Fernando Lugo e Federico Franco
Sono sempre più insistenti in Paraguay le voci di un probabile colpo di Stato che dovrebbe attuarsi secondo le modalità di quello messo in atto il 28 giugno scorso in Honduras. Come si vocifera anche tra gli alti vertici dell’Osa (Organizzazione degli Stati Americani), preoccupati per la crescente tensione nel paese, “nessuno pensa che in Paraguay ci sarà un golpe, ma tutti ne parlano”.
Fernando Lugo ha denunciato che da quando ha assunto la presidenza, nell’aprile del 2008, ci sono stati vari tentativi di destabilizzarlo messi in atto da esponenti del Partido Colorado che è stato al potere nel paese per 60 anni e che è uscito sconfitto nelle ultime elezioni presidenziali. “Dopo decenni di dominio assoluto di uno stesso gruppo politico, non deve sorprendere che fin dal principio di questo governo alcuni settori e personaggi abbiano avuto la tentazione di fermare il processo politico” ha dichiarato Lugo, mentre per sgomberare il campo da sospette alleanze tra politica e Forze Armate ne ha riformato tutti i vertici appena un mese fa.
A dirigere il tentativo di golpe è il vicepresidente Federico Franco, leader del Partido Liberal Radical Auténtico, che guida l’ala conservatrice e più reazionaria della coalizione in cui si trova anche Lugo (Alianza Patriótica para el Cambio). Franco ha in vaie occasioni accusato pubblicamente il presidente di essere un “traditore” e ha detto di “essere pronto ad assumere la presidenza del paese”, nel caso Lugo venga sottoposto a impeachment.
La svolta a sinistra presa dal governo dopo l’elezione del “vescovo rosso” gli ha fatto progressivamente perdere l’appoggio politico di cui godeva in Parlamento e che era stato soltanto funzionale a liberare il paese da decenni di dominazione del Partido Colorado. Alleati strategici di Franco, in quest’opposizione che potrebbe scaturire, come avvenuto in Honduras in un “golpe istituzionale”, sono il presidente del Senato Miguel Carrizosa e il politico ed ex generale Lino Oviedo, controverso personaggio accusato di aver realizzato in passato due colpi di stato, massacri contro alcuni civili e l’omicidio di un vicepresidente, attualmente alla testa del partito di destra UNACE.
Come già avvenuto in Honduras, anche in Paraguay i settori più conservatori della società, rappresentati dai latifondisti, da una classe politica e dirigenziale corrotta e spesso legata al narcotraffico, dal settore imprenditoriale, sono preoccupati per la decisione del presidente Lugo di aderire all’Alba, l’Alternativa Bolivariana per le Americhe. Ma non solo. Sono tante le riforme che il governo sta cercando di realizzare con non poche difficoltà, come rendere gratuite sanità ed educazione, attuare una Riforma Agraria, liberarsi progressivamente della presenza delle forze militari statunitensi e programmare una riforma costituzionale che renda possibile la realizzazione in tempi brevi del progetto sociale riformista in favore dei più deboli ed emarginati.
Gli Stati Uniti, dal canto loro non possono che vedere con preoccupazione crescente il nuovo scenario che si profila all’orizzonte: un paese strategicamente importante (anche per le immense risorse idriche di cui è ricco) come il Paraguay, nel cuore dell’America latina, che lentamente sfugge al loro controllo e che ha intenzione di “restare un paese sovrano” come ha dichiarato in una recente intervista il ministro degli Esteri Héctor Lacognata, che ha respinto la proposta statunitense di inviare nel paese 500 soldati in cambio di 2,5 milioni di dollari da destinarsi per la costruzione di infrastrutture e per attrezzature e spese mediche per le comunità più isolate de paese, nell’ambito di un progetto di cooperazione che prende il nome di Nuevos Horizontes 2010.
L’ambasciatrice statunitense ad Asunción, Liliana Ayalde ha detto che si è trattato di un “duro colpo” se si pensa che si sta parlando “dell’educazione di circa 600 bambini, di assistenza medica per 19mila persone delle comunità povere e di assistenza odontoiatrica per altre 3600.”
Il Paraguay di Lugo, che aderisce all’Unasur, l’Unione delle Nazioni Sudamericane, non può non far proprie le inquietudini dell’America latina integrazionista rispetto alla crescente presenza militare degli Stati Uniti nella regione, testimoniata anche dal recente accordo statunitense con la Colombia per la costruzione di 7 nuove basi militari nel paese andino. La presenza di 500 militari americani è stata pertanto giudicata inopportuna da Palacio de López, la sede del governo ad Asunción e Lacognata ha tenuto a ribadire a coloro che lo accusano di essere portatore di posizioni estremamente ideologizzate, che il suo ruolo è quello di mantenere l’autonomia di un paese che deve restare sovrano. “Non possono venire medici civili a realizzare gli interventi? Non possono venire civili a costruire le scuole?” si chiede il ministro. “Quello che vogliono fare gli Stati Uniti nel nostro paese non è una politica sociale, nel migliore dei casi è carità” ha detto. A voler essere buoni. Perchè quello che gli Stati Uniti vogliono fare in Paraguay è quello che fanno molto più sfacciatamente in paesi zerbino quali ad esempio la Colombia.
Si chiama tattica o strategia in una regione nella quale trovano sempre minori spazi all’interno della sempre maggiore coesione e integrazione economica e politica, ma soprattutto strategica ( e in un prossimo futuro probabilmente anche militare) che si sta organizzando in America latina.
Salvo Colombia, Perú,e in parte il Cile in America del Sud sembra veramente che il “cortile” non abbia più intenzione di rimanere tale.
Segnali preoccupanti fanno tuttavia pensare che i “falchi” del Nord stiano riorganizzando forze e mezzi. Le fragili democrazie come quella del Paraguay farebbero bene a stringere alleanze più solide ma soprattutto a rafforzare gli appoggi interni, che come l’Honduras ha insegnato, non possono essere più soltanto quelli realizzabili sul piano istituzionale e politico, con alleati dell’ultima ora inaffidabili e corrotti o corruttibili, ma devono necessariamente partire da un ampio consenso della base e dei movimenti sociali del paese, dei movimenti indigeni e delle donne. Quelli che come è avvenuto in Honduras hanno anche, e non è solo enfasi, veramente dato la vita per il ritorno del loro presidente legittimamente eletto.
Ricevo dall’ amica e instancabile attivista per la difesa dei diritti umani Diana Avila questo articolo. Sono considerazioni politiche condivisibili e importanti sull’anno che si sta appena concludendo nel Perú di Alan García. E riflessioni amare, su quello che sta iniziando. Illustrato dalle vignette del grande Carlos Tovar (Carlín)
Perú, terminando un año difícil
por Diana Avila Paulette
Finalizamos el año 2009 y ya estamos nuevamente en la campaña electoral 2010 para las elecciones regionales, municipales y las presidenciales el 2011. Alan García, en su segundo mandato tiene solamente quince meses para cumplir sus innumerables “promesas” y dejar el camino libre para que el APRA le asegure un blindaje en el período que viene, contra investigaciones necesarias y cabales frente a la corrupción de su segundo gobierno.
Logros del gobierno, el cinismo, de no al TLC y si al TLC que lo vimos antes que García asumiera. La burla en el cumplimiento de sus promesas. El “Perro del Hortelano” que come mucho y no deja comer, la criminalización de la protesta social, ese es el presidente García.
¿Lo más resaltable? Es una buena pregunta. Cuesta decidir, la corrupción me viene a la mente permanentemente y luego pienso en Bagua, no solamente por Bagua en tanto conflicto con los pueblos amazónicos, postergados de siempre, sino como ejemplo de una forma de enfrentar los problemas del país, con engaños, con “mecidas”, negocio/dialogo y te persigo/te ilegalizo como organización y entonces termino en la criminalización de la protesta social como la tónica de su gobierno. Cómo se ha resuelto Apurímac, Canchis, la lista es muy larga… Lo más permanente criminalizar y perseguir dirigentes sociales, “frases como disparen y luego piensen”. Cuántos muertos en el premierato de Yehude Simon? solamente.
Pensaría en los Petroaudios, Business Track, la alianza con su vicepresidente el Almirante Giampietri, como elementos muy significativos. La corrupción en definitiva y la impunidad total. Si eres ministro/a puedes hacer cualquier cosa y basta que renuncies y quedas en la total impunidad. Está la ex ministra de Comercio, gestora de Tratados de “Libre” Comercio, era ella la que decía que sin los Decretos Legislativos, en la crisis de los pueblos amazónicos en Bagua, el TLC con los Estados Unidos entraría en crisis. Una mentira muy grave. Ahora es Ministra de la Producción. Yehude Simon, responsable de los crímenes de Bagua, como Primer Ministro la acusa, cuando dejó de ser Premier Ministro. Y la responsabilidad de Yehude Simon??!!! La ex ministra del Interior Mercedes Cabanillas, durante la crisis de Bagua, condecorada por la Policía. Otro caso patético y más reciente es el de Frances Allison le ofreció una manifestación de apoyo, públicamente, cuando era Alcalde de Magdalena. Nombrado Ministro de Vivienda, donde se mueven proyectos y dineros muy relevantes. Aparece ligado a Business Track y los Petroaudios famosos y renuncia. Se va tranquilo y luego de sus vacaciones lo apresan en Miami por llevar 50,000 dólares, dinero no declarado. Evidentemente un error de cálculo!
Ese ha sido y es el país de Alan García, donde él come y no deja comer a los y las excluido/as. Lo que viene el próximo año, más concesiones a las grandes empresas, más criminalización de la protesta social, más persecución. La ley que corta los beneficios por trabajo, educación… a los condenados por “terrorismo” en los tiempos de la revuelta aprista de Trujillo habría dejado a la dirigencia aprista presa para toda la vida?
Me quedo en términos de la economía con el balance del modelo neoliberal que hizo Jurgen Schulz hace unas semanas en el Diario La República. “En pocas palabras, se trata de un modelo económico que asigna perfectamente los recursos productivos en base a la dinámica de los libres mercados, tal como se expresan a través de las tendencias de los precios relativos básicos. Pero, por eso mismo, es frágil frente a shocks externos, políticamente inestable y socialmente excluyente, por lo que la lógica ricardiana bien podría abrirle el campo a un gobierno abiertamente autoritario de uno de los extremos del espectro político.”
O las conclusiones de Francisco Durand cuando habla de Perú como “nueva oligarquía y neo latifundismo: “Vivimos los tiempos de la nueva oligarquía y el neolatifundismo. El grupo Gloria, por ejemplo, tiene 29,000 hectáreas. El país, dicen, prospera como nunca, aunque los primeros en prosperar son ellos. El Perú parece que fuera un puerto o un aeropuerto. Mirando siempre hacia el mar, para ver si llegan las importaciones, o si se embarcan a tiempo las exportaciones. A los cielos, para ver si llega a tiempo el avión que trae inversionistas o que nos lleva a París. Siempre de espaldas a la sierra o la selva.”
El 2010 será un año de conflictos sociales, de más denuncias de corrupción, de más congresistas desaforados. Año de campaña electoral con el dinero de nosotros y nosotras, el dinero del Estado peruano, ese que no está para la reparación de las víctimas del conflicto armado interno. No es pesimismo, porque en realidad en el contexto de América Latina nuestro futuro si puede ser diferente, a pesar de lo hecho por Alan García.
Diciembre 2009
Oggetto: Le forze di sicurezza egiziane trattengono cittadini internazionali a el-Arish e bloccano le commemorazioni per Gaza al Cairo.
Quando: Nel pomeriggio di domenica 27 dicembre, le forze di sicurezza egiziane hanno trattenuto un gruppo di 30 internazionali nei loro hotel a el Arish, e un altro gruppo di 8 internazionali alla stazione dei pullman. Le forze di polizia hanno anche interrotto le commemorazioni del massacro “Piombo Fuso” presso il ponte Kasr al Nil.
Nel pomeriggio del 27 dicembre, le forze di sicurezza egiziane hanno trattenuto un gruppo di 30 attivisti nei loro hotel di el Arish mentre si stavano preparando a partire per Gaza, mettendoli agli arresti domiciliari. I delegati – tutti partecipanti della Gaza Freedom March, composta da 1.300 persone – erano cittadini spagnoli, francesi, inglesi, statunitensi e giapponesi. Le forze di sicurezza egiziane hanno poi finalmente ceduto, permettendo alla maggior parte dei manifestanti di lasciare gli alberghi, ma senza consentire loro di lasciare la città. Quando due giovani delegati – un francese e una donna giapponese – hanno tentato di lasciare el Arish, le autorità egiziane hanno fermato i loro taxi facendogli scaricare i bagagli.
Un altro gruppo composto da otto persone, di cui facevano parte statunitensi, inglesi, spagnoli, giapponesi e greci, sono stati trattenuti invece alla stazione dei pullman di el Arish nel pomeriggio del 27 dicembre. Alle 15.30 circa non erano ancora stati rilasciati.
Contemporaneamente, la polizia egiziana ha interrotto la commemorazione dell’invasione israeliana “Piombo Fuso” di Gaza organizzata dai partecipanti alla Gaza Freedom March presso il ponte di Kasr al Nil, uno dei principali collegamenti tra la Zamalek Island, al centro del fiume Nilo, e la città del Cairo. Come forma di dimostrazione nonviolenta in memoria degli oltre 1.300 palestinesi uccisi durante l’attacco israeliano di Gaza – iniziato un anno fa, il 27 dicembre del 2008 – i partecipanti della Gaza Freedom March hanno legato insieme centinaia di biglietti con pensieri, poesie, disegni, e i nomi delle vittime.
“Siamo amareggiati dal fatto che le autorità egiziane abbiano ostacolato la libertà di movimento dei partecipanti e abbiano interferito con la commemorazione pacifica delle vittime del massacro” ha detto Medea Benjamin di CODEPINK, una delle organizzatrici della Marcia.
Benjamin ha aggiunto che i partecipanti alla Gaza Freedom March stanno continuando a sollecitare il governo egiziano perché consenta loro di raggiungere Gaza. I manifestanti si sono recati presso la Lega Araba, chiedendo supporto, presso diverse ambasciate straniere e il Palazzo Presidenziale, per portare un appello rivolto al presidente Mubarak. Hanno inoltre rivolto un appello a tutti i loro sostenitori nel mondo perché contattassero le ambasciate egiziane sollecitandole a lasciare liberi i manifestanti, consentendo loro di arrivare a Gaza.
Manda la tua email all’Ambasciata Egiziana:
di Antonio Moscato
Fonte: Il megafono quotidiano
Il 21 dicembre il sequestro del governatore di Caquetá, ucciso quasi subito, ha inferto un duro colpo alle speranze della chiusura della fase più drammatica della storia insanguinata della Colombia, e ha suscitato non pochi sospetti.
Pochi giorni fa dalla Colombia era arrivata una notizia importante e positiva: Le FARC (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia) e l’ELN (Ejército de Liberación Nacional), le principali formazioni storiche della guerriglia, avevano firmato un importante accordo. FARC ed ELN negli ultimi anni si erano scambiati accuse molte aspre, tra cui quella gravissima di collaborare col regime di Uribe, e in alcuni casi erano arrivati a scontrarsi con le armi in alcune località. Il testo dell’accordo, datato novembre e reso pubblico agli inizi di dicembre, aveva toni decisamente nuovi, e parlava di “riscattare la bandiera della pace in Colombia”, definendolo “un impegno di tutto il continente”.
Abbandonando i toni settari di un passato non lontano, il comunicato affermava che “solo l’unità e l’azione decisa dei patrioti colombiani, dei democratici, dei rivoluzionari, e di tutti coloro che conservano speranze in una soluzione politica, potrà fermare la guerra, trovare la pace e rendere possibile la costruzione di una nuova Colombia”. Significativo il riferimento a un “destino non estraneo alle nuove dinamiche che oggi si vivono nella nostra America”.
Come conseguenza di questo preambolo si stabilivano quattro punti:
Fermare immediatamente ogni scontro (confrontación) tra le due forze;
Non permettere alcun tipo di collaborazione col nemico del popolo;
Rispettare la popolazione non combattente, i suoi beni e interessi e le sue organizzazioni sociali;
Fare uso di un linguaggio ponderato e rispettoso tra le due organizzazioni rivoluzionarie.
Già questi punti indicavano una svolta non solo nei rapporti tra FARC e ELN, ma tra le due organizzazioni e la società. Inoltre indicavano la necessità di trovare spazi e meccanismi di consultazione “che permettano di chiarire e identificare le vere cause che ci hanno portato ad assurdi scontri in alcune regioni del paese, di superarle e di lavorare per riparare i danni arrecati.
Già in aprile era emersa un’altra novità: Le FARC avevano deciso di liberare unilateralmente un militare, Pablo Emilio Moncayo, caduto nelle mani dei guerriglieri dodici anni fa (viene indebitamente definito “ostaggio”, ma è un prigioniero di guerra catturato in combattimento). La Croce Rossa Internazionale si era impegnata a organizzare il difficile compito di prenderlo in consegna e portarlo fuori dalle zone occupate dalla guerriglia, ma pochi giorni fa si è ritirata per protesta contro la decisione del presidente Uribe di procedere al recupero a mano armata di tutti gli ostaggi detenuti. Il padre del sottufficiale, il professor Gustavo Moncayo, ha denunciato duramente l’atteggiamento del governo, che ha ignorato la decisione delle FARC di liberare unilateralmente oltre a suo figlio tutti i prigionieri di guerra in loro potere. Uribe ha respinto tutti i tentativi di negoziati basati su varie ipotesi, dallo scambio umanitario con i moltissimi militanti e simpatizzanti di sinistra detenuti, alla creazione di condizioni di sicurezza indispensabili per rendere possibile la consegna unilaterale.
È a questo punto che è arrivata la notizia del rapimento del governatore del dipartimento colombiano di Caquetá, Luis Francisco Cuéllar, che secondo il governo sarebbe stato sequestrato la notte tra lunedì e martedì dai guerriglieri delle FARC. È verosimile che, mentre ribadiscono da otto mesi di voler liberare unilateralmente tutti i prigionieri, un po’ per le pressioni internazionali (Venezuela compreso), un po’ per le difficoltà militari, le FARC vogliano catturarne un altro? O è stata una formazione locale in disaccordo con la linea distensiva della direzione?
Qualche dubbio riguarda anche le modalità del sequestro: come è stato possibile il rapimento di un uomo politico che è anche un potente latifondista, protetto da una milizia privata? Possibile che questa sia risultata così inefficiente e così poco combattiva, da cavarsela con un solo caduto nello scontro? Insomma, non è chiaro chi fosse e da dove venisse il “gruppo di uomini armati e vestiti con divise militari”che dopo aver fatto saltare con l’esplosivo il cancello della residenza di Cuéllar, lo hanno portato via. In ogni caso il corpo è stato trovato subito dopo, sgozzato, e imbottito di esplosivo, accanto al veicolo usato per rapirlo, a soli 15 km da Florencia, la capitale del dipartimento.
Gustavo Moncayo, che sta da lungo tempo “marciando per la pace” e la liberazione di suo figlio, ha affermato che la decisione del governo di procedere a interventi armati per liberare gli ostaggi, impedendo l’attività della Croce Rossa e di altri mediatori, mettere in pericolo la vita di suo figlio e degli altri prigionieri di cui le FARC hanno disposto da mesi la liberazione. “Vogliamo una soluzione politica negoziata”, ha ribadito.
Anche senza sollevare altri più pesanti dubbi, il professor Moncayo ha affermato che in ogni caso la sua famiglia e quelle di altri prigionieri di cui le FARC hanno deciso di consegnare a mediatori “non hanno la colpa del sequestro di questo signor Cuéllar”. E ha fatto un appello alla “comunità internazionale” perché intervenga per evitare che il governo Uribe utilizzi altri pretesti per evitare la liberazione di suo figlio e di altri soldati.
Uribe, che ha governato male, e che ha visto crescere nelle elezioni amministrative il peso delle sinistra, che governano ormai le principali città, ha bisogno, ad ogni costo, di giustificare la sua politica di provocazione e di sudditanza agli Stati Uniti con lo spauracchio della guerriglia, identificata sistematicamente con il narcotraffico, nonostante sia proprio la maggioranza governativa ad avere al suo interno decine di noti narcotrafficanti e capi di bande paramilitari.
La pace auspicata dal comunicato congiunto di FARC ed ELN, fa paura a Uribe…
Signor Presidente, signori, signore, amici e amiche, prometto che non parlerò più di quanto altri non abbiano già fatto questo pomeriggio, ma permettetemi un commento iniziale che avrei voluto facesse parte del punto precedente discusso da Brasile, Cina, India e Bolivia. Chiedevamo la parola, ma non ci è stato possibile prenderla.
Ha parlato la rappresentante della Bolivia, e porgo un saluto al compagno Presidente Evo Morales qui presente, Presidente della Bolivia. Tra le varie cose ha detto che, ho preso nota, il testo che è stato presentato non è democratico, non è rappresentativo di tutti i paesi. Ero appena arrivato e mentre ci sedevamo abbiamo sentito il Presidente della sessione precedente, la signora Ministra, dire che c’era un documento da queste parti, che però nessuno conosce: ho chiesto il documento, ancora non lo abbiamo avuto. Credo che nessuno sappia di questo documento top secret.
Certo, la collega boliviana l’ha detto, non è democratico, non è rappresentativo, ma signori e signore: siamo forse in un mondo democratico? Forse il sistema mondiale è rappresentativo? Possiamo aspettarci qualcosa di democratico e rappresentativo nel sistema mondiale attuale? Su questo pianeta stiamo vivendo una dittatura imperiale e lo denunciamo ancora da questa tribuna: abbasso la dittatura imperiale! E che su questo pianeta vivano i popoli, la democrazia e l’uguaglianza! E quello che vediamo qui è proprio il riflesso di tutto ciò: l’esclusione.
C’è un gruppo di paesi che si reputa superiore a noi del sud, a noi del terzo mondo, a noi sottosviluppati, o come dice il nostro grande amico Eduardo Galeano: noi paesi travolti come da un treno che ci ha avvolti nella storia [sorta di gioco di parole tra desarrollados = sviluppati e arrollados = avviluppati NdT]. Quindi non dobbiamo stupirci di quello che succede, non stupiamoci, non c’è democrazia nel mondo e qui ci troviamo di fronte all’ennesima evidenza della dittatura imperiale mondiale. Poco fa sono saliti due giovani, per fortuna le forze dell’ordine sono state decenti, qualche spintone qua e là, e i due hanno cooperato, no? Qui fuori c’è molta gente, sapete?
Certo, non entrano tutti in questa sala, sono troppi; ho letto sulla stampa che ci sono stati alcuni arresti, qualche protesta intensa, qui per le strade di Copenaghen, e voglio salutare tutte quelle persone qui fuori, la maggior parte delle quali sono giovani. Non ci sono dubbi che siano giovani preoccupati, e credo abbiano una ragione più di noi per essere preoccupati del futuro del mondo; noi abbiamo – la maggior parte dei presenti – già il sole dietro le spalle, ma loro hanno il sole in fronte e sono davvero preoccupati. Qualcuno potrebbe dire, Signor Presidente, che un fantasma infesta Copenaghen, parafrasando Karl Marx, il grande Karl Marx, un fantasma infesta le strade di Copenaghen e credo che questo fantasma vaga per questa sala in silenzio, aleggia in quest’aula, tra di noi, attraversa i corridoi, esce dal basso, sale, è un fantasma spaventoso che quasi nessuno vuole nominare: il capitalismo è il fantasma, quasi nessuno vuole nominarlo. È il capitalismo, sentiamo ruggire qui fuori i popoli. Stavo leggendo alcune delle frasi scritte per strada, e di questi slogan, alcuni dei quali li ho sentiti anche dai due giovani che sono entrati, ho preso nota di due. Il primo è ‘Non cambiate il clima, cambiate il sistema’.
Io lo riprendo qui per noi. Non cambiamo il clima, cambiamo il sistema! E di conseguenza cominceremo a salvare il pianeta. Il capitalismo, il modello di sviluppo distruttivo sta mettendo fine alla vita, minaccia di metter fine alla specie umana. E il secondo slogan spinge alla riflessione. In linea con la crisi bancaria che ha colpito, e continua a colpire, il mondo, e con il modo con cui i paesi del ricco Nord sono corsi in soccorso dei banchieri e delle grandi banche degli Stati Uniti, si è persa il conto, per quanto è astronomico. Ecco cosa dicono per le strade: se il clima fosse una banca, l’avrebbero già salvato. E credo che sia la verità. Se il clima fosse una delle grandi banche, i governi ricchi l’avrebbero già salvato. Credo che Obama non sia arrivato, ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace quasi nello stesso giorno in cui mandava altri 30mila soldati ad uccidere innocenti in Afghanistan, e ora viene qui a presentarsi con il Premio Nobel per la Pace, il Presidente degli Stati Uniti. Gli USA però hanno la macchinetta per fare le banconote, per fare i dollari, e hanno salvato, vabbhé, credono di aver salvato, le banche ed il sistema capitalista.
Bene, lasciando da parte questo commento, dicevo che alzavamo la mano per unirci a Brasile, India, Bolivia e Cina nella loro interessante posizione, che il Venezuela e i paesi dell’Alleanza Bolivariana condividono fermamente; però non ci è stata data la parola, per cui, Signor Presidente, non mi conteggi questi minuti, la prego. Ho conosciuto, ho avuto il piacere di conoscere Hervé Kempf – è qui in giro -, di cui consiglio vivamente il libro “Perché i mega-ricchi stanno distruggendo il pianeta”, in francese, ma potete trovarlo anche in castigliano e sicuramente in inglese. Hervé Kempf: Perché i mega-ricchi stanno distruggendo il pianeta. Per questo Cristo ha detto: E’ più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio. Questo l’ha detto Cristo nostro Signore.
I ricchi stano distruggendo il pianeta. Pensano forse di andarsene su un atro pianeta quando hanno distrutto questo? Hanno qualche piano a tal proposito? Fino adesso nell’orizzonte della galassia non se ne vede nessuno come la terra. Questo libro mi è appena arrivato, me l ha regalato Ignacio Ramonet, che è anche lui qui presente, ho terminato il prologo ed il preambolo, questa frase è molto importante, Kempf dice quanto segue: “Non possiamo ridurre il consumo materiale a livello globale se non facciamo in modo che i potenti scendano di vari gradini e se non combattiamo la disuguaglianza. È necessario che al principio ecologista tanto utile al momento di prendere coscienza, pensare globalmente ed agire localmente, aggiungiamo il principio che impone la situazione: consumare meno e distribuire meglio”. Credo che sia un buon consiglio che ci da questo scrittore francese Hervé Kempf.
Bene, Signor Presidente, il cambiamento climatico è senza dubbio il problema ambientale più devastante di questo secolo, inondazioni, siccità, tormente, uragani, disgeli, innalzamento del livello del mare, acidificazione degli oceani e ondate di calore, tutto questo acuisce l’impatto delle crisi globali che si abbattono su di noi. L’attività umana d’oggi supera i limiti della sostenibilità, mettendo in pericolo la vita del pianeta, ma anche in questo siamo profondamente disuguali. Voglio ricordarlo: le 500 milioni di persone più ricche del pianeta, 500 milioni, sono il sette per cento, sette per cento, seven per cento della popolazione mondiale. Questo sette per cento è responsabile, queste cinquecento milioni di persone più ricche sono responsabili del cinquanta per cento delle emissioni inquinanti, mentre il 50 per cento più povero è responsabile solo del sette per cento delle emissioni inquinanti. Per questo mi sembra strano mettere qui sullo stesso piano Stati Uniti e Cina. Gli Stati Uniti hanno appena 300 milioni di abitanti. La Cina ha una popolazione quasi 5 volte più grande di quella degli USA. Gli Stati Uniti consumano più di 20 milioni di barili di petrolio al giorno, la Cina arriva appena ai 5,6 milioni di barili al giorno, non possiamo chiedere le stesse cose agli Stati Uniti e alla Cina.
Ci sono questioni da discutere, almeno potessimo noi Capi di Stato e di Governo sederci a discutere davvero di questi argomenti. Inoltre, Signor Presidente, il 60% degli ecosistemi del pianeta hanno subito danni e il 20% della crosta terrestre è degradata; siamo stati testimoni impassibili della deforestazione, della conversione di terre, della desertificazione e delle alterazioni dei sistemi d’acqua dolce, dell’iper-sfruttamento del patrimonio ittico, della contaminazione e della perdita della diversità biologica. Lo sfruttamento esagerato della terra supera del 30% la sua capacità di rigenerazione. Il pianeta sta perdendo ciò che i tecnici chiamano la capacità di autoregolarsi, il pianeta la sta perdendo, ogni giorno si buttano più rifiuti di quanti possano essere smaltiti. La sopravvivenza della nostra specie assilla la coscienza dell’umanità. Malgrado l’urgenza, sono passati due anni dalle negoziazioni volte a concludere un secondo periodo di compromessi voluto dal Protocollo di Kyoto, e ci presentiamo a quest’appuntamento senza un accordo reale e significativo.
Voglio dire che riguardo al testo creato dal nulla, come qualcuno l’ha definito, il rappresentante cinese, il Venezuela e i paesi dell’Alleanza Bolivariana per le Americhe, noi non accettiamo nessun altro testo che non derivi dai gruppi di lavoro del Protocollo di Kyoto e della Convenzione: sono i testi legittimi su cui si sta discutendo intensamente da anni. E in queste ultime ore credo che non abbiate dormito: oltre a non aver pranzato, non avete dormito. Non mi sembra logico che ora si produca un testo dal niente, come dite voi.
L’obiettivo scientificamente sostenuto di ridurre le emissioni di gas inquinanti e raggiungere un accordo chiaro di cooperazione a lungo termine, oggi a quest’ora, sembra aver fallito. Almeno per il momento. Qual è il motivo? Non abbiamo dubbi. Il motivo è l’atteggiamento irresponsabile e la mancanza di volontà politica delle nazioni più potenti del pianeta, nessuno si senta offeso, ricorrendo al grande José Gervasio Artigas quando disse: “Con la verità non temo e non offendo”. È davvero un atteggiamento irresponsabile di marce, di contromarce, di esclusione, di gestione elitaria, un problema di tutti e che solo possiamo risolvere collettivamente. Il conservatorismo politico e l’egoismo dei grandi consumatori, dei paesi più ricchi testimoniano di una grande insensibilità e della mancanza di solidarietà con i più poveri, con gli affamati, con coloro più soggetti alle malattie, ai disastri naturali, Signor Presidente, è chiaramente un nuovo ed unico accordo applicabile a parti assolutamente disuguali, per la grandezza delle sue contribuzioni e capacità economiche, finanziarie e tecnologiche, ed è evidente che si basa sul rispetto assoluto dei principi contenuti nella Convenzione.
I paesi sviluppati dovrebbero assumersi degli impegni vincolanti, chiari e concreti per la diminuzione sostanziale delle loro emissioni e assumere degli obblighi di assistenza finanziaria e tecnologica ai paesi poveri per far fronte ai pericoli distruttivi del cambiamento climatico. In questo senso, la peculiarità degli stati insulari e dei paesi meno sviluppati dovrebbe essere pienamente riconosciuta. Signor Presidente, il cambio climatico non è l’unico problema che colpisce la umanità, altri flagelli ed ingiustizie ci colpiscono, la forbice che separa i paesi ricchi da quelli poveri non ha smesso di crescere, nonostante tutti gli obiettivi del millennio, la riunione di finanziamento di Monterrey, tutte questi vertici, come diceva qui il presidente del Senegal, denunciando una grande verità, promesse e promesse incompiute ed il mondo continua nella sua marcia distruttiva.
Le entrate totali delle 500 persone più ricche del mondo sono superiore alle entrate delle 416 milioni di persone più povere, le 2800 milioni di persone che vivono nella povertà, con meno di 2 dollari al giorno e che rappresentano il 40 per cento della popolazione mondiale, ricevono solo il 5 per cento delle entrate mondiale. Oggi muoiono all’anno 9,2 milioni di bambini prima di arrivare al 5’ anno di vita ed il 99,9% di queste morti avvengono nei paesi più poveri. La mortalità infantile è di 47 morti per mille nati vivi, ma nei paesi più ricchi è solo 5 per mille. La speranza di vita mondiale è di 67 anni, nei paesi ricchi è di 79 anni, mentre in alcune nazioni povere è solo di 40 anni. Ci sono 1100 milioni di persone che non hanno accesso all’acqua potabile, 2600 milioni prive di servizio di sanità, più di 800 milioni di analfabeti e 1020 milioni di persone affamate: ecco lo scenario mondiale. E ora, la causa, qual è la causa? Parliamo della causa, non evitiamo le responsabilità, non evitiamo la profondità del problema, la causa senza dubbio, torno all’argomento di questo disastroso scenario, è il sistema metabolico distruttivo del capitale e della sua incarnazione: il capitalismo.
Ho qui una citazione di quel gran teologo della liberazione che è Leonardo Boff, come sappiamo, brasiliano, che dice: Qual è la causa? Ah, la causa è il sogno di cercare la felicità con l’accumulazione materiale e il progresso senza fine, usando, per fare ciò, la scienza e la tecnica con cui si possono sfruttare in modo illimitato le risorse della terra; e cita qui Charles Darwin e la sua “Selezione Naturale” la sopravvivenza dei più forti, però sappiamo che i più forti sopravvivono sulle ceneri dei più deboli. Rousseau, dobbiamo ricordarlo sempre, diceva che tra il forte ed il debole la libertà opprime, per questo l’impero parla di libertà, è la libertà di opprimere, invadere, assassinare, annichilare, sfruttare, questa è la sua libertà, e Rousseau aggiunge la frase salvatrice: solo la legge libera.
Ci sono alcuni paesi qui che stanno giocando affinché non ci sia alcun documento, perché non vogliono una norma, perché l’inesistenza di questa norme permette loro la libertà si sfruttare, la libertà di travolgere gli altri. Facciamo uno sforzo e facciamo pressione qui, nelle strade, affinché si realizzi questo impegno, esca un documento che impegni i paesi più potenti della terra.Bene, si domanda Leonardo Boff. Avete conosciuto Leonardo Boff? Non so se è presente qui, l’ho conosciuto poco tempo fa in Paraguay, lo abbiamo sempre letto. Può una terra finita sopportare un progetto infinito?
La tesi del capitalismo, lo sviluppo infinito, è un modello distruttivo, accettiamolo. Dopo Boff ci domanda: Che possiamo aspettarci da Copenhagen? Solo questa semplice confessione: così come ci troviamo non possiamo continuare, ed un proposito semplice, andiamo a cambiare la rotta, facciamolo, ma senza cinismo, senza menzogne, senza doppie agende, senza documenti prodotti dal nulla, con la verità davanti a noi.
Fino a quando ci chiediamo dal Venezuela, signor Presidente, signore, signori, fino a quando andiamo a permettere simili ingiustizie e disuguaglianze; fino a quando andiamo a tollerare l’attuale ordine economico internazionale e i meccanismi di mercato vigente, fino a quando andiamo a permettere che grandi epidemie come l’HIV AIDS colpiscano la popolazione intera; fino a quando permetteremo che gli affamati non possano alimentarsi, ne nutrire i propri figli; fino a quando andiamo a permettere che continuino a morire milioni di bambini per malattie curabili, fino a quando andiamo a permettere conflitti armati che massacrano milioni di esseri umani innocenti, con il fine di appropriarsi delle risorse degli altri popoli da parte dei potenti? Noi popoli del mondo chiediamo agli imperi, a quelli che pretendono di continuare a dominare il mondo e noi, chiediamo loro che finiscano le aggressioni e le guerre. Niente più basi militari imperiali, né colpi di Stato, costruiamo un ordine economico e sociale più giusto e equitativo, sradichiamo la povertà, freniamo subito gli alti livelli di emissioni, arrestiamo il deterioramento ambientale ed evitiamo la grande catastrofe del cambiamento climatico, integriamoci nel nobile obiettivo di essere tutti più liberi e solidali.
Signor Presidente, da quasi due secoli, un venezuelano, libertador di nazioni e precursore di coscienze ha lasciato per la posterità un apoftegma pieno di volontà: “Se la natura si oppone lotteremo contro di lei e fare in modo che ci obbedisca…” era Simón Bolívar, el Libertador. Dal Venezuela Bolivariano, dove un giorno come oggi da circa dieci anni, dieci anni esatti viviamo la tragedia climatica più grande della nostra storia: la tragedia di Vargas così chiamata, da questo Venezuela che tenta con la sua Rivoluzione di conquistare la giustizia per tutto il suo popolo.
Il solo cammino possibile è quello del socialismo, il socialismo, l’altro fantasma del quale parlava Carlo Marx, anche questo aleggia da queste parti, il socialismo, questa è la rotta, questa la direzione per la salvezza del pianeta, non ho il ben che minimo dubbio, ed il capitalismo è il cammino dell’inferno e della distruzione del mondo.Il socialismo, da questo Venezuela, che per questo è minacciato dall’impero nordamericano. Dai paesi che conformano l’ALBA, la Alleanza Bolivariana esortiamo, lo dico con rispetto, però dal profondo della mia anima, a nome di molti su questo pianeta, esortiamo i governi ed i popoli della Terra, parafrasando Simón Bolívar, el Libertador: se la natura distruttiva del capitalismo si oppone, dunque lotteremo contro essa e faremo in maniera che ci ubbidisca, non aspettiamo con le braccia conserte la morte dell’umanità.
La storia ci chiama all’unità e alla lotta. Se il capitalismo ci oppone resistenza, noi siamo obbligati a dar battaglia contro il capitalismo ed aprire il cammino alla salvezza della specie umana, tocca a noi alzare le bandiere di Cristo, de Mahoma, della uguaglianza, dell’amore, della giustizia, dell’umanismo, del vero e più profondo umanismo. Se non lo facciamo, la più bella creazione dell’universo, l’essere umano, sparirà, sparirà.
Questo pianeta è vissuto migliaia di milioni di anni, e questo pianeta è vissuto per migliaia di milioni di anni senza di noi, la specie umana: non ha bisogno di noi per esistere. Bene, noi senza la Terra non viviamo, e stiamo distruggendo la Pachamama, come dice Evo e come dicono i nostri fratelli aborigeni del Sudamerica.
In conclusione, signor presidente, solo per concludere, ascoltiamo Fidel Castro quando dice: una specie è in pericolo di estinzione, l’essere umano. Ascoltiamo Rosa Luxemburg, quando dice: Socialismo o barbarie.
Ascoltiamo Cristo il redentore quando dice: Benvenuti i poveri perché loro sarà il regno dei cieli. Signor presidente, signore e signori, dobbiamo essere capaci di non fare di questa terra la tomba dell’umanità, ma facciamo di questa terra un cielo, un cielo di vita, di pace, di pace e fratellanza, per tutta la umanità, per la specie umana. Signor presidente, signori, mille grazie e buon appetito.