Ho sempre creduto che qualcosa (molto, per essere più preciso; quasi tutto, direi) dovesse mutare nella nostra società. So che questo mutamento si prepara da tanto tempo, forse da decenni. So che molti non vi credono o non lo vogliono; e perciò riparano, racconciano, aggiustano quel che è troppo guasto, convinti che nessun crollo sia imminente. Intanto, un poco per giorno, il mondo muta.
Sono vissuto spiando il giorno di quella caduta; e preparandolo. Anche con poesie come questa, preparandolo. Ma la gioia che fin da ora mi ripaga di inevitabili sofferenze non è solo nella certezza di aver contribuito ad una trasformazione che voglio positiva; è nella persuasione che la causa occasionale finale potrà essere data dal leggero impeto di una giovinezza e di una felicità, dal minimo peso di un uccello, di una rondine, capace quindi di sottrarsi al crollo, di non avvertirlo nemmeno. Verranno generazioni di giovani che saranno più felici di noi e non avranno nemmeno bisogno di sapere da quale mondo atroce noi eravamo circondati. (Franco Fortini)
..
Scopro dalla finestra lo spigolo d’una gronda,
in una casa invecchiata, ch’è di legno corroso
e piegato da strati di tegoli. Rondini vi sostano
qualche volta. Qua e là, sul tetto, sui giunti
e lungo i tubi, gore di catrame, calcine
di misere riparazioni. Ma vento e neve,
se stancano il piombo delle docce, la trave marcita
non la spezzano ancora.
Penso con qualche gioia
che un giorno, e non importa
se non ci sarò io, basterà che una rondine
si posi un attimo lì perché tutto nel vuoto precipiti
irreparabilmente, quella volando via.
(Franco Fortini, 1958)
..
La gronda, allegoria del sistema e delle istituzioni. Troppo vecchie e troppo a lungo riparate nonostante l’evidenza dei danni strutturali, può oggi intendersi come allegoria del sistema capitalistico e liberista. In evidente collasso, il volo di una rondine può farlo definitivamente crollare. Forza che è primavera!!! (A.M)
INDICE:
Acciones y Justicia
· Carta Editorial de la Asociación de Padres y Familiares de las Víctimas de Sucumbíos, Ecuador
· Relatoria de la Jornada Continental de Protesta
· Carta Entregada a Patricia Espinosa C. Secretaria de Relaciones Exteriores
· Habla Lucía al año de la masacre (Parte 2)
Anális y Opinión
· Anális Jurídico por el Dr. Milton Castllo Maldonado
· Crisi y soberanía por Alberto Híjr
· Carta a Juan
Colombia
· Paramilitares colombianos se infiltran en Ecuador, refuerza Quito la frontera Afp, Dpa, Reuters
· Los habitantes de frontera no somos criminales INREDH
· Corre la sangre y suenan sables por Allende la Paz
· General Montoya cuidado: Narciso Isa Conde y los compañeros dominicanos no están solos, por Annalisa Melandri
Retratos de delincuentes
· Luis Camilo Osorio en picada por Winchester
· Juan Manuel Santos, el pistolero, por Mario López
Il bollettino in versione originale in file pdf è disponibile qui.
(AP Photo/Laurent Cipriani)
Ma non ci avevano detto che le classi non esistevano più?(sr)
In Francia, gli operai della Caterpillar (Multinazionale statunitense, che in Francia impiega 2500 persone e che aveva appena annunciato il licenziamento di 733 operai) hanno nuovamente sequestrato alcuni dirigenti dell’azienda che tenta di buttarli fuori. I quattro funzionari, trattenuti dagli operai nella sede dell’azienda di Grenoble, sono il direttore dell’azienda Nicolas Polutnick, il responsabile risorse umane, il capo del personale e un altro funzionario.
I “prigionieri” non sono i primi, nelle ultime settimane questo è il terzo caso di sequestro di manager di aziende che usano licenziamenti e cassa integrazione contro i loro lavoratori, avvenuto dopo il “rapimento” alla Sony France e alla M3 durati entrambi circa una trentina d’ore.
“Li tratteniamo per discutere con loro. Chiediamo che fissino una riunione coi rappresentanti del personale per sbloccare i negoziati” ha detto Benoit Nicolas, delegato del sindacato Cgt.
Vignetta di Lo Scomparso
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Si sono conclusi in Venezuela, a Caracas, il 26 marzo, dichiarata “Giornata Internazionale della Resistenza Armata”, gli incontri della Scuola Continentale di Formazione Marxista “Manuel Marulanda”, organizzati dalla Coordinadora Continental Bolivariana (CCB).
Come è noto la Coordinadora Continental Bolivariana, (in via di trasformazione in Movimiento Continental Bolivariano), è un coordinamento latinoamericano che, solidale con le lotte di liberazione delle popolazioni oppresse e vicino ai movimenti sociali, organizzazioni contadine, indigene e sindacali della regione, non ha mai discriminato forme diverse di lotta, a partire da quella armata. Semplicemente, in alcune particolari condizioni di sfruttamento e oppressione si considera che questa sia un diritto inalienabile dei popoli, una “risposta possibile a pressioni sociali ricorrenti e ingiuste” come ha dichiarato lo scrittore e analista politico messicano Carlos Montemayor in questa intervista rilasciata qualche mese fa a chi scrive.
La scuola Continentale di Formazione Marxista Manuel Marulanda vuole essere uno spazio permanente e un momento importante di formazione per quadri di base e quindi per tutti quei rappresentanti sindacali, contadini, difensori dei diritti umani o semplici militanti affinché possano operare e attuare richieste e trasformazioni nella società consapevoli del loro ruolo e della loro missione. Partire dallo studio dei classici del marxismo e delle esperienze rivoluzionarie internazionali, può essere un momento importante di riflessione in questo periodo di crisi del capitalismo e del neoliberismo, ma soprattutto deve essere uno strumento valido per coloro che hanno deciso di fare della politica e della propria militanza un’opportunità per tutta la collettività.
I lavori e gli incontri della scuola sono stati inaugurati il 20 marzo scorso dall’intellettuale marxista argentino Nestor Kohan con una conferenza sul tema “Materialismo, Dialettica, e Filosofia della Prassi”. (Qui una sua intervista in italiano rilasciata alla agenzia ABP)
Carlos Casanueva Troncoso, segretario generale della CCB e dirigente del Partito Comunista del Cile, introducendo i lavori ha salutato la vittoria del FMLN nelle ultime elezioni presidenziali in El Salvador e ha dichiarato che nonostante fosse prevista ai seminari una partecipazione di circa 60 persone, le presenze registrate sono state ben superiori alle 250.
Sono intervenuti apportando contributi importanti nonché la loro personale esperienza di militanti e rivoluzionari, oltre ad Amilcar Figueroa del Parlatino, Paul del Río, presidente del Cuartel San Carlos, Narciso Isa Conde della presidenza collettiva della CCB, anche numerosi delegati e rappresentanti del Partito Comunista del Venezuela, mentre Iñaki Gil de San Vicente de Heuskal Herria, della presidenza collettiva della CCB, non potendo essere presente per motivi di salute al seminario, ha inviato la sua esposizione sul tema: Marx e tutte le forme di lotta, la violenza e l’aspetto militare in Marx.
Le attività della scuola e gli incontri non potevano non essere caratterizzati da un forte appoggio solidario con la lotta dell’insorgenza colombiana delle FARC e grande enfasi è stata data alla figura del leader guerrigliero colombiano deceduto proprio il 26 marzo dell’anno scorso, Manuel Marulanda, alias Tirofijo.
Lo stesso tema della vigenza della lotta armata e della sua legittimità, che accesi dibattiti e opinioni controverse suscita anche nel nostro continente, è stato indubbiamente centrale a quasi tutti i seminari ed è stato l’argomento principale del foro conclusivo sulla “combinazione di tutte le forme di lotta e la violenza in Carlo Marx” tenutosi simbolicamente nel Cuartel San Carlos, centro di detenzione e tortura soprattutto negli anni ’70 ma in uso fino a tutto il 1994 (vi fu rinchiuso nel 1992 anche Hugo Chávez).
Gli incontri si sono conclusi con un corteo autorizzato dal municipio Libertador verso la piazza Marulanda dove un busto del guerrigliero è stato inaugurato lo scorso mese di ottobre.
Al riguardo ha segnalato Narciso Isa Conde che questa commemorazione è stata possibile nell’ambito dello spazio dell’autonomia di alcune organizzazioni del potere popolare e che “una cosa sono le relazioni tra gli stati e un’altra l’esercizio del diritto dei popoli all’interno di tali stati”.
Percorsi diversi caratterizzano il Venezuela di oggi, sempre sospeso tra passato e presente ma sempre più deciso a partire dalla base, in un percorso che trova riscontro anche nelle istituzioni, a ridare dignità al popolo. Perchè no? Partendo anche da quei simboli che nel bene o nel male hanno segnato la cultura di una intera regione.
E così mentre si accoglie una scuola di pensiero marxista che legittimi il diritto dei popoli all’insorgenza (diritto riconosciuto come inalienabile in altre diverse situazioni geopolitiche) o si innalzano busti a Manuel Marulanda o a Che Guevara o a Emiliano Zapata, viene rimossa la statua di Cristoforo Colombo dal parco del “Calvario”.
E non si tratta di “riscrivere” la storia come la miopia tutta eurocentrica di Rocco Cotroneo vorrebbe far credere ai lettori del Corriere della Sera, ma semplicemente di restituire centralità alla consapevolezza della realtà storica latinoamericana e quindi di viverla finalmente da protagonisti e non da soggiogati, in un percorso che vuole essere più sociale che storico, più culturale che politico.
Non si tratta di un “richiamo alle origini indigene del Venezuela, evidente nei tratti somatici del suo comandante” come sottolinea il Cotroneo con una punta di razzismo, ma della rivalutazione delle figure eroiche continentali che fino a questo momento sono state oscurate e nascoste dall’iconografia occidentale dominante.
E se finalmente il 12 ottobre legittimamente potrà essere chiamata “Giornata della resistenza indigena”, allora salutiamo con la simpatia che nutriamo da sempre per tutti i popoli oppressi, il 26 marzo “Giornata Internazionale della Resistenza Armata”.
Propongo questo articolo, scritto da un intellettuale e una persona che stimo moltissimo, sperando che possa scaturirne un dibattito sereno.(AM)
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El caso Lage — Perez Roque y los cambios en Cuba
Escrito por Narciso Isa Conde
miércoles, 11 de marzo de 2009
La desinformación definitivamente no ayuda, como no ayuda el contenido común de las cartas publicadas, ambas estructuradas sobre un mismo y escueto patrón.
Esta forma de presentar el problema más bien siembra confusión, desata especulaciones, reitera un mal histórico dentro del denominado “socialismo de Estado”: el secretismo en el ejercer de funciones públicas y políticas que deben serejercida abiertamente, de cara al pueblo y a sus organizaciones políticas y sociales, frente a la base del partido y ante toda la sociedad a la que estos funcionarios y dirigentes políticos están en el deber de rendir cuentas.
En estos días me enviaron desde Cuba esta nota informativa:
“La Habana, 05/3/2009. RPA. El diario Juventud Rebelde publica hoy las cartas renuncias del Vicepresidente del Consejo de Estado y miembro del Buró Político del Partido Comunista de Cuba (BP PCC), Carlos Lage Dávila, y del destituido ministro de Relaciones Exteriores, Felipe Pérez Roque. En las cartas, breves, ambos ex-hombres importantes del gobierno y del estado cubano, reconocen sus errores, no especificados, y ratifican su lealtad a la Revolución, el Partido y a Fidel y Raúl Castro.”
“Lage renuncia a su condición de Vicepresidente del Consejo de Estado, a miembro del Buró Político y a su condición de Diputado en el Parlamento.
Por su parte, Pérez Roque renuncia a su condición de integrante del Comité Central del Partido Comunista de Cuba y a la de Diputado al parlamento.
En las cartas, fechadas el pasado día 3 de marzo, los ex–dirigentes dicen aceptar las conclusiones del análisis realizado por el Buró Político, pero hasta el momento dicho análisis no es del dominio público. Solamente el ex-presidente Fidel Castro en una reflexión publicada hace dos días (ver Radar Cubano) usó de una categoría moral (indignidad) como básica para la remoción de estos dos funcionarios y dirigentes; si bien el aspecto moral es esencial en todo funcionario público y/o político, buena parte de la ciudadanía, que no duda de las aseveraciones de Fidel Castro, se pregunta hasta dónde llegaron en su conducta moral. Otros ciudadanos estiman que además debía hacerse pública la valoración de su proceder en el ámbito político-administrativo.”
Un análisis y unos errores desconocidos por silenciados
Porque me siento parte de la revolución cubana, porque me duelen sus problemas y me alegran sus éxitos, porque su destino impacta sensiblemente el proceso hacia la nueva independencia, la nueva democracia y el tránsito al nuevo socialismo en nuestra América, me parece importante el debate sobre estos hechos relacionados con el presente y el futuro de esa revolución pionera.
A mi particularmente, abordado periódicamente y sistemáticamente por los medios de comunicación de mi país sobre los hechos que acontecen en Cuba, me resulta imposible evadir y guardar silencio sobre lo que aprecio y pienso sobre estos nuevos acontecimientos. Además, siempre hay lecciones y valoraciones útiles en situaciones como la comentada.
Concuerdo con le criterio que favorece conocer el análisis y los motivos que condujeron a calificar de “indignos” y “ambiciosos” y a sancionar, nada más y nada menos por el propio Fidel, a estas dos destacadas figuras de la llamada “segunda camada” o “segunda generación” de dirigentes revolucionarios cubanos.
Sobre ambos Fidel y los dirigentes históricos de la revolución cubana habían depositado una gran confianza, entendiendo que su edad y sus cualidades políticas, ideológicas y profesionales le daban frescura al proceso..
De ahí primero el impacto de las medidas administrativas anunciadas por el Consejo de Estado, luego de las descalificaciones morales planteadas por Fidel (quien nunca se a arriesgado a hacer una acusación moral sin fundamentos serios y hechos demostrables) y finalmente del contenido de sus respectivas cartas renunciando a todos los cargos electivos en el partido y en el Estado, admitiendo errores y expresando lealtad y fidelidad a la revolución y a sus máximas figuras: Fidel y Raúl.
Pero lo común –y un tanto desconcertante– ha sido que en esos tres momentos ni el Presidente Raúl Castro, ni el Consejo de Estado, ni el Buró Político del Partido, ni el Comité Central, ni Fidel, han dado a conocer en que consistieron los “errores” de Lage y Pérez Roque, cuales fueron sus faltas morales, que los hace indignos y en qué consistieron sus ambiciones. Y no creo que sea imposible decir lo esencial sin afectar zonas de seguridad, siempre con el interés de que la sociedad quede bienedificada y pueda sacar las lecciones correspondientes y sugerir correcciones.
El secretismo en estos casos no ayuda
La desinformación definitivamente no ayuda, como no ayuda el contenido común de las cartas publicadas, ambas estructuradas sobre un mismo y escueto patrón.
Esta forma de presentar el problema más bien siembra confusión, desata especulaciones, reitera un mal histórico dentro del denominado “socialismo de Estado”: el secretismo en el ejercer de funciones públicas y políticas que deben serejercida abiertamente, de cara al pueblo y a sus organizaciones políticas y sociales, frente a la base del partido y ante toda la sociedad a la que estos funcionarios y dirigentes políticos están en el deber de rendir cuentas.
Además, el secretismo impide en general apreciar la real magnitud de los errores, hasta donde fueron exclusivos e individuales y hasta donde no; hasta donde el análisis fue justo, las correcciones adecuadas y la crítica y la autocrítica acertadas; hasta donde llegan las responsabilidades individuales y hasta donde las colectivas; si hubo o no métodos y estilos de trabajo tradicionales, usos y costumbres –o situaciones estructurales– que pudieron servirles de caldo de cultivo a esos errores individuales;hasta donde esos errores fueron tolerados hasta convertirse en algo graves mientras no se habían generado determinadas tensiones políticas, y hasta donde hubo o no factores extras que provocaron ese desenlace.
Y lo que peor es que de esa forma es imposible conocer si hubo o no un examen del caso que posibilite una aproximación a determinar las causas, el porqué o los porqués de la generación periódica de ese tipo de errores y de situaciones, así como la razón o razones que determinan que dirigentes de ese calibre incurran en errores tan graves como para ser calificados de indignos y entonces asumir más allá de las sanciones institucionales una serie de renuncias, declarando a la vez su fidelidad a la revolución, a Fidel y a Raúl, aceptando errores no identificados y se auto-sancionándose más allá de lo anunciado a través de sendas cartas que evidentemente responden a un mismo patrón y que realmente no explican nada.
La reiteración de casos parecidos
El paso brusco de la gracia total a la desgracia total inexplicada es además de evidentemente defectuoso, realmente confuso y desconcertante. Pero resulta además que ese tipo de situaciones, con motivos, formas y sanciones distintas, es bastante repetitiva.
Ahora me llegan a la mente aquellas palabras de la doctora Tablada, prestigiosa profesional revolucionaria, cuando desde su condición de miembra del Consejo de Estado de Cuba, en ocasión del proceso contra el general Ochoa (héroe internacionalista de la campaña africana), planteó –sin objetar la sanción necesaria a los graves delitos cometidos por él– la necesidad de indagar en las causas estructurales que generaban la corrupción, al tiempo devaticinar que si eso no se abordaba como era debido, de seguro se iban a presentar nuevos casos. Y así ha sido.
Recuerdo, entre ellos, los casos posteriores de Carlos Aldana y del ex-canciller Roberto Robaina, comprobación de la certeza de esa sincera preocupación, entonces no escuchada; esto si nos atenemos estrictamente a los motivos oficiales que se alegaron para la sanción y exclusión total de esos dos altos dirigentes. Y hay otros casos parecidos, entre ellos el de Luis Orlando Domínguez, quien después de haber sido un Primer Secretario de la Unión de Jóvenes Comunistas (UJC) desempeñó el cargo de director del Instituto de Aeronaútica Civil de Cuba (IACC), donde estalló bajo su responsabilidad un grave escándalo de corrupción
En verdad situaciones de ese tipo, e incluso mucho más cuestionables, se presentanban periódicamente a lo largo de la historia de los modelos estatistas –burocráticos en el llamado socialismo euro-oriental y también en el asiático; en unos casos con formas más bárbaras y grotescas que en otros, y también con desenlaces trágicos y comisiones de graves injusticias, que felizmente no se han dado en el curso de la revolución cubana por los principios morales y la aversión al crimen que han animado a los líderes del proceso.
Esto de todas maneras nos remite a la cuestión estructural, a las características esenciales del modelo cubano, aun con todo lo atenuadas que puedanhaberse desarrollado sus aristas y esencias negativas, generadoras de corrupción, sistemas de privilegios, centralización extrema, intolerancia y negación de democracia integral y participativa.
Las ideas preeminentes en el pensamiento revolucionario y en los grandes referentes socialistas del siglo XX, la bi-polarización y la guerra fría, el trasplante deformador y dogmatizante del modelo soviético en una significativa dimensión del sistema cubano y, en consecuencia, la progresiva, contradictoria y tortuosa evolución del proceso cubano hacia el predominio de un estatismo-burocrático todavía no superado, es lo que puede explicar estas lamentables situaciones.
No se trata de casos aislados o debilidades personales. Es a todas luces un problema sistémico–estructural, que genera censuras y autocensuras e islas de poder que encumbren y posibilitan la acumulación de los males; que facilita formas de hacer políticas y métodos verticales de dirección, con ausencia de control social, poderes superpuestos a las bases de la sociedad, superestructuras y organismos incontrolables desde el pueblo y vulnerables a los excesos y a la repotenciación del patrimonialismo y del paternalismo estatal.
Por razones históricas, familiares, de formación, unos cuadros pueden tener una ética y una moral revolucionaria más recia y resistente que otros; pero de todas maneras el “ambiente” permea y contamina a no pocos y en amplias franjas de la sociedad, y los males acumulados en las alturas generalmente rodeado de un gran hermetismo tienden en algunos casos a estallar en función de la gravitación de ciertas diferencias políticas o de problemas adicionales de otra índole.
Crisis, cambios, vías y opciones
Cuba vive hoy una fase que exige cambios. El modelo estatista se estancó y se está agotando. Lo central ahora debería ser la discusión sin restricciones del nuevo rumbo a seguir.
Creo que de más en más la contradicción de más valor cualitativo es si se da el viraje en función de reformas económicas parecidas o inspiradas en las que se han dado en China (que a mi modo de ver, hasta el momento y tal y como se publicita, ha sido unreferente exitoso y atrayente que conduce a modelos antidemocráticos, combinación de capitalismo Estado con cierta vocación social y de capitalismo privado transnacionalizado con muchas desigualdades y sobre-explotación y demasiada corrupción), o si se asume el camino de socialización progresiva y diversa de lo estatal y la democratización del sistema político hacia una democracia basada en el poder popular, participativa e integral; esto es hacia un nuevo socialismo (que a mi entender es la opción paraprofundizar la revolución anticapitalista y anti-imperialista).
Es la disyuntiva entre la llamada “vía china” o “vietnamita”, adecuada a la realidad cubana (que conduce a la paulatina restauración o desarrollo capitalista con las características ya descritas), y el tránsito hacia el socialismo autogestionado, cooperativista, democrático y participativo (con variadas formas de propiedad social, sin descartar cierto grado de propiedad privada y mixtas subordinadas a la socialización progresiva, con democracia directa, participación y representación socialmente controlada).
Ambas vías implican superar el inmovilismo o estancamiento y evitar un eventual colapso del modelo en crisis; colapso que podría llevar a una tercera opción, la más o¬nerosa de todas: a la contra-revolución imperialista, al intento de restauración violenta y brusca del capitalismo, a la anexión de Cuba a los EEUU y al imperialismo occidental; sin descartar en ese contexto la guerra civil con resultados no previsibles.
Al tema del modelo agotado se agrega el serio problema generacional que afecta, debido al envejecimiento de la generación histórica y al distanciamiento político de una gran parte de la juventud por serios en esa dirección. La exclusión de dirigentes de la “camada intermedia” y de otros más jóvenes con cierto impactoen las nuevas generaciones, junto al peso excesivo en primera línea de los históricos afecta el tema y refuerza imágenes negativas. Recientemente, también, fueron sustituidos dos cuadros relativamente jóvenes y muy capaces: Elíades Acosta (del Departamento de Cultura del CC del PCC) y Marta Loma (Ministra de Inversiones y Colaboración), ésta última sustituida por Malmierca jr., que ahora asume la fusión de ese organismo con el Mincex, del cual quitaron a otro relativamente joven (de la Nuez).
No desprecio en absoluto la importancia de la experiencia en la política de cuadros, tampoco los valores positivos de las reestructuraciones del modelo estatista, las compactaciones, modernizaciones, separación de funciones y los nuevos métodos anunciados recientemente por el gobierno del comandante Raúl Castro; como tampoco la búsqueda de mejores modelos gerenciales, algunos de ellos ensayados con éxitos relativos por las propias Fuerzas Armadas Revolucionarias de Cuba.
Pero lo entiendo esas reestructuraciones muy insuficientes y a la vez compatibles con las dos vías apuntadas en el debate: la neo-china y la neo-socialista. Como también entiendo que existe en fuerte desequilibrio generacional en el desempeño de las funciones públicas y políticas en detrimento de la juventud y sus grandes valores creativos en la Cuba de hoy
Esas reestructuración del Estado es una cuestión importante, pero sin posibilidad alguna por sí sola de superar la crisis estructural delmodelo vigente, la cual exige definiciones de otro orden en cuanto al remonte de las relaciones de producción y distribución y servicios basadas en la propiedad estatal y el trabajo asalariado, en cuanto a la superación de la gestión burocrática, en cuanto al nuevo patrón tecno-científico del sistema, en cuanto a la inserción internacional de Cuba, en cuanto al rescate y renovación de los valores culturales y éticos del socialismo, en cuanto a los cambios en el sistema político, sus bases constitucionales del país y sus instituciones en todo lo que se refiera a democracia social, política, racial, de género, de generaciones y cultura.
De todo esto se ha estado hablando bastante y habrá que seguir insistiendo, proponiendo y recreando: cambio de modelo dentro de una orientación socialista, democratización socialista, relevo y equilibrio generacional y posicionamiento en el tema de la revolución y la integración continental, son desafíos actuales ineludibles para la revolución cubana de hoy. De lo contrario el camino habrá de ser tormentoso y los males se seguirán acumulando; mientras que la adopción de la llamada “vía china”, si bien puede evitar el derrumbe, equivale a una especie de Termidor cubano, al freno a la revolución desde adentro, a su reversión hacia modalidades capitalista asentadas y al cierre de la vía socialista.
Mas allá del caso Lage-Pérez Roque, los cambios ejecutados apuntan en dirección a una mayor hegemonía del equipo de gobierno del comandante Raúl Castro y de su visión a corto y mediano plazo, lo cual todavía no se ha desplegado como para ser evaluada, aunque es apreciable que no está muy inclinada ni hacia la socialización acelerada de lo estatal ni hacia la democracia participativa e integral, sino hacia otro tipo de reformas más asimilables por las elites políticas, burocráticas y tecnocráticas, y al parecer, aunque no inexorablemente, más próxima al referente chino– vietnamita.
De todas maneras no está predeterminado con claridad el nuevo rumbo, mucho menos desplegado su programa a ejecutar. Tampoco, debido a esos déficits, son tan previsibles el tipo y la intensidad de las contradicciones, consensos y disensos que habrá de provocar.
Lo importante ahora es debatir con altura, sin exclusiones ni intolerancia, las alternativas a decidir,procurando abrirle cada vez más espacio a la PARTICIPACIÓN Y A LA CREACIÓN HEROICA DEL PUEBLO.
7 de marzo 2009, Santo Domingo, RD
(Clicca sull’ immagine per ascoltare la registrazione della clip realizzata da Guido Piccoli sullo scandalo dei falsi positivi)
Ascolta la registrazione dell’intervista a Guido Piccoli realizzata da Radio Onda Rossa l’11 marzo 2009
E LO STATO DIVENNE IL VERO TERRORISTA
Colombia DEI FANTASMI
di Guido Piccoli
Fonte: Il Manifesto
Scoppia lo scandalo dei «falsi positivi»: l’esercito uccide innocenti e li veste da guerriglieri. Per soldi, mostrine, licenze. Rimossi 27 ufficiali. Ma il capo, il generale Montoya, viene promosso ambasciatore
Quando si parla di terrorismo in Colombia si è indotti a pensare alla guerriglia, anzi alla «narcoguerriglia, com’è definita dalla gran parte della stampa. Paragonati non solo ai gruppi paramilitari ma anche all’esercito, però, i ribelli appaiono degli angioletti. Anche quelli delle Farc, nonostante i crimini e i frequenti «errori» nelle loro attività (che vanno dai sequestri di civili agli omicidi di persone non combattenti, per arrivare all’uso delle mine antipersona e delle bombole a gas trasformate artigianalmente in ordigni). Non si tratta di assolvere il male col peggio, ma di raccontare la realtà per quella che è, squarciando il velo di falsità e ipocrisia che nasconde il maggiore protagonista del terrorismo nel paese: cioè lo stato, con gli agenti legali e quelli clandestini.
Le dittature latinoamericane dei decenni scorsi, poco importa se con giunte infarcite di militari o civili, crearono macchine di morte capaci di crimini su larga scala e fino ad allora sconosciuti come le cosiddette «sparizioni forzate». Ma quelle erano dittature e combattevano le «guerre di bassa intensità», proclamate dagli Usa di John F. Kennedy. Ma lo scandalo detto dei «falsi positivi», che dopo anni di denunce affiora finalmente anche fuori dai confini colombiani è ben più ignobile. Perché realizzato da una presunta democrazia e perché manca di una qualunque giustificazione ideologica.
Per falsi positivi s’intendono le montature organizzate dai militari per prendersi meriti rispetto al potere politico e, al loro interno, con i superiori. Negli anni 90, erano soprattutto attentati da attribuire alle Farc o a Pablo Escobar, quando questi cominciò a perdere potere e amici potenti: una strategia della tensione alla colombiana che aveva pur sempre un fine politico. Poi si cominciarono ad ammazzare degli sconosciuti, presi a caso nella campagne e costretti ad indossare tute mimetiche prima di essere uccisi. «Mi arrivavano denunce, che trasmettevo regolarmente a Washington, di cadaveri insanguinati dentro uniformi che non avevano un solo foro. Non occorreva essere Einstein per capire» ha ammesso pochi giorni fa al New Herald Myles Frechette, ambasciatore statunitense a Bogotà dal 1994 al 1997.
La pratica assassina, passata inosservata fin quando ad essere ammazzati erano umili contadini, emerse nel novembre 2005 quando nella regione di Cordoba un plotone della XI° brigata uccise e presentò paradossalmente come guerrigliero il fratello latifondista di Eleonora Pineda, senatrice filo-Auc e amica di Uribe (e attualmente detenuta per paramilitarismo). Tutti i delitti, compreso questo ultimo, rimasero impuniti grazie al gioco di squadra delle più alte cariche dello stato: del presidente Uribe e del ministro della difesa Juan Manuel Santos fino ai comandanti militari e ai diversi giudici, intimoriti o complici, che usavano ogni cavillo per insabbiare indagini e processi. La paura costringeva al silenzio i familiari delle vittime. L’impunità indusse gli assassini ad organizzare un vero e proprio commercio d’innocenti, spesso sequestrati con l’inganno anche nelle periferie delle grandi città, trasportati nelle regioni di conflitto del paese e ammazzati senza pietà.
Nel settembre scorso lo scandalo dei «falsi positivi» scoppiò a Soacha, un quartiere meridionale di Bogotà, grazie al coraggio di un funzionario comunale e alla disperazione dei parenti di una ventina di ragazzi denunciati come desaparecidos e ritrovati (alcuni già il giorno dopo) cadaveri nell’obitorio di Ocaña, una cittadina nord-orientale distante 500 chilometri dalla capitale, e presentati dalla locale brigata come sovversivi «caduti in combattimento». Poprio ad Ocaña, mesi prima, un sergente aveva denunciato che nel suo battaglione i soldati erano premiati con cinque giorni di licenza per ogni nemico ucciso: venne espulso dall’esercito. Dopo Soacha si conobbero casi simili in tutto il paese. Inizialmente Uribe e i suoi uomini negarono ogni responsabilità dell’esercito. «Dicono che da qualche parte ci sono settori delle nostre forze armate che misurano i loro successi con i cadaveri, stento a credere che sia vero» disse il ministro della difesa Juan Manuel Santos. In realtà, il body counting era il logico effetto delle pressanti richieste fatte da Uribe ai vertici delle forze armate di mostrare risultati nella loro guerra alla sovversione. Per qualche giorno Uribe continuò a difendere l’esercito, arrivando ad insultare le vittime: «Se sono finiti in quella regione non è certo per raccogliere caffè», disse due giorni prima di cambiare sorprendentemente atteggiamento, ammettendo l’esistenza nella truppa di qualche pecora nera. A fine ottobre il gran colpo ad effetto della rimozione di tre generali e una ventina di altri ufficiali e sottufficiali, coinvolti nel massacro. E, per ultimo, le dimissioni forzate del comandante in capo dell’esercito Mario Montoya, il generale che Ingrid Betancourt abbracciò appena libera. La stampa parlò di depurazione e gran repulisti. In realtà nessuno degli implicati è finito in galera. Al massimo qualcuno ha dovuto cambiare lavoro passando, come tanti paramilitari smobilitati, al soldo delle potenti compagnie di sicurezza private. Montoya, che già annoverava un bel passato criminale (come organizzatore degli squadroni della morte e collaboratore delle bande paramilitari), è stato premiato da Uribe con la nomina ad ambasciatore a Santo Domingo.
E’ molto probabile che anche questo scandalo rimanga quindi impunito, grazie all’efficace copione di sempre, diviso in tre capitoli. Finchè si può, si negano le denunce dei familiari delle vittime o degli organismi di difesa dei diritti umani e si giura sull’onore dei militari (e nel mentre magari si assoldano sicari per far tacere i testimoni più testardi). Poi si finge di sacrificare qualche pecora nera o si fabbrica un capro espiatorio. Alla fine, spenti i riflettori, si salvano le pecore nere (quando non si premiano senza pudore, come nel caso di Montoya) o, nei casi estremi, si eliminano, pur di perpetuare un sistema di potere mafioso e assassino spacciato per democratico.
«Ma quale democrazia? Ti sequestrano, t’ammazzano e ti danno il colpo di grazia» urlavano nella manifestazione del 6 marzo scorso i parenti dei ragazzi uccisi in nome della «sicurezza democratica» di Uribe. La speranza di ottenere giustizia per questa carneficina punendo anche i suoi responsabili maggiori, come Uribe e Santos, risiede lontano dalle aule giudiziarie colombiane, nel rigore della Corte penale internazionale e, ovviamente, nella valutazione politica degli Usa, i veri sovrani della Colombia. Non si sa dove sia meglio, o peggio, riposta.
di Simone Bruno
«Denaro, licenze e premi: così una direttiva metteva un prezzo ai morti»
Ivan Cepeda e Liliana Uribe, attivisti contro i «falsi positivi»: un documento del 2005 indica il valore di ogni uomo eliminato.
Iván Cepeda, portavoce del Movimento delle vittime di crimini di stato (Movice), è stato tra gli organizzatori delle manifestazioni in favore delle vittime dei falsos positivos del 6 di marzo, che ha visto la partecipazione dei familiari di circa 200 ragazzi assassinati provenienti da 15 regioni del paese.
Cosa chiedete con questa manifestazione?
La creazione di un gruppo speciale d’investigatori, che si dedichi esclusivamente alla ricerca dei responsabili delle 1400 esecuzioni commesse in Colombia durante il governo Uribe. Fino ad ora le indagini non sono andate avanti, perchè affidate alla giustizia penale militare, ignorando le raccomandazioni dell’Onu. In alcune regioni sono a carico di magistrati designati dall’ex fiscal Camilo Osorio (già ambasciatore in Italia e attuale ambasciatore in Messico): è molto probabile che facciano parte dell’apparato paramilitare. Molte famiglie non hanno ancora potuto riavere i cadaveri dei propri cari.
Il ministro della difesa Santos considera quello dei «falsos positivos» un caso chiuso affermando che da ottobre, da quando sono stati allontanati i 27 militari, non si siano verificati nuovi omicidi. È vero?
Mente. Continuiamo a registrare casi con modalità molto simili. Santos è il responsabile politico di questa catena di esecuzioni e ne chiediamo la destituzione immediata.
E il generale Montoya?
Durante il suo periodo alla guida dell’esercito sono aumentati in modo significativo gli omicidi di civili. I generali sono i veri responsabili di questa catena d’omicidi. Il generale Montoya deve essere richiamato in Colombia per rispondere alla giustizia civile.
Si può parlare di crimini di lesa umanità?
Sì perchè, come ha già affermato l’Alto commissariato per i diritti umani dell’Onu, non sono casi isolati, ma rispondono a politiche istituzionali e in primo luogo alla politica di seguridad democratica del presidente.
La Cceeu (Coordinamento Colombia Europa Stati Uniti) è un’organizzazione che raccoglie circa duecento ong che si occupano di diritti umani in Colombia e che, più delle altre, ha studiato i casi dei falsos positivos nel paese. Liliana Uribe ne è la portavoce.
Cosa avete potuto accertare con i vostri studi?
I falsos positivos si presentano su tutto il territorio nazionale, anche in regioni dove prima non presentavano casi di questo tipo, come Huila e Norte de Santander, che sono le più colpite dalla politica di seguridad democratica. A differenza di quanto afferma il governo, gli incentivi per i militari che uccidono un nemico sono ancora presenti. L’anno scorso abbiamo scoperto una direttiva, la 029 del 2005, un documento segreto scritto dall’attuale ambasciatore all’Osa (Organizzazione degli stati americani) che indica il valore d’ogni essere umano eliminato, in termini di denaro, licenze e altri premi. La storia si basa anche sull’opinione dei militari che la vita dei ragazzi disoccupati non valga niente.
Quanto influisce su tutto questo l’impunità diffusa?
Su 716 casi con 1171 vittime, solo in 32 è stata aperta un’indagine, e non si è mai arrivati ad una condanna. Nelle zone rurali le cose vanno anche peggio. Inoltre s’indaga solo sugli esecutori, mai sui mandanti. Dei 27 alti ufficiali destituiti, nessuno risulta indagato penalmente. E’ forte l’impressione che nessuno risponderà mai alla giustizia. Nonostante dal giugno del 2007 siano state emesse varie direttive dal ministero della difesa contro le esecuzioni extragiudiziali, nel 2008 se ne sono verificate 160. Nelle caserme si sente dire che si può fare tutto, “tanto poi ne risponde il presidente”.
Le magliette di moda nell’esercito israeleiano: “meglio ammazzarli da piccoli”.
La denuncia scioccante viene dal quotidiano israeliano Haaretz. Ai soldati israeliani piace andare in giro con magliette che superano i classici simbolismi del militarismo per addentrarsi nella guerra del futuro, quella asimmetrica nella quale il protagonista è il cecchino onnipotente con la testa vuota che ammazza civili, meglio se donne e bambini.
E questo si riflette nella moda, nell’abbigliamento dei soldati di Tsahal. Sembra vadano a ruba le magliette con disegni di bambini presi nel mirino, oppure madri piangenti sulle tombe dei figli oppure t-shirt come quella nella foto che mostra una donna palestinese incinta e lo slogan: “con un tiro due piccioni”.
Tutte le scritte sono per “uomini veri”, notevole per un esercito che fa dell’integrazione delle ragazze motivo d’immagine. I riferimenti sessuali, perfino allo stupro, sono continui come sono continui quelli alla maternità “piangeranno, piangeranno”. A una maglietta che mostra un bimbo ammazzato si accompagna un “era meglio se usavano il preservativo”. A quella con un bambino palestinese nel mirino si accompagna un “non importa quando si comincia, dobbiamo farla finita con loro” che suona in italiano come “meglio ammazzarli da piccoli”.
Leggi tutto il reportage di Haaretz qui e conserva questo link per la prossima volta che ti diranno che i palestinesi educano i figli alla cultura dell’odio.
22 marzo: poco da festeggiare
Istanbul si chiude oggi il V World Water Forum, organizzato, come le edizioni precedenti di Marrakech, L’Aja, Kyoto, Città del Messico, dal World Water Council, un think-tank internazionale di governi, esperti, ong e agenzie intergovernative sponsorizzato e di fatto guidato dalle più grandi multinazionali del settore idrico.
Nato su iniziativa della Banca Mondiale per affrontare la crisi idrica globale e per realizzare gli obiettivi del millennio, comprendenti la riduzione della sete nel mondo, propone come soluzione le stesse politiche che questa crisi hanno creato: la considerazione dell’acqua come merce, sottoposta alle regole di mercato e la costruzione di grandi infrastrutture che colpiscono ecosistemi e comunità. Del resto l’attuale presidente del World Water Council Loïc Fauchon è allo stesso tempo presidente della Société des Eaux de Marseille, di proprietà di Suez e Veolia, rispettivamente 70 e 110 milioni di clienti nel mondo, le più grandi multinazionali dell’acqua.
Dal 2003 il Consiglio si è aperto ad un numero sempre maggiore di attori ma ancora oggi rimane saldamente nella mani del settore privato che conta il 41% dei membri, una percentuale significativa comparata con le istituzioni accademiche (27%), i governi (17%), le organizzazioni non governative (10%) e quelle internazionali intergovernative (5%).
Il forum in tutte le passate edizioni, e questa non fa eccezione, propone e porta avanti la privatizzazione delle risorse idriche del pianeta. Ma oggi il contesto globale appare certamente mutato, con un numero sempre maggiore di Stati riconoscere attraverso interventi legislativi l’acqua come bene comune indisponibile al mercato. In Ecuador e Bolivia il diritto all’acqua viene addirittura sancito nelle nuove Costituzioni votate e adottate dai paesi Andini come simbolo della difesa non solo della sovranità nazionale ma come proposta capace di mettere al centro delle relazioni e del ruolo degli Stati la difesa della vita e dei diritti.
Già in occasione dell’edizione del Forum tenutosi a Città del Messico nel 2006Uruguay, Bolivia, Venezuela e Cuba, firmarono congiuntamente una dichiarazione per chiedere che un reale processo democratico, trasparente e aperto si sostituisca al World Water Forum.
Ma la macchina del Forum, incurante del mutato scenario e della crisi globale che è innanzitutto crisi ambientale e quindi idrica, è andata avanti e per l’edizione del 2009 ha scelto la Turchia come paese ospite. E la Turchia rappresenta un terreno di sperimentazione privilegiato per le politiche degli oligopoli mondiali dell’acqua.
Da tempo infatti questo paese ha aperto ai privati la gestione dei servizi idrici e attualmente sta elaborando una legislazione per consegnare al mercato anche le fonti d’acqua. In altre parole, la proprietà delle stesse fonti idriche potrebbero essere trasferite nelle mani dei grandi interessi privati che già oggi gestiscono la distribuzione dell’acqua per il consumo umano.
Ma non solo. È evidente che parlare di politiche dell’acqua non significa solo concentrarsi sul diritto all’accesso all’acqua degli esseri umani. L’acqua rappresenta un paradigma trasversale collegato inesorabilmente con altri beni comuni universali come terra, cibo, energia, biodiversità, spazio bioriproduttivo e rappresenta un fattore geopolitico cruciale.
Riguarda anche la scelta di progetti infrastrutturali come le grandi dighe che erodono spazi vitali ed agricoli, responsabili di milioni di sfollati ambientali e di danni incalcolabili agli ecosistemi fluviali. Un passivo ambientale e sociale che rimane ancora fuori dai bilanci delle multinazionali e dagli interessi di molti Stati, più preoccupati a fare affari che a garantire diritti.
Una delle regioni del mondo più colpita da questi progetti è il Kurdistan turco, zona estremamente ricca d’acqua. Ed è proprio per la sua ricchezza che questa regione è stata scelta come il luogo “ideale” per la realizzazione del mega-progetto che prevede la costruzione di dighe GAP.
GAP è l’acronimo con cui il governo turco identifica il Guney Anadolu Projesi, colossale progetto di sviluppo idrico infrastrutturale nel sud-est della Turchia che prevede la costruzione di 22 dighe e 19 impianti idroelettrici sui fiumi Tigri, Eufrate ed i loro affluenti, oltre che la costruzione di diverse strutture per lo sviluppo economico della regione. Una delle principali opere del GAP è rappresentata dall’impianto Ilisu, che il governo turco intende costruire sul fiume Tigri, in Anatolia sud-orientale — la regione kurda della Turchia -, appena a valle della città di Hasankeyf ed a soli 65 chilometri a monte della frontiera con l’Iraq e la Siria.
La diga Ilisu sarà alta 138 metri, larga 1.820 metri e creerà un lago artificiale ampio 313 chilometri quadrati e comporterà l’inondazione di 6000 ettari di terre agricole, la distruzione dell’ecosistema del fiume Tigri, la scomparsa di numerosi centri d’inestimabile valore archeologico e storico tra cui la città di Hasankeyf, luogo con 5000 anni di storia, forse il centro più importante per la cultura curda.
Il progetto è di fatto l’ennesimo strumento di repressione che lo stato turco usa contro la popolazione Kurda, che si oppone da oltre dieci anni al progetto, maggioranza nella regione, già vittima di continue violazioni ai propri diritti umani individuali e collettivi. Uno strumento diretto di controllo del territorio (terra di confine con Siria e Iraq) attraverso la gestione diretta della sua anima: l’acqua.
Anche quest’anno un’articolazione variegata di comunità in resistenza, movimenti, reti, associazioni, organizzazioni non governative ha portato ad Istanbul la voce dei popoli che si oppongono alla mercificazione dell’acqua a favore di una gestione pubblica, partecipata e democratica della risorsa idrica: acqua come strumento di pace, simbolo e anima della difesa dei territori. Mentre nei giorni che hanno preceduto il Fourm diverse Carovane in solidarietà con il popolo Kurdo, contro le dighe ed in difesa dell’acqua hanno attraversato il paese con l’obiettivo di costruire una solidarietà attiva nei confronti di un popolo dimenticato in nome degli interessi strategici che legano l’Europa alla Turchia.
Nelle giornate di seminari e assemblee i rappresentanti della società civile internazionale hanno denunciato l’illegittimità del World Water Forum e le ingiustizie che le politiche globali sull’acqua producono. Come nel recente Forum Sociale Mondiale di Belém centrale è stata la critica alla insostenibilità del modello di sviluppo che ha trasformato l’acqua e i beni comuni in merce, l’intera Natura in una riserva di materie prime e il pianeta in una discarica a cielo aperto.
Diverse le manifestazioni di protesta, alle quali sono seguite le reazione durissime da parte della polizia turca: 17 gli arresti e due attiviste rimpatriate perché accusate di un reato d’opinione (l’apertura di uno striscione contro le dighe). A dimostrazione di quanto aperto e democratico fosse il Forum.
Molti italiani dei comitati e della società civile hanno partecipato alle proteste. Ma altrettanto folta è stata la delegazione italiana presente al forum ufficiale. La delegazione governativa, guidata dalla ministra Prestigiacomo aveva tra i suoi obiettivi primari quello di una maggiore co-partecipazione pubblico-privata nella gestione dei servizi idrici “resa obbligatoria dalla crescita dei costi dell’oro blu” si legge nella nota stampa ufficiale. In altre parole continuare a portare avanti le politiche già ampiamente sperimentate nel nostro paese di aziende miste per la gestione dei servizi idrici, in cui i costi economici, politici e sociali delle privatizzazioni ricadono sul pubblico con aumento di tariffe per i cittadini, diminuzione occupazionale, scarsa manutenzione e qualità, e con utili altissimi sempre nelle stesse mani: Suez, Veolia, e le altre sorelle.
Modello che ha portato un bene collettivo a trasformarsi in pacchetti azionari fluttuanti nel mercato borsistico sempre più distante dal controllo dei cittadini e delle comunità. In un paese dove negli ultimi anni i movimenti per l’acqua si sono diffusi e moltiplicati, raccogliendo più di 400.000 firme per una gestione pubblica e partecipata dell’acqua, moltissimi enti locali dalla Lombardia alla Sicilia si sono schierati a favore della ripubblicizzazione dell’acqua.
Esempio in Italia e all’estero della co-partecipazione pubblico-privata nella gestione dell’acqua rimane Acea, ex municipalizzata del Comune di Roma da dieci anni trasformata in una holding con partecipazioni azionarie di Suez e Caltagirone, quotata in borsa, vorace nell’acquisire il controllo dei servizi idrici in Italia e nel mondo, capace di occuparsi di energia, rifiuti, inceneritori e forse domani gas. Ai cittadini di Roma toccano solo rialzi in bolletta, i malfunzionamenti e la scarsa qualità, nel silenzio del Consiglio Comunale e della giunta impegnati più a tutelare gli interesse dei grandi azionisti in borsa.
A Istanbul come a Roma le politiche dell’acqua sono sempre più una cartina tornasole del livello di democrazia e partecipazione dei cittadini e delle comunità locali. Riappropriarsi dell’acqua significa riacquisire spazio pubblico vitale, recuperare dal basso parola di fronte allo svilimento della politica istituzionale e dare corpo e senso alla democrazia.
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Sempre devi avere in mente Itaca -
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
(Kostas Kavafis)
La terra, la fine di un viaggio. L’inizio di un’altro. Terra desolata e desiderata. Speranza o calvario, a volte morte. E’ importante la ricostruzione umana dei drammi, sono fondamentali i percorsi individuali che si fondono tra loro fino a diventare storia collettiva di un popolo. Storie di emarginazioni e di esclusioni, di vita e di morte, ma anche ponti gettati per il divenire, percorsi di costruzione partecipata.
Il mare in fondo è solo una distesa d’acqua e affonda nei suoi abissi ogni linea di frontiera tracciata dall’uomo. (A.M)