L’ONU ad Haiti

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dal diario – di Simone Bruno
20 gennaio 2010
 


(foto di Emiliano Larizza)

Fonte: Haiti Freelance – ( 4 romani ad Haiti )

Haiti, 20 gennaio
 

Federico si è addormentato da un po’ sdraiato nel pratino davanti alla porta dell’ ufficio della logistica del WFP, che è anche il posto dove internet funziona sempre. Ha trovato una coperta abandonata, un cartone, una palma e chiama il tutto casa. È tardi, quasi l’una ormai, volevo leggere cosa scrivono i giornali e selezionare un po’ di foto, oltre che scrivere un pezzo sulla gran farsa degli aiuti. Ormai i cancelli della base ONU sono chiusi e comunque non troverei un passaggio per tornare da Fiammetta, la coordinatrice di AVSI ad Haiti che ci ha permesso di accamparci a casa sua. Mi devo arrangiare e trovare un posto dove sdraiarmi qualche ora nella base della Minustah.

Per fortuna molte macchine dell’ Onu dentro la base vengono lasciate aperte proprio per dormirci, visto che molti hanno perso la casa e tanti giornalisti o volontari non sanno dove riposare.

Per fortuna trovo un furgoncino vuoto, gli altri erano occupati e quelli che avevano qualche posto avevano i finestrini chiusi. Odio quell’odore che fanno le persone quando dormono insieme e non aprono le finestre.

Ironico, una settimana tra i cadaveri e mi lamento dell’odore dei vivi.

Non avevo mai visto tanti morti, non mi sono abituato, eppure non mi commuovo vedendoli, credo che il mio cervello non li registri come umani, sono gonfi, enormi, e i volti sono sfigurati. Poi hanno quel rigagnolo. E’ la linfa, mi ha spiegato un medico volontario, la nostra acqua che lentamente li abbandona. Devo fare uno sforzo razionale per pensare a loro e alla vita che hanno perso; quello, quando ci penso, mi commuove. Poi l’odore. È talmente forte che entra nel cervello e ti fa allontanare. Fabio invece resiste di più, si avvicina, scatta le foto riuscendo ancora ad avere composizioni perfette.

 

Quello che invece non riesco a guardare sono i malati negli ospedali, sento il dolore delle persone a livello irrazionale, soprattutto se sono bambini che non ridono più.

Ho visto parecchi degli ospedali, sono decine di migliaia i feriti. Far loro le foto mi fa pensare: se fossi io al loro posto me ne farei fare? Forse no, forse mi incazzerei, loro no. Finora nessuno mi ha mai detto nulla. Qualcuno sorride, qualcuno no e mi guarda. Mi chiedo a cosa pensano, chi hanno perso e se si domandano cosa voglio.

Ma perchè non piangono? Ora che ci penso non ho ancora visto una lacrima dopo una settimana qui. Perché non si disperano e non gridano?

Ho chiesto alla gente che vive da tempo e al marito di Fiammetta, che è haitiano.

Mi sono fatto l’idea che sia una ragione culturale che si mischia con vari schemi sociali di un paese conquistato, colonizzato, invaso e poi aiutato con la stessa violenza.

Insomma il risultato è che gli haitiani convivono giornalmente con la morte e quindi non li tocca tanto, almeno in modo visibile, spesso sorridono quando si parla di qualcuno morto. E poi sono diventati molto individualisti, anzi forse lo sono diventati come reazione alla loro negazione della morte e del lutto.

Forse, penso, dovrei scriverle queste cose, le dovrei raccontare. Ma come si può fare a dire una cosa del genere senza sembrare che li accusi o non li rispetti?

 

Anche se ora dormo in una macchina ONU dentro una base ONU penso di odiare la gente dell’ ONU. Non singolarmente, anzi, uno ad uno mi stanno anche simpatici, alcuni sono preparati e interessanti, ma, tornare sudato, con i morti negli occhi e nelle narici e vederli seduti a bere un caffè, o scorazzare in macchine blindate e oscurate mi irrita. Perché devono sempre costruire le loro oasi di coca-cola e aria condizionata ovunque vadano e perché non parlano creolo se sono qui da 5 anni?

Perchè hanno le unghie pulite in questi giorni?

È una nuova burocrazia internazionale, di gente molto specializzata nel fare poco con il massimo sforzo.

Del resto chi vorrebbe una ONU forte rapida e autoritaria? Sicuramente nessuno dei paesi che la finanziano. E quindi il meccanismo deve essere tutto protocollato e farraginoso, sembrando organizzato, tecnico e specializzato allo stesso tempo.

Penso di avere circa 4–5 ore per dormire oggi, domani Fabio ed Emiliano vanno fuori città, io e Federico invece voliamo con gli elicotteri americani per vedere come funzionano gli aiuti.

 
P.S.

4 romani a Port Au Prince sono:

Fabio Cuttica dalla Colombia

Emiliano Larizza da Santo Domingo

Federico Mastrogiovanni da Città del Messico

Simone Bruno dalla Colombia

 

Honduras, il golpe dimenticato

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Il golpe avvenuto in  Honduras   il 28 giugno scorso  che ha deposto e cacciato dal paese il presidente democraticamente eletto nel 2006 Manuel Zelaya e che ha visto l’insediamento manu militari  di Roberto Micheletti (dello stesso partito di Zelaya, il Parito Liberale) che ricopriva la carica di presidente del Congresso Nazionale,  è stato oramai di fatto legittimato con le elezioni del 30 novembre, realizzate in un clima di paura e di tensione,  tra repressione, detenzioni arbitrarie, omicidi e senza la presenza di osservatori internazionali. Porfirio Lobo  è  il nuovo presidente del paese e  si insedierà formalmente il 27 gennaio prossimo. Il governo uscente del golpista Roberto Micheletti e il nuovo esecutivo stanno  tentando di conquistare  adesso agli occhi miopi della comunità internazionale un volto democratico che convince veramente poco.  E nel frattempo  tentano di salvare gli autori materiali del golpe garantendo l’impunità sia a Roberto Micheletti (che proprio in questi giorni è stato nominato dal Congresso deputato a vita per i suoi 28 anni di lavoro svolti per il paese),  sia ai generali delle Forze Armate che sono sotto accusa da parte della Procura Generale per “abuso di potere” e “invio in esilio” del presidente deposto Manuel Zelaya (la Costituzione del paese infatti vieta esplicitamente di mandare in esilio cittadini honduregni). I militari rischierebbero in caso di condanna pene irrisorie che vanno dai 3 ai 5 anni di carcere.
Manuel Zelaya dall’ambasciata brasiliana dove si trova tuttora  denuncia che il Procuratore Generale Luis Rubí con questo provvedimento   “appoggia l’impunità dei militari accusandoli di reati minori e di abuso di potere e non per i gravi delitti che hanno commesso” e cioè “tradimento della Patria , omicidio, violazione dei diritti umani e torture al popolo” . Secondo Zelaya è chiaro inoltre che “ciò che si sta mettendo in pratica sono gli atti preliminari per ottenere l’impunità dei militari e lasciare senza condanna gli altri autori materiali e intellettuali del colpo di Stato militare”.
Andres Pavón, presidente del Comitato per la Difesa dei Diritti Umani (Codeh) ha ricusato formalmente il giudice in quanto “si è sostenuto e si continua a sostenere che è totalmente evidente che la rottura dell’ordine costituzionale in Honduras, avvenuta tramite un colpo militare di Stato, si è realizzata con la partecipazione e l’avallo diretto della Corte Suprema di Giustizia”.
In Italia,   a parte le sporadiche notizie di agenzie che si leggono in rete sulle vicende più propriamente politiche del paese centroamericano, il golpe  è stato completamente dimenticato e quindi legittimato e perfino uno dei pochi  spazi informativi onesti rimasti, Radio Tre Mondo, lo  ha “ratificato” recentemente,  intervistando Carlos Lopez Contreras, ministro degli Esteri del governo golpista. La redazione del programma, lo ha presentato infatti  come rappresentante del  “Governo di Transizione”.  
La stampa invece   ormai  ignora completamente e ha calato un velo di silenzio sulle violazioni dei diritti umani accadute e che continuano ad accadere in Honduras. Dalla resistenza honduregna,  dal COFADEH (Comitato dei familiari di detenuti scomparsi) e dalle altre associazioni umanitarie continuano  a  giungere  denunce di omicidi di difensori dei diritti umani, come quello di Walter Trónchez ucciso il 14 dicembre a colpi di pistola mentre camminava per il centro di Tegucigalpa (era stato già arrestato e sottoposto a torture nel luglio scorso). Walter era stato anche testimone dell’arresto da parte di alcuni membri della polizia di Pedro Magdiel Muñoz Salvador, poi ucciso il 25 luglio durante una manifestazione. Walter, che faceva  parte del Fronte nazionale di resistenza popolare e che si occupava  dei diritti della comunità LGTB già il 4 dicembre scorso era stato sequestrato da quattro uomini incappucciati che dopo averlo picchiato ripetutamente lo avevano minacciato di morte. In quell’occasione riuscì a fuggire e sporse denuncia alle autorità. Inutilmente. Il 15 dicembre è stato trovato anche il corpo senza vita e senza testa di Santos Corrales, anche lui appartenente al  Fronte  che era stato arrestato dieci giorni prima da membri della Direzione nazionale di investigazione criminale (DNCI).
Andres Pavón (Codeh) denuncia che squadre di paramilitari percorrono le vie di Tegucigalpa e dei centri minori sequestrando e uccidendo giovani appartenenti al FNRP.  Dal 30 novembre  giorno delle elezioni, sarebbero già 30 i militanti uccisi, che vanno ad aggiungersi a quelli morti  immediatamente dopo il colpo di Stato e nei mesi successivi. Si tratta di una “vera e propria offensiva” contro un movimento che va crescendo sempre di più e che trova sempre maggior consenso in Honduras ma anche fuori dal paese.
La repressione si sta accanendo  duramente anche contro la comunità gay, come dimostra l’omicidio di Walter Trónchez , e contro le associazioni femministe, mentre quanto mai  pericoloso e difficile è  il lavoro di giornalisti e operatori dell’informazione. Le sedi di giornali e radio comunitarie vengono ripetutamente perquisite   con uso sproporzionato di forza e violenza, quando non sono oggetto di attentati compiuti da paramilitari, come avvenuto recentemente alla radio Faluma Bimetu, che da anni denunciava i crimini e gli interessi dei gruppi finanziari che cercavano di cacciare la comunità degli indigeni Garifuna dai loro territori (gli stessi dove è stata girata l’Isola dei Famosi per capirsi). Alcuni giornalisti invece sono stati arbitrariamente detenuti e poi rilasciati dopo aver subito percosse e torture.
Le elezioni del 30 novembre sono state riconosciute valide da pochi paesi. Oltre ovviamente agli Stati Uniti, la cui partecipazione diretta o indiretta al golpe è ormai stata definitivamente accertata (e poca rilevanza ha se ciò sia avvenuto con o senza il consenso di Obama), anche  il Messico, Panamá, Costa Rica, Perú, Colombia, Italia, Francia, Germania , Israele e Giappone hanno salutato favorevolmente il risultato elettorale,  mentre nella regione ha un certo peso, anche se alla nuova classe dirigente honduregna sembra non interessare particolarmente, la posizione di Brasile, Argentina, degli altri paesi aderenti all’Alba e del Mercosur che non riconoscono Porfirio Lobo come presidente.
Il Congresso tra l’altro  ha ratificato proprio in questi giorni la decisione di uscire dall’Alba, la cui adesione era stata fortemente voluta da Manuel Zelaya e che di fatto è  stato il motivo scatenante del colpo di Stato.
Il 7 gennaio si è tenuta la prima manifestazione del nuovo anno contro il governo proprio in protesta contro questa decisione, ma anche per chiedere un’Assemblea Costituente e per esprimere ancora una volta solidarietà a Zelaya.  A Tegucigalpa hanno sfilato  decine di migliaia di honduregni  dall’ Università Pedagogica al palazzo del Congresso e si sono dati appuntamento nuovamente   a fine gennaio per la data di insediamento di Lobo.
Mentre nelle strade della capitale una folla pacifica e chiassosa, in un clima di relativa tolleranza, gridava slogan contro il governo e in favore di Mel Zelaya,  nelle campagne e nelle zone più rurali del paese,  dove le telecamere sono assenti e i giornalisti difficilmente arrivano, l’esercito e la polizia mostrano invece il  vero volto di quella che nessuno chiama dittatura ma che non lascia dubbi rispetto alla sua vera natura.
Una comunità di contadini nella Valle del Aguàn è stata infatti violentemente sgomberata dalla polizia e dall’esercito da alcuni territori statali nei quali aveva costruito povere capanne e seminato mais e cereali, territori che erano invece reclamati da alcuni latifondisti che spesso in Honduras assoldano anche bande paramilitari per liberare le terre.
Le colture sono state distrutte, le capanne incendiate e i contadini, circa 600 famiglie,   cacciati con lacrimogeni e proiettili (di piombo).
Sono innumerevoli le situazioni come queste nel paese,  a dimostrazione anche del fatto che i latifondisti e i grandi proprietari terrieri sono stati una delle anime del golpe e che proprio quella Riforma Agraria della quale si era timidamente iniziato a discutere durante la presidenza di Manuel Zelaya adesso  si rende estremamente necessaria. Appare  invece sempre più lontana.
Riforma Agraria e Assemblea Costituente sono le due battaglie sulle quali l’eterogeneo Fronte Nazionale di Resistenza Popolare dovrà  investire nel prossimo futuro forze ed energie,  canalizzandole probabilmente in espressioni e iniziative che abbiano sicuramente più rilevanza e peso politico di quello che hanno oggi le grandi mobilitazioni per le strade di Tegucigalpa.
Le associazioni per la difesa dei diritti umani intanto puntano sulla giustizia internazionale: Luis Guillermo Peérez Casas segretario generale della Federazione Internazionale dei Diritti Umani  (FIDH) e Manuel Ollé Sesé, presidente dell’ Associazione Pro Diritti Umani (Spagna)  hanno sporto denuncia contro Roberto Micheletti e il capo delle Forze Armate Romeo Vásquez Velásquez, per il delitto di persecuzione politica contro il popolo honduregno. Anche se questa, a voler essere pragmatici, sembra un’inutile iniziativa. L’Honduras ha ormai il suo nuovo presidente. E’ contro il nuovo governo, e il silenzio che circonda quanto accade nel paese  che adesso bisogna lottare.
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Segnalo:
Usa-Honduras-America Latina alla battaglia finale
IL RITORNO DEL CONDOR
Di FULVIO GRIMALDI
Il ritorno del Condor. Il racconto del colpo di Stato effettuato in Honduras contro il presidente progressista Manuel Zelaya dai militari agli ordini dell’oligarchia honduregna e degli Stati Uniti. L’inizio di un’operazione Condor 2, con la quale Washington si propone di rinnovare i nefasti dell’operazione Condor degli anni ’70 che installò Pinochet in Cile e altre sanguinarie dittature in America Latina. Una controffensiva statunitense, con nuove basi militari in Colombia e manovre di destabilizzazione in tutto il Cono Sud, per strappare ai governi e movimenti progressisti e rivoluzionari quello che Washington considera il suo “cortile di casa”. L’irriducibile resistenza del popolo honduregno e dei popoli latinoamericani.
 
Fulvio Grimaldi. Giornalista, scrittore, inviato di guerra ex-Rai i cui docufilm sullo scontro tra popoli e imperialismo non verranno mai trasmessi dalla Rai. E’ il quarto documentario sul “continente della speranza”, dopo “Cuba, el camino del sol”, “Americas Reaparecidas”, “Cuba, Venezuela, Bolivia, Ecuador: l’Asse del Bene”. Si affianca ai suoi popolari lavori di controinformazione su Balcani, Iraq, Libano, Palestina – ultimo “Araba fenice, il tuo nome è Gaza” – e ai libri sugli stessi argomenti e sulla crisi della Sinistra italiana.
 
Produzioni VisioNando-Roma – visionandoatvirgiliodotit – tel/fax 06 99674258
Dal 16 gennaio al 7 febbraio Il Circolo di Italia-Cuba della Tuscia organizza, insieme ad altri circoli e strutture, un tour italiano di una dirigente del Fronte Nazionale della Resistenza al Colpo di Stato in Honduras, nel corso del quale verrà presentato anche il nuovo documentario “Il ritorno del Condor”.
Per le date degli appuntamenti consultare :


 
 
 
 
 

Emergenza terrorismo: a Maroni e la Repubblica super premio fantasia

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L’Unità, tale e quale non si smentisce. A la Repubblica invece il premio per la fantasia: il manuale Cyber– Brigadista è geniale. Intanto ricordo che il suddetto manuale, scaricabile gratuitamente da qui come da decine di altri siti lo utilizzano quasi tutti, dalla Polizia alle grandi imprese, dai militanti di mezzo mondo ai giornalisti prezzolati…
Che dire… dagli aeroplanini telecomandati al manuale del terrorista passando per le armi del nonno partigiano, ci sarebbe da ridere se non fosse che c’è gente in galera davvero per queste stronzate. (AM)
 
Fonte: Baruda
In carcere a Milano Manolo Morlacchi, figlio di Pierino, fondatore delle Br. Accusato dalla Digos di banda armata
di Paolo Persichetti, Liberazione 19 Gennaio 2010
Smantellata nel corso del 2003 la fragile struttura che in occasione degli attentati mortali contro Massimo D’Antona e Marco Biagi aveva riesumato la sigla delle Brigate rosse-partito comunista combattente, gli apparati investigativi, in particolare quelli della Digos romana guidata da Lamberto Giannini, hanno da allora deciso di portare avanti una strategia investigativa improntata essenzialmente all’azione preventiva contro gli ambienti ritenuti, a torto o a ragione, contigui alle aree politiche antisistema.
Per gli uomini dell’antiterrorismo le azioni del 1999 e del 2001 sono la conseguenza dell’affrettata convinzione che il fenomeno lotta armata avesse trovato termine alla fine degli anni 80, con il conseguente abbandono delle indagini sui superstiti. Gli arresti di Manolo Morlacchi e Costantino Virgilio, realizzati ieri mattina a Milano, sono la diretta conseguenza di questa filosofia. Una concezione del lavoro d’indagine che si avvicina molto di più alle tecniche di rastrellamento che a quelle dell’inchiesta mirata. Impostazione che ormai non trova più oppositori davanti a se. La cultura garantista si è liquefatta e l’idea dell’arresto preventivo, cioè prima che un fatto-reato sia stato effettivamente commesso, in questo caso la costituzione di una banda armata, la realizzazione di un reticolo associativo illegale e clandestino, è una circostanza che non contesta più nessuno.
Lunghe custodie cautelari in regime di carcere duro anticipano condanne che forse nemmeno verrano. Giustizia dissuasiva.
Gli arresti di ieri sono lo sviluppo dell’operazione realizzata nel giugno scorso e che aveva portato alla perquisizione dell’abitazione dello stesso Manolo, del fratello Ernesto e di un cugino. In quel caso erano state arrestate cinque persone, ancora oggi detenute nel carcere di Catanzaro dove sono stati raggruppati in regime di elevata vigilanza (circuito As 2) tutti i prigionieri politici. In possesso di alcuni degli arrestati venne trovata della documentazione ideologica che teorizzava la ripresa della lotta armata e alcune armi arrugginite buone solo per la rottamazione. A Morlacchi e Virgilio, invece, è stato contestato il rinvenimento di un manuale d’istruzioni per criptare documenti informatici e non lasciarsi tracciare in rete. Materiale in possesso di hacker e militanti per i diritti civili e la libertà di espressione di mezzo occidente. E una serie d’incontri definiti dalla Digos «strategici», cioè con cadenza fissa. Modalità che gli inquirenti ritengono “sospette”, insieme ad alcune telefonate con Luigi Fallico, il cinquantasettenne corniciaio romano attorno al quale ruota tutta l’inchiesta. Si tratta, in effetti, di un’equazione investigativa. Secondo l’accusa Fallico avrebbe tentato di costituire una formazione denominata “per il comunismo Brigate Rosse”, la stessa che rivendicò un piccolo attentato contro una caserma dei Parà di Livorno nel 2006. Incontrandolo, Virgilio e Morlacchi, per una sorta di proprietà transitiva sarebbero divenuti essi stessi membri della fantomatica organizzazione che nei documenti ideologici ritrovati veniva solo ipotizzata. Poco, anzi niente, ma quanto basta per qualche annetto di custodia cautelare.
La vera colpa di Morlacchi sembra un’altra: quella di avere un nome che pesa. Suo padre Pierino fu, infatti, uno dei fondatori delle Brigate rosse e Manolo recentemente si è laureato con una tesi sulle Br ed ha pubblicato un bel libro sulla storia del padre, La fuga in avanti. «Non è giusto essere svenduti come terroristi soltanto per il cognome che portiamo», aveva detto dopo la perquisizione di giugno. L’arresto di ieri dimostra il contrario. I fantasmi della lotta armata sembrano destinati ad avere lunga vita. Chi li teme non ha capito che il problema sta nella mancata chiusura politica degli anni 70. Così un’altra storia non è mai cominciata.

Arance amare: il reportage di Fortress Europe da Rosarno

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Rosarno era una bomba ad orologeria. Questo il reportage di Fortress Europe di un anno fa:

Gabriele Del Grande - Fortress Europe
ROSARNO – Costretti a vivere in capannoni abbandonati, senza luce né acqua. Impiegati in nero, alla giornata, per una paga che raramente supera i 25 euro. Sono i raccoglitori delle arance della campagna tra Rosarno, San Ferdinando e Rizziconi, in provincia di Reggio Calabria. Sono almeno 2.000. Sono tutti immigrati: ghanesi, marocchini, ivoriani, maliani, sudanesi. E quasi tutti senza documenti. È una storia che dura da vent’anni. Arrivano a dicembre, per l’inizio della raccolta dei mandarini. E vanno via a marzo, dopo la raccolta delle arance. Quest’anno però la stampa nazionale si è accorta di loro. È successo lo scorso 13 dicembre, quando alcune centinaia di immigrati africani hanno marciato verso il centro di Rosarno, sfasciando qualche cassonetto per protesta. Il giorno prima, due ragazzi ivoriani di 20 e 21 anni erano stati feriti dagli spari di una pistola. Una ritorsione, secondo gli inquirenti, dopo una rapina andata male. A un mese dai fatti, siamo tornati a Rosarno. Abbiamo visitato le baraccopoli. Siamo usciti all’alba sulle piazze dove si cerca lavoro. E abbiamo scoperto una situazione molto complessa. Dove i proprietari degli aranceti sono i figli dei braccianti che fecero le lotte per le occupazioni delle terre dopo il fascismo. Dove ogni domenica una signora di 85 anni prepara da mangiare agli immigrati che vivono nella vecchia fabbrica in città. E dove un gruppo di avvocati sta cercando di aiutare gli immigrati senza documenti, che qua sono praticamente tutti.
 
Eppure le contraddizioni restano. L’emergenza abitativa nelle baraccopoli ricavate dentro le due vecchie fabbriche alla Rognetta e alla Cartiera è evidente. Mancano servizi igienici, acqua corrente, elettricità e riscaldamento. “Molti si ammalano qui”, dice Saverio Bellizzi, coordinatore del progetto a Rosarno di Medici senza frontiere. Le condizioni di lavoro sono dure. Ma non c’è lo stesso caporalato della Puglia. La maggior parte delle aziende agricole sono di piccoli produttori. Che vengono direttamente in piazza, ogni mattina, a caricare i quattro o cinque braccianti di cui avranno bisogno per al massimo una settimana. E non sono nemmeno negrieri. In una diffusa economia sommersa, qua il lavoro nero è la norma. E la paga di 25 – 28 euro per le otto ore di lavoro, non è così distante dai 32 euro negoziati dal contratto provinciale di Reggio Calabria. I produttori risparmiano soprattutto sui contributi. Un lavoratore in regola costerebbe sui 40 euro lordi. Ma il settore degli agrumi è in profonda crisi. Le clementine si riescono ancora a vendere a 28 centesimi al chilo. Ma il prezzo delle arance è crollato a 7 centesimi. Eppure nei supermercati si comprano a oltre un euro. Colpa dei tanti passaggi della trasformazione. E di un cartello che – in terra di mafia – ha bloccato lo sviluppo delle cooperative create negli anni passati dai piccoli produttori.
 
Così lo sfruttamento – come un domino – si ripercuote sull’ultimo anello della catena: i lavoratori. Assunti senza tutela. Anche nel caso dei comunitari, che vengono ingaggiati, per non aver problemi con l’ispettorato del lavoro, ma ai quali non sempre vengono pagate le effettive giornate di lavoro. Senza parlare dei non comunitari. Quasi tutti senza permesso di soggiorno. Quasi tutti non potranno regolarizzarsi per i prossimi dieci anni, avendo ricevuto un decreto di espulsione con divieto di reingresso in Italia. E allora il problema sembra trascendere Rosarno.
C’è in Italia un esercito di uomini illegali, costretti alla clandestinità dai meccanismi della legge sull’immigrazione, che vagano da una campagna all’altra del sud. Seguendo le stagioni: i pomodori a Foggia, le arance a Rosarno, le primizie a Caserta, la olive ad Alcamo, le patate a Cassibile. E vanno così a tappare i buchi di un agricoltura che al sud è sempre più in crisi. In quello stesso sud che dopo la seconda guerra mondiale si distinse per le dure lotte contadine del movimento delle occupazioni delle terre.
Cento immigrati vivono nelle baracche della vecchia fabbrica alla Rognetta
Era una vecchia fabbrica per la lavorazione delle arance. La Rognetta. Poi venne chiusa. Portarono via le porte, si arrugginirono gli infissi, cadde il tetto, crebbero le erbacce. E divenne la casa di un centinaio degli almeno 2.000 braccianti immigrati che ogni inverno si concentrano a Rosarno per la raccolta degli agrumi. Tra di loro la chiamano Fabrica Anciènne. Si trova a pochi passi dal centro di Rosarno. Vicino a una scuola elementare, sulla via Nazionale. La stessa strada che all’alba si affolla di uomini in cerca di lavoro. Da fuori si vede un cortile ancora sporco dei cumuli di immondizia rimossi poche settimane fa dal Comune. Sotto lo scheletro dei travi arrugginiti, le baracche sono state costruite ad arte, con teli di plastica, cartoni e cavi. Quando piove si allaga tutto. La fabbrica è divisa in due settori. Nel primo abitano i maghrebini.
Entro nella prima baracca. Tre metri per tre. Ci dormono in cinque. Sui tre materassi a una piazza appoggiati sui bancali, a terra. Kamal ha preparato il pane arabo sul fornellino a gas, nell’angolo. Lo assaggio. Non c’è corrente elettrica, bisogna mangiare prima che faccia buio. Sono le cinque del pomeriggio. “Ieri abbiamo fatto il cus cus”, scherza Mohamed. Sono sorpresi quando scrivo i loro nomi in caratteri arabi, sul mio taccuino. Vengono tutti da Sidi Ma’ruf, un quartiere di Casablanca. Erano vicini di casa, sono cresciuti insieme. Kamal ha 23 anni ed è in Italia da due anni e mezzo. Mohamed invece ne ha 31 e in Marocco ha due bambini. E’ arrivato in Italia il 24 gennaio del 2008. A bordo di un barcone partito da Garabulli, vicino Tripoli, con 220 persone a bordo, intercettato al largo di Lampedusa. Hisham era sulla stessa barca. Anche lui vive nella baracca, ha 23 anni.
Lui e Tareq mi lasciano il loro indirizzo email, per rimanere in contatto. Hanno tutti un foglio di via, ricevuto dopo lo sbarco a Lampedusa. Ma non tutti hanno il decreto di espulsione e quindi il divieto di reingresso in Italia, e sperano di poter rientrare in un decreto flussi per regolarizzarsi. Mohamed è sceso da Milano. Nel capoluogo lombardo non trovava lavoro e aveva sentito dire che qua si poteva guadagnare qualcosa con la raccolta. Per ora sta lavorando poco. Ha un handicap alla mano sinistra. Gli mancano due dita.
Hicham invece non ha ancora avvertito il padre del suo arrivo in Italia. Vive a Bologna da trent’anni, dice, e ha la cittadinanza italiana. Ma non l’ha mai chiamato per il ricongiungimento familiare, evidentemente non sono in buoni rapporti. E adesso che è venuto in modo clandestino, non gli va di farglielo sapere. Qua sono arrivati tutti con il passaparola. Mi chiedono se potranno regolarizzarsi. Se il governo ha in programma sanatorie. Scuoto la testa. Mohamed mi si avvicina. In Marocco faceva il commerciante, dice. Aveva un banchetto. Vedeva ogni estate ritornare gli emigranti con macchine nuove e vestiti firmati. Ha rischiato la vita per venire in Europa, sui barconi che partono dalla Libia. “Mais le rêve n’était pas vrai”. Il sogno non esiste. L’Italia se l’era immaginata diversa. Migliore.
Esco dalla baracca. Gli operatori di Medici senza frontiere, che mi hanno accompagnato alla vecchia fabbrica della Rognetta, stanno distribuendo volantini multilingue sull’ambulatorio sanitario STP di Rosarno dedicato ai migranti senza documenti. Nel piazzale, dietro quattro pareti di lamiera e eternit, si intravedono le spalle nude insaponate di un ragazzo che si sta lavando prima che cali il sole. I bagni invece non esistono proprio. Si va nello spiazzo dietro il capannone. Fuori intanto qualcuno ha acceso il fuoco. Il fumo arriva dalla zona degli africani. Intorno alla fiamma, una decina di maliani si stanno riscaldando prima che cali il buio. A fianco qualcuno sta cucinando su un fornellino a gas, mentre alcuni ragazzi fanno avanti e indietro con le taniche riempite d’acqua al rubinetto recentemente collegato all’acquedotto comunale, sulla strada, a duecento metri dalle baracche.
In questo settore della vecchia fabbrica, le baracche sono una appoggiata all’altra. In ognuna ci dormono fino a nove persone. Una sull’altra. Senza riscaldamento. Senza luce. Senza acqua corrente. I telefonini li ricaricano al call center vicino all’hotel Vittoria. Sono maliani, ivoriani, burkinabé, guineani, senegalesi. Sono tutti sbarcati a Lampedusa. Ma la loro situazione è diversa da quella dei marocchini. A partire dai documenti. Molti sono richiedenti asilo. Mamadou Djakité, classe 1984, mi mostra il suo permesso di soggiorno. Motivo: richiesta asilo. Valido sei mesi in attesa dell’esito del ricorso. Molti vengono dal Centro di accoglienza per richiedenti asilo di Crotone. Mamadou per esempio è sbarcato a Lampedusa nel giugno del 2008. Poi è stato portato a Crotone. Ha fatto richiesta d’asilo. E dopo la risposta negativa della Commissione, un avvocato del centro ha fatto ricorso e la questura gli ha rilasciato un permesso di soggiorno di sei mesi. Un permesso con cui potrebbe lavorare. Regolarmente. Ma si ritrova qui. “A Crotone ci hanno portato alla stazione del treno, ci hanno comprato un biglietto e arrivederci” racconta con sarcasmo mentre allunga le mani verso il calore del fuoco. Aspetta una risposta dall’avvocato. Ma neanche lui ci crede. Gli chiedo se l’ha chiamato. Dice che è inutile, perché tanto non sa il francese. No, ammettono ridendo, nessuno di loro si immaginava che l’Europa sarebbe stata così.
Mi affaccio in una delle baracche dei maliani. Lo spazio calpestabile è poco. Per terra ci sono materassi ovunque. “Non si riesce a dormire quando piove – dice Amadou – cade l’acqua dentro”. Sotto le coperte, in penombra, vedo un ragazzo. E’ malato. “Sono soprattutto problemi polmonari – dice Saverio Bellizzi, il dottore di Medici Senza Frontiere – altre volte problemi legati alla cattiva alimentazione o alla scarsa igiene, oppure problemi osseo muscolari legati a infortuni sul lavoro nei campi”. Arrivano sani e si ammalano in Italia. A Rosarno i maliani dicono di essere arrivati col passaparola. A Crotone si diceva che qua si poteva lavorare. Ma non c’è lavoro. Ogni mattina si mettono in fila sulla Nazionale. Un centinaio. Dalle cinque e mezza in poi. Lavorano in media 2 giorni a settimana. Mamadou non esce nei campi da 24 giorni. Tiene il conto. Ma perché non se ne vanno allora, se qui non c’è lavoro. Andare dove? Non hanno nessuna prospettiva. Per spostarsi in una città servono soldi per il trasporto e per prendersi una stanza. Qui almeno si inganna il tempo. In attesa di tempi migliori. Non tutti però la pensano così. Più tardi, sulla nazionale, incrocio un gruppetto di sei africani, zaini in spalla, che camminano verso la stazione del treno. Dicono che tornano a Napoli, perché qua non c’è lavoro. Scorro i loro sguardi prima di salutarli. Sandro Pertini faceva il muratore in Francia durante l’esilio. Poi divenne presidente della Repubblica. Chissà se anche tra loro ci sarà un futuro presidente… sorrido all’idea. E stavolta li saluto davvero.
Emergenza alla cartiera: 400 braccianti immigrati vivono in un capannone abbandonato
Dagli squarci del tetto entrano abbaglianti fasci di luce. E illuminano il labirinto di cartoni immerso nella penombra del capannone. Vecchi pacchi di biscotti Oro Saiwa e manifesti del circo Orfei costituiscono le pareti delle baracche dei braccianti immigrati, che come ogni inverno raggiungono la piana di Gioia Tauro per la raccolta degli agrumi. Solo in questa fabbrica fantasma vivono 400 uomini, la maggior parte ghanesi. Si tratta della ex “Modul System Sud”, siamo nel comune di San Ferdinando, uno dei tanti capannoni fantasma di queste campagne, costruiti con fondi pubblici negli anni Novanta e poi abbandonati per fallimento. Gli immigrati la chiamano semplicemente Cartiera. Oppure Ghetto Ghanéen. Il ghetto dei ghanesi. Che qui sono la maggior parte. I cartoni sono tenuti insieme da canne di bambù, spago e nastro adesivo. In ogni baracca, di tre metri per tre, dormono tra cinque e dieci persone. Sui cartoni, o su vecchi materassi. I più fortunati hanno anche le reti. Altri hanno montato delle tende da campeggio. Orientarsi è difficile. Il pavimento è di cemento. In alcuni punti è allagato. Piove dal tetto. La sensazione più forte è l’odore. Di fumo. Non si respira. Ci sono fuochi accesi un po’ dappertutto. I muri sono anneriti. Servono a cucinare e a riscaldare l’ambiente.
Mohamed è l’unico marocchino della Cartiera. Parla un buon italiano. Viene da Marrakesh ed è arrivato anche lui da Lampedusa, sei anni fa. Viveva vicino a Bologna. È stato in carcere, ma preferisce non parlare della propria fedina penale. A Rosarno è arrivato un mese fa. Non si lamenta di niente. “Nessuno mi ha chiesto di venire in Italia”, scherza. La sua baracca è più piccola delle altre. Due metri per due. Ci dorme da solo. Entriamo. Mohamed aggiusta le coperte e si scusa del disordine. Su un bidone rovesciato è appoggiato il piatto sporco dell’ultimo pranzo. Il soffitto è alto due metri. A venti centimetri dalla mia faccia un mezzo pollo spennato e pronto per essere cucinato è appeso per un filo alla zampa gialla. Non so da quanto tempo. Deve essere la cena di stasera.
Di fronte alla baracca di Mohamed, una dozzina di ghanesi è seduto sulle pietre intorno al fuoco. Il grasso dei polli sulla griglia cola sulla brace, scoppiettando. Alcuni sono sbarcati quest’anno e sono appena usciti dai centri di accoglienza di Crotone, Bari e Caltanissetta. La maggior parte però sono scesi da Castelvolturno e in generale da Napoli, dove si concentra buona parte dei ghanesi senza documenti sbarcati a Lampedusa negli ultimi anni. Fanno le stagioni. I pomodori a Foggia. Poi le arance a Rosarno. E a marzo le patate a Cassibile. Sono arrivati a Rosarno da un paio di mesi. Quest’anno c’è poco lavoro, dicono: “c’è stata una gelata e poi siamo in troppi”. Alcuni se ne stanno già andando.
Oltre ai ghanesi di Castelvolturno, ci sono ivoriani, burkinabé e togolesi. K. è ivoriano, lo incontro davanti al cancello. Ha 36 anni, vive in Italia dal 2003 e ha un permesso di soggiorno. Ma è disoccupato e a Padova, dove viveva, non è riuscito a trovare una nuova occupazione così e sceso a Rosarno, dove era stato l’anno in cui sbarcò in Italia, nel 2003. Allora dormivano in una palazzina vuota, in centro, di proprietà della Asl. Una notte vennero sgomberati. Per protesta si portarono i materassi sotto il municipio. Poi occuparono il capannone della Modul System Sud. Oggi la villetta sgomberata ha porte e finestre murate. K. invece puzza di alcol. Anche oggi ha bevuto. Alla Cartiera non è l’unico ad avere problemi con l’alcol. Serve a dimenticare il proprio fallimento. Un ragazzo che incontro tra le baracche inizia anche a alzare la voce. Vedrò cosa succederà agli italiani in Ghana se lo rimpatriano. La mia pelle bianca rappresenta la peggiore Italia che ha conosciuto.
Fuori invece è arrivata l’Italia che si rimbocca le maniche. Un gruppo di rosarnesi ha portato tre avvocati dalla provincia. Si sono messi a censire i documenti dei 400 abitanti della cartiera, per vedere se per qualcuno ci sono gli estremi per un ricorso o una domanda d’asilo. Fuori si sono disposti tutti in quattro lunghissime file. Viste dall’alto sembrano dei serpentoni. Sul tetto della cartiera mi ha portato Robert. Un ragazzo ghanese che continua a mostrarmi la sua richiesta d’asilo, presentata nel 2004 a Crotone, e poi scomparsa in qualche vicolo cieco della burocrazia italiana. C’è scritto che è sudanese, ma bastano alcune battute in arabo per essere sicuri del contrario. Ma è l’unica strada che ha per regolarizzarsi. Dal piazzale, sul tetto si sale attraversando i vicoli tra le baracche all’interno della vecchia fabbrica, e poi alcuni corridoi bui. L’occhio chiede il suo tempo per abituarsi all’oscurità. Nell’aria persiste l’odore di legna bruciata e di fumo. Sul pianerottolo delle scale qualcuno sta cucinando un filetto di pesce in un pentolino con olio di semi, cipolle e pomodori freschi. Il pranzo della domenica. Lungo il muro sono disposti una decina di paia di stivali vuoti. Sugli intonaci anneriti dal fumo, sono scritti come codici segreti, una serie di numeri di telefono. Sul terrazzo alcuni ragazzi sono piegati sui secchi a lavare il bucato, steso tutto attorno, direttamente appoggiato sui muri.
Visto dall’alto il cortile è molto più animato di quanto non sembrasse. Vedo due banchetti, dove si vendono vestiti e bibite. Alcuni ragazzi fanno la fila di fronte ai rubinetti aperti da dove scorre l’acqua corrente, utilizzata tanto per bere che per lavare e lavarsi. Tutto intorno c’è spazzatura. Ci sono due cassonetti pieni. Ma il Comune non li viene a vuotare da un mese. Idem con gli otto bagni chimici, installati un mese fa sul lato posteriore del fabbricato e poi lasciati lì, ormai inutilizzabili. Non restano che i bagni rotti e allagati sul retro: sei turche e quattro docce per 400 persone.
Poco dopo arrivano gli evangelici. Sono di una chiesa di Palmi, vengono ogni domenica. Distribuiscono un pranzo gratuito. Il menu di oggi è purè di patate, macinato di carne e un bicchiere di vino. Non tutti però si mettono in fila. Dall’altro lato del piazzale sono accesi due fuochi. Dalla pentola coperta esce un profumino invitante. Mi hanno detto che è questa la tenda dei sudanesi. E infatti seduti intorno ai carboni si parla arabo. Sono una ventina. Sono venuti da Palermo e da Milano. Abbiamo amici in comune nel mondo dell’associazionismo. Tutti quanti hanno i documenti in regola, a parte due ragazzi che però oggi sono nei campi. Da Palermo sono venuti in automobile. Hanno montato una tenda nel piazzale dove vendono bibite analcoliche agli abitanti della Cartiera. Hasan Suleiman, Mohamed e Yaqub vengono tutti dal Darfur. Hanno attraversato il deserto e il mare. E anno dopo anno continuano a vagare nelle campagne italiane, tra gli olivi di Alcamo e gli aranci di Rosarno.
All’alba sulle vie di Rosarno, con gli immigrati in attesa dei caporali
Quando esco dall’hotel Vittoria, sono le 5 e 42. La reception è vuota. Meglio così, non dovrò dare spiegazioni su questa passeggiata notturna. Fuori è ancora buio. La statale 18 è illuminata dai lampioni. Dopo un quarto d’ora a piedi raggiungo la Rognetta, la vecchia fabbrica occupata dai braccianti immigrati. La strada è deserta. Non ci sono marciapiedi. Si cammina tra le macchine parcheggiate e le serrande dei negozi chiusi, sfiorati dai camion in corsa. Un gruppetto di ragazzi allungare il passo sulla strada. Decido di seguirli. All’incrocio, davanti al supermercato, svoltano a destra, in una strada buia. Non ci sono lampioni. E’ buio pesto. Decido lo stesso di inoltrarmi, oltre quella cortina nera, dopo un attimo di esitazione.
Nel buio non si distingue niente. Prima dell’alba i braccianti non hanno una forma. Solo un rumore. Quello del ciampettare degli stivali di plastica sull’asfalto bagnato di pioggia. E del frusciare dei sacchettini di plastica con dentro i mandarini e il panino per il pranzo. Il raro passaggio di qualche automobile in corsa, illumina i loro cappotti. Poi scompaiono di nuovo nell’oscurità. La strada sembra non portare da nessuna parte, decido di tornare indietro. Ma sui miei passi incontro altri due braccianti. Decido di avvicinarli. Mi presento in francese.
Non riesco nemmeno a distinguere i tratti del viso di Touré. Viene dalla Guinea Conakry. E’ arrivato in Italia un anno e mezzo fa. Con un visto turistico che ha lasciato scadere, accumulando nel frattempo due fogli di via. A Roma viveva al dormitorio della Caritas, in via Marsala. Poi ha deciso di scendere verso la Calabria. Aveva sentito dire che qua si lavorava bene. Ma non è così. Stamattina ha appuntamento nel giardino dove ha lavorato ieri. Ci va a piedi per risparmiare i due euro e cinquanta che si prende l’autista. Ma se piove dovrà tornare indietro. Senza paga. L’autista lo chiama “capo nero”. Sono africani che vivono qui stabilmente, o che hanno dei buoni contatti coi padroni dei campi, e che provvedono a fornire la manodopera per la raccolta. Touré è la prima volta che viene a Rosarno. A Conakry studiava economia, all’Università. Ha lasciato gli studi per partire. Aveva provato a chiedere un visto a Stati Uniti e Germania, ma è stato inutile.
Questo giovane guineano mi conferma che non sempre il lavoro è pagato. A lui è successo una settimana fa. A fine giornata non li volevano pagare. Hanno protestato. E il proprietario ha impugnato l’accetta minacciando di ammazzare qualcuno. Allora hanno lasciato perdere. Altri raccontano di essere stati minacciati con pistole e fucili. Ma sono casi rari. Touré vorrebbe mettere dei soldi da parte e andare a Milano, per continuare i suoi studi in economia. Quando ci salutiamo, le prime luci dell’alba mi mostrano finalmente i suoi lineamenti del viso. Lui continua a piedi in una strada sterrata. Mancano ancora due chilometri alla tenuta. Io torno indietro. La rotonda, che prima mi sembrava vuota, è in realtà occupata da una quarantina di africani, seduti sul guardrail e pronti per andare a lavorare. Nascosti sotto cappotti e berretti di lana, indossano tutti stivali verdi di gomma, nei quali portano infilati i pantaloni sporchi di terra e lavoro. Ognuno ha appresso un sacchettino di plastica con il pranzo. Parlano malinke, bambara, wolof. Sono le lingue dei campi rosarnesi di questo inverno.
Ma in verità i braccianti più numerosi sono gli est europei. Ukraini, polacchi, bulgari e rumeni. Vivono in case affittate, in città. Somaticamente non danno nell’occhio. Ma ogni mattina scendono in piazza anche loro, sulla nazionale, in centro, per andare a raccogliere agrumi. Alle otto del mattino ce ne sono almeno 80. Dai due lati della strada. Guardo meglio e riconosco Mohamed, il ragazzo marocchino di Sidi Ma’rouf che avevo conosciuto il giorno prima alla Rognetta. Lo vado a salutare. Accanto a lui c’è anche Tareq e Hicham. I ragazzi di Sidi Ma’ruf che avevo conosciuto ieri alla Fabrica Ancienne. Ci fermiamo a parlare. Ne esce una improbabile discussione sui rosarnesi, Cartesio e la poesia araba. Hicham ha studiato al liceo, a Baida’. Conosce Battuta, Darwish, Qabbani e Mahfuz. Dice che anche lui, nel tempo libero scrive poesie. Poi cambia discorso. Dice che nei campi non hanno problemi, che i problemi sono la notte, con i giovani di Rosarno. “Arrivano in due sugli scooter e si divertono a tirare sassi e bottiglie vuote”, racconta. Ha sentito parlare dei due ivoriani a cui hanno sparato, a dicembre. Per questo non escono quando fa buio. Sorride, la fronte coperta dal cappellino di lana. Ha il viso sbarbato. Ogni tanto si ferma una Panda. Qualcuno sale. Soprattutto i bulgari. Il gruppetto dei marocchini invece è ancora tutto lì. Probabilmente anche oggi non lavoreranno.
L’unico rosarnese al corteo degli africani
La mattina dello scorso 13 dicembre, Rosarno fu svegliata dal chiasso degli immigrati. Erano in centinaia sulla via nazionale, come ogni mattina d’inverno. Ma non per cercare lavoro, bensì per protestare. La sera prima infatti due ragazzi ivoriani di 20 e 21 anni erano stati feriti a colpi di pistola da due giovani rosarnesi, mentre rientravano alle baracche della Cartiera dal lavoro negli aranceti. Marciavano diretti alla piazza del municipio con un cartello “Africani no criminali” e rovesciando i cassonetti.
In mezzo a loro c’era un unico rosarnese, un signore sulla cinquantina. Stava accompagnando la nipote a scuola. Chiese cosa fosse successo, non sapeva nulla della sparatoria. E allora decise di accompagnarli fino al municipio, “per capire cosa stava succedendo” e per calmare gli animi dei pochi che cercavano di divergere i cartelli della segnaletica stradale. In paese c’era una psicosi generale. Non si era mai visto nulla di simile. La gente guardava dalle finestre. Ricorda l’odore. L’odore forte. L’odore della miseria.
E’ un testimone prezioso. Come molti anziani rosarnesi, ha una azienda agricola. E come molti, impiega anche lui immigrati senza documenti per la raccolta degli agrumi. Ogni anno, dà lavoro a quattro persone. Va lui a prenderli con la macchina. Ogni anno sceglie persone diverse, come capita. “Stavo buttando la spazzatura e ho appoggiato il sacco a terra, per chiudere il bagagliaio. In quel momento uno di questi africani aveva tirato il sacco nel cassonetto e mi chiedeva se avevo lavoro. E io gli ho detto guarda cercava proprio quattro persone. E allora è andato a chiamare tre amici e li ho portati in campagna. Poi usi gli stessi. Ci si dà appuntamento per l’indomani mattina”.
Come gli altri agricoltori, li paga 25 euro al giorno per sette ore di lavoro. Dalle otto alle dodici. E dalle tredici alle sedici. La paga prevista nella provincia di Reggio Calabria sarebbe di 32. Che con i contributi gli costerebbero 40. “Ci pagano troppo poco, non possiamo dargli di più” si giustifica. “Però mio padre insiste sempre per farli lavorare un po’ di più. Se in tre giorni è finito il lavoro lui li chiama un’altra giornata, così fanno 100 euro”.
E’ convinto di aiutarli. “Ogni mattina la vivo come un calvario. Ogni volta che passo dalla via nazionale. Tutti che ti alzano la mano e ti chiedono di farli lavorare e tu che non puoi aiutarli perché non ne hai bisogno”. Dopotutto anche volendo non gli si potrebbe fare il contratto perché non hanno i documenti. La storia va avanti da vent’anni. Alla fine degli anni Ottanta, racconta, erano iniziati ad arrivare i marocchini. Vivevano in una masseria abbandonata, in campagna. Lui che non abitava distante, un giorno decise di portare loro qualcosa da mangiare. Lo ringraziarono e lo invitarono a entrare. Ricorda che c’erano dei cartoni a terra, sopra i quali dormivano. E che non c’era luce né acqua corrente. “Sono passati vent’anni – dice con amarezza — e non si è fatto nulla. Loro sono aumentati e noi abbiamo perso la sensibilità”
Il parroco rosarnese che a Natale mise un Gesù nero nel presepe
All’inizio del ventesimo secolo, suo nonno emigrò in America. Quando tornò comprò della terra, ci piantò degli aranci e la lasciò in eredità ai fratelli. Anche la famiglia di don Pino, parroco della chiesa di San Giovanni Battista, a Rosarno, è proprietaria di un giardino di aranci. Il sacerdote ha fatto discutere in paese, quando a Natale, in segno di solidarietà con gli immigrati della Cartiera, ha messo un Gesù nero nel presepe.
La Caritas, di cui è responsabile, da una decina d’anni offre una mensa agli immigrati, tre sere a settimana. “I primi arrivarono alla fine degli anni Ottanta, erano tutti maghrebini”, racconta don Pino nel suo studio, sotto il ritratto di una Madonna della Romania. Lui è parroco a Rosarno dal 1972. E di braccianti stranieri ne ha visti passare migliaia. Ogni anno. All’inizio erano marocchini, tunisini e algerini. Poi arrivarono gli africani, negli anni Novanta. E ultimi gli est europei. Prima ukraini e polacchi, poi bulgari e rumeni, oggi preferiti perché in quanto neocomunitari fanno passare meno rischi nel caso di controlli dell’ispettorato del lavoro.
Ma l’arrivo stagionale dei braccianti per la raccolta delle arance c’era anche prima. Negli anni Sessanta e Settanta arrivavano dalla costa ionica calabrese, e le maestranze salivano dalla Sicilia. Ne è una prova – sostiene il sacerdote — il fatto che molte dei 15.000 abitanti del paese hanno origine di altre province. Don Pino conosceva anche Andrea Fortugno, il ragazzo accusato di aver sparato ai due ragazzi ivoriani lo scorso 12 dicembre, dopo una rapina andata male. Veniva in parrocchia. Non crede si tratti di un atto razzista. E non crede che Rosarno si possa definire razzista. “La gente aiuta nel limite del possibile”. Le aggressioni sono opera di pochi giovani, “cresciuti all’interno di una cultura mafiosa e delinquenziale, nella logica di andarsene in giro a fare quello che vogliono impunemente e di ottenere tutto con la violenza, anche rapinando uno di quei poveretti”. Al momento dei saluti, incontriamo Norina Ventre, 85 anni, meglio conosciuta come Mama Africa. Già perché nonostante l’età, ogni domenica dà da mangiare a cento persone, alla Rognetta. Anche lei è uno dei volti dell’altra Rosarno di cui parlava don Pino.
Rosarno ha una storia: le lotte del bracciantato nel dopoguerra
Rosarno ha una storia. Ed è una storia di lotte contadine. Che con le occupazioni delle terre del demanio fecero di questo poverissimo borgo una ridente cittadina nell’immediato dopoguerra. Quella storia è disegnata su un affresco sul muro della posta centrale, in piazza Valarioti. Un uomo e una donna con un neonato in braccio, seguiti da un gruppo di contadini, marciano a testa alta in mezzo a oliveti e aranceti. Due generazioni dopo, a sfruttare il lavoro nero dei braccianti stranieri, sono i figli di quegli stessi contadini. La maggior parte dei terreni infatti è di piccoli proprietari, spesso eredi dei braccianti a cui vennero redistribuite le terre nel dopoguerra.
La Guerra aveva distrutto la già fragile economia calabrese. Braccianti e contadini erano più poveri di prima. Interi paesi erano senza strade, senza luce, senza acqua corrente, senza cimiteri, medici e scuole. Le prime occupazioni iniziarono nel settembre del 1944 a Casabona, in provincia di Krotone. Le truppe alleate non intervennero. Il movimento di occupazione delle terre dei latifondi iniziò a prendere forma, soprattutto nel crotonese. Il 28 novembre 1946 cadde la prima vittima. Giuditta Levato, uccisa per mano del fattore di un agrario, a Calabricata. Il 29 ottobre 1949 durante un’occupazione a Melissa, la polizia aprì il fuoco sui contadini. Morirono tre persone: Angelina Mauro, Francesco Nigro e Giovanni Zito. Altri 14 rimasero feriti. Due anni prima, il primo maggio 1947, si era consumata la strage di Portella della Ginestra, a Palermo, dove i banditi di Giuliano avevano ucciso 11 contadini.
E’ in questo clima che a Rosarno la cooperativa Primo Maggio di Enzo Misefari del Partito Comunista italiano, inizia le occupazioni dei circa 2.000 ettari di bosco di proprietà del demanio, intorno al borgo. I primi che occuparono le terre, furono arrestati dalla polizia di Scelba. Ma alla fine si procedette alla redistribuzione. Le terre venivano misurate con uno spago, da cui venne la misura di 6.660 metri quadrati della “cota”. Ogni bracciante aveva diritto a mezza cota. La coltivazione di arance non iniziò subito. All’inizio venivano usati per coltivare legumi e angurie.
Le famiglie contadine erano numerose, contavano sette o otto figli. Ogni mattina scendevano tutti in strada per cercare lavoro nei campi, come fanno oggi gli immigrati. Al bosco poi c’era la zona dei carcerati. “Ai carcerati” si chiamava. Erano terre che erano state riservate ai militanti finiti in carcere per le occupazioni e che vennero loro assegnate alla loro liberazione. Allora Rosarno era molto povero. Al punto che uno dei suoi quartiere veniva chiamato Corea, e i suoi abitanti coreani, perché ricordavano le immagini dei profughi coreani sotto le bombe americane in quegli anni.
Solo a metà degli anni Sessanta il Consorzio della bonifica realizzò l’irrigazione e si poté iniziare a piantare gli agrumi. Per le famiglie contadine fu una manna. Tutti i membri della famiglia lavoravano alla coltivazione. Ed era molto redditizia. Con gli incassi si riuscivano a costruire case e a sposare figli. Da cui il proverbio dialettale: “’Cu ‘na cota i giardino si izavano case e si maritavano figghie

Formato per la citazione:
Fortress Europe. “Arance amare: a Rosarno, tra i braccianti immigrati”. terrelibere.org, 02 febbraio 2009, http://www.terrelibere.org/arance-amare-a-rosarno-tra-i-braccianti-immigrati
 

Paraguay, intervista al senatore del Partito Liberale Alfredo Luís Jaeggli

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Quest’intervista realizzata da tre giornalisti argentini della Radio Nacional di Buenos Aires il 17 dicembre 2009 al senatore del Partito Liberale Alfredo Luís Jaeggli,  conferma in modo inequivocabile le voci di un processo di impeachment  al quale il Parlamento del Paraguay sta cercando di sottoporre il presidente Fernando  Lugo per permettere al vicepresidente Federico  Franco di assumere il mandato.  Un “golpe istituzionale” come quello realizzato in Honduras. L’intervista è sconcertante. Si legittima il golpe (perché tale sarebbe) in nome della libertà di applicare nel paese quelle politiche neoliberali che a detta di Luís Jaeggli hanno per esempio fatto il Cile di Pinochet un paese dal quale trarre esempio. Scavalcare la volontà popolare in nome di un “noi” ripetuto varie volte nel corso dell’intervista. Un “noi” che sarebbe stato interessante chiedere al senatore a che percentuale della popolazione del paese si riferisce … (AM)
Programma “Carbono 14” , Radio Nacional, Buenos Aires Argentina, 17 dicembre 2009
Intervista realizzata dai giornalisti Pedro Brieger (PB), Eduardo Anguita (EA) e Miriam Lewin (ML)
PB – A proposito della situazione complicata in Paraguay e  per capire qualcosa di più di quello che sta succedendo,  abbiamo deciso di intervistare il senatore liberale Alfredo Luís Jaeggli, presidente della commissione finanze e della bicamerale sulla legge finanziaria. Lo salutano da Radio Nacional Pedro Brieger, Eduardo Anguita y Miriam Lewin.
ALJ – Buona sera, come stanno gli amici argentini? Sono Alfredo Luis Jaeggli, senatore liberale presidente della commissione finanze e della bicamerale sulla legge finanziaria di quest’anno.
PB – Senatore ci spiega quello che sta succedendo in Paraguay. Si  sta parlando molto di un possibile impeachment al presidente Lugo. Di cosa si tratta?
ALJ – Guardi, si sta parlando veramente  di impeachment. La discussione non è ancora ad un livello formale all’interno del partito liberale e dico “ non ancora” perché c’è un gruppo di senatori, tra i quali il sottoscritto,  che è a favore di un giudizio politico del presidente. Non si stanno realizzando quelle promesse e quei  cambiamenti che il Partito Liberale si era impegnato ad attuare e quindi c’è una divisione all’interno dello stesso rispetto al giudizio politico al presidente Lugo. In tal caso il vicepresidente Federico Franco assumerebbe la presidenza.
PB – Dal momento in cui il Parlamento avvia  l’impeachment deve assumere la presidenza il vicepresidente? Qual’ è l’iter giuridico?
ALJ – L’accusa formulata dalla Camera dei Deputati deve essere trasmessa ai senatori, c’è bisogno di 30 voti e noi siamo 45 e quindi va avanti il giudizio politico, come ben sapete. Questo ovviamente comporta  instabilità e turbamento  ma …
EA – Durante l’epoca di Stroessner si viveva meglio in Paraguay?
ALJ – No, no, no, sotto nessun punto di vista.
EA – Allora perché la necessità di forzare una situazione per impedire che un presidente termini il suo mandato?
ALJ – Io vi dico che il Paraguay è l’unico paese insieme ad Haiti e Cuba che non ha ancora fatto riforme di modernizzazione. Voi avete avuto la vostra modernizzazione, lo sapete bene,  con il governo di Menem. Sapete a cosa  mi riferisco. Anche il Brasile e anche  che l’Uruguay, anche la Bolivia che purtroppo  ha avuto un ritorno involuzione. Il Paraguay sta ancora come negli anni ’50, le istituzioni sono completamente obsolete, c’è bisogno di riforme moderne e questo è uno dei problemi che ha il Presidente Lugo…
ML – Scusi, che intende lei per riforme moderne?
ALJ – Le spiego rapidamente, lei sa che il Paraguay è ancora produttore di canna. Le sembra possibile che uno Stato possa produrre canna? Lei sa cosa è la canna vero? Bene,  c’è una produzione  di canna che è in perdita. Le sembra che questo possa essere uno stato moderno?

PB – Il presidente Lugo quindi rappresenta un ostacolo per questa modernizzazione?

ALJ – Si, si si, infatti, come le  sto dicendo …
PB– Quindi la cosa migliore è metterlo da parte e che assuma la presidenza Franco il quale potrebbe dare impulso alla modernizzazione.
ALJ – Per lo meno questa è la mia idea e quella di molti altri. Non possiamo tornare indietro, dobbiamo avviare una rivoluzione. Abbiamo avuto 60 anni di dittatura! Di vandalismo, di sofferenza. Dobbiamo democratizzare, dobbiamo rendere attraente questo paese agli investimenti.
EA – Ah ecco, quindi per far arrivare investimenti stranieri  mettereste da parte Lugo per quella che voi chiamate sicurezza giuridica
ALJ– Non solo investimenti stranieri, ma anche fantastici, formidabili investimenti nazionali. Quelli nazionali! Sappiamo che ci sono ingenti somme di denaro ma per l’insicurezza giuridica e politica che abbiamo nel paese, nessuno investe i suoi soldi …
 EA–  É qualcosa di simile a quanto accaduto in Honduras, cacciare Zelaya affinché sia più sicuro il capitale da investire.
ALJ– Guardi, ho idee diverse da quelle che ha lei rispetto a quanto accaduto in Honduras , me ne rendo conto.  Faccio parte della Fundación Libertad e la Fundación Libertad fa parte della Fundación Naumann. Il  presidente honduregno aveva assunto il mandato  secondo un modello neoliberale ma poi lo ha tradito e si é dato al socialismo del secolo XXI. Scusatemi ma quello che é successo in Honduras per me é assolutamente legale.
EA– Assolutamente legale?
ALJ– Dal mio punto di vista.
PB– Per questo potrebbe accadere qualcosa di simile in Paraguay come lei segnala, per questo sarebbe legale un impeachment per far assumere la presidenza al vicepresidente Franco. Non stiamo parlando di uno strappo  alla Costituzione in nessun momento…
ALJ– In nessun momento e sotto nessun punto di vista. Qui il giudizio politico é costituzionale, é totalmente regolamentato e lo decidono i voti …
ML– Quali sarebbero i crimini  di cui è accusato il presidente? Quali sarebbero le omissioni commesse da Lugo nell’esercizio dei suoi doveri secondo il suo punto di vista?  Perché fino a questo momento quello che lei sta dicendo è soltanto che si tratta di un ostacolo per l’applicazione delle politiche neoliberali che lei invece sostiene … In nessun momento ha indicato però secondo il suo punto di vista cosa è che giustifica un giudizio politico …
ALJ– Lei sa che cosa é un giudizio politico? Sa qual’é la differenza tra giudizio politico e giudiziario? Nel giudiziario  uno deve essere un delinquente, un assassino,  in un giudizio politico ci sono 30 senatori e 43 deputati che affermano che questo non va più bene, che non funziona. È semplice, mi perdoni…
ML– Ma ci devono essere dei motivi.  Lei ci può dire quali sono?
ALJ– Il primo é che questo povero paese non ha nessuna possibilità di cambiamento e con questo signore avremo un’involuzione invece di una rivoluzione, questo signore quello che vuole é cancellare i partiti e  dare denaro alle organizzazioni sociali. Quello che vuole é presentare come una panacea il socialismo del XXI secolo e per la maggior parte nella Camera dei Deputati e in quella dei Senatori, che siamo rappresentanti eletti, non é così. Noi dobbiamo fare il contrario di tutto ciò. A noi non piace quello che sta succedendo in Bolivia , in Venezuela e nemmeno in Argentina, dobbiamo essere onesti. E meno che meno in Nicaragua. Forse ci stiamo sbagliando, ma gli indici economici di Bolivia e Venezuela sono peggiorati molto rispetto al  passato  e allora quello che vogliamo evitare è questo, perché qui la povertà è estrema e dobbiamo mandare avanti questo paese. Dobbiamo far sì che ci siano industrie, investimenti che l’economia cresca, dobbiamo democratizzare, aprire il paese e questo signore vuole fare tutto il contrario …
ML– In quali paesi dell’America latina questi piani economici di orientamento neoliberale hanno diminuito la povertà?
ALJ– In Cile. Non le sembra? Non é d’accordo con me? O lei crede che i socialisti in Cile sono quelli che hanno fatto crescere l’economia, non hanno cambiato nemmeno il diritto del lavoro. Il diritto del lavoro è ancora quello di Pinochet,  che crede!
ML– E a lei sembra positivo questo?
ALJ– Che crede! Il Cile é l’esempio del progresso. Perché ci sono meno poveri, la gente lavora, c’è benessere e democrazia.
ML– Mi sembra strano senatore che lei non abbia ancora fatto riferimento alle abitudini personali del presidente Lugo e glielo domando come donna.
ALJ– Guardi,  in tutta onestà le dico che sono pratico e molto sincero. Se Lugo avesse avuto la condotta  morale che ha avuto ma avesse fatto delle  riforme che avessero portato benefici come li hanno portati in Cile…
ML– Ah!  Non ho più  domande grazie.
EA– Buona sera senatore.
ALJ– Grazie, arrivederci.
PB– Abbiamo parlato con  Alfredo Luis Jaeggli,  senatore liberale presidente della Commissione Finanze e della bicamerale sulla legge finanziaria,  che in qualche modo conferma le voci che stanno circolando rispetto a un giudizio politico contro il presidente Fernando Lugo e di una destituzione alla maniera honduregna– come si sta iniziando a utilizzare adesso – pensando in un colpo di Stato  non guidato da militari ma condotto dai propri parlamentari. Dargli un volto di costituzionalità per discutere dopo sulla sua legittimità o meno, ma da lontano, prendendo esempio dall’Honduras. Il golpe si mantiene e il destituito non può tornare al potere.
Traduzione Annalisa Melandri
 

 

 


Filastrocca PRO INCENERITORI al Museo della Scienza e della Tecnica di Milano

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I bambini in visita al Museo della Scienza e della Tecnica di Milano possono ammirare il modellino dell’inceneritore Silla2 dell’AMSA (Azienda Milanese Servizi Ambientali) e leggere su dei pannelli una istruttiva filastrocca.
Il sacco esce di casa e lo attende un’avventura. Sale su un grande camion pieno di spazzatura. Fin dalla tangenziale si vede un gran camino, che sembra ancor più alto se visto da vicino. Il camion in via Silla si ferma ad un cancello, e dietro c’è l’impianto, si dice che sia bello! La botola si apre e i sacchi fanno un volo, giù tutti in una vasca, nessuno resta solo. Il secco brucia bene, sviluppa un gran calore, così si scalda l’acqua per farne del vapore. La cenere rimasta vien recuperata, infine il fumo esce, la polvere è filtrata. Che possa esser nocivo, qualcuno ha un po’ paura. Né zolfo, né diossine! L’ARPA ce lo assicura.”. Gli
inceneritori causano tumori, il Museo della Scienza(?) e della Tecnica gli dedica filastrocche. Inviate anche voi la vostra filastrocca sugli inceneritori al direttore del museo Fiorenzo Galli, mail: href=“direzioneatmuseoscienzadotit“>direzione@museoscienza.it


L’arroganza dei soliti noti

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“L’inviato di Obama dovrebbe sapere meglio di chiunque altro che la perdita di sicurezza giuridica ed economica è stata generata da loro (gli statunitensi) con la crisi finanziaria”. Così ha replicato l’ex presidente argentino Néstor Kirchner ad Arturo Valenzuela, sottosegretario  del Dipartimento di Stato Usa per l’America Latina  che durante la sua visita in Argentina ha dichiarato che nel paese esiste “insicurezza giuridica”.
“Valenzuela crede che ancora esistano i viceré” ha concluso Kirchner.

Nasce il Movimento Continentale Bolivariano

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di Giorgio SabaudoVaccamagra.blogspot.com
Caracas, dicembre 2009
Abbiamo partecipato, documentandola, alla nascita del Movimiento Continental Bolivariano. La dinamicitá e l’energia sentita ha ‚a tratti, commosso e dato speranze.
Il 7, l’8 e il 9 di Dicembre si é tenuta a Caracas la costituente. Trenta delegazioni da tutto il mondo hanno contribuito e agito intensamente per la creazione dal basso di questo nuovo attore politico, sociale e di lotta mondiale.
L’associazione bolivariana de prensa da tempo aveva lanciato pubblicamente questo incontro che si é aperto il 7 all’auditorium del Parque central di Caracas.
Circa duemila delegati hanno partecipato intensamente in questi tre giorni lavorando a quattro differenti tavoli di lavoro.
Tra questi erano  presenti Héctor Acevedo (poeta salvadoreño), Iñaki Gil de San Vicente (intellettuale basco), María Gurutxiaga (attivista femminista basca), Miguel Ángel Sandoval (ex candidato alla presidenza del Guatemala), Néstor Kohan (intellettuale argentino), Luís Barrios (sacerdote portoricano residente negli Stati Uniti) e tanti altri..
Le tavole di lavoro avevano come obiettivi:
.Il primo aveva il compito di sviluppare le strategie, le controffensive e la resistenza alla crisi economica e all’attacco imperialista in atto.
.Il secondo ha analizzato il ruolo dei movimenti sociali nella continentalizzazione delle lotte al fine di articolare, per un futuro sempre piú prossimo, i vari attori sociali per fare un fronte comune all’offensione neo e ultraliberale.
.Il terzo ha preso in considerazione i diritti umani e i diritti internazionali umanitari documentando la loro costante violazione nel mondo.
.L’ultimo tavolo ha avuto il compito di creare una rete internazionale dei mezzi e dei comunicatori bolivariani.
I quattro gruppi hanno lavorato per due giorni finendo col lanciare innumerevoli proposte e vari dibattiti che sono state incluse nella Dichiarazione di Caracas del 9 Dicembre 2009.
All’incontro ha partecipato gente da tutto il sud e centro America; delegazioni turche che hanno denunciato il genocidio curdo; baschi che hanno denunciato la repressione spagnola; francesi, australiani, statunitensi..
L’idea (attuata) era quella di creare un unico blocco che unisse tutte le varie forze di resistenza antimperialiste centro e sudamericane.
Per questo motivo la Costituente é stata aperta con un messaggio audiovisuale di Alfonso Cano, líder delle Farc-Ep (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia– Esercito Popular) che ha espresso la sua soddisfazione per questo nuovo passo verso una unitá bolivariana antimperialista:
 
 
 
La reazione del governo colombiano del presidente Alvaro Uribe e dell’alto comando militare, rappresentato dal generale Padilla, non s’é fatta attendere e l’8 la Costituente ha ricevuto una lettera dello stesso Padilla; questa minacciava di perseguire la presidenza collettiva del MCB se non avesse pubblicamente rifiutato la solidarietá e l’appoggio di Alfonso Cano delle Farc.
A sua volta la risposta della Costituente é stata radicale e il giorno seguente Alfonso Cano é stato nominato membro della Presidenza collettiva del Movimento Continentale Bolivariano.
Uribe e soci hanno chiesto l’estradizione dai loro rispettivi paesi per tutti i membri della presidenza e a tutti i firmatari della costituente.
Il MCB, essendo un movimento antimperialista continentale, appoggia tutte le forme di resistenza popolare al neoliberismo e all’imperialismo:
Non puó non incorporare una forza belligerante che esiste dal 1964 in Colombia, paese che vive una guerra civile ormai da decenni.
Il MCB incorpora il concetto di diversitá rivoluzionaria dei popoli oppressi portando solidarietá alla resistenza curda, afghana, irachena, palestinese, basca e a tutti i popoli oppressi del mondo.
Il MCB ha tra i suoi obiettivi:
.La lotta contro l’imperialismo attuando una strategia continentale di potere popolare partendo dalle esigenze locali sentendo come propria ogni ingiustizia nel mondo
.L’integrazione latinoamericana per un nuovo modello di uguaglianza e giustizia sociale che punti sulla difesa delle risorse.
.La liberazione di tutti i prigionieri politici dell’Impero:
Tra questi quella dei cinque cubani arrestati a Miami, quella di Carlo Alberto Torres, membro del Movimento rivoluzionario portoriqueño, incarcerato da 28 anni e del venezuelano Illich Ramirez (Comandante Carlos), incarcerato in Francia per aver intrapreso la lotta armata in favore della causa palestinese (nel Fronte popolare per la liberazione della Palestina).
Il fratello presente alla costituente ha denunciato le sue precarie condizioni di salute e la violazione dei diritti umani attuata dal regime carcerario francese.
.Una convocatoria internazionale per il primo di Marzo del 2010 in solidarietá alla lotta popolare messicana e alle vittime della repressione.
.La denuncia dell’imperialismo nordamericano incarnato dalle basi militari ad Haiti, nelle isole caraibiche olandesi, in Honduras, Colombia, Medio Oriente, Europa.
.La nascita di una scuola continentale culturale, umana, politica e strategica per la creazione di nuovi quadri politici bolivariani.
.La creazione di una rete di intelligenza e di contrintelligenza bolivariana.
.L’appoggio attivo alla resistenza portoriqueña e a quella del Fronte di Resistenza Hondureño che deve essere riconosciuto come forza belligerante.
.L’appoggio allo sciopero generale  in Porto Rico che sará il 9 Gennaio del 2010.
.Una unitá internazionale che porti alla nascita di una Quinta Internazionale.
.Superamento della societá patriarcale e un incontro culturale e politico in favore delle donne del mondo.
.La creazione di una Carta Bolivariana dei diritti umani che incorpori il diritto di Resistenza in risposta alla violazione dei diritti umani e in favore dell’autodeterminazione dei popoli di tutto il mondo.
.Essere avanguardia di lotta nella difesa delle popolazioni indigene e delle risorse naturali.
Padri intellettuali del Mcb sono Manuel Marulanda (creatore delle Farc Ep nel ’64), José Artigas, Simon Bolivar, José Martí, Ernesto Guevara, Antonio Sucre e Emiliano Zapata.
 
Tra i membri della presidenza collettiva sono presenti:
–Salvador Tió, avvocato portoriqueño in difesa dei diritti umani.
–Mirella Baltra, ministro del lavoro durante il governo cileno di Salvador Allende.
–Alfonso CAno (Farc-Ep)
–Behel (Movimento internazionalista turco)
–Narciso Isa Conde (politico e scrittore dominicano. Combattente contro il tiranno Trujillo e gli invasori nordamericani nel 1965)
–Carlos Reyes (uno dei leader ed ex candidato alla presidenza del Fronte di Resistenza contro il Golpe in Honduras)
Segue la DICHIARAZIONE DI CARACAS del 9 Dicembre del 2009:
 
‘Hoy 09 de diciembre de 2009, a los 185 años de la trascendente batalla de Ayacucho que puso fin al colonialismo español y dio inicio a nuestra primera independencia…
Desde Caracas, cuna del libertador, capital de la revolución bolivariana liderada por el comandante Chávez, declaramos ante los pueblos del mundo:
¡Somos movimiento continental bolivariano!, después de transitar por la fructífera ruta de la Coordinadora Continental Bolivariana (CCB).
Somos Movimiento Continental Bolivariano (MCB) para asumir con inteligencia y pasión revolucionaria la causa heroica de la Patria Grande y el socialismo emancipador.
Somos “pensamiento y acción fundidos en armas contra las injusticias”. Unidad desde una gran diversidad y combinación de distintas identidades políticas, sociales, culturales revolucionarias.
Somos la conjugación de variadas formas y métodos de lucha.
En esta hora crucial para nuestros pueblos asumimos con determinación las respuestas que desde variadas resistencias y ofensivas en marcha ameritan el pérfido y desesperado contra-ataque que desde su evidente declinación como imperio ha emprendido contra nuestros pueblos la militarizada súper-potencia del “Norte revuelto y brutal”
La revolución bolivariana, punto de partida junto a la insurgencia zapatista en México, de esta nueva y promisoria época; y la heroica revolución cubana, principal conquista de los pueblos del continente americano en este siglo XX, serán defendidas con alma y corazón por nuestro movimiento. ¡Con sangre cargada de indignación si fuera necesario!
Los avances políticos y sociales de diferente calado en Ecuador, Bolivia, Nicaragua, El Salvador, Uruguay, Brasil… y muy especialmente la que encarna el ALBA y todo aquello que apunte en dirección a la autodeterminación, a las reformas avanzadas y a las transformaciones revolucionarias– así como a las perspectivas de profundización y ampliación de esos procesos– tendrán en el naciente MCB un bastión de solidaridad y de impulso desde las resistencias y las ofensivas de nuestros pueblos.
Contribuir a derrotar el régimen golpista en Honduras y abrir cauce a la constituyente popular es un compromiso de honor.
Enfrentar todo intento de golpe similar en Paraguay o donde sea, es un deber insoslayable.
Haremos hasta lo imposible para contribuir a aislar , acorralar y derrotar el engendro cipayo y narco-para-terrorista que representa el régimen de Álvaro Uribe, impuesto a sangre y fuego en ese hermano país con pretensiones de expansión a otras naciones de la región.
Contribuiremos al canje humanitario de prisioneros y prisioneras y a la solución política del conflicto armado colombiano en procura de la paz anhelada.
No hay chantaje sobre el planeta que nos conduzca a renunciar al merecido respaldo a la insurgencia y a todas las fuerzas sociales, políticas y democráticas que representan la libertad y emancipación del pueblo colombiano. La misma actitud asumimos frente a la insurgencia indígena Mexico y en cualquier parte del continente.
La arrogancia, la agresividad y la vocación guerrerista de un imperialismo decadente y senil, empecinado por imperiosas razones de sobre-vivencia e incierta continuidad a apropiarse mediante la fuerza militar del valioso patrimonio natural de nuestros pueblos, a intentar revertir su ofensiva transformadora y a desestabilizar y erradicar los gobiernos revolucionarios y progresistas de la región no nos atemorizan. Nadie podrá arrebatarnos lo conquistado.
Nadie podrá apoderarse impunemente de las fuentes de agua, biodiversidad, minerales, mares, bosques, playas, reservas científicas y valores culturales. ¡Ese pleito esta cazado y vamos a triunfar!
Desde nuestros territorios poblados por nuestros pueblos originarios, trabajadores y trabajadoras, campesinos y campesinas, jóvenes, niños y niñas, comunidades rurales y urbanas, mujeres discriminadas, iglesias de los pobres , negros /as, mestizos/as, etnias discriminadas, artistas e intelectuales, cooperativistas y productores nacionales…vamos a librar las luchas necesarias para preservar y asumir colectivamente esas riquezas, para impedir su conversión en fuentes de explotación , expansión y lucro del gran capital criollo y transnacional. Igual los acompañaremos en su insumisión frente a todas las modalidades de explotación, dominio y exclusión de que son víctimas.
Seremos luchadores por la liberación de los presos políticos colombianos, venezolanos, hondureños, vascos, peruanos y puertorriqueños que cumplen condenas por sus luchas libertadoras y solidarias en las cárceles de los imperios y de los gobiernos antidemocráticos de América, Europa, África, y Asia.
Nuestras queridas patrias chicas, camino a conformar la Patria Grande soñada por Bolívar, tendrán en el MCB un defensor inclaudicable frente a los desmanes de los imperialismos norteamericano y europeo.
Las bases gringas en Colombia, Honduras, Puerto Rico y en todo el continente habrán de enfrentar pronto el clamor y la movilización que las aísle; al tiempo que potencie la reacción capaz de disuadir los perversos planes de guerras que implican su presencia y expansión en Nuestra América, y que en caso de ejecutarse puedan ser derrotados por nuestros pueblos.
La unidad antiimperialista será una de nuestras divisas relevantes. Confluiremos en todas las iniciativas que la amplíen y fortalezca.
No habrá causa justa en el mundo que no cuente con nuestro concurso militante. Las resistencias y luchas de los pueblos de Irak, Irán, Afganistán, Pakistán, Kurdistán, Turquía, Euskal Herria, Galicia, República Saharaui, y otros pueblos de África, tendrán en el MCB un aliado firme y leal.
Las demandas y los combates de las y los inmigrantes del tercer mundo en Estados Unidos y en Europa serán apoyadas con determinación. No habrá presos ni presas en las cárceles del imperio y de los estados represivos a los que no llegue nuestro clamor de libertad.
El colonialismo en Puerto Rico, las Malvinas y en todo el Caribe insular y en el mundo nos tendrá de frente.
¡ABAJO LAS COLONIAS! ¡VIVA LA LIBERTAD DE LOS PUEBLOS!
¡SOMOS MCB!
¡SOMOS DEMOCRACIA VERDADERA, ANTI-IMPERIALISMO, ANTI-CAPITALISMO!
¡SOMOS SOCIALISMO SIN CALCO NI COPIA, SOMOS TRANSICIÓN CREADORA HACIA ÉL!
¡SOMOS REENCARNACIÓN COLECTIVA DEL LIBERTADOR, DEL CHE, DE LOS HEROES Y HEROINAS DE AMERICA!
¡SOMOS NUEVA INDEPENDENCIA!
NACIMOS HOY CONMEMORANDO AQUEL GLORIOSO AYACUCHO PARA DESDE SU INAGOTABLE FUENTE DE INSPIRACION CONTRIBUIR AL NUEVO Y DEFINITIVO AYACUCHO!
¡PARA CREAR PATRIA GRANDE Y SOCIALISMO!
¡SOMOS MCB PORQUE EN BOLÍVAR Y LAS Y LOS PRÓCERES DE NUESTRA AMÉRICA NOS ENCONTRAMOS TODAS Y TODOS!
¡HASTA LA VICTORIA SIEMPRE!
CARACAS, 9 DE DICIEMBRE DE 2009′
Pubblicato da Vaccamagra a 08.07

Conosci i tuoi diritti: piccolo manuale di orientamento per i lavoratori e le lavoratrici migranti

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Il collettivo  Primo Maggio ha pubblicato questo interessante manuale di orientamento per lavoratori e lavoratrici migranti, potete farlo girare o stamparlo e diffonderlo dove credete piu’ opportuno.


Luca Tornatore libero!

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Luca Tornatore sta passando le festività in carcere, si spera che il suo processo avvenga quanto prima. E’ possibile firmare la petizione alle autorità danesi anche qui.

Oltre a Luca sono in carcere a Copenhagen in attesa di processo il direttore di Green Peace Spagna, Juan López de Uralde e gli attivisti della stessa organizzazione la norvegese Nora Christiansen,  l’olandese Joris Thijssen e lo svizzero Christian Schmutz che avevano cercato di partecipare ad una cena del vertice come rappresentanti dello “Stato di Greenpeace” aprendo uno striscione che recava la scritta : i politici parlano e i leaders agiscono”

Chi ascolta quotidianamente  Radio Onda Rossa ha l’opportunità di  avere una copertura pressoché totale degli  avvenimenti di Copenaghen, con dirette dalle manifestazioni, interviste e collegamenti audio.
Particolarmente seguita e monitorata è la situazione degli arresti e della repressione poliziesca.
Allego inoltre qui di seguito questo appello (pubblicato  qui) per il rilascio di Luca Tornatore, il ricercatore arrestato nei giorni scorsi al termine di un dibattito con accuse pesantissime e completamente false. La prossima udienza è per il 12 gennaio, quindi Luca  dovrà passare le festività in carcere in Danimarca. Luca è stato il solo arrestato dopo un fermo di  circa 150 persone. Volto noto durante i dibattiti e le assemblee e sempre presente pubblicamente con interventi e iniziative pacifiche, è stato volutamente e arbitrariamente allontanato dai luoghi di discussione e dibattito.
Consiglio di inviare l’appello anche all’ambasciata della Danimarca in Italia, meglio se con Raccomandata A/R:
Ambasciata Danimarca in Italia
Via dei Monti Parioli 50
00197 Roma
e per mail all’ambasciatore Gunnar Ortmann  
href=“romambatumdotdk“>romambatumdotdk 
e alla segretaria
Pernille Almind Bosi Tel. +39 06.9774.8333
E-mail
href=“peralmatumdotdk“>peralmatumdotdk 
 
Per le adesioni scrivere a :
giuseppedotcacciaatunitodotit
 
  
Copenhagen. Appello per l’immediato rilascio del dottor Luca Tornatore
[16 Dicembre 2009]
Luca Tornatore non è solo un amico fraterno di chi scrive questo appello. Luca è un assegnista di ricerca al Dipartimento di fisica dell’Università di Trieste. E’ uno scienziato, uno di quelli che alla passione e alla voglia di cambiare il mondo uniscono, dunque, una riconosciuta competenza.
Questi sono gli ingredienti che lo hanno spinto, assieme a centina di attivisti ambientalisti italiani, a recarsi a Copenhagen. Luca è nella capitale danese per pretendere giustizia climatica, per confrontarsi all’interno del Climate Forum, per capire e per intrecciare relazioni con chi [come noi e lui] pensa che l’emergenza ambientale debba essere affrontata a partire da una democratizzazione delle decisioni e non attraverso la delega a chi l’ha provocata o a chi la sta peggiorando [siano essi vecchi o nuovi attori di rilievo del panorama geo-politico].
Luca Tornatore si trova oggi in stato di arresto, fermato assieme ad altre decine persone dopo aver partecipato ad un dibattito!! Luca, come centinaia di altri, non ha commesso alcun reato. Il suo fermo è stato confermato non sulla base di prove, ma proprio per punire il suo impegno, la sua visibilità pubblica e la sua competenza.
Ci sarebbe da ridere, ma quello che sta succedendo a Copenhagen non ha precedenti. Il solo fatto di trovarsi per strada rende passibile di fermo, l’arresto preventivo [già di per sé strumento mostruoso dello stato d’eccezione] è stato abusato senza vergogna. Sono stati calcolati più di millecinquecento fermi di polizia, praticamente tutti ingiustificati. La capitale danese, ormai un ex simbolo della socialdemocrazia, si è trasformata in una vera e propria città di polizia.
Noi pretendiamo il rilascio immediato del Dottor Luca Tornatore, prima di tutto perché totalmente innocente, poi perché la sospensione dello stato di diritto, le provocazioni e le menzogne rendono la mancanza di Luca insopportabile per tutti noi e per tutti quelli che condividono, con serietà, le sue preoccupazioni per il futuro del nostro pianeta.
per adesioni scrivere a: giuseppedotcacciaatunitodotit
 

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