per molti nuclei familiari e questo a causa delle politiche di destra o di estrema destra di molti governi europei.

Spazi  sociali  in cui la partecipazione  e la solidarietà riuscivano  a dare un sostegno importante alle donne la cui individualità era schiacciata tra la cura dei figli, il lavoro e in alcuni casi la cura dei familiari più anziani del nucleo familiare,   si perdono giorno dopo giorno in una società in cui gli spazi di  condivisione con lˈaltro vengono quotidianamente  annullati  dallˈ idiozia teletrasmessa  o dallˈ altra forma di idiozia generalizzata rappresentata dal   consumismo sempre più compulsivo.

Si tratta,  almeno in Europa,  di intere società che stanno registrando una pericolosa regressione verso posizioni conservatrici o reazionarie per cui anche le donne europee che negli anni scorsi hanno lottato duramente per alcune conquiste in termini di liberazione e di raggiungimento di indipendenza economica ed affettiva e che oggi ne godono i frutti, si trovano ad applicare modelli di sfruttamento lavorativo e discriminatorio verso altre donne.

Eˈ  tutta la società che  sta  registrando un pericoloso spostamento a destra della coscienza collettiva,  creando nel caso specifico  un sistema di cura delle famiglie improntato sulla formalizzazione, tramite queste particolari forme di rapporto di lavoro,  delle classi sociali, concetto da molti revisionisti  considerato fuori moda o antiquato.

Una tendenza al ribasso per lo sviluppo dellˈessere umano e che purtroppo non è caratteristico solo dei paesi occidentali o del Nord del mondo. In America latina la definizione delle classi sociali nellˈambito della cura e dellˈassistenza delle famiglie ha una struttura possiamo dire  “piramidale”. Le collaboratrici domestiche che lavorano nelle case delle classi piú abbienti hanno a loro volta in casa baby sitter o bambinaie o donne ad ore proveniente da un gradino della scala sociale immediatamente inferiore a quello in cui si trovano  e così via, creando vere e proprie catene di sfruttamento “al femminile”. Rari, in questo settore lavorativo, ovunque nel mondo,    sono infatti i casi in cui si può parlare di  rapporti di lavoro improntati sulla corretteza e sul rispetto del prossimo.  Mancanza di veri e propri contratti di lavoro, salari sempre più bassi,  violenze sessuali ed abusi, orario troppo lungo, maltrattamenti verbali e a volte anche fisici. Per tutta questa serie di motivi il Fondo delle Nazioni Unite per le Donne (UNIFEM) colloca  lo sfruttamento delle collaboratrici domestiche tra le 16 diverse forme di  violenza di genere, mentre alcuni studi arrivano a parlare di schiavitù o semi-schiavitù domestica.

Ai  già noti fattori discriminatori  ai quali sono sottoposti i  migranti in genere e che sono quelli di  razza e di classe, alla componente femminile dei flussi migratori  si aggiunge anche quello di genere.

Si parla pertanto di una “doppia, tripla e a volte anche quadrupla discriminazione”, [3]una “trimurti di caratteri” impressa come un marchio a fuoco sul petto delle donne migranti.[4]

Tali forme di sfruttamento nelle nostre case, lo sfruttamento delle donne verso altre donne,  quelle delle classi piú elevate su quelle povere, migranti o non, alla fine vuol significare una cosa sola: la donna non si è ancora liberata dai ruoli che la società le riserva da millenni. La cura della casa, dei bambini, dei genitori anziani se non può essere a carico della donna europea o statunitense  che lo sia a carico di una filippina, di una rumena, di una peruviana ma purché rimanga strettamente a carico di una donna.   La tanto sospirata parità allˈ interno  della coppia  la donna  non lˈha sicuramente ottenuta  ma è lungi dallˈ immaginarla anche allˈ interno della società.

Il fatto che la donna ricca, magari indipendente economicamente dal marito, con una vita professionale soddisfacente,  abbia bisogno oggi  di sfruttare altre donne per garantirsi la cura della propria casa o della propria famiglia, vuol dire soltanto che non è riuscita ad ottenere dal proprio compagno o marito la  condivisione del lavoro nelle  incombenze domestiche e nella cura dei figli. Rivendicazioni gridate a gran voce nei cortei femministi dei decenni scorsi, magari giustificate da manuali di moderna puericultura… la realtà dimostra purtroppo che certi compiti e ruoli sono ancora di esclusiva competenza dellˈ universo femminile.

 

 

 


[1] Protocollo delle Nazioni Unite sulla prevenzione, soppressione e persecuzione del traffico di esseri umani, in particolar modo donne e bambini. Entrato in vigore il 25 dicembre 2003

[2] CEPAL:  “Mujeres migrantes de América Latina y el Caribe: derechos humanos, mitos y duras realidades” — Patricia Cortés Castellanos

[3] Ambrosini M. Sociologia delle Migrazioni, il Mulino 2005

[4] Campani 2003


Carta al Ministerio de Asuntos Exteriores de Italia sobre la situación de los presos italianos en Santo Domingo

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COMISIÓN NACIONAL DE LOS DERECHOS HUMANOS INC, CNDH.

Año del XV aniversario



AL :                           Ministerio de Asuntos Exteriores

CON ATENCIÓN : Ministro FRANCO FRATTINI

DE LOS :                 DR. MANUEL M. MERCEDES MEDINA

LICDA. JUANA M. LEISON GARCIA

SRA. ANNALISA MELANDRI

ASUNTOS :           Situación de los Internos en la Cárcel Modelo De Najayo (San Cristóbal) Santo Domingo

AMBROGIO SEMEGHINI

LUCIANO VULCANO

N.M.

Honorable Ministro:

Muy Cortésmente, nos dirigimos a Usted, después de un cordial y afectuoso saludo.

Las presentes líneas son para expresarle nuestra preocupación por los internos que responden por los nombres AMBROGIO SEMEGHINI, LUCIANO VULCANO y NADALIN MAURO los cuales se encuentran recluidos en la Cárcel Modelo de Najayo (San Cristóbal) Santo Domingo.

Con relación a esta situación nos dirigimos hacia la Cárcel Modelo de Najayo (San Cristóbal) Santo Domingo, el 22 del mes de Septiembre del año en el curso. La delegación estaba integrada por el DR. MANUEL MARIA MERCEDES MEDINA dominicano, mayor de edad, portador de la cedula 001–0234211-0, Abogado de la República Dominicana y en su calidad de Presidente de la Comisión Nacional de los Derechos Humanos (CNDH) y LICDA. JUANA MAGALIS LEISON GARCIA dominicana, mayor de edad, portadora de la cedula 001–0504272-5, Abogada de la Republica Dominicana y en su calidad de sub.-Coordinadora de Programa de Asistencia Jurídica, y Secretaria de Acta y Correspondencia de la Junta Directiva de la Comisión Nacional de los Derechos Humanos (CNDH) y conjuntamente con la SRA. ANNALISA MELANDRI italiana, mayor de edad, periodista y colaboradora de unas asociaciones internacionales de Defensa de los Derechos Humanos. La presente comunicación es para expresarle las situaciones siguientes:

LUCIANO VULCANO, de nacionalidad italiana, mayor de edad, (de 55 años) se encuentra en régimen de detención preventiva desde el día 23 de octubre del 2009. Ha sido visitado por el encargado de la embajada el Sr. ROBERTO MORA solamente 2 veces y después de 33 días de detención. Sus condiciones de salud son graves, pues ha contraído en la cárcel una infección en la sangre que se le esta propagando en todo el cuerpo debido a las escasas condiciones higiénicas. Por eso necesita antibióticos continuamente y los está tomando desde mayo, por la escasa calidad de agua que toman sufre de retención hídrica.

AMBROGIO SEMEGHINI, de nacionalidad italiana, mayor de edad (de 58 años ) se encuentra en régimen de prisión preventiva desde el día 19 de Diciembre del 2009, por supuesta violación a los artículos 295, 304 del Código Penal Dominicano (Homicidio).

Respecto a sus condiciones de salud hay que señalar que tiene problemas visuales del ojo izquierdo presumiblemente por un problema antecedente a su detención, pero desde el PATRONATO de la cárcel, nos indican que corre el riesgo de perder el otro ojo porque necesita atención médica especializada que no le han concedido; además necesita atención bucal.

Semeghini denuncia de haber sido objeto de un atentado, razón por la cual ha sido trasladado a otro pabellón de la cárcel por su propia seguridad ya que el teme por su vida.

Ha sido visitado por el señor ROBERTO MORA, encargado de la Embajada de Italia en el país por la atención a los internos, por primera vez después de 59 días de detención y hasta por hoy por un total de 3 ocasiones.

Ha empezado una huelga de hambre el día 1 de Septiembre que ha sido llevada por lo menos por 13 días y que después de 5 días ha recibido atención médica porque por sus condiciones físicas, ya debilitadas por la detención y las condiciones higiénicas y sanitarias y la escasez de comida decente , no lograba soportar la huelga de hambre y se encontraba en deshidratación muy seria.

N. M. de nacionalidad italiana, mayor de edad, (de 47 años) se encuentra cumpliendo una condena definitiva de tres años por sospecha de narcotráfico por supuesta violación a ley 50/88.

Después de haber permanecido en la Cárcel Pública de la Victoria por dos años y dos meses ha sido trasladado de manera voluntaria a la Cárcel Modelo de Najajo (San Cristóbal). Dentro de cuatro meses debería terminar la condena;

Sus condiciónes de salud son muy graves, sufre de una grave infección a la sangre y ha sufrido tres infartos, por lo cual el mismo alcalde de la cárcel ha solicitado la intervención de la embajada sin obtener respuesta. Ha sido hospitalizado y al dejar el hospital, la Embajada no ha pagado su cuenta. La dirección sanitaria de la cárcel teme que le pueda ocurrir un infarto serio.

Desde que se encuentra en la Cárcel Modelo de Najajo (San Cristóbal) ha sido visitado por el SR. ROBERTO MORA encargado de la Embajada dos veces y en la Cárcel de la Victoria solamente siete veces en dos años y medios de detención.


DECLARACIONES DE LOS INTERNOS

Las inaceptables condiciones de detención de los tres internos necesitan una intervención urgente por parte de la Sede Diplomática italiana en la República Dominicana.

Podemos sin duda alguna denunciar que, hasta ahora la Embajada de Italia no ha cumplido en su deber fundamental que es el de otorgar asistencia y auxilio a su conciudadanos que se encuentran en dificultad en el exterior.

La Asociación Secondo Protocollo que se ocupa de detenidos italianos en el exterior, nos informa por medio de su representante Sr. Londei Franco, que el Ministerio de Relaciones Exteriores en Italia no tienen datos correctos sobre la actuación de la misma Embajada respecto por ejemplo a las veces que el encargado de la Embajada ha visitado a la cárcel a los tres detenidos. Las informaciones que ellos tienen son diferentes de las que los detenidos han confirmado al Sr. Londei antes y luego a nuestra delegación en la visita en la Cárcel Modelo de Najayo.

Además el Ministerio declara que la Embajada ha mantenido comunicaciones con los familiares y con los abogados del mismo SEMEGHINI mientras él nos ha comunicado que no ha sido así.

El Ministerio de Relaciones Exteriores ha sido informado por la misma Embajada que el Sr. SEMEGHINI habría terminado su huelga de hambre el día tres (3) de septiembre, solamente tres días después de haberla empezada el día primero (1) de septiembre. Esto no es cierto el Sr. SEMEGHINI ha llevado adelante su huelga de hambre por los menos durante 13/15 días como confirmado también el mismo alcalde de la cárcel.

Los internos declaran también que el Sr. ROBERTO MORA no ha mostrado interés por su situación ya que no les está dando seguimiento. Los visita cada tres o cuatro meses al año y el dinero que les entrega por parte de la Embajada no es suficientes para su gastos primarios.

Nunca han recibido asesoría legal de la Embajada y cuando llaman a la Embajada se les gasta el crédito de la tarjeta porque quien contesta los deja en espera y si los atienden los tratan de manera arrogante e insolente y en todos los casos algunos abogados se han aprovechado de ellos.

El mismo Alcalde de la Cárcel de Najayo ha pedido una seria intervención de la Embajada preocupado por las graves condiciones de salud del Sr. Nadalin y del Sr. SEMEGHINI sin obtener respuesta.


CONCLUSIONES GENERALES

Los tres internos viven en inaceptables condiciones higiénicas y sanitarias. Se les niegan sus derechos básicos como son el tener acceso al agua y la seguridad personal, para bañarse tienen 20 onzas diarias de agua, duermen en el piso al menos que paguen 1,500.00 pesos mensuales por dormir en un alza de cemento de 10 centímetros, tienen que pagar el agua potable, baño, son discriminados por los demás internos, han sido objeto de un atentado SEMEGHINI y el interno NADALIN MAURO ha recibido dos cuchilladas y le hecharon agua hirviendo en un brazo. La seguridad de ellos es un asunto muy serio.

Necesitan muchas medicinas y tienen que pagarlas. Lo absurdo es que la Embajada de Italia requiere para enviárselas la prueba de la receta. Nos ha sido confirmado que la única embajada que pide la receta por el envío de medicinas es la de Italia.


RECOMENDACIONES

PRIMERO: El Embajador de Italia en Santo Domingo visite a los tres internos ya que su presencia ha sido pedida expresamente por ellos para hablarle personalmente.

SEGUNDO: Que se active inmediatamente para ofrecerles atención económica a los tres internos en sus inmediatas necesidades.

TERCERO: Que se realice la comunicación inmediata con los familiares de los tres internos y con sus abogados.

CUATRO: Que sea enviado un médico que pueda determinar sobre las condiciones de salud de los tres internos y que el mismo prepare cuanto ante un informe medico.

QUINTO : Que de no cumplir con las recomendaciones anteriores nos obligan a responsabilizar de todas situación a la Embajada de Italia en Santo Domingo por cualquier cosa que pueda pasarle a cualquiera de los tres internos en la Cárcel Publica de Najayo

Dado en la República Dominicana, Distrito Nacional a los 13 días del mes de Octubre del año 2010.




DR. MANUEL M. MERCEDES MEDINA

Presidente

LICDA. JUANA M. LEISON GARCIA

Presidente Secretaria de Acta y Correspondencia

SRA. ANNALISA MELANDRI

Colaboradora en Defensa de los D.H



Non voglio il libro “Due anni di governo”!

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Con riferimento all’annuncio del Presidente del Consiglio On. Silvio Berlusconi di inviare ad ogni famiglia italiana il libro “Due anni di governo”, mi preme comunicarVi che non desidero riceverlo,essendo un mio diritto in base alla legge per la tutela della privacy n. 675/1996 ed il relativo D.P.R. n. 501/1998, nella fattispecie articolo 13 comma e), e che la spesa relativa che si risparmierà venga messa a disposizione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali.

Ringraziando per l’attenzione porgo distinti saluti

da incollare sulla pagina


http://www.governo.it/scrivia/scrivi_a_trasparenza.asp

e inviare

oggetto della mail: non voglio il libro “due anni di governo”


Lettera al ministro Frattini sui detenuti italiani a Santo Domingo

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COMMISSIONE NAZIONALE DEI DIRITTI UMANI INC, CNDH

Anno del XV anniversario

AL : Ministro degli Affari Esteri

ATTENZIONE : Ministro FRANCO FRATTINI

DA PARTE DI: : DR. MANUEL M. MERCEDES MEDINA

LICDA. JUANA M. LEISON GARCIA

SRA. ANNALISA MELANDRI

OGGETTO : Situazione dei detenuti nel Carcere Modello di Najayo (San Cristóbal) Santo Domingo:

AMBROGIO SEMEGHINI

LUCIANO VULCANO

N.M.

Onorevole Ministro:

Ci rivolgiamo a Lei molto cortesemente porgendoLe innanzitutto un cordiale e affettuoso saluto.

La presente per esprimerLe la nostra preoccupazione per i detenuti rispondenti ai nomi di AMBROGIO SEMEGHINI, LUCIANO VULCANO e N.M. che si trovano reclusi nel carcere Modello di Najayo (San Cristóbal) Santo Domingo.

Per verificare le loro condizioni ci siamo recati al suddetto carcere il giorno 22 (ventidue) del mese di Settembre dell’anno in corso. La nostra delegazione era formata dal DR. MANUEL MARIA MERCEDES MEDINA dominicano, maggiorenne, titolare del documento n. 001–0234211-0 Avvocato della Repubblica Dominicana, nella sua carica di Presidente della Commissione Nazionale dei Diritti Umani (CNDH) e la D.SSA JUANA MAGALIS LEISON GARCÍA dominicana, maggiorenne, titolare del documento 001–0504272-5, Avvocato della Repubblica Dominicana e nella sua carica di Coordinatrice del Programma di Assistenza Giuridica e Segretaria Atti e Corrispondenza della Giunta Direttiva della Commissione Nazionale dei Diritti Umani (CNDH), insieme alla SIG.RA ANNALISA MELANDRI, italiana, maggiorenne, giornalista e collaboratrice di alcune associazioni internazionali per la Difesa dei Diritti Umani.

La presente comunicazione è per esprimerLe pertanto le seguenti situazioni:

LUCIANO VULCANO, di nazionalità italiana, maggiorenne (55 anni), si trova in regime di carcere preventivo dal giorno 23 ottobre del 2009.

E’ stato visitato dall’ incaricato dell’ Ambasciata italiana, Sig. ROBERTO MORA soltanto due volte e dopo 33 giorni di detenzione. Le sue condizioni di salute sono gravi, ha contratto in carcere un infezione al sangue che si sta propagando in tutto il corpo dovuta alle scarse condizioni igieniche. Per questo ha bisogno continuamente di antibiotici che sta prendendo dal mese di maggio e per la scarsa qualità dell’acqua che i detenuti sono costretti a bere, soffre di ritenzione idrica.

AMBROGIO SEMEGHINI, di nazionalità italiana, maggiorenne (58 anni) si trova in regime di carcere preventivo dal giorno 19 Dicembre del 2009 per presunta violazione degli articoli 295, 304 del Codice Penale Dominicano (Omicidio) .

Rispetto alle sue condizioni di salute bisogna segnalare che presenta un problema all’ occhio sinistro, probabilmente dovuto a un momento precedente al suo arresto, ma dal PATRONATO del carcere ci segnalano che corre il rischio di perdere anche l’altro occhio perchè ha bisogno di cure mediche specialistiche che non gli vengono fornite. Inoltre ha bisogno di assistenza odontoiatrica.

Ambrogio Semeghini denuncia inoltre di essere stato oggetto di un attentato, motivo per il quale è stato trasferito ad un altro reparto del carcere per la sua sicurezza personale in quanto teme per la propria vita.

E’ stato visitato dal Sig. ROBERTO MORA, incaricato dell’Ambasciata d’ Italia nel paese per l’assistenza ai detenuti, per la prima volta dopo 59 giorni di detenzione e ad oggi per un totale di 3 volte.

Ha iniziato uno sciopero della fame il giorno 1 Settembre che è stato portato avanti per 13 giorni e dopo 5 giorni ha avuto bisogno di assistenza medica perchè per le sue condizioni fisiche, già debilitate dalla detenzione, dalle condizioni igieniche e sanitarie e dalla scarsità di cibo, non riusciva a sopportare lo sciopero della fame e si trovava in uno stato di disidratazione molto forte.

N.M., di nazionalità italiana, maggiorenne, (47 anni) sta scontando una condanna definitiva a tre anni per “sospetto” narcotraffico, per presunta violazione alla legge 50/88.

Dopo essere stato recluso nel Carcere Pubblico de La Victoria per due anni e due mesi è stato trasferito volontariamente al Carcere Modello di Najayo (San Cristóbal). Tra quattro mesi dovrebbe concludere la sua pena.

Le sue condizioni di salute sono molto gravi, soffre di un’ infezione al sangue e ha subito tre infarti, per cui lo stesso direttore del carcere ha richiesto l’ intervento dell’Ambasciata senza ottenere risposta. E’ stato ricoverato e alle dimissioni dell’ ospedale l’Ambasciata non ha pagato il suo conto. La direzione sanitaria del carcere teme che possa subire un infarto serio.

Dal momento della sua detenzione nel Carcere Modello di Najayo è stato visitato dal Sr. ROBERTO MORA, incaricato dell’Ambasciata, due volte e nel Carcere de La Victoria soltanto sette volte in due anni e mezzo di detenzione.

DICHIARAZIONI DEI DETENUTI

Le inaccettabili condizioni di detenzione dei tre detenuti richiedono un intervento urgente da parte della Sede Diplomatica italiana nella Repubblica Dominicana.

Possiamo senza dubbio denunciare che fino a questo momento l’ Ambasciata d’Italia non ha compiuto al suo dovere fondamentale che è quello di offrire assistenza e aiuto ai suoi concittadini che si trovano in difficoltà allˈestero.

L’ Associazione Secondo Protocollo, che si occupa di detenuti italiani all’ estero, ci informa tramite il suo rappresentante Sig. Londei Franco, che il Ministero degli Affari Esteri in Italia non possiede dati corretti sull’ operato della medesima Ambasciata rispetto per esempio alle visite effettuate dal suo incaricato ai tre detenuti. Le informazioni in loro possesso sono diverse da quelle che i detenuti hanno confermato al Sig. Londei prima e poi alla nostra delegazione in visita al Carcere Modello di Najayo.

Inoltre il Ministero dichiara che l’Ambasciata ha mantenuto comunicazioni con i familiari e con gli avvocati dello stesso SEMEGHINI mentre lui ci ha comunicato che cosí non è stato.

I detenuti dichiarano inoltre che il Sr. ROBERTO MORA non mostra interesse per la loro situazione, che li visita soltanto 3 o 4 volte all’ anno e che il denaro che consegna loro da parte dell’Ambasciata non è suficiente alle loro necessità basilari.

Non hanno mai ricevuto assistenza legale da parte dell’Ambasciata e quando chiamano gli uffici della stessa il credito della scheda telefonica gli si consuma interamente perchè vengono lasciati in attesa per molto tempo. Vengono inoltre trattati in modo arrogante e insolente e va segnalato che in tutti e tre i casi gli avvocati che li hanno assistiti hanno cercato di approfittare della loro situazione.

Lo stesso direttore del Carcere di Najayo ha chiesto un intervento serio dell’Ambasciata preoccupato dalle gravi condizioni di salute del Sr. NADALIN e del Sr. SEMEGHINI senza ricevere risposta.

CONCLUSIONI GENERALI

I tre detenuti vivono in condizioni igienico-sanitarie inaccettabili. Vengono negati i loro diritti fondamentali come l’accesso all’acqua e alla sicurezza personale, per lavarsi dispongono di 20 once di acqua al giorno, dormono sul pavimento a meno di non pagare 1,500.00 pesos mensili per dormire su un rialzo di cemento di 10 centimetri, devono pagare per acqua potabile, per il bagno, sono discriminati dagli altri detenuti, e il detenuto SEMEGHINI è stato oggetto di un attentato mentre il detenuto NADALIN ha ricevuto due coltellate e gli hanno gettato acqua bollente su un braccio. La loro sicurezza è un problema molto serio.

Hanno bisogno di molte medicine e devono pagarle tutte. La cosa assurda è che l’Ambasciata d’ Ítalia gli richiede per l’invio dei medicinali la prova della ricetta. Ci è stato confermato che l’unica ambasciata che richiede la ricetta per l’ invio delle medicine è quella italiana.

RACCOMANDAZIONI

PRIMA : L’ambasciatore d’Italia a Santo Domingo visiti i tre detenuti dal momento che la sua presenza è stata richiesta espressamente da loro per potergli parlare personalmente.

SECONDA: Che si attivi inmediatamente per offrire sostegno economico ai tre detenuti per le loro necessità immediate.

TERZA : Che si realizzi la comunicazione inmediata con i familiari e i loro avvocati.

QUARTA : Che venga inviato un medico che possa relazionare sulle condizioni di salute dei tre detenuti e che prepari una relazione quanto prima.

QUINTA : Non rispondendo alle raccomandazioni di cui sopra ci vedremo obbligati a responsabilizzare di ogni situazione l’Ambasciata d’Italia a Santo Domingo per ogni cosa che possa capitare ai tre detenuti italiani nel Carcere Pubblico di Najayo.

Redatto in Repubblica Dominicana, Distrito Nacional, il 13 Ottobre del 2010.


DR. MANUEL M. MERCEDES MEDINA  Presidente

LICDA. JUANA M. LEISON GARCIA  Segretaria Atti e Corrispondenza

SRA. ANNALISA MELANDRI  Collaboratrice per la Difesa dei Diritti Umani





Narciso Isa Conde: Tiro al blanco digital

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Caonabó: el primer libertador americano

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“El Primer Libertador Americano”

“por Juan Bosch”


“El día mismo que pisaba tierra americana al volver en su segundo viaje, iba a encontrarse Cristóbal Colón, por vez primera, con la sombra de un jefe que estaba llamado a llenarle de graves preocupaciones durante largo tiempo. El primer mensaje de Caonabó -“Señor de la Casa de Oro”- fue terrible: se trataba de los cadáveres de dos soldados españoles; los siguientes serían más fieros y tendrían todos el sello de altivez única que distinguió al cacique indígena, el primero que luchó en América por la libertad, el primero, también, que venció a los europeos en este hemisferio y el primero que produjo –hasta donde lo sepa la historia– una huelga de hambre en el Nuevo Mundo.

“Señor de la montaña, majestuoso, altivo como el más poderoso de los reyes del mundo, parco en palabras y heroico en todos los momentos de su vida, Caonabó, que no era un salvaje cruel ni mucho menos, combatió en defensa de indios que no pertenecían a su cacicato y mostró agudeza y señorío bastante para poner en peligro el poder español en sus recién conquistadas tierras, aun inutilizado por la prisión. Mientras él vivió, Colón no se atrevió a imponer tributos a los pueblos indígenas. Aun teniéndolo encerrado en una estrecha celda, el Almirante jamás consiguió de él la menor muestra de sumisión o de debilidad y ni siquiera de respeto. Su sola presencia imponía admiración.

“Propiamente, la primera escaramuza habida entre indios y españoles ocurrió sin la intervención de Caonabó; esa escaramuza tuvo lugar en lo que Colón llamó, debido a las muchas que se le lanzaron, Golfo de las Flechas, actualmente la hermosa bahía de Samaná en el oriente de la República Dominicana. Pero del cambio de flechas y arcabuzazos que hicieron ese día indios y españoles apenas salió un hombre de Colón con un ligero rasguño y un indio con una herida de espada en la región glútea. Combate propiamente, con bajas de muerte por ambas partes –de la española, todos-, no lo hubo sino en 1493, hace ahora 450 años, por cierto nadie sabe en qué día de qué mes, aunque debió ocurrir entre septiembre y octubre. Ese combate estuvo dirigido por Caonabó, del lado indígena, y Diego de Arana, del español.

“Diego de Arana, escribano real, se había enrolado en el viaje del Descubrimiento –o lo habían enrolado, pues tenía cierta autoridad en virtud de su cargo de escribano del Rey– y fue escogido por Colón para capitanear el primer destacamento de puesto en el Nuevo Mundo, formado por 39 hombres a quienes el Almirante dejó en la Española cuando retornó a Europa para dar cuenta de los resultados de su primer viaje. Costeando la gran isla antillana a la que llamó la Española por su parecido con la metrópoli, Colón perdió la nao Santa María, una de las tres que componían la pequeña y audaz flota descubridora; la perdida se debió a un choque con arrecifes y ocurrió el día de Navidad de 1492. Con la madera de esa nao construyó Colón el fuerte que llamó de la Navidad, el cual situó cerca de donde hoy está la ciudad de Cabo Haitiano (Cap-Haitien), y a su cuidado dejó a Diego de Arana. Colón emprendió su viaje de retorno a España pocos días después, el 4 de enero de 1493 y, apoyado en la alianza tácita que había formado con el cacique Guacanagarix, pidió a éste que atendiera debidamente a los españoles mientras él volvía, cosa que pensaba hacer en cuatro o cinco meses.

“Pero el Almirante iba a tardar casi un año en verse de nuevo en la Española, y a su regreso, que sucedió en noviembre de 1493, iba a ser sorprendido por noticias bien extrañas. Habiendo llegado a la desembocadura del río Yaque, doce leguas más al este del fuerte de la Navidad, los españoles dieron con un espectáculo bastante macabro: restos de dos cadáveres, uno con una soga al cuello y otro amarrado a un tronco.

“Eso desconcertó a Colón y le hizo caer en sospechas, pues durante su anterior viaje tuvo ocasión de observar la índole generosa y nada bélica de los naturales del lugar, quienes, desde el cacique Guacanagarix hasta el último, festejaron su presencia con visibles muestras de alegría y obsequiaron al extranjero con cuanto llamó su atención, especialmente oro.

“Sorprendido por el mensaje que le llevaban esos restos de cadáveres, Colón hizo registrar el lugar. Al día siguiente sus hombres dieron con otros dos, esta vez de personas que en vida llevaron barbas. A partir de ese momento, a nadie cupo duda de que los muertos eran españoles, pues hasta donde habían visto un año antes, no había indios barbados. El extraño silencio de los indígenas sobre tales cadáveres comprobaba la suposición. Puesto en sospechas, Colón hizo interrogar a unos cuantos y oyó por primera vez ese nombre que tanto iba a preocuparlo por algún tiempo: Caonabó. Confundido por la prosodia taína, el Al-mirante escribió tal nombre así: Cahonaboa. Otros historiadores le llamarían Caonabó, pero Las Casas específica: “La última fuerte”, queriendo significar que sobre la última sílaba debía caer un acento. Caonabó, pues, parece haber sido propiamente su nombre. En fin de cuentas, Caonabó, Cahonaboa y Caonabó eran una misma, cosa, designaban a un mismo ejemplar de la desdichada raza llamada a sucumbir ante los conquistadores; por cierto, a un ejemplar impresionante, de hermosa y heroica altivez, moralmente un rey nato, ante quienes los hombres comunes, y hasta el propio Colón, parecían vasallos.

“Caonabó, posiblemente extranjero o hijo de algún extranjero, era cacique de la región del Cibao cuando los españoles llegaron por primera vez a la isla. El Cibao -“Tierra de piedras y montañas”- quedaba distante de la costa norte, donde Colón estableció su base de operaciones y donde había dejado el fuerte de la Navidad. La zona donde este fuerte había sido establecido estaba bajo el cacicazgo de Guacanagarix, un típico señor taíno, amable y pacífico.

“Tan pronto el Almirante puso proa a España, para dar cuenta de sus primeros descubrimientos, los españoles de la Navidad comenzaron una era de depredaciones que tenía por objetos principales el oro y las mujeres indígenas. Con su poderosa vitalidad sujeta durante el largo tiempo que medió entre agosto de 1492, cuando iniciaron la aventura del Descubrimiento, hasta enero de 1493, cuando quedaron dueños y señores de esa nueva tierra; y con su enorme codicia estimulada por hechos tan fantásticos como los que le habían ocurrido desde que salieron de Palos hasta que quedaron destacados en la Navidad, nada extraño fue que tales hombres padecieran una explosión de todos sus instintos y que se las arreglaran para disfrutar de placeres. Así, pues, los indios de la Española tuvieron que sufrir el despojo de sus mujeres y de su oro, el saqueo de sus alimentos y el despotismo de aquellos desaforados ex presidiarios y tahúres de la costa sur hispánica. Fiel a la promesa que le hiciera a Colón, y temeroso de las espingardas que había visto causar destrozos y hacer tremendas xplosiones desde las naos de Colón, Guacanagarix hizo todo lo posible por que no hubiera ruptura entre los españoles y sus indios.

“Pero Guacanagarix no pudo evitar que la noticia de los atropellos se internara en las montañas y llegara a oídos de Caonabó, señor del Cibao. Este altivo y poderoso cacique oyó las historias que le hacían y envió hombres de su confianza a comprobar las denuncias. Cuando esos hombres volvieron y le confirmaron los rumores, Caonabó puso en pie de guerra a los suyos y marcho hacia el noroeste, en dirección de la Navidad. Hacía mover sus ejércitos solo de noche. Ya en las cercanías del Fuerte organizó un sistema de espionaje en el que él era parte principal; vigilo estrechamente a los extranjeros, que no se apercibieron de la amenaza, y una noche cayo con toda su gente sobre los españoles. Guacanagarix salió a combatir en defensa de los que habían sido puestos bajo su protección y en medio de la lucha se dio con Caonabó. El fiero cacique del Cibao hirió gravemente a Guacanagarix, que hubiera muerto allí a no salvarlo los suyos. Los españoles quedaron dominados por el número y la impetuosidad de los atacantes; los que pudieron escapar fueron concienzudamente buscados en toda la región, encontrados y muertos, entre ellos, aquellos cuyos cadáveres encontró, meses después, el Almirante a varias leguas del lugar en que estuvo la Navidad. El Fuerte fue incendiado y borrada así la última huella del primer destacamento europeo en tierras de América. El vencedor, verdadero padre de los libertadores del hemisferio, retorno a su cacicato. Llevaba la satisfacción de la victoria. Ignoraba que la lucha solo había empezado.

“Cuando Colon volvió a ver a Guacanagarix, al dar término a su segundo viaje, le halló herido. Puestos a sospechar, los españoles creyeron que el propio Guacanagarix había sido el autor de la matanza habida en la Navidad. El doctor Chanca, “físico” y cronista de la expedición, fue a examinarle para ver si la herida que le achacaba al legendario Caonabó era obra de sus propias manos. Al fin el Guamiquina –nombre que le dieron los indígenas a Colón– juzgó que era cierto cuanto decía el cacique taíno y que era de rigor hacer preso a Caonabó. Registrando los restos del Fuerte, Colón halló a algunos españoles enterrados, que lo fueron por disposición de Guacanagarix. El poblado de éste había sido también incendiado durante el combate. No había duda, pues, respecto a la buena fe de Guacanagarix.

“Pasaron en bojeos y descanso los últimos días de 1493, y entró el 1494. El Almirante decidió fundar la primera ciudad española del Nuevo Mundo y lo hizo más hacia el este de donde había estado el Fuerte de la Navidad, en la desembocadura de un río llamado hoy Bajabonico. Allí fue establecida la Isabela, en homenaje de Isabel II, reina de España y factor principal en la empresa descubridora. Desde la Isabela se despacharon varias columnas hacia el interior y carabelas para bojear la costa de la isla.

“Sobre esas columnas que marchaban hacia las montañas se cernía la sombra de Caonabó, el poderoso cacique que con tanta ferocidad había atacado a Diego de Arana y los suyos y de quien se hablaba entre los españoles como de un rey invencible y fiero. Todos esperaban constantemente el ataque del implacable señor indio. Impresionado también, como cualquiera de los suyos, Colón pensaba en Caonabó y cavilaba cómo inutilizarlo. El día 9 de abril de 1494 escribió, en el pliego de instrucciones que entregó a Mosén Pedro Margarit –encargado de conducir una de las columnas que iba al interior– estos párrafos significativos: “Desto de Cahonaboa, mucho querría que con buena diligencia se toviese tal manera que lo pudiésemos haber en nuestro poder”. Inmediatamente pasaba a explicar que era necesario crear confianza en el cacique, para, llegado el momento, abusar de esa confianza echándole mano. Ordenaba que se le enviase con diez hombres un regalo “y que él nos envíe del oro, haciéndole memoria como estáis vos ahí y que os vais holgando por esa tierra con mucha gente, y que tenemos infinita gente y que cada día verná mucha más, y que siempre yo le enviaré de las cosas que trairán de Castilla, y tratallo así de palabra fasta que tengáis amistad con el, para podelle mejor haber”.

“Estas expresivas instrucciones, que demuestran cómo la mentalidad de los conquistadores ha sido más o menos la misma desde Colón hasta Hitler, terminaban señalando el mejor medio de apresar a Caonabó: “Hacedle dar una camisa –dice el almirante, dando por seguro que el cacique acabaría haciéndose amigo de los españoles y que éstos podrían tratarle– y vestírsela luego, y un capuz, y ceñille un cinto, y ponelle una toca, por donde le podáis tener e no se vos suelte”.

“Pero no era fácil “ponelle la camisa y el capuz y la toca” al jefe indígena. Incitados por él, según aseguraban los españoles, los naturales se rebelaban. A principios de 1495 el propio, Colón salió a campaña, al frente de 200 infantes y 20 hombres de a caballo. Iba a apresar a Caonabó. Dominó el alzamiento de Maniocatex y ganó la enconada batalla de la Vega Real, donde, según afirmaron en graves documentos, obtuvieron la victoria gracias a que en el momento más álgido de la pelea la Virgen de las Mercedes hizo acto de presencia sobre una cruz plantada por Colón y a la que los indios se empeñaban en destruir. Actualmente hay en el lugar –el Santo Cerro– un santuario donde se venera a la Virgen de las Mercedes.

“Después de la batalla de la Vega Real y tras haber fundado algunos fuertes para guarnecer la ruta, Colón se retiró a la Isabela sin haber logrado su propósito principal, el apresamiento de Caonabó. La sombra trágica y vengativa de este altivo señor de las montañas dominaba el escenario en los primeros tiempos de la Conquista y cubría de arrugas la frente del Almirante cuando entró de nuevo en la Isabela, vencedor sin haber logrado su fin. Como un fantasma, Caonabó, cuyo espíritu parecía animar todas las rebeliones, seguía siendo un ser terrible y desconocido, casi una imponente leyenda, inencontrable, inaprensible, con su amenazador prestigio creciendo cada vez más.

“Un día era atacado determinado fuerte español; a Caonabó se achacaba la empresa. O algunos soldados hispanos que se aventuraban a alejarse de sus compañeros aparecían muertos y mutilados; Caonabó era el autor de esas muertes. O las imágenes de santos católicos eran destruidas; Caonabó lo había ordenado. Caonabó era ya el dios del mal en la Española, el espíritu implacable, el perseguidor incansable. Colón, más sagaz político de lo que se ha querido ver, sabía que mientras viviera Caonabó su dominio de la isla sería insuficiente, porque los españoles no dejarían de temerle y los indios no se sentirían desamparados en tanto supieran que él podía aparecer un día para acabar con los invasores, como lo hizo la primera vez.

“Estudiando a sus capitanes, el Almirante resolvió poner el apresamiento de Caonabó en manos del osado y terrible Alonso de Ojeda, un hombre que iba a dar que hablar en la conquista de varios países y que a la hora de su muerte iba a pedir ser enterrado de pie en la entrada de la iglesia de San Francisco, erigida en la ciudad de Santo Domingo, porque quería purgar todos sus pecados haciendo que cuantos entraran en la iglesia pisaran sobre su cabeza. Alonso de Ojeda, ambicioso de gloria y de oro, era asaz atrevido como para internarse en las montañas tras el fiero cacique. Lo mismo que a Mosén Pedro Margarit, Colón lo instruyo de lo que, según él, era la mejor manera de hacer preso a Caonabó, y le dio despacho para la arriesgada misión.

“Recién llegado a la Española, Ojeda comprendió que los indígenas tenían un lado flaco: su falta de doblez. Eran hombres tan respetuosos de sus promesas y tan rectos al proceder, que se presentaban como enemigos al que consideraban su enemigo y que no podían admitir que quien se introducía como amigo fuera otra cosa. Este descubrimiento, que lo había hecho ya Colon en su primer viaje, le llevó a la conclusión de que el plan del Almirante para apresar a Caonabó era excelente si se podía poner en práctica. Y él, Alonso de Ojeda, se sentía capaz de hacerlo.

“Como la mayor parte de los conquistadores, Alonso de Ojeda fue lo bastante iletrado para no comprender la importancia histórica de escribir o hacer escribir los lances de aquella época, y ésa es la razón por la cual se ignora de que artes se valió para internarse, sin correr peligro, en los dominios de Caonabó. El caso es que se internó y que acabó haciéndose amigo del cacique. Se había presentado ante éste como hombre de bien, y Caonabó, que no odiaba a los hombres por ser españoles y que sólo procedía a atacar a los que se comportaban como criaturas perversas, no tuvo inconveniente en tratarle e incluso en quedarse a solas con él muchas veces. Alonso de Ojeda era un hombre, y el altivo señor de las montañas no temía a hombre alguno, no importaban su color, sus armas o su vestimenta.

“En paz el país desde que, atendiendo a la demanda de miles de indios que se congregaron en el Fuerte de la Concepción para pedir al Almirante la libertad del cacique Maniocatex, Colón dejó a éste libre, y tranquilo Caonabó porque los invasores respetaron sus dominios, todo indicaba que un capitán de Sus Majestades Católicas y un cacique indio podían ser amigos. Lo fueron. Al cabo de algún tiempo de estarse tratando, una mañana Alonso de Ojeda acompañó a Caonabó al baño, que el cacique realizaba en un río cercano a su vivienda. Cuando el señor indígena se preparaba a entrar en el agua, Ojeda le dijo que llevaba para él un notable regalo, envío especial de la reina doña Isabel II al poderoso cacique; y le mostró el presente, que el indio tomó en sus manos y observó detenidamente.

“-Es para llevar en los pies –dijo Ojeda-. Permitidme que os lo ponga yo mismo.

“Se inclinó el español ante Caonabó y cerro los tobillos del cacique con dos aros de hierro. ¡El regalo era un grillete!

“Cumplida la primera parte de su traición, Alonso de Ojeda llamó a gritos, y entonces vio Caonabó que de la espesura salían varios hombres de a caballo, escondidos allí por Ojeda para dar feliz término a su obra. En un santiamén Caonabó fue atado de manos y puesto al anca de uno de los caballos, sobre el que montó Ojeda; inmediatamente amarraron al cacique a Ojeda y partieron los españoles a todo el paso de sus bestias. Dos días después llegaban a la Isabela.

“La indignación del cacique por la celada de que había sido víctima fue indescriptible. Le encerraron y pasaron por su celda todos los españoles, deseosos de contemplar a aquel cuyo solo nombre les infundía espantado. Entonces pudieron apreciar el temple de Caonabó. Orgulloso y sensible como un rey cautivo, jamás se dignaba volver los ojos a los curiosos ni respondía a preguntas. Ni una queja salía de su boca. A pesar de que recibió órdenes expresas de ponerse en pie cuando el Almirante entrara en su celda, nunca lo hizo ni le miró siquiera; en cambio, se incorporaba si era Alonso de Ojeda el que entraba. Interrogado por que hacía eso, siendo así que a quien debía respeto era a Colón, jefe de Ojeda, respondió:

“-Sólo debo ponerme en pie ante el español que tuvo la audacia de hacer preso a Caonabó. Los demás son unos cobardes.

“Pasaba las horas mirando a través de las rejas de una ventana, contemplando el lejano horizonte con una expresión de gran señor preocupado, sin mostrar jamás una debilidad. Sus guardianes tuvieron siempre la impresión de que aquel prisionero tenía un alma más grande que las suyas. En todo momento exigió el trato que su posición requería y siempre se sintió, en la prisión, un rey absoluto. Al fin, acabó imponiéndose. Un día dijo que deseaba tener servidores indios, y se los dieron.

“Al cabo de largos meses, Caonabó pidió hablar con el Almirante. Explicó a éste que a causa de su prisión, caciques enemigos estaban atacando sus territorios y que lo menos que podían hacer los españoles era defender los hombres y las tierras de un rey que no podía hacerlo por sí mismo a causa de que ellos lo retenían en cautiverio. Con su acostumbrado señorío, mandaba a Colón como si fuera su subordinado. El Almirante respondió que era razonable la petición del cacique, y éste le pidió entonces que fuera él mismo al frente de las tropas españolas que habían de atacar a sus enemigos. Según explico, la presencia de Colon haría más fácil la empresa.

“Prometió el Almirante que así se haría y ordenó investigaciones para saber quién atacaba los dominios de Caonabó. Por esas investigaciones se supo que había de verdad en el fondo de la petición de Caonabó: mediante sus servidores indígenas, el gran guerrero había urdido un plan de vastas proporciones, capaz de dar la medida de lo que era su autor. Según ese plan, Caonabó debía obtener de Colón que éste saliera hacia el interior, al frente de un ejército español suficientemente fuerte para que formaran en el los más numerosos y mejores de los hombres apostados en la Isabela; de esa manera, la plaza quedaría casi desguarnecida, situación ideal para que Maniocatex atacara al frente de millares de indios, y libertara a Caonabó, quien inmediatamente se pondría al frente de la indiada para iniciar una guerra de exterminio sobre los conquistadores.

“Descubierta la conspiración, Colón se mostró indignado. Nada logró sacar de Caonabó. Ordeno entonces que se le iniciara proceso por los hechos de la Navidad. Aunque hasta ahora no ha aparecido copia alguna de ese proceso, se sabe que Caonabó no negó los cargos y que justificó su conducta con las tropelías que cometieron los españoles mandados por Diego de Arana. En todo momento seguía siendo de tan notable altivez, que impresionaba favorablemente a sus enemigos. Temeroso de que su muerte provocara una sublevación de grandes proporciones y, sobre todo, movido a respeto por el temple de aquel ser extraordinario, el Almirante no se atrevió a darle muerte. Un hombre así no podía ser tratado como un salvaje cualquiera. Ello habla bien de Colón, que tan falaz fue siempre.

“Cabe sólo la sospecha de que Colón creyera que podía sacar más provecho de Caonabó vivo que de Caonabó muerto. ¿De qué manera? Pues enviándolo a España a fin de que los Reyes Católicos vieran por sus ojos que clase de enemigos eran los que su Almirante tenía que enfrentar en la Española. Mentiría con ello, puesto que no todos los indios eran iguales a Caonabó y ni siquiera era fácil hallar un corazón tan extraordinario entre los europeos. Pero la mentira le vendría bien.

“Un día el cacique Caonabó, el “Señor de la Casa de Oro”, fue sacado de su celda y llevado al embarcadero. A distancia se mecían en las aguas las naos que iban a España. Caonabó fue metido en un bote y conducida a una de esas naos.

“-¿A dónde me lleváis?- pregunto el altivo dueño de las montañas, mostrando por primera vez aprensión, bien justa porque jamás había embarcado.

“-Vais a España, donde seréis presentado a Sus Majestades-le respondieron.

“¿A España? ¿De manera que iban a alejarlo de sus tierras, a él, el señor de tantas y de tantos indefensos indios?

“-Yo no puedo dejar abandonados a los míos –reclamó.

“Pero no le hicieron caso. A la fuerza le metieron en la nao. Habían resuelto que iría a España y tendría que ir. Caonabó, en cambio, había resuelto que no iría a España, y no iría.

“Contemplando ansiosamente las costas de la isla y las lejanas cimas de la Cordillera, el cacique pasó horas y horas mientras las naves emprendían el camino. A la de comer dijo que no quería y todos respetaron su voluntad, pensando que iba demasiado apenado y que ya reclamaría comida cuando sintiera hambre. ¡Desdichados españoles que así pensaban que se doblaría aquel poderoso espíritu a los reclamos del cuerpo!

“Caonabó no comió más. Se negó a hacerlo y ninguna fuerza humana, pudo lograr de él que desistiera de su empeño.

“Cuando las naos llegaron a España hacía semanas que Caonabó, el señor de las montañas, no iba en la suya. Había quedado sepultado en las aguas del océano, donde tuvieron que lanzarlo después de su muerte. Se había suicidado lentamente, de hambre, sin haber mostrado flaqueza ni una sola vez.

“Cuando supo el fin de Caonabó, Colón dispuso que todos los indios de la Española debían pagar un tributo anual, en oro, a los Reyes de España. Mientras él vivió, el Almirante no se hubiera atrevido a imponer esa ley arbitraría. Aun preso, Caonabó bastaba a evitar males a su raza.”



12 de Octubre: Día de la Resistencia Indígena

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Que el concepto de raza, basada en una serie de rasgos físicos hereditarios, no da cuenta de la diversidad genética de la especie humana, a pesar de que muchos científicos sociales insisten en emplear el concepto de raza como base de una tipología de las poblaciones humanas, por tanto, es innegable que este concepto surge como una de las categorías básicas de las relaciones de dominación propias del sistema colonial que se instaura en América a partir de la presencia europea,


CONSIDERANDO

Que a pesar de haber sido superado en América el colonialismo como sistema político formal a partir del triunfo de las guerras de independencia del siglo XVIII, las estructuras sociales a lo interno y externo de nuestras sociedades está aun constituido sobre criterios originados en la relación colonial, entre los que destaca el considerar la “cultura e historia universal” como sinónimo de los valores culturales e historia de la sociedad dominante,



CONSIDERANDO

Que la diversidad cultural y étnica presente en todos los pueblos antes y después del origen de Venezuela, es hoy un hecho irrefutable y forma parte de nuestra herencia histórica, como garantía para el mutuo enriquecimiento cultural y la comunicación humana, en los valores de paz con justicia,

CONSIDERANDO

Que la importancia de la historia como eje cohesionador de la vida social de una nación, fuente de referencia en valores y de la visión propia como pueblo, hace impostergable e ineludible para el proceso de Refundación de la República como una Nación pluriétnica y pluricultural, superar los prejuicios coloniales y eurocéntricos que subsisten en el estudio y enseñanza de la historia y la geografía,

CONSIDERANDO

Que los pueblos Indígenas del mundo y particularmente los de América, han dado y seguirán dando sus aportes irremplazables en la configuración de una rica sociodiversidad, y que deben ser reconocidos plenamente como patrimonio de la humanidad para restablecer un nuevo equilibrio del universo como lo soñó el Libertador Simón Bolívar en su lucha independentista.

DECRETA

Artículo 1°. Conmemorar el 12 de octubre de cada año “Día de la Resistencia Indígena” , destinado a reconocer nuestra autoafirmación americanista por la unidad y diversidad cultural y humana, reivindicando tanto a los pueblos indígenas de América como los aportes de los pueblos y las culturas africanas, asiáticas y europeas en la conformación de nuestra nacionalidad, en el espíritu del diálogo de civilizaciones, la paz y la justicia.

Artículo 2°. Incorporar en el calendario oficial y escolar el 12 de octubre como “Día de la Resistencia Indígena” conforme a lo acordado en el presente Decreto, e iniciar la revisión de los textos escolares sobre Geografía e Historia Nacional, de América y Universal.

Artículo 3°. Exhortar a la Academia Venezolana de la Lengua para que realice un estudio pormenorizado sobre el Diccionario de la Real Academia Española, a los fines de proponer a esa Institución, la revisión de aquellas palabras que pudieran ser atentatorias contra la dignidad de nuestros pueblos, así como la incorporación de una serie de americanismos, indigenismos, africanismos y demás manifestaciones de nuestro universo sociocultural, aún no incorporados.

Artículo 4°. Promover ante la Organización de las Naciones Unidas para la Educación, la Ciencia y la Cultura (UNESCO), la actualización tanto de la geografía e historia de América como la universal, en las enciclopedias americanas y universales, a fin de incorporar tos aportes de los pueblos indígenas, afroamericanos y criollos, con la participación activa de éstos, desde la perspectiva multilineal, pluridimensional e interdisciplinaria, con el propósito de liberar a los textos de investigación y educación, de racismos, eurocentrismos, etnocentrismos locales, patrialcalismos y discriminaciones de cualquier orden.

Artículo 5°. Solicitar a la Organización de las Naciones Unidas para la Educación, la Ciencia y la Cultura (UNESCO), una revisión actualizada de un verdadero calendario universal de naturaleza intercultural, con el concurso de todas las civilizaciones y sociedades, sin detrimento de los calendarios correspondientes a cada pueblo, hemisferio, región o subregión del planeta.

Artículo 6°. Las Ministros del Interior y Justicia; de Relaciones Exteriores; de Educación Superior; de Educación, Cultura y Deportes; del Ambiente y de los Recursos Naturales; y, de Comunicación e Información, quedan encargados de la ejecución del presente Decreto.
Dado en Caracas, a los diez días del mes de octubre de dos mil dos. Años 192° de la Independencia y 143° de la Federación.


Ejecútese

HUGO CHAVEZ FRIAS

Fuente: Decreto del Gobierno de la República Bolivariana del Venezuela por la proclamación del Día de la Resistencia Indígena


12 de Octubre: nada que festejar

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Appello contro lo spot vergognoso sulla sicurezza del lavoro

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Fonte: No morti lavoro

La Campagna per la sicurezza sul lavoro, promossa dal Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali recita “Sicurezza sul lavoro. La pretende chi si vuole bene”.Un messaggio e due spot rivolti solo al lavoratore e non a tutti gli  “attori” coinvolti.Dopo aver frantumato il Dlgs 81 del 2008 del Governo Prodi,hanno ben pensato di correggerlo con il decreto correttivo Dlgs 106/09 (sanzioni dimezzate ai datori di lavoro, dirigenti, preposti, arresto in alcuni casi sostituito con l’ammenda, salvamanager, ecc.). Ora il governo cerca di rifarsi la “verginità” con spot inutili che costano alle nostre tasche ben 9 milioni di euro. Questi spot sono inutili, anzi dannosi, per l’immagine di chi ogni giorno rischia la vita, non perché gli piaccia esercitarsi in sport estremi, ma colpevolizzando sottilmente il lavoratore stesso, nascondendo una realtà drammatica: l’attuale organizzazione del lavoro offre ben poche possibilità al lavoratore di ribellarsi a condizioni di lavoro sempre più precarie in tema di sicurezza. E’ una campagna vergognosa perché oggi il lavoratore ha ben poche possibilità di rispettare lo slogan “SICUREZZA SUL LAVORO. LA PRETENDE CHI SI VUOLE BENE “, quasi che se non c’è sicurezza la colpa è imputabile al fatto che il lavoratore non vuole bene a se stesso ed ai suoi familiari. Non dice nulla di chi deve garantire la sicurezza per legge, ovvero i datori di lavoro, sottovaluta i rapporti di forza nei luoghi di lavoro, non accenna minimamente al fatto che i lavoratori, specialmente di questi tempi, sono sempre più ricattabili e non hanno possibilità di scegliere di fronte ad un lavoro in nero, un lavoro precario, un lavoro a tempo determinato. I lavoratori devono sottostare a ritmi da Medio Evo. La campagna deve avviare un processo di comunicazione diffusa, in modo da rendere nota a tutti la necessità di un impegno costante da parte di tutti gli “attori” coinvolti, soprattutto di chi deve garantire la sicurezza. Questi spot devono essere sostituiti da una campagna di comunicazione che dovrà puntare sulla responsabilità civile, penale e non ultima anche etico-morale che l’imprenditore deve assumere per tutelare l’integrità delle persone che lavorano per lui. Via questi spot vergognosi, pretendiamo più ispettori ASL e più risorse, affinchè la mattanza quotidiana di lavoratori abbia finalmente fine, per l’obiettivo irrinunciabile che non si raggiunga il profitto a tutti i costi e soprattutto non con il sacrificio di vite umane innocenti.

Marco Bazzoni - Operaio metalmeccanico e rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza – Firenze; Andrea Bagaglio – Medico del Lavoro – Varese;Leopoldo Pileggi – Rappresentante dei lavoratori per La Sicurezza – Correggio; Daniela Cortese – RSU/RLS Telecom Italia Sparkle – Roma;

N.B. Chi vuole aderire all’appello, invii il proprio nominativo, azienda, qualificà e città al seguente indirizzo email: bazzoni_mattindotit


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