Con una coincidenza temporale quanto mai sospetta, proprio mentre il presidente venezuelano Hugo Chávez, dopo la liberazione di Clara Rojas e Consuelo González de Perdomo, chiedeva che le FARC fossero considerate non come un gruppo terroristico ma come un movimento belligerante, ecco che appare da FACEBOOK, il noto social network statunitense, un gruppo che in meno di un mese riesce ad organizzare una marcia mondiale contro le FARC.
“Un milione di voci contro le FARC” è il nome che è stato dato all’iniziativa che inizierà alle ore 12 (ora colombiana) del 4 febbraio contemporaneamente in circa 100 città di tutto il mondo.
Il sito creato per l’occasione si chiama “colombiasoyyo” e pubblica il medesimo appello in dieci lingue diverse.
Dal quotidiano El Tiempo si legge che l’organizzatore della marcia è un tal Óscar Morales, ingegnere civile la cui massima esperienza politica era stata fino a quel momento soltanto l’esercizio del diritto di voto e qualche discussione familiare sull’andamento del paese.
E’ difficile credergli, se nel giro di appena un mese, quello che era iniziato come un gioco, e mosso dall’ indignazione per il “miserevole inganno delle FARC”, ha fatto il giro del mondo e ha raccolto più di 242.000 adesioni.
Difficile credergli se la marcia verrà realizzata contemporaneamente in 27 città colombiane e circa 100 altre città di tutto il mondo.
Difficile credergli inoltre visto che ha raccolto immediatamente l’appoggio formale del governo colombiano che si è attivato con le ambasciate di tutto il pianeta, affinché forniscano assistenza e supporto ai vari organizzatori locali. L’iniziativa ha raccolto inoltre le adesioni di vari media colombiani, primo fra tutti il governativo El Tiempo.
Vale la pena riportare inoltre ciò che si vocifera su FACEBOOK, e cioè che questo sia una specie di agenzia della CIA. Dietro FACEBOOK ci sono tre giovani americani legati all’alta finanza e all’ultraconservatorismo di estrema destra. Facile comprendere come sia stata possibile una così rapida diffusione dell’iniziativa contro le FARC.
Quello che inoltre rende tutto quanto “molto politico” sono i continui riferimenti a Hugo Chávez e alla sua proposta sulle FARC che appaiono negli appelli diramati in rete dagli organizzatori. La senatrice colombiana Marta Lucía Ramírez del partito de la U ha proposto di approfittare di quest’occasione per manifestare con cartelli che riportino la scritta “no all’appoggio del presidente del Venezuela alle FARC”.
In realtà sembra che si tratti più di un’ iniziativa organizzata contro Chávez e tesa a destabilizzare il Venezuela che per protesta contro i sequestri e le FARC.
E’ forse una coincidenza anche il fatto che in Colombia proprio in questi giorni si siano alternate le visite del capo di stato maggiore degli Stati Uniti Michael Mullen, di John Walters (DEA) e di Condoleeza Rice?
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Un test del DNA stabilì una settimana fa, e la notizia fu confermata successivamente da un comunicato delle FARC, che il piccolo Emmanuel, di cui l’unica foto disponibile è quella a fianco, era “libero” nelle mani del governo Colombiano.
Comunque sia andata, ci auguriamo che possa far parte presto della sua famiglia di origine e nella migliore delle ipotesi possa riabbracciare presto la sua mamma, se come è vero, giunge notizia dal Venezuela che le FARC avrebbero comunicato a Hugo Chávez le coordinate per la liberazione di Clara Rojas e Consuelo González de Perdomo, che potrebbe avvenire già domani.
Lo abbiamo immaginato in una foresta, “bimbo della giungla”, come lo definì la Repubblica in un articolo di Omero Ciai, lo abbiamo immaginato trascorrere tra i guerriglieri i suoi appena tre anni e mezzo di vita. I media ci hanno venduto la sua immagine di bambino maltrattato, costretto a vivere in prigionia, mentre da un comunicato delle FARC pubblicato dalla ABP (Agencia Bolivariana de Prensa) veniamo a sapere che Emmanuel, non potendo stare tra le “operazioni belliche del Plan Patriota, ai bombardamenti e combattimenti, alla mobilità permanente e alle contingenze della selva”, fu “affidato a persone di fiducia di Bogotà mentre si firmava l’accordo umanitario.”
La storia, che potrebbe essere uscita dalle pagine di De Amicis, ha dell’incredibile.
La versione governativa, basata sulla testimonianza di José Gomez, l’uomo che aveva in custodia il bambino è diversa da quella fornita dalle FARC. Secondo il DAS che sta seguendo la vicenda, il piccolo venne affidato ad appena tre mesi di vita da un gruppo di guerriglieri a José Gomez, simpatizzante del movimento, che viveva nel municipio de El Retorno nel Guaviare.
Il bambino venne portato in ospedale dall’uomo, perchè nonostante le prime cure che gli aveva assicurato, le cattive condizioni di salute in cui si trovava (dovute alla frattura del braccio avvenuta al momento della nascita e alla malaria) non accennavano a migliorare.
José Gomez si recò con il piccolo e gli altri suoi figli (ne ha cinque) in canoa al centro medico più vicino, dove sospettando un caso di maltrattamento infantile, segnalarono la situazione del bambino al IBPF (Istituto Colombiano del Benessere Familiare, una sorta di assistenza sociale) che lo prese sotto la sua tutela.
Successivamente il piccolo fu trasferito a Bogotà in un’altra struttura dell’istituto anche per la necessità di sottoporlo ad un’operazione chirurgica al braccio, struttura dove tutt’ora risiede in attesa del disbrigo delle pratiche successive al risultato del test del DNA che lo consegnerebbero finalmente all’affetto dei suoi familiari.
José Gomez, per paura mentì alle FARC che erano tornate nel frattempo a farsi vive per chiedergli notizie del bambino, dicendogli che si trovava presso una sorella che viveva a Bogotà.
Le FARC si ripresentarono a chiedere notizie del piccolo Emmanuel circa tre mesi fa e poi di nuovo verso metà dicembre, dando all’uomo come ultimatum la data del 30 dicembre per la riconsegna del bambino.
José spaventato dalle minacce ricevute si mise allora in contatto con la Fiscalía, mentre confermavano la sua versione una serie di telefonate anonime giunte al CTI (Cuerpo Técnico de Investigación) poco prima del 28 dicembre, comunicando che un bambino, probabilmente il figlio di Clara Rojas, sarebbe stato rapito dal IBPF.
Se si trattasse di un romanzo potremmo dire che la vicenda è intrisa di una buona dose di realismo magico che colora di toni surreali gli avvenimenti, le persone, le casualità..
A partire dalla figura di José Gomez, “el indio”, l’uomo al quale le FARC avrebbero affidato il bambino, colui che nelle ultime settimane è stata la persona più ricercata della Colombia, sia dagli apparati di sicurezza che oramai erano sulle sue tracce, sia dalla guerriglia che aveva necessità di recuperare il piccolo Emmanuel. Strana famiglia quella di José. In un unico nucleo familiare racchiuse tutte le contraddizioni che insanguinano il paese e che palesemente, come spesso accade, finiscono per mettere contro fratelli contro fratelli, amici contro amici. L’esemplificazione anagrafica della guerra civile che vive la Colombia sulla pelle della sua gente.
José Gomez, l’uomo di cui le FARC si sono fidate affidandogli le cure di Emmanuel, è stato infatti candidato del partito Colombia Democratica, praticamente i fedelissimi di Uribe, il partito maggiormente colpito dallo scandalo della parapolitica e presieduto dal cugino di Álvaro Uribe, Mario Uribe Escobar, che tra una riunione di partito e una seduta al Congresso, trovava tempo per intrattenersi a parlare d’affari direttamente con Salvatore Mancuso. Attualmente è indagato per paramilitarismo.
Una delle sorelle di Josè Gomez che vive a Bogotà invece è una funzionaria del DAS, persona affidabilissima, fanno sapere dalla struttura dove lavora con incarichi amministrativi da più di dieci anni. Al momento è sotto protezione dello stato.
Un altro fratello, invece fu un attivo guerrigliero, defunto da tempo, in passato catturato e arrestato, ma del quale non si conoscono le circostanze della sua morte.
Le tre anime del paese in una sola famiglia. Già di per sé questo la dice lunga sulla complessità delle vicende colombiane e lascia spazio e tempo per evitare di dare giudizi affrettati e sicuramente viziati da ignoranza su quanto accade nella grande Macondo latinoamericana, dove si intrecciano magicamente e realisticamente storie tanto diverse, solo apparentemente senza un filo logico.
Ben altre constatazioni di carattere più pragmatico e pratico si impongono comunque all’attenzione dopo un’attenta analisi di quanto sopra.
Al di là dell’evidente riflessione sul fatto che non si possa che esser felici che il piccolo Emmanuel stia bene e abbia avuto, nonostante la sua situazione, quel trattamento umano messo in dubbio da più di una voce, quello che maggiormente risalta all’occhio in questa vicenda è il senso di amarezza e rabbia che ha provato la comunità internazionale fino a quest’oggi, (giornata in cui è stata annunciata l’imminente liberazione delle donne), che evidentemente si aspettava qualcosa in più dalle FARC in questo scorcio di fine d’anno.
L’investitura politica ricevuta da Chávez le aveva caricate della responsabilità di dimostrare al mondo intero che non si sbagliava chi con impegno e serietà verso la loro causa chiede che non vengano considerati dei terroristi come gli interessi congiunti di Uribe e Bush li etichettano, bensì, nonostante le evidenti difficoltà di comunicazione con i loro vertici e di diplomazia, (che non si può pretendere essere equiparata a quella delle “democrazie istituzionali” con le quali stavano trattando la liberazione degli ostaggi), una forza politica in grado di portare una speranza per la pace in Colombia.
Non credo come si sta è affermato in questi giorni sui media del mondo intero, che le FARC abbiano mentito a Chávez e alla comunità internazionale.
Immagino che l’accordo per la liberazione degli ostaggi, pur con tutta la simpatia che sembra esistere tra l’organizzazione insorgente e il presidente venezuelano, non contemplasse la rivelazione di dettagli importanti e specifici sull’ubicazione dei prigionieri o la comunicazione della saggia decisione di aver affidato ad altri quelle cure per il piccolo Emmanuel che non sarebbe stato possibile garantirgli in una foresta. E se Clara Rojas e Consuelo Gonzáles de Perdomo fossero liberate, questo fatto confermerebbe tale versione.
Ciò non toglie che quella delle FARC sia stata una manovra azzardata, un gioco rischioso, che ha fatto pensare per un attimo che per la pace in Colombia davvero non ci fosse più nessuna speranza, anche perchè mentre le FARC, confermando nel loro comunicato che il processo di liberazione di Clara Rojas e Consuelo González de Perdomo, sarebbe andato avanti, “così come stabilito con il Governo della Repubblica Bolivariana del Venezuela” ribadivano che si rendeva necessaria la smilitarizzazione dei territori di Florida e Pradera, Uribe dalla Casa de Nariño tuonava che non avrebbe più accettato missioni umanitarie internazionali in Colombia per la liberazione degli ostaggi. Tabula rasa sulla speranza.
E invece oggi la speranza se pur con le dovute cautele si riaccende, e Uribe ha dovuto in tutta fretta dare un ulteriore via libera alla nuova missione annunciata da Chávez .
Se non verranno liberate domani le due donne sarà la grande occasione mancata delle Farc.
Vorrei dire come Yolanda Pulecio, la mamma di Ingrid Betancourt che “non le conosco molto, ma mi fido più delle FARC che del governo del presidente Uribe” e domani avere la certezza che probabilmente per la Colombia inizi un nuovo capitolo. Non semplice, irto comunque di difficoltà, un processo tutto in salita che deve fare i conti con il potere, con la memoria dei morti e la paura dei vivi, con gli interessi delle multinazionali straniere e le necessità primarie dei contadini, con la contraddizione dei pochi che hanno tutto e dei moltissimi ai quali non è rimasto più nulla. Comunque sia un processo segnato da un passo importante, rispetto al quale il presidente Álvaro Uribe dovrà rivedere tutta la sua strategia politica e militare nella risoluzione del conflitto.
Le FARC sono riuscite in queste settimane ad escluderlo dalle trattative per la liberazione degli ostaggi, lo hanno messo in un angolo mentre loro diventavano i protagonisti indiscussi della scena. Proprio quello che hanno sempre chiesto. Hanno avuto l’attenzione dei media e della diplomazia internazionale, hanno avuto la possibilità di veder veicolato e trasmesso al mondo intero il loro messaggio, il loro essere “forza politica” desiderosa di un cambiamento nel paese.
Giocare questa occasione per una mossa azzardata, peggio, per una superficialità, è questo quello che ha fatto più rabbia, in chi ha sempre sostenuto, spesso sentendosi voce fuori dal coro, la loro posizione.
Non i loro metodi, dal momento che siamo tutti convinti che la pace non si possa conquistare con l’uso delle armi, ma comunque sempre con la consapevolezza che il loro punto d’osservazione e d’azione andasse contestualizzato in quella che è la situazione della Colombia, con una violenza e una barbarie incancrenite e cronicizzate da più di 50 anni di guerra civile.
E’ stata questa una grande occasione, e se l’operazione andasse finalmente a buon fine, Uribe certamente ne uscirebbe come il grande sconfitto, sicuramente non potrebbe più tirarsi indietro nemmeno alle future richieste, ove venissero fatte, della smilitarizzazione di Florida e Pradera dove poter portare avanti i dialoghi di pace e la liberazione di tutti gli altri prigionieri, con l’appoggio e l’occhio vigile della comunità internazionale, ma particolarmente dei paesi latinoamericani come Argentina, Brasile, Cuba, Ecuador che maggiormente spingono per un’unità che non è solo economica e finanziaria ma che come scrive Gennaro Carotenuto è “un concerto autonomo anche per la risoluzione di conflitti” e che oltre ad aver raggiunto obiettivi importanti per la crescita e l’integrazione della regione “è stato ad un passo dal raggiungere un altro straordinario risultato: l’apertura di un processo di pace in Colombia”.
L’8 novembre scorso, prima di recarsi alla Cumbre Iberoamericana a Santiago del Cile, Hugo Chávez ha incontrato con la senatrice colombiana Córdoba a Caracas, il Comandante delle FARC Iván Márquez in funzione delle trattative in corso per lo scambio dei prigionieri.
Si tratta di uno storico incontro propedeutico a quello che dovrebbe avvenire nella selva colombiana con il Comandante in Capo delle FARC, Manuel Marulanda, alias Tirofijo.
Hugo Chávez ha detto di “avere molta fede” per la buona riuscita dello scambio umanitario.
Le trattative proseguono in un clima cordiale e di collaborazione e questo dimostra ulteriormente il fallimento della politica dura portata avanti dal presidente colombiano Uribe che si è sempre rifiutato di riconoscere l’esistenza di un conflitto sociale nel paese e di trovare una soluzione politica più che militare allo stesso.
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La data del 12 ottobre 2007 per l’inaugurazione del primo tratto, detto Transguajiro, del Gasdotto del Sud, era stata già anticipata lo scorso mese di agosto durante una conferenza stampa tenutasi nei giardini di Hato Grande, residenza presidenziale di Álvaro Uribe, in occasione di un importante incontro tra il presidente colombiano ed il suo omologo venezuelano. E infatti, ieri, 12 ottobre, Hugo Chávez, Álvaro Uribe e Rafael Correa come testimone, a Punta Ballenas, nella Guajira colombiana hanno inaugurato i primi 225 Km. del gasdotto Transoceanico Antonio Ricaurte. L’opera, alla quale hanno lavorato 1.378 persone sia di nazionalità colombiana che venezuelana, e che è stato portato a compimento dalla PDVSA e dalla colombiana Ecopetrol, “apre immense possibilità di trasformare in realtà quello che abbiamo sempre sognato in materia di integrazione energetica” come ha sottolineato Rafael Ramírez, presidente di PDVSA nonché ministro del Potere Popolare per l’Energia ed il Petrolio. Il progetto è stato oggetto di un investimento di 335 milioni di dollari, ha una lunghezza di 224 Km. di cui 88 in territorio colombiano e permetterà per i primi quattro anni di portare il gas dalla Guajira Colombiana fino al lago Maracaibo in Venezuela, e successivamente in senso inverso. Álvaro Uribe, ha sottolineato l’importanza di questo progetto e del fatto che sia il primo in materia di cooperazione energetica tra la Colombia ed il Venezuela, nonché il primo progetto internazionale di PDVSA, mentre il suo ministro delle Miniere e dell’Energia , Hernán Martinez ha rilevato come sia stato importante il lavoro svolto dalla PDVSA in territorio colombiano e ha auspicato un’estensione del gasdotto fino a Panamá e successivamente a tutto il Sud America.
“Siamo pronti, presidente Chávez, ci dica cosa dobbiamo fare, cosa serve per portare questo gasdotto fino a Panamá e raggiungere tutto il Centroamerica” sembrerebbe aver detto un Álvaro Uribe particolarmente ben disposto e cordiale verso il presidente venezuelano.
Avrebbe anche manifestato in modo deciso la sua volontà di partecipare al progetto della Banca del Sud, la cui creazione avverrà formalmente il 7 novembre prossimo a Caracas e al quale già aderiscono Venezuela, Bolivia, Ecuador, Uruguay, Paraguay, Brasile e Argentina, precisando tuttavia che l’ingresso della Colombia non va inteso come “rifiuto alla Banca Mondiale e al BID (Banco Interamericano de Desarrollo – Banca interamericana di sviluppo), ma come espressione di solidarietà, di lealtà con la fratellanza dell’America Latina alla quale non verremo meno”.
I tre presidenti di Colombia, Venezuela ed Ecuador, inoltre hanno sottoscritto una nota di integrazione energetica strettamente riferita ai tre paesi in quanto dovrebbe avvenire tramite il Gasdotto Transandino Libertador. Verrà allo scopo designato un comitato di Alto Livello per gli studi di fattibilità e per quelli di impatto ambientale che saranno pronti entro sei mesi.
Indubbiamente si tratta di un grande passo avanti nel processo di integrazione latinoamericana soprattutto perchè riguarda un settore, quello energetico di fondamentale importanza ma anche perchè coinvolge un paese, la Colombia che per il suo rapporto di stretta dipendenza e vicinanza con gli Stati Uniti e per la sua rispondenza alle soluzioni economiche neoliberali da questi proposte attraverso le istituzioni della Banca Mondiale e del FMI si trovava in una posizione difficile.
Probabilmente avere buoni rapporti economici e di integrazione nella regione sarà fondamentale al momento della fine del mandato di Bush, momento in cui l’appoggio incondizionato degli Stati Uniti al governo di Uribe potrebbe venir meno e questi potrebbe ritrovarsi isolato in una regione che si sta lentamente liberando dal ruolo di patio trasero che ha avuto fino a poco tempo fa e che invece ancora caratterizza la Colombia.
Il 29 settembre scorso, agenti del DAS accompagnati da circa 50 soldati hanno perquisito la sede dell’Associazione Contadina della Valle del fiume Cimitarra (ACVC) e hanno arrestato quattro suoi attivisti. Si tratta di Andrés Gil, Oscar Duque, Evaristo Mena e Mario Martínez.
Al momento non sono state rese note le accuse mosse contro di loro.
Il presidente Alvaro Uribe in passato aveva accusato spesso l’ACVC, che rappresenta una delle associazioni di contadini più importanti in Colombia, di essere il “braccio politico” della guerriglia e i suoi attivisti sono stati oggetto di minacce e atti intimidatori. Gli attivisti arrestati già erano stati perseguiti in ragione del loro impegno come attivisti sociali a favore delle comunità di contadini del Magdalena Medio.
Oscar Duque fu arrestato arbitrariamente nell’ottobre del 2006 e rilasciato dopo pochi giorni grazie alla pressione internazionale e nazionale.
Tutto questo, non casualmente, poco prima della Mobilitazione Nazionale Agraria e Popolare promossa dal Coordinamento Nazionale delle Organizzazioni Agrarie e Popolari della Colombia per la difesa del territorio e della sovranità nazionale, l’autodeterminazione del popolo colombiano e l’accordo umanitario e per un governo democratico di ampia partecipazione popolare.
Intanto la Federazione Internazionale dei Diritti Umani (FIDH) pubblica in questi giorni, dopo due anni di lavoro, la sua relazione sull’applicazione della Legge di Giustizia e Pace, per la smobilitazione dei paramilitari.
Secondo questa relazione, le organizzazioni paramilitari nel corso della loro esistenza hanno commesso circa 60.000 crimini di lesa umanità o gravi violazioni dei diritti umani. Gli sfollati sono circa un milione, a causa della strategia di terrore e delle minacce da parte degli stessi paramilitari. La Colombia è il secondo paese al mondo per numero di sfollati.
Secondo il Comitato Internazionale della Croce Rossa, il numero degli sfollati in Colombia è stato di 45.000 persone nel 2005, di 67.000 persone nel 2006 e si presume che arriverà a 72.000 nel 2007, nonostante la presunta smobilitazione dei gruppi paramilitari.
Solo nel 2007 più di 770 civili sono stati assassinati o sono stati vittime di sparizione forzate, inoltre alla fine del 2006 erano state scoperte più di 80 fosse comuni.
La FIDH conclude la sua relazione affermando che la Legge di Giustizia e Pace è stata istituita con il proposito di sottrarre i capi del paramilitarismo dalla giurisdizione della Corte Penale Internazionale e inoltre ricorda, come già altre volte in passato, che il governo del presidente Uribe dovrebbe ritirare la dichiarazione fatta in base all’art. 124 dello Statuto di Roma , che sottrae alla competenza della CPI i crimini commessi dai gruppi armati in Colombia.
Inviare proteste a:
Presidencia de la República
Dr. Álvaro Uribe Vélez, Presidente de la República
Cra 8 # 7–26, Palacio de Nariño, Bogotá D.C.
Fax: 57 1 566 2071
Vicepresidencia de la República
Dr. Francisco Santos, Vicepresidente de la República
Cra 8ª # 5–57, Bogotá D.C.
Programa presidencial de Derechos Humanos y de Derecho Internacional Humanitario.
Dr. Carlos Franco, Director
Cll 7 # 5–54, Bogotá D.C.
Teléfono: 565 97 97 ext. 744
Fiscalía General de la Nación
Dr. Mario Hernán Iguarán Arana. Fiscal General de la Nación
Diagonal 22B # 52–01, Bogotá D.C.
Defensoría Nacional del Pueblo
Dr. Volmar Pérez Ortiz. Defensor Nacional del Pueblo
Teléfono: 314 73 00
Procuraduría General de la Nación
Dr. Edgardo José Maya Villazón. Procurador General de la Nación
Teléfono: 336 00 11
Oficina del Alto Comisionado de Naciones Unidas para los Derechos Humanos en Colombia.
Teléfonos 658 33 00
Programa de Derechos Humanos de la Policía Nacional
Coronel Efraín Oswaldo Aragón. Director
Teléfono: 315 94 38
Oficina de Derechos Humanos del Ejército Nacional
Coronel Enrique Garay Saleg. Director
Teléfono: 266 03 16
Incontro di Hugo Chávez nel Salón Boyacá del Palacio de Miraflores a Caracas con la senatrice colombiana Piedad Córdoba e un gruppo di familiari dei prigionieri delle FARC tra i quali il professor Moncayo.
Fonte: Il Manifesto
Il leader del Venezuela comincia la mediazione tra il presidente Uribe e il guerrigliero «Tirofijo». Un’incredibile partita di poker, in palio la vita di 45 sequestrati
Guido Piccoli
Se non si mercanteggiasse sulla vita e la libertà di tanta gente, soldati e guerriglieri compresi, quanto accade in Colombia potrebbe apparire un gioco d’azzardo. Più precisamente un poker, nel momento dei lanci e rilanci, quando i giochi sono fatti, si bluffa e bisogna mantenere i nervi a posto. Intorno al tavolo verde sono in tre: Alvaro Uribe e Hugo Chávez, rispettivamente il presidente più reazionario e più rivoluzionario dell’America Latina, e Tirofijo, il capo guerrigliero più longevo del mondo.
All’incredibile partita si è arrivati dopo il fallimento del tentativo di Uribe di liberare con un’azione di forza alcuni dei 45 sequestrati e prigionieri che le Farc vorrebbero scambiare con 400 loro uomini detenuti nelle carceri nazionali. Era la metà del giugno scorso. Mentre fingeva di scarcerare un paio di centinaia di detenuti, spacciandoli per guerriglieri, e rimetteva in libertà — contro la sua volontà — Rodrigo Granda, (1)responsabile delle Farc per l’America Latina (sequestrato a Caracas nel dicembre 2004, con un operazione di polizia che mise a rischio le relazioni con Chávez), Uribe diede probabilmente l’ok per un’azione di un commando speciale per liberare dodici deputati regionali, catturati cinque anni prima nel pieno centro di Cali. La combinazione apparente di «grande cuore e mano dura» finì, com’era scontato, in tragedia, per il rischio congenito di un blitz del genere e anche per la spietata consuetudine dei guerriglieri di eliminare i sequestrati, pur di farlo fallire. Tutti i deputati (meno uno che non si trovava nell’accampamento attaccato) furono uccisi dal «fuoco incrociato con un gruppo non identificato», come affermano le Farc, o dal classico «colpo di grazia», come sostiene il governo (lo deciderà, forse, l’autopsia che una commissione internazionale ha realizzato nei giorni scorsi sui cadaveri recuperati, quasi due mesi dopo, nelle fosse scavate dai ribelli).
Le critiche interne, che hanno trovato un impareggiabile portavoce nel professor Gustavo Moncayo (padre di un ufficiale fatto prigioniero dieci anni fa dalle Farc nel corso di un attacco a una delle principali basi militari meridionali) e le pressioni internazionali, capeggiate dal presidente francese Nicolas Sarkozy (deciso a liberare la sua connazionale Ingrid Betancourt), hanno spinto Uribe a nominare due dei suoi nemici come mediatori con le Farc: la combattiva senatrice liberale Piedad Cordoba (che, nei mesi scorsi, aveva sollecitato la sua rinuncia per i suoi rapporti con la mafia narco-paramilitare) e il suo vicino Hugo Chávez, tante volte accusato di proteggere la guerriglia colombiana. Una mossa azzardata, apparentemente umile ma anche insolitamente astuta per un uomo che spesso si è fatto trascinare dal temperamento arrogante e impulsivo: ribadendo di non volere cedere alla richiesta delle Farc di smilitarizzare per 45 giorni due comuni della Colombia meridionale, alla Cordoba e soprattutto a Chávez ha in realtà assegnato una «missione impossibile».
Il presidente venezuelano non si è però scoraggiato: prima ha incontrato a Caracas i familiari dei prigionieri delle Farc, poi Uribe a Bogotà, sfoggiando una fiammante camicia rossa e dopo aver concesso l’indulto a 40 paramilitari colombiani, accusati di cospirare contro di lui. E alla fine si è dichiarato pronto ad incontrare Tirofijo. Dove? «Fuori dal paese» ha tuonato Uribe. «Qui da me» ha suggerito Tirofijo, attraverso il suo cancelliere, Raul Reyes. «Sono disposto ad andare nel più profondo della selva, pur di contribuire alla pace della Colombia» gli ha fatto eco Chávez. Un’idea che il governo Uribe ha però definito «inaccettabile». Il ministro degli esteri, Fernando Araujo, è andato più in là, dichiarando, nei giorni scorsi a Bruxelles, di non sperare nella mediazione venezuelana perchè «le Farc non hanno alcun interesse a fare accordi con nessuno».
In realtà, lo scambio dei prigionieri interessa relativamente sia a Uribe che a Tirofijo, così come è del tutto pretestuosa la questione della zona smilitarizzata: il ritiro dell’esercito per un mese e mezzo da qualche decina di chilometri quadrati è assolutamente ininfluente dal punto di vista militare. Quello che c’è il ballo è il riconoscimento di «forza belligerante» che le Farc esigono, con la relativa cancellazione del marchio di «terrorista» che gli Usa, e poi l’ubbidiente Europa, hanno loro affibbiato. E più in generale, l’accettazione da parte del governo colombiano, dopo mezzo secolo di battaglie, dell’esistenza di un conflitto armato nel paese. Una questione di principio, dalle conseguenze importanti per la pace in Colombia, che più che a Bogotà si decide a Washington. Anche se finora sono stati alla finestra, gli Usa sono più che interessati a quanto accade, anche perchè le Farc detengono tre loro agenti dal febbraio 2003. Un puzzle complicato, ma in movimento grazie soprattutto al protagonismo di Chávez e Sarkozy.
Per ora, una sola certezza: se, com’è probabile, fallissero anche loro, la Betancourt e tutti i suoi compagni di sventura dovrebbero rassegnarsi ad aspettare la fine del mandato di Uribe nel 2010, pregare che non si faccia rieleggere per la terza volta e, soprattutto, che da un momento all’altro non cali loro addosso un altro commando speciale e specializzato nel «far terra bruciata».
(1)Segnalo al riguardo l’intervista in esclusiva per Le Monde diplomatique a Rodrigo Granda apparsa sul numero di settembre, dove in un passaggio egli tra l’altro racconta di come durante la sua detenzione gli fossero stati offerti anche “molti soldi, la libertà, dei passaporti per me e la mia famiglia, a una condizione:che io compromettessi Chávez. Dovevo dire che proteggeva le Farc e che io ero stato aiutato dal suo governo”.A.M.
Recuperati lunedì scorso dalla Croce Rossa Internazionale, dietro indicazioni da parte delle FARC del luogo preciso, i corpi degli 11 ex deputati uccisi in circostanze ancora poco chiare il 18 giugno scorso.
Reyes, intanto ha reiterato la volontà delle FARC di iniziare un dialogo con il governo colombiano e per questo chiede alla comunità internazionale di non essere considerati come gruppo “terrorista”.
Il Venezuela si è unito a Francia, Spagna e Svezia come mediatore internazionale nel conflitto.
Credo che la notizia della presunta liberazione di Ingrid Betancourt dovesse essere trattata con più delicatezza e serietà di come è stato fatto. Se non altro per rispetto verso i suoi familiari e per tutti gli altri sequestrati.
Ancora una volta la stampa italiana si è distinta per cialtroneria e pressappochismo.
L’Unità riporta in questo articolo come la stampa francese faccia notare che “i quotidiani italiani si sono basati su un’unica fonte per giunta poco affidabile”.
Molto poco affidabile.
La fonte infatti, la giornalista venezuelana Patricia Poleo, “esule”a Miami, racconta di aver avuto l’informazione da militari di Caracas, ma ovviamente dichiara di non poter fare nomi.
La Poleo è accusata in Venezuela di essere addirittura la mandante dell’omicidio del magistrato Danilo Anderson, oltre che ha apertamente appoggiato il golpe contro Chávez dell’11 aprile.
La falsa notizia ha fatto sì che tra ieri e oggi i mezzi di comunicazione impazzissero letteralmente.
La Colombia ancora una volta purtroppo fa parlare di sé solo se l’argomento ha il nome e il volto di Ingrid Betancourt.
In questo caso se ne è parlato troppo e malissimo.
Secondo Omero Ciai su La Repubblica, se Chávez, che pure si era offerto come mediatore, dovesse ottenere qualche risultato, questo automaticamente dimostrerebbe “un suo legame di complicità con la guerriglia”.
Il Tempo, quotidiano romano, riporta invece ciò che sostiene Patricia Poleo e cioè che il presidente venezuelano vedrebbe rialzate le sue quotazioni “in difficoltà davanti all’opinione pubblica internazionale dopo la vicenda del mancato rinnovo della licenza all’emittente Rctv” .
Al GR3 (edizione delle 8.45) di radio3 questa mattina, il Prof. Luigi Bonanate, docente di relazioni internazionali all’Università di Torino, parlando di cambiamenti (una “terza via”, secondo il professore, che si differenzia dalla tendenza del passato dei governi a richiudersi in se stessi e da rivoluzioni ormai datate) in America Latina e di “nuove presidenze”, cita a pari merito Lula, Chávez e Uribe (??!!).
Su l’Opinione.it diretto da Arturo Diaconale, il titolo (La “clemenza“ di Chávez) non lascia spazio a dubbi: era Chávez che teneva sotto sequestro la Betancourt e ha deciso di liberarla.
Sempre secondo l’Opinione, le FARC sarebbero diventate una “formazione paramilitare comunista” e anzi se “sono ancora attive in Colombia lo si deve, a quanto pare, soprattutto a lui”.
Chi è “lui”? Ovviamente Hugo Chávez, chi altri?
Si legge infatti: “Stando a fonti vicine all’opposizione venezuelana (e alle proteste colombiane), Chávez ha fornito alle Farc rifugi sicuri oltre il confine, armi e addestramento, subentrando a Cuba in questo ruolo storico di esportazione della rivoluzione nell’America Latina. Questo suo gesto di magnanimità, la liberazione di Ingrid Betancourt, dopo cinque anni di sequestro, sarebbe dunque un suo atto propagandistico.”
Giornata di stranezze, e così solo Panorama ricorda che forse la liberazione della Betancourt sarebbe tutt’altro che una buona notizia per il presidente colombiano.
Intanto l’intransigenza di Uribe allontana sempre più la possibilità di uno scambio umanitario.
La sua proposta di concedere un’area smilitarizzata per 90 giorni soltanto dopo la liberazione di tutti i prigionieri, giudicata inaccettabile da tutti gli osservatori, a Rocco Cotroneo del Corriere della sera appare invece “come una piccola apertura”.
Purtroppo fino a che la situazione in Colombia non verrà affrontata nel modo giusto, con uno sguardo attento da parte della comunità internazionale sulle reali responsabilità che ha il potere politico colombiano, la solidarietà resterà una parola senza senso.
A Patricia Poleo non importa nulla della Betancourt, vuole solo gettare ombre e dubbi sul presidente Chávez e oggi i media italiani bene si sono prestati al suo gioco.
…
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