Viareggio: una tragedia annunciata

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Ma perché non ci date retta prima?
Di Dante De Angelis

Fonte: Il Manifesto 1 Luglio 2009
Tante vite umane orribilmente stroncate solo perché i tantissimi segnali premonitori sono stati ignorati o sottovalutati da chi aveva la responsabilità di agire: parlo in primo luogo dei gestori dei treni, ma anche delle autorità e le istituzioni preposte alla sicurezza. Il carattere di ripetitività e di prevedibilità della rottura degli assi per un carro merci lo rendono un incidente «tipico». Quando i ferrovieri parlano di sicurezza dei treni parlano della sicurezza di tutti i cittadini. Il nuovo organismo istituzionale preposto, l’Agenzia Nazionale per la sicurezza ferroviaria (Ansf), ha emesso come suo primo atto la reintroduzione del famigerato «pedale a uomo morto» sui treni e gran parte della sua attività ha avuto finora l’unico scopo di soddisfare le esigenze delle imprese ferroviarie che bramano per la riduzione dell’equipaggio dei treni.

Altro che sicurezza. Quando avremo finito di contare e piangere i morti della strage ferroviaria di Viareggio dovremo necessariamente fare i conti con quello che sta dietro e prima ogni incidente di questo tipo e col rapporto costi-benefici della cosiddetta razionalizzazione e risanamento dei bilanci. Troppo facile oggi dire che il carro cisterna è privato, austriaco, con licenza tedesca. Le regole per la libera circolazione dei rotabili ferroviari in Europa hanno consentito la semplificazione dei traffici, ma liberalizzazione e privatizzazione hanno prodotto un drastico calo della qualità di procedure e controlli. In Italia, inoltre, il servizio di trasporto merci è in via di smantellamento, centinaia ferrovieri prepensionati o trasferiti, decine di scali già chiusi con la prospettiva di lasciarne aperti solo alcuni. Come in qualsiasi struttura produttiva destinata alla chiusura si allentano i controlli, gli investimenti e l’attenzione. Una tragica analogia con la Thyssen.

Mentre sul Frecciarossa fior di funzionari e ingegneri si concentrano sulla qualità del nodo alla cravatta dei macchinisti, nei treni merci si lasciano circolare rotabili in condizioni così precarie. I ferrovieri, in tema di sicurezza hanno sempre rappresentato una sorta di autocontrollo sui processi produttivi, rifiutando alcune lavorazioni o denunciandone la pericolosità nell’interesse generale. Ma con la nuova dirigenza — tra sanzioni, minacce e licenziamenti — i lavoratori sono stati indotti al silenzio, e i parametri di sicurezza sono scesi ulteriormente.

Restituire ai ferrovieri il diritto di parola è uno dei tasselli fondamentali per la prevenzione e la sicurezza. Noi continuiamo a credere che come cittadini, impiegati in un servizio così delicato, abbiamo il dovere civico — oltre che il diritto — di occuparci della sicurezza di tutti e chiediamo che dopo questa strage di innocenti tutte le istituzioni, a cominciare dalla magistratura, si dedichino con maggiore attenzione a quanto sta accadendo sui nostri binari. Non è più il tempo di atteggiamenti reverenziali nei confronti del colosso FS, anche da parte delle redazioni dei giornali.

Il treno è il mezzo di trasporto più sicuro, anche se dirlo oggi può sembrare grottesco; ma solo a condizione che le regole e le procedure evolute e consolidate in tanti anni di esperienza siano severe e rispettate con rigore. E che la vita umana non sia ridotta ad una semplice voce di bilancio.

 

 

 


Cada Uno por la Justicia/Ognuno per la Giustizia Bollettino. 11

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La tozudez de la Corte Nacional de Justicia de Ecuador quien solicita la extradición de Lucía Morett.
 
Carta abierta a Rafael Correa de Rita del Castillo, madre de Juan Gonzáles del Castillo
 
Pronunciamineto del Movimiento de Solidaridad Nuestra América en contra de la extradición de Lucía Morett
 
Carta a Lucía Morett… de Gerardo Gonzáles Miranda
 
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Las complicidades de Alvaro Uribe y Felipe Calderón di Gilberto López y Rivas
 
La ebìncrucijada de Uribe de Luis Noé Ochoa
 
El proceso penal contra el profesor Miguel Angel Beltrán por Colectivo de Abogados José Alvear Restrepo
 
 
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Sit-in Honduras

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MOBILITAZIONE CONTRO IL COLPO DI STATO IN HONDURAS
 
MARTEDI’ 30 GIUGNO DALLE 18,00–18,30
DI FRONTE AMBASCIATA DELL’HONDURAS
VIA GIANBATTISTA VICO 10 (Zona Metro Flaminio)
 
 
Promuovono:
 
Membri italiani de La Red de la
Redes en Defensa de la
Humanidad (NUESTRA AMERICA, RADIO CITTA’
APERTA, CONTROPIANO,
LABORATORIO EUROPEO PER LA CRITICA SOCIALE.
NATURA AVVENTURA,) ;
COMITATO CARLOS FONSECA – ROMA, CONFEDERAZIONE
COBAS – ITALIA, RETE
DEI COMUNISTI, SPAZIO SOCIALE EX-51 ROMA ,
COORDINAMENTO CITTADINO DI
LOTTA PER LA CASA, FEDERAZIONE NAZIONALE
RDB, ASSOCIAZIONE ITALIA
NICARAGUA “CIRCOLO LEONEL RUGAMA”,
ASSOCIAZIONE LA VILLETTA; COMITATO
PALESTINA NEL CUORE; CENTRO
INFORMAZIONE, RICERCA E CULTURA,
INTERNAZIONALE (C.I.R.C.
INTERNAZIONALE); COORDINAMENTO GIOVANI IN
LOTTA, FORUM PALESTINA,
CIRCOLO COMUNISTA STEFANO CHIARINI

INOLTRE ATTENZIONE AGLI ACQUISTI! L’HONDURAS ESPORTA BANANE E CAFFE’!
L’ISOLAMENTO ECONOMICO PUO’ MOLTO IN QUESTI CASI.

Manuel Zelaya domani fa ritorno in Honduras, da presidente

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Tito Pulsinelli — Selvas
Non si tratta di una sfida, é scacco matto ai golpisti civili, ai loro gorilla, e alle illusioni ritardatarie delle elites neocoloniali. Il Presidente Zelaya ha annunciato il suo ritorno –accompagnato dal segretario della OEA e da altri presidemti latinoamericani– per “concludere il mio periodo di governo che scade a gennaio del prossimo anno”.

L’annuncio é stato fatto a Managua, dove erano riuniti i Paesi del Gruppo di Rio, quelli centroamericani del SICA, l’ALBA e i paesi caraibici del Caricom. Oltre alla condanna morale del golpe, é stata sancita l’inammissibilita’ di qualsiasi avventura autoritaria e liberticida, percepita come un attentato alla sicurezza e alla democrazia di ogni nazione americana.

Il Brasile, Messico, Venezuela, Nicaragua, Ecuador, Cuba e Bolivia avevano richiamato i rispettivi ambasciatori. Il Guatemala, Salvador e Nicaragua interrompono il flusso commerciale con l’Honduras, e il sistema bancario del SICA sospende qualsiasi programma economico e i prestiti. Il Venezuela blocca l’invio delle forniture di petrolio.

A questo punto –buoni ultimi– gli Stati Uniti parlano finalmente in modo chiaro e univoco per bocca di H. Clinton: non riconosceranno nessun governo che non sia quello di Zelaya.

In mattinata, l’assemblea generale dell’ONU aveva chiuso ogni spiraglio ai golpisti; non c’e’ nessun margine di manovra per guadagnare tempo. All’unisono risuona coralmente un solo monito: Zelaya e’ il presidente costituzionale, non ci saranno contatti con altre autorita”.

La giornata di protesta in tutto il territorio dell’Honduras, con la paralisi delle attivitá’ produttive che si estendeva a macchia d’olio, i blocchi dellla rete stradale , l’interruzione dei trasporti e la chiusura degli stessi uffici pubblici, mostrava che il golpe non si consolidava e cominciava a disarticolarsi.
Arrivava anche la notizia della sollevazione di un battaglione della regione dell’Atlandida: il golpisti non hanno il controllo su tutta la forza armata.

A questo punto, Zelaya e’ piu’ consapevole che mai che i suoi nemici sono in un vicolo cieco e –forte dell’appoggio non simbolico o di facciata degli organismi continentali e regionali– decide di andare a sfidare apertamente i gorilla sul loro terreno. Muove e da scacco matto.

E’ una decisione storica che lo catapulta ad un rango molto piú elevato di leader politico popolare ed amato dalla maggioranza.
Oggi Zelaya assurge al ruolo di guida carismatica del progetto di rinnovamento a fondo del suo Paese. I suoi nemici, che conoscono solo il linguaggio della forza bruta, sono stati sconfitti dall’intelligenza politica e dalla lungimiranza e dalla sovranita’ popolare che hanno sempre calpestato..

Ora Zelaya e’ parte rilevante dell’ondata di rinnovamento che scuotae la latitudine sociale latinoamericana. Ha la forza per ricondurre nella gabbia i gorilla e per smantellare i privilegi neocoloniali dei loro mandanti.


La rielezione di Manuel Zelaya: troppi condizionali. Solo la scusa per un colpo di Stato.

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militari in strada a Tegucigalpa

In queste ore i media italiani e stranieri hanno trattato in modo molto superficiale  la questione del referendum che si sarebbe dovuto tenere ieri a  Tegucigalpa,  in Honduras,  e che è stato la causa del colpo di Stato che ha deposto  il presidente legittimo Manuel Zelaya.
 
Praticamente tutti all’unanimità hanno scritto che  il referendum avrebbe praticamente garantito la  seconda candidatura di Zelaya.   In realtà la strada che avrebbe dovuto percorrere Zelaya per ottenere la seconda rielezione era ancora lunga e costellata da troppi condizionali.
 
Innanzitutto il referendum di domenica scorsa,  che non era obbligatorio (come lo è invece il voto in Honduras) ma facoltativo,  era in realtà una sorta  di sondaggio  (dal momento che la consulta referendaria in  Honduras non esiste)  per chiedere al popolo se fosse favorevole o meno al fatto che a novembre nei seggi già predisposti per le elezioni presidenziali, legislative e amministrative, venisse installata una “quarta urna” per la designazione di un’assemblea Costituente
 
L’Assemblea Costituente avrebbe poi provveduto alla riscrittura  della Costituzione, modificando alcune cose (la cui natura sarebbe importante approfondire) tra le quali proprio la possibilità della seconda candidatura per il presidente in carica. Manuel Zelaya, che da novembre non sarebbe stato più presidente dell’Honduras, ammesso e non concesso che avesse avuto voglia di ricandidarsi (e tra l’altro  ha sempre negato di avere tale intenzione) lo avrebbe potuto fare soltanto tra quattro anni. E sarebbe diventato ancora presidente solo e soltanto se  il popolo lo avesse eletto ancora una volta.
 
Sarebbe bene iniziare a chiedersi, signori giornalisti mainstream, quali siano le vere motivazioni del  colpo di Stato in Honduras.
 

Perché i militari hanno voluto il golpe in Honduras?

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FAQ per capire i retroscena di quanto sta avvenendo in queste ore

Perché i militari hanno voluto il golpe in Honduras?

Ecco perché è stato tentato il colpo di stato. Al centro c’è la questione della rielezione del presidente Zelaya che si è “spostato” troppo a sinistra per i gusti della locale ricca oligarchia, complice per decenni di violenze, soprusi e regimi reazionari.

Militare golpista in Honduras

Come si chiama il presidente dell’Honduras che i militari hanno voluto destituire con un colpo di stato?

Si chiama Manuel Zelaya, ha 56 anni ed è in carica dal gennaio 2006.

Quali sono le scelte politiche e sociali del presidente Zelaya?

Una volta al potere, vista l’endemica povertà della maggior parte dei 7,2 milioni di honduregni, Zelaya ha poi deciso di convertirsi al socialismo ‘modello Chavez’: tant’é che di recente ha fatto entrare Tegucigalpa nell’Alternativa Bolivariana para los Pueblos de Nuestra America (Alba), organismo voluto con molta determinazione dal leader venezuelano per conquistare spazi nella regione. (1)

Quindi Zelaya è un “socialista” che viene dal popolo?

No, è un latifondista cattolico ed è stato eletto con i voti dei conservatori del Partito Liberale. Ha successivamente compiuto una sorprendente svolta a sinistra, approvata dal presidente venezuelano Hugo Chavez e da Fidel Castro. (1)

 

Che profilo si può tracciare del presidente Zelaya?

Secondo una scheda dell’ANSA, Zelaya è “carismatico e moderatamente populista” ed è “sempre stato conservatore, con fama di persona onesta e di cattolico osservante” (1). Il problema è che si è “spostato” troppo a sinistra per i gusti della locale ricca oligarchia, complice per decenni di violenze, soprusi e regimi reazionari. Questo blocco di potere ha posto al centro della disputa politica la questione della rielezione del presidente Zelaya.

Perché il colpo di stato è avvenuto proprio il 28 giugno?

Perché in quel giorno si doveva tenere in Honduras il referendum che avrebbe permesso al presidente Zaleya (sostenuno dalla parte più povera della popolazione) di candidarsi per un secondo mandato. Per la precisione il referendum non avrebbe permesso al presidente di ricandidarsi, piuttosto chiedeva per novembre l’elezione dell’Assemblea Costituente per la scrittura di una nuova Carta Costituzionale che prevedeva importanti modifiche a favore del popolo, per l’acqua, contro i poteri forti etc, oltre alla possibilità di una seconda candidatura.
Sono queste le cose da approfondire e che probabilmente sono all’origine del golpe.

Chi non voleva il referendum?

Il referendum è stato boicottato dai militari. Essi hanno sferrato il golpe all’alba poco prima dell’apertura delle urne per il contestato referendum di revisione costituzionale.

 

Come è stato boicottato il referendum?

I militari si sono rifiutati di distribuire le schede di voto e hanno invaso la capitale con mezzi corazzati.

 

Il Presidente Zelaya dove è ora?

E’ in Costa Rica (è stato espulso dai militari dall’Honduras) e sta lanciando appelli alla resistenza non violenta contro il golpe. Dalle 17.36 italiane del 28 giugno il Presidente Zelaya ha parlato in diretta telefonica su Telesur dal Costarica. “Giornalismo partecipativo” ha tradotto e diffuso alcune frasi: “E’ un complotto delle oligarchie delle forze armate che mi hanno tradito per lasciare il popolo come sta e fermare un processo democratico partecipativo. Hanno sparato, rotto il portone di casa con le baionette, un sequestro brutale. Mi hanno portato alla Forza Aerea, salito su un aereo e portatomi in Costarica. Chiamo il popolo dell’Honduras alla resistenza non violenta al golpe. Se gli Stati Uniti non sono dietro il golpe questi non resisteranno neanche 48 ore. Mi vogliono rovesciare perché voglio la democrazia partecipativa. Non c’è maniera di comunicare con il popolo dell’Honduras perché i golpisti hanno interrotto tutti i mezzi di comunicazione. Un gruppo delle Forze Armate che ha realizzato il golpe è manipolato dall’élite economica che ha il controllo sul parlamento”. (2)

Il popolo reagisce al golpe?

Sì. Sono in corso manifestazioni popolari (3). Il presidente Zelaya (attualmente in Costa Rica) ha chiesto a tutti i suoi sostenitori di dare il via “alla resistenza civile, pacificamente e senza violenza”. E anche se i golpisti hanno chiuso uno dopo l’altro i canali tv e la radio filogovernativi, gli honduregni fin dal mattino sono scesi in piazza affrontando i blindati per chiedere il ritorno di Zelaya. Ma sono stati dispersi con i lacrimogeni.

Chi appoggia il golpe?

I militari sono appoggiati dalla parte più ricca e reazionaria della borghesia dell’Honduras.

Qual è la posizione del governo Usa?

Dura condanna del golpe è stata espressa dal segretario di Stato americano Hillary Clinton, che ha parlato di un atto che deve essere «condannato da tutti» e che «viola i principi democratici». Questa risposta è giunta dopo alcune accuse di coinvolgimento degli Usa nel golpe. «Ci sei tu dietro a tutto questo?», ha infatti chiesto Zelaya senza troppi giri di parole al presidente degli Stati Uniti, Barack Obama.

Qual è la posizione del governo italiano?

Il ministro degli Esteri Frattini parla di una “grave violazione della legalità e delle regole democratiche”. Frattini auspica “vivamente che la comunità internazionale nel suo insieme continui a seguire la situazione in Honduras per il ristabilimento della legalità”. (Apcom 28/6/2009)

Qual è la posizione delL’Onu?

Il segretario generale delle Nazioni unite, Ban Ki-moon, ha chiesto che il presidente Zelaya sia ristabilito nelle sue funzioni e che i diritti dell’uomo siano totalmente rispettati.

Note:

(1) http://www.ansa.it

/opencms/export/site/notizie/rubriche/daassociare/visualizza_new.html_993286058.html

(2) http://www.gennarocarotenuto.it/8809-manuel-zelaya-in-diretta-dal-costarica-ecco-cosa-dice

(3) http://lists.peacelink.it/news/2009/06/msg00025.html


NO AL GOLPE IN HONDURAS!

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Spett.le
Ambasciata dell’HONDURAS
alla c.a dell’Ambasciatore
Roberto Ochoa Madrid
 
Tel. +39–06-3207236
Fax +39–06-3207973
Email: embhonatfastwebnetdotit  (embhonatfastwebnetdotit)  
 
Noi  cittadini, esponenti della società civile e politica italiana,  giornalisti e uomini di cultura, difensori dei diritti umani,  viste le gravi notizie che giungono dall’Honduras di un   colpo di stato in atto in queste ore, condannato  anche dall’Unione Europea,  abbiamo sentito la necessità di costituirci autonomamente e spontaneamente in un Comitato provvisorio di solidarietà al presidente legittimo dell’Honduras Manuel Zelaya.
 
Condanniamo  pertanto  fermamente quanto sta avvenendo  a Tegucigalpa ed esprimiamo  grande preoccupazione per la situazione dei diritti umani, civili e politici del popolo hondureño, dal momento che circolano voci di militari armati per le vie della città e della presenza di francotiratori e chiediamo inoltre l’immediato ritorno di Manuel Zelaya alla presidenza del paese e il ripristino dell’ordine costituzionale.
 
 
Annalisa Melandri – www.annalisamelandri.it
portavoce
 

Honduras, è golpe: Manuel Zelaya sequestrato da militari incappucciati

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Manuel Zelaya

Leggi su Telesur ,

 aggiornamenti continui su Giornalismo Partecipativo

e la disinformazione della REUTERS


Gianni Rodari: Uno e sette

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Ho conosciuto un bambino che era sette bambini.
Abitava a Roma, si chiamava Paolo e suo padre era un tranviere.
Però abitava anche a Parigi, si chiamava Jean e suo padre lavorava in una fabbrica di automobili.
Però abitava anche a Berlino, e lassù si chiamava Kurt, e suo padre era un professore di violoncello.
Però abitava anche a Mosca, si chiamava Juri, come Gagarin, e suo padre faceva il muratore e studiava matematica.
Però abitava anche a Nuova Vork, si chiamava Jimmy e suo padre aveva un distributore di benzina.
Quanti ne ho detti? Cinque. Ne mancano due:
uno si chiamava Ciù, viveva a Shanghai e suo padre era un pescatore; l’ultimo si chiamava Pablo, viveva a Buenos Aires e suo padre faceva l’imbianchino.
Paolo, lean, Kurt, luri, Jimmy, Ciù e Pablo erano sette, ma erano sempre lo stesso bambino che aveva otto anni, sapeva già leggere e scrivere e andava in bicicletta senza appoggiare le mani sul manubrio.
Paolo era bruno, Jean biondo, e Kurt castano, ma erano lo stesso bambino. Juri aveva la pelle bianca, Ciù la pelle gialla, ma erano lo stesso bambino. Pablo andava al cinema in spagnolo e Jimmy in inglese, ma erano lo stesso bambino, e ridevano nella stessa lingua. Ora sono cresciuti tutti e sette, e non potranno più farsi la guerra, perché tutti e sette sono un solo uomo.
.
Tratto da: Gianni Rodari Favole al telefono — Einaudi Ragazzi

La questione indigena in Perú

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La questione indigena in Perú – una vecchia storia
Il giornalista peruviano Ismael León Arías, in un articolo scritto proprio nei primi giorni di giugno, durante la dura repressione contro le legittime proteste del movimento indigeno che ha causato in Perù circa 50 morti fra nativi (ma che secondo alcune fonti, come vedremo, sarebbero molti di più) ed effettivi di polizia, ricorda ai suoi lettori un episodio avvenuto agli inizi degli anni ‘20 nel suo paese.

Accadde nella zona de La Chorrera, nel Caquetà, allora territorio peruviano oggi appartenente alla Colombia.
Julio César Arana, proprietario della Peruvian Amazon Comp. Limited, che si occupava della lavorazione del caucciù, dette ordine ai suoi uomini di far prigionieri venti indigeni che lavoravano nella sua impresa, di chiuderli dentro sacchi di iuta e di bruciarli vivi, come monito e avvertimento per tutti gli altri loro compagni che stavano protestando per le misere e indegne condizioni di vita e di lavoro.

Allora era presidente del paese Augusto Leguía, il quale, appoggiando la campagna per l’elezione a senatore della Repubblica di Julio César Arana, dichiarò alla stampa: “la foresta amazzonica è molto importante ma ha bisogno di essere civilizzata a qualsiasi costo e questo è quello che farò durante il mio governo”.

Suona familiare? Si chiede Ismael León Arías.

Il giornalista ricorda che in Perù, da quando il paese è una Repubblica, “nessuno ha mai fatto un censimento degli indigeni assassinati nell’Amazzonia”. “Si calcola soltanto — scrive — che siano stati decine di migliaia. Ieri uccisi per il caucciù e il legno, oggi per il petrolio, per l’industria estrattiva, ancora per il legno e per il narcotraffico. Chi oggi li accusa di essere selvaggi, ieri si sbracciava per esaltare il loro coraggio nella difesa del Perú durante la guerra con l’Ecuador. E tutti nel 2005 si riempivano la bocca chiedendogli il voto e offrendogli il paradiso in Terra”.

E’, infatti, una storia vecchia quella della repressione o della manipolazione, a seconda delle convenienze, degli indigeni peruviani.

E’ la storia della lotta che essi portano avanti per la rivendicazione del diritto sulle loro terre e che nasce innanzitutto dal conflitto in essere fra due visioni completamente differenti tra loro, e quindi inconciliabili, del concetto di proprietà: “per la società occidentale – si legge sul sito dell’AIDESEP, l’associazione che comprende le oltre 65 nazionalità indigene presenti nel paese, — la terra è di qualcuno quando ha un titolo di proprietà inscritto nei Pubblici Registri. Per gli indigeni il proprietario è la “madre della terra”. Per il mercato (la terra) ha importanza economica ed è negoziabile. Per noi indigeni ha importanza spirituale ed è sacra”.

Come si concilia tutto ciò con le politiche neoliberiste di svendita alle imprese private nazionali e straniere delle immense risorse di cui questa terra è così ricca?

“L’Amazzonia va civilizzata ad ogni costo” disse il presidente Leguía negli anni 20, durante la sua “dittatura progressista” in cui “una valanga di investimenti e prestiti nordamericani accelerava il processo di espansione dell’economia e delle opere pubbliche, fino a raggiungere un ritmo frenetico”.

Tuttavia nella Costituzione che egli promulgò nel 1920 venne dato riconoscimento giuridico alle comunità indigene e lo Stato si impegnò formalmente alla loro protezione.
Ma non si trattava allora, come non lo è adesso, di una questione di razzismo: gli enormi interessi in gioco erano e sono ancora quelli che determinano l’agire del Potere.

Paradossalmente il governo di Leguía dovette scontrarsi anche su questi temi con l’allora nascente movimento fondato da Víctor Raúl Haya de la Torre, l’APRA (Alianza Popular Revolucionaria Americana), lo stesso partito di Alan García, (di cui lui rappresenta l’unico candidato politico che ha ottenuto la presidenza). L’ APRA, tuttavia, resta la grande delusione di ogni peruviano di sinistra, in quanto da tempo ormai ha perso le caratteristiche peculiari che lo fecero uno dei più importanti movimenti progressisti latinoamericani: l’anti imperialismo, la lotta per l’unità della regione, la nazionalizzazione delle risorse del paese, la riforma agraria.

Alan García e la sindrome del cane dell’ortolano. Dove inizia questa storia.
La storia, almeno quella delle proteste più recenti, ha inizio con la firma del Trattato di Libero Commercio stipulato con gli Stati Uniti. Nonostante le mobilitazioni della società civile in quanto approvato senza nessuna consultazione popolare, contrariamente a quanto avvenuto per esempio recentemente in Costa Rica, fu sottoscritto l’8 dicembre del 2005 a Washington e negli anni immediatamente successivi (2006 e 2007) venne poi ratificato dai due paesi.

Ha inizio così la svendita da parte del governo di Alan García delle risorse naturali del suo paese, sfociata in questi giorni nella maggior crisi di governo del Perú da anni a questa parte. Crisi che ha determinato, proprio mentre si rincorrevano le notizie della sanguinosa repressione del movimento indigeno peruviano alla Curva del Diablo, un drastico calo della popolarità del presidente, ormai ai minimi storici dall’inizio del suo mandato, raggiungendo dati significativi nelle zone meno urbanizzate del paese.

Scrive il presidente in un suo lungo articolo pubblicato sul quotidiano El Comercio il 28 ottobre del 2007: “ci sono milioni di ettari da destinare allo sfruttamento del legno che non sono utilizzati, altrettanti milioni di ettari che le comunità e le loro associazioni non hanno coltivato né coltiveranno mai… ma la demagogia e le menzogne dicono che queste terre sono oggetti sacri e che questa organizzazione comunitaria è quella originaria del Perú… questo avviene in tutto il paese, terre incolte perchè il proprietario non ha formazione né risorse economiche e pertanto la sua è una proprietà apparente. Questa stessa terra venduta in grandi lotti porterebbe tecnologia della quale beneficerebbe anche l’indigeno delle comunità”.

Probabilmente l’aggressione di García alle comunità indigene e all’Amazzonia comincia formalmente da qui. In questo suo manifesto del neoliberalismo in salsa peruviana dal titolo “El sindrome del Perro del Ortolano” (parafrasando il titolo di una commedia di Lope de Vega) che, come dice l’antico detto “non mangia ma nemmeno lascia mangiare gli altri”, riferendosi al fatto che il cane dell’ortolano non mangia (perchè non gradisce le verdure) ma nemmeno lascia mangiare gli altri.

I cani in questo senso sarebbero gli indigeni, secondo il presidente Alan García che infatti scrive: “ci sono molte risorse che non sono cedibili, che non ricevono investimenti e che non generano lavoro. E tutto ciò per il tabù di ideologie superate, per pigrizia, per indolenza e per la legge del cane dell’ortolano che dice: se non lo faccio io che non lo faccia nessuno. La prima di queste risorse è l’Amazzonia. Ha 63 milioni di ettari e pioggia abbondante. Si potre
bbe coltivare per la produzione del legname, specialmente negli 8 milioni di ettari incolti, ma per fare questo c’è bisogno della proprietà, cioè un terreno sicuro di almeno 5mila, 10mila o 20mila ettari, perchè in quantità minore non c’è investimento formale a lungo termine e di alta tecnologia”.

I signori sono serviti. Gli indigeni e le loro belle parole sulla Madre Terra e la proprietà comunitaria. Decenni di lotte e di conquiste.
Gli indigeni come cani, gli indigeni inetti, oziosi e incapaci. E soprattutto poveri. Perchè continua il presidente García : “abbiamo commesso l’errore di dare piccoli appezzamenti di terra a famiglie povere che non hanno nemmeno un centesimo da investire e quindi a parte la Terra dovrebbero chiedere allo Stato fertilizzanti, semi, tecnologia e prezzi protetti”.

E propone quindi la sua ricetta: creare grandi latifondi dove le imprese possano investire enormi quantità di denaro e offrire migliaia di posti di lavoro. Con grandi, enormi, guadagni soltanto per pochi. Se è vero che il cane dell’ortolano non mangia e non vuol far mangiare gli altri, il cane di García è invece un ingordo e divora tutto quanto…

Elucubrazioni presidenziali a parte, l’Esecutivo aveva bisogno a questo punto di poter disporre di maggior libertà per legiferare su alcuni temi specifici in modo da favorire e semplificare l’applicazione del Trattato di Libero Commercio.

La legge 29157 e i 99 decreti (la Ley de la Selva)
Nel dicembre 2007 fu così presentata la legge 29157 che sarebbe entrata in vigore il 1 gennaio 2008 e che per un periodo di sei mesi (01.01.08 — 01.06.08) autorizzava il governo ad emettere Decreti Legislativi su materie relative al TLC. Venne così redatto un pacchetto di 99 Decreti, definiti generalmente “Ley de la Selva”, Legge della Foresta (dal n. 994 al n. 1092), proposti per semplificare la realizzazione del TLC e per (si legge nel testo) “fornire un miglior campo giuridico per sviluppare la competitività del paese”.

In realtà, come fa notare Luis Vittor della CAOI (Coordinadora Andina de Organizaciones Indígenas ) i “Decreti Legislativi del governo aprista di Alan García costituiscono un nuovo pacchetto di riforme per garantire non solo l’applicazione del TLC ma anche fondamentalmente per consolidare il modello liberale ed eliminare l’opposizione sociale che ostacola la libera circolazione del capitale privato. I Decreti Legislativi segnano una nuova pietra miliare, comparabile soltanto con le riforme realizzate dal governo Fujimori all’inizio degli anni ’90 su raccomandazione del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale”.

Tutti i Decreti Legislativi, sono fin dal principio accusati di essere incostituzionali dalla Defensoría del Pueblo e dalla Commissione della Costituzione del Congresso, nonché dall’AIDESEP in quanto la Costituzione del Perú emessa nel 1993 protegge particolarmente i territori dell’Amazzonia e soprattutto nei suoi articoli 66, 101 e 104 stabilisce che “le risorse naturali, rinnovabili e non rinnovabili sono patrimonio della Nazione” e che qualsiasi disposizione che riguardi il loro sfruttamento debba avvenire tramite una nuova Legge e non tramite Decreti Legislativi.

Inoltre i Decreti violano apertamente la Convenzione 169 dell’OIT (Organizzazione Internazionale del Lavoro) del 1969, ratificata dal Perú, che stabilisce che sia osservato “il rispetto delle culture, delle forme di vita e delle tradizioni dei popoli indigeni” e che gli Stati devono “consultare i popoli interessati tramite procedimenti appropriati e in particolare tramite le loro istituzioni rappresentative, ogni volta che si prevedono misure legislative o amministrative che possano riguardarli direttamente “.

I Decreti Legislativi più controversi sono: il 994, 1015, 1020, 1064, 1073, 1080, 1081, 1083, 1089 y 1090 e la legge 9933 sulle Risorse Idriche

Il DL 994 promuove gli investimenti privati in progetti di irrigazione di terre incolte. Considera inoltre proprietà dello stato le terre incolte e quelle potenzialmente agricole non sfruttate per eccesso o per mancanza di acqua, a meno che non siano iscritte nei Registri Pubblici. Ricordiamo che l’iscrizione nei Pubblici Registri delle proprietà soprattutto in Amazzonia (dove più di 100 comunità contadine non possiedono titolo di proprietà) è una pratica prevista dalla legge ma spesso non applicata e quindi i registri vengono considerati da alcuni enti e organizzazioni praticamente inaffidabili.
Il presidente della regione San Martín, César Villanueva, per esempio ha dichiarato che “ in alcune zone non si sa nemmeno con esattezza quali siano le terre di proprietà dello stato, o quelle che per usufrutto sono di proprietà delle persone che le abitano”. “Inoltre — ha aggiunto, sono territori occupati da persone che vivono lì da moltissimo tempo, senza nessun documento regolarmente inscritto negli uffici catastali e che quindi appaiono disabitate mentre così non è in realtà. Tutte le altre terre che invece sarebbero libere in realtà sono, secondo la Costituzione peruviana, patrimonio forestale dello Stato e quindi non in vendita”.

Il DL 1015 unisce invece i procedimenti delle comunità contadine e indigene della sierra e della selva con quelle della costa e dispone che per vendere le terre comunitarie sarà necessario il voto a favore di almeno il 50% dei membri dell’assemblea (indipendentemente dal numero dei membri della comunità), mentre prima dovevano essere almeno i 2/3 (66%) dei membri della comunità. Questo Decreto in pratica favorisce la parcellizzazione e la privatizzazione delle terre comunitarie.

Il DL 1020 promuove il credito agrario per quei soggetti che dispongano di maggiori risorse economiche e possano dare maggior garanzia di solvibilità. Crea inoltre delle figure giuridiche e legali che, diversamente dagli Enti Associativi Agrari che operano attualmente in questa materia, non darebbero garanzie sufficienti di tutela dei diritti delle comunità.

Il DL 1064, di fatto regola direttamente le attività delle comunità indigene sulle loro terre, (come per esempio le attività estrattive che attualmente vengono concordate con le stesse comunità).

La parlamentare del Congresso, Marisol Espinoza ha affermato che con l’ attuazione di questo Decreto si “violerebbe il diritto dei popoli indigeni a partecipare alle decisioni che riguardano le loro terre. In questo caso il modello di sviluppo viene imposto da Lima da coloro i quali decidono dove fare le concessioni contro la facoltà delle popolazioni di decidere dove sviluppare l’agricoltura e dove sviluppare invece le attività estrattive”.

Il DL 1081 crea il sistema nazionale di risorse idriche e in modo ambiguo apre una possibilità rispetto alla gestione privata dell’acqua contro il diritto delle comunità di gestire autonomamente le risorse presenti nel loro territorio,

Il DL 1083 promuove lo sfruttamento “efficiente” e la conservazione delle risorse idriche mediante l’istituzione di un “certificato di efficienza” che andrebbe a privilegiare gli utenti che disponendo di maggiori risorse economiche potranno beneficiare quindi anche di maggiori approvvigionamenti idrici come stabilisce il decreto.

Il DL 1089 è sotto accusa in quanto stabilisce che il COFOPRI (l’ente già incaricato per l’assegnazione delle proprietà urbane) per un periodo di quattro anni sarà l’ente incaricato della formalizzazione delle proprietà rurale, privilegiando criteri esclusivamente economici invece che criteri agricoli come faceva il Ministero dell’Agricoltura, precedentemente disposto a questo incarico. Fanno notare numerosi analisti che si andrebbe verso un concetto individuale della proprietà, invece di proteggere il concetto di proprietà comunitaria come espressamente previsto dalla Costituzione del Perú.

Il DL 1090 approva invece la Legge Forestale e della Fauna Silvestre che riduce drasticamente il patrimonio forestale del paese, protetto come abbiamo detto dalla Costituzione, lasciando fuori da questa definizione ( e quindi mettendolo a rischio) circa 45 milioni di ettari di terra, cioè il 60% delle foreste del Perú.
L’articolo 6 di questo Decreto inoltre, permette che quando siano in gioco progetti di interesse nazionale, possa applicarsi il cambio di destinazione d’uso delle terre, passando da patrimonio forestale a terre destinabili a “concessioni per iniziativa privata”.

Inoltre i DL 1059,1060 e 1080 (sulle sementi) invece sono sotto accusa perché, secondo alcuni specialisti, aprirebbero le porte all’ingresso, senza nessun tipo di controllo né regolamentazione delle specie transgeniche a discapito delle coltivazioni specifiche e peculiari del paese.

Tuttavia altri decreti sono stati messi sotto accusa da sindacati e associazioni di lavoratori, in quanto non rappresentano soltanto il mezzo per sviluppare nuovi investimenti nel settore agrario e forestale, ma anche il tentativo di consolidare e potenziare un modello di sviluppo, quello neoliberale, che affetta anche altri settori produttivi dell’economia peruviana, e che non è per niente innovativo ma che anzi è considerato da molti analisti ed economisti alla base della attuale crisi economica globale.

Così è stato contestato per esempio il DL 1022 che modifica la Legge del Sistema Portuale Nazionale e che aprirebbe la concessione dei porti peruviani ai capitali cileni. Molti lavoratori hanno realizzato campagne in cui sono state lavate le bandiere peruviane per protestare contro questo Decreto Legislativo. Si tratta di forme di nazionalismo che in Perú è sempre molto sentito soprattutto nelle questioni che riguardano i controversi rapporti con il confinante Cile.
E il DL 1031, che secondo l’Associazione di produttori di latte del Perú, favorirebbe gli interessi del Gruppo Gloria, che controlla circa l’80% del mercato del latte nel paese e pregiudicherebbe gli interessi delle piccole e medie imprese, permettendo tra l’altro l’uso di latte in polvere e sostituti vari per la produzione del latte fresco.

Tuttavia, i DL 1015 e 1073, sono stati abrogati il 20 agosto del 2008 dopo le numerose proteste delle comunità indigene, guidate dal leader dell’AIDESEP Alberto Pizango, che sono culminate con l’occupazione di due impianti petroliferi del paese e con il sequestro di due ufficiali di polizia. Alan García ha tentato di opporsi a questo procedimento di abrogazione ma, la causa è stata vinta dal Congresso che pertanto ha confermato la sua decisione.

“La foresta è di tutti” è stato pertanto il principio guida di Alan García. Intendendo ovviamente dal suo punto di vista che tutti (coloro che dispongono di maggiori risorse economiche) possono sfruttarla come meglio credono, derogando dai principi costituzionali e dalle convenzioni internazionali.

Praticamente tutto verte, come abbiamo visto, intorno al concetto di proprietà. In Perù esiste già una legge, la n. 28.852 che prevede che le terre dell’Amazzonia possano essere sfruttate in regime di concessione per lotti che non eccedano i diecimila ettari. Tuttavia il governo intende sostituire la concessione con la proprietà, la parolina magica per la quale si è scontrato fortemente con le comunità indigene presenti sul territorio, che abbiamo visto si tramandano un concetto completamente diverso di proprietà.

Scoppia la protesta – Incalzano gli eventi ma gli indigeni non sono soli.
La protesta delle comunità indigene, inizia formalmente il 9 aprile scorso nella zona di Bagua Grande, nella parte settentrionale del paese, a circa 1000 Km a nord di Lima,  con la richiesta al governo da parte delle comunità indigene dell’abrogazione degli altri decreti rimasti in vigore.

Tra i partiti politici che hanno appoggiato le proteste indigene e che hanno chiesto la revisione del Decreti Legge sono stati il partito Perú Posible (PP) dell’ex presidente Alejandro Toledo, il partito Nazionalista (PNP) dell’ex candidato Ollanta Humala sconfitto al ballottaggio da Alan García e il Partito Popolare Cristiano (PPC) di destra, di Lourdes Flores, altra ex candidata presidenziale delle scorse elezioni.

Alcune commissioni ed enti locali del paese, nonché i governi regionali delle aree interessate hanno espresso inoltre preoccupazione rispetto agli investime
nti che potrebbero impiantarsi e ai danni che questi potrebbero arrecare nelle zone interessate: sviluppo di nuove coltivazioni non autoctone e quindi potenzialmente pericolose per il delicato equilibrio dell’ecosistema della foresta, inquinamento, scomparsa delle comunità indigene e quindi anche del patrimonio culturale e umano, e via dicendo.

Il governo in questo frangente si è caratterizzato per un’attitudine irresponsabile ed evasiva. Di fronte alle richieste di revisione presentate dall’ AIDESEP (Asociación Interétnica de Desarrollo de la Selva Peruana) , ma anche dalla Defensoría del Pueblo e dalla Commissione della Costituzione al Tribunale Costituzionale, il Congresso e l’Esecutivo non hanno fatto altro che scaricarsi reciprocamente responsabilità e competenze.

In questo clima di incertezza, ma anche di rabbia crescente, a Puno, sul lago Titicaca, gli ultimi giorni di maggio (29/30e 31) si è tenuto il IV vertice internazionale dei Popoli Indigeni.

Riprendendo la conclusione del vertice dell’anno precedente, si è confermato in questa sede ancora una volta il concetto fondamentale per le comunità indigene di tutta l’America latina secondo le quali “il territorio è tutto, non è soltanto un’area geografica. E’ lo spazio della sua cultura e identità. E’ lo spazio dove si sviluppa la sua tecnologia, dove si svolge l’utilizzo equilibrato delle sue ricchezze naturali, la sua arte, la sua forma di essere e di pensare, la sua cosmovisione, la sua stessa vita”. Evo Morales  a Puno

Evo Morales, il presidente indigeno della Bolivia, nella sua lettera inviata agli oltre 6000 delegati indigeni di tutta la regione presenti sulle sponde del lago Titicaca, ha parlato di “conquista democratica del potere per riuscire a garantire i nostri diritti e i diritti della Madre Terra”. E quasi presagendo quello che sarebbe successo di lì a poco ha scritto: “è il momento che tutti sappiano che la nostra lotta non finisce qui, che dalla resistenza passiva siamo passati alla ribellione e dalla ribellione alla rivoluzione”.
Il vertice dei Popoli Indigeni, nella sua relazione finale approva e sostiene “la lotta dei popoli indigeni dell’Amazzonia del Perú contro le norme che privatizzano i suoi territori e i suoi beni naturali” E conclude: “la loro lotta è anche la nostra”.
Gli indigeni dell’Amazzonia peruviana non sono più soli, anche se è bastata questa lettera e questa testimonianza di solidarietà per far parlare il presidente peruviano di “complotto internazionale” organizzato contro il suo paese dalla Bolivia e dal Venezuela.

La violenta repressione e la mattanza di indigeni è scoppiata dopo 55 giorni di protesta pacifica, all’altezza della curva del Diablo, dove, nella zona di Bagua Grande, era stata bloccata alla circolazione una strada principale.
Erano in corso in quel momento le trattative tra i rappresentanti delle comunità indigene e l’Esecutivo. Alan García e il Ministro degli Interni, Mercedes Cabanillas senza aspettare l’esito delle mediazioni hanno dato improvviso ordine di attaccare per “ristabilire l’ordine” e per ripristinare la circolazione nella zona.
All’alba del 6 giugno, corpi speciali di polizia e dell’esercito in assetto da guerra, hanno circondato la strada bloccata e con elicotteri dall’alto hanno iniziato a lanciare lacrimogeni sulla folla e a sparare. Alcune persone che transitavano in zona o che semplicemente si trovavano a guardare quello che accadeva, sono morti sotto i colpi delle armi da fuoco sparati sulla folla, come avvenuto allo studente Ticlia Sanchez, che si trovava a transitare a bordo del suo mototaxi o come nel caso di un uomo che a Plaza de Armas è stato raggiunto da colpi di fucile al torace e alla testa. Notizia confermata anche dalla radio locale La Voz che ha denunciato che a Plaza de Armas sarebberro morti  altri due giovani e quattro bambini sarebbero rimasti feriti da colpi di fucili sparati dagli elicotteri della polizia.

A questo punto è esplosa la reazione violenta dei dimostranti e di tutta la popolazione che ha sequestrato alcuni membri di polizia restituendo i loro cadaveri più tardi e ha saccheggiato gli uffici delle istituzioni pubbliche presenti nella zona.

Centinaia di feriti si sono riversati nell’unico ospedale della città che era ovviamente impreparato ad accoglierli e curarli tutti. Ore dopo, l’esercito ha fatto irruzione nei locali dell’ospedale arrestando e portando via tutte le persone ferite.

E’stato interdetto nella zona l’accesso ai mezzi di comunicazione sia nazionali che internazionali per cui le uniche notizie erano quelle che provenivano da fonti governative. E’ stata inoltre oscurata l’emittente La Voz, l’unica che trasmetteva in tempo reale le notizie, con l’accusa di incitare alla rivolta la gente. Carlos Flores, corrispondente di CNR (Coordinadora Nacional de Radio) da Radio La Voz ha dichiarato che si è trattato di una “tattica del governo per cercare capri espiatori per snaturare il massacro contro i nostri fratelli nativi e per evitare le responsabilità della morte dei nostri fratelli poliziotti caduti durante questa azione”.

Molte istituzioni ed enti nazionali e internazionali, anche per la difesa dei diritti umani hanno parlato di genocidio e di massacro chiedendo che venga ritenuto responsabile Alan García e il suo governo.
La CAOI, organizzazione che rappresenta gli indigeni di diversi paesi, come la Bolivia, il Perú, l’Ecuador, il Cile, la Colombia e l’Argentina, ha parlato di “risposta dittatoriale dopo 56 giorni di lotta pacifica indigena e di presunti dialoghi e negoziazioni, che sono terminati con gli spari di sempre, gli stessi da oltre 500 anni di oppressione”.

Alberto PizangoSono stati emessi ordini di cattura contro i principali leader del movimento indigeno tra cui Alberto Pizango presidente dell’AISEDEP che l’8 giugno, dopo tre giorni di latitanza, è stato costretto a cercare asilo politico presso l’ambasciata del Nicaragua a Lima.
Di fronte alle crescenti proteste della comunità internazionale, turbata anche dalle immagini (video e fotografie) che hanno iniziato a circolare prima in internet e poi anche sulla stampa straniera e che dimostravano la violenza della repressione contro le comunità, il governo ha tentato di denunciare un presunto complotto internazionale guidato dal Venezuela e dalla Bolivia e un tentativo di destabilizzazione interno messo in atto dal Partito Nazionalista di Ollanta Humala.
Il presidente del Consiglio dei Ministri, Yehude Simon, pur essendo un uomo di sinistra, fondatore del Movimento Patria Libre, arrestato nel 1992 con l’accusa di terrorismo e condannato a 20 anni di carcere, dove è rimasto 8 anni e mezzo, ha appoggiato senza indugi in questo frangente la politica governativa, affermando anche in un’ intervista televisiva che le proteste erano manipolate dal governo dell’Ecuador per limitare la capacità petrolifera del Perú e quindi per evitare la concorrenza con il vicino paese andino. Dimostrando pertanto di non conoscere la realtà dell’Ecuador, dove pur avendo un governo senz’altro più sensibile alle loro richieste, gli indigeni sono molto critici con le politiche intraprese da Rafael Correa. Yehude Simon “è caduto alla Curva del Diablo” si è detto in questi giorni in Perú volendo indicare la perdita definitiva della fiducia tra i peruviani di sinistra che avevano inizialmente sperato in lui come uomo nuovo del governo García.

Il Parlamento peruviano finalmente ritira i Decreti Legislativi. Si può parlare di “vittoria storica”?
Il 19 giugno il Parlamento peruviano con 82 voti favorevoli e 12 contrari ha ritirato due dei 12 Decreti contestati dal movimento indigeno. Si tratta del n. 1090 e del 1064, sicuramente quelli più importanti e che mettevano più a rischio le terre dell’Amazzonia. Le organizzazioni indigene hanno parlato di “vittoria storica” e la notizia, accompagnata da analisi frettolose e incomplete così è rimbalzata su tutti i media internazionali.

Innanzitutto restano in vigore gli altri decreti, quali per esempio quelli che aprono alla privatizzazione delle risorse idriche, di cui l’Amazzonia è ricca e sulle quali le comunità indigene reclamano la gestione.
Restano anche in vigore i decreti contestati da altri settori della società peruviana, come per esempio quelli contestati dai lavoratori portuali. Anche gli addetti del settore minerario erano scesi in sciopero alcune settimane fa.
La revoca dei due decreti principali inoltre non ha assolutamente messo in discussione il Trattato di Libero Commercio con gli Stati Uniti che può essere sempre applicato aggirando con altri cavilli legislativi gli ostacoli che i Decreti Legislativi pretendevano semplificare.

Tutto lascia pensare pertanto, che tra sei mesi il Perú possa trovarsi di fronte ad una nuova crisi.
Restano tuttavia molti altri punti in sospeso. L’AIDESEP aveva posto come una delle condizioni principali per la ripresa del dialogo il ritiro delle accuse al leader Alberto Pizango che è riuscito ad ottenere il salvacondotto per il Niocaragua e adesso sta beneficiando in quel paese dell’asilo politico. Resta quindi ancora in sospeso la sua situazione giudiziaria, così come è ancora indefinita quella di altri 20 leader indigeni che si trovano attualmente reclusi nel carcere di massima sicurezza di Huancas  e dei quali non sono note le  condizioni di salute, né se è stato messo loro a disposizione un legale.

Vi sarebbero inoltre circa un centinaio di persone denunciate per crimini gravissimi quali terrorismo o apologia di terrorismo solo per aver offerto aiuto o assistenza legale agli indigeni in difficoltà.
Va inoltre fatta chiarezza quanto prima possibile rispetto alla reale situazione dei morti e delle persone scomparse. Si calcola che alla Curva del Diablo fino al 6 giugno fossero presenti circa 4mila indigeni. Risulta da fonti locali che hanno fatto ritorno nelle loro case circa 2200 persone. Dove sono tutti gli altri?

Alcuni testimoni parlano di centinaia di cadaveri messi in sacchi neri e gettati nei fiumi Marañon o Utcubamba, di fosse comuni presenti intorno alla Curva del Diablo o intorno al Corral Quemado che però si trovano in zone molto controllate e quindi impossibili da raggiungere.

Il coprifuoco e lo stato d’emergenza non sono stati ancora revocati e la zona è fortemente militarizzata con pesanti limitazioni di movimento della popolazione locale.

Si può parlare di vittoria storica?


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