Breve presentazione della Comunità di Pace di San José de Apartadó
Testo a cura di Colombia Vive! Onlus
Arrestato in Colombia l’ex console a Milano
Colombia, il Polo Democratico come la Unión Patriótica? Lettera ad Álvaro Uribe.
San José de Apartadò — Monumento alla memoria
Fredy Muñoz e la “prueba reina”
RENOVANDO LA SOLIDARIEDAD A FREDY MUÑOZ
Era scontato che succedesse. La liberazione di Fredy Muñoz non poteva non nascondere qualche insidia, non poteva concludersi così “banalmente” una vicenda che ha rappresentato un duro attacco alla libertà di espressione in un paese dove questa è già un’utopia. Una vicenda che si inserisce in un contesto di rapporti difficili tra due paesi che appaiono sempre più lontani. Come già preannunciato a suo tempo dai legali e dallo stesso Muñoz, egli, oltre a vedere aggravata la sua di per sé difficile posizione con la magistratura colombiana, è realmente anche in pericolo di vita.
La rivista colombiana Cambio pubblica quella che a suo dire è la “prova principe”, quella che inchioderebbe definitivamente l’imputato alle sue responsabilità, o alle manipolazioni di cui è oggetto a seconda dei punti di vista. Addirittura si vocifera che
La fotografia, ritrarrebbe il corrispondente di TeleSUR in un accampamento delle FARC sorridente tra i guerriglieri con un bicchiere di vino in una mano e un M16 nell’altra.
Questa fotografia sarebbe stata “casualmente” ritrovata nell’accampamento di Martin Caballero, comandante del fronte 37 delle FARC, dall’esercito colombiano durante una perquisizione all’indomani della liberazione dell’ex ministro Arajuco.
Un investigatore consultato dalla rivista Cambio afferma che “non ci sono dubbi che Fredy Muñoz è colui il quale appare sulla foto in compagnia dei guerriglieri e questo conferma che il corrispondente di TeleSUR in Colombia fa parte integrante di uno dei fronti più agguerriti delle FARC”.
Oltre alla fotografia ci sono altre prove “schiaccianti” sull’attività eversiva di Fredy che consistono in alcuni fogli in bianco ritrovati nella “sua” abitazione recanti il timbro del fronte 35 delle FARC e 17 fogli di uno scritto dal titolo “La dottrina del Fascismo”.La fotografia appare manipolata grossolanamente, tanto è vero che in internet girano altre “prove schiaccianti” su altri personaggi come quella qui sotto:
Si notano infatti nella foto che ritrarrebbe Fredy Muñoz, zone di diversa nitidezza. Sebbene Fredy si trovi sullo stesso piano del guerrigliero con la maglietta del Che, la sua immagine appare molto più sfocata e il corpo non sembra corrispondere al suo, sul quale sarebbe stata posta una sua fotografia.
I metodi sono quelli già ben noti della Fiscalía Colombiana, il mezzo è un settimanale che pare si stia prestando sempre più agli interessi del potere militare e paramilitare.
Fredy Muñoz ha prontamente replicato alle accuse con una lunga lettera pubblicata sul sito di TeleSUR e di cui riporto qui di seguito la traduzione: (Qui la versione originale)
“Come preannunciato, una nuova montatura è stata il risultato della campagna di criminalizzazione contro la libera stampa, contro la libertà di espressione e contro la democratizzazione dell’informazione che avanza nel continente con l’ espansione di TeleSUR.
Il 31 gennaio scorso i nostri avvocati ottennero che
Processo che è rimasto appeso a un filo con l’infondatezza delle prove annesse e che consistevano in testimonianze contraddittorie di cosiddetti “testimoni burattini” e in “rapporti di indagini” inconsistenti e senza valore probatorio.
Il giorno dopo della notifica da parte dei miei avvocati del trasferimento del processo, il 1 febbraio scorso, una minaccia di morte mi è giunta attraverso la posta elettronica firmata da un gruppo paramilitare identificato come “Aguilas Negras”. In questa nota ci definisce “rospi comunisti travestiti da giornalisti” e ci minaccia di aspettarci la morte.
Dopo questa intimidazione alcuni mezzi di comunicazione hanno iniziato a diffondere la notizia, la domenica del 4 febbraio scorso, che
In modo brusco, intempestivo e in linea con i metodi di questo organismo, una mia presunta fotografia in compagnia di guerriglieri delle FARC compare “abbandonata” dai ribelli nello stesso luogo dove era tenuto sequestrato il ministro Fernando Araújo e di cui se ne ha notizia solo oggi un mese e mezzo più tardi. È stato abbinato collegato in modo approssimativo, questo successo, il più sensibile e significativo per l’opinione pubblica negli ultimi mesi, alla persecuzione e alle segnalazioni contro di me.
Questa fotografia è stata definita dalla rivista Cambio come la “prova principe” e affermano i servizi che è stata scattata all’inizio del 2006 mentre allora era dimostrato il mio impegno continuo con TeleSUR.
Un altro mezzo di informazione, assicura in un contesto di irresponsabile ambiguità, che detta foto fu scattata ad aprile 2005 , periodo in cui era risaputo pubblicamente che mi trovavo in fase di consegna del documentario “Il treno che arriva a Clamar” per la serie “Tropici” di Telecaribe.
Seriamente, ho visto e fatto migliori fotomontaggi di questo.
Che modo grossolano e irresponsabile di rivivere una criminalizzazione che è iniziata i primi giorni di maggio 2005 quando quegli stessi servizi di sicurezza colombiani, incentivati dagli Stati Uniti “confusero” il ritornello della canzone “Tieta” di Caetano Veloso e cantato in un passaggio promozionale di TeleSUR da una giovane brasiliana, con un’apologia del gruppo basco ETA, riconosciuto internazionalmente come terrorista.
E seguì con le dichiarazioni del congressista nordamericano Connie Mack sul denaro e sforzo che dedicherebbero da Washington per contenere e bloccare TeleSUR, quando non era andato in onda ancora nemmeno un servizio giornalistico.
Questa piega che prende ora la persecuzione, avallata da un fotomontaggio e dalla pubblicazione irresponsabile da parte della rivista Cambio di informazioni scritte in mala fede, e indiscutibilmente falsa, è inoltre un grave attacco al segreto istruttorio, alla presunzione di innocenza e al nostro diritto alla difesa, aggredito con queste prove che “sono state prodotte” alle spalle dei nostri avvocati.
Insiste questa rivista nel dire, tra le altre falsità, come già dissi nel novembre passato, che nel “mio” appartamento è stata trovata carta intestata delle FARC, quando nella stessa inchiesta e nella sentenza del Tribunale della Corte di Appello che mi concesse la libertà, si dichiara che né l’appartamento perquisito era il mio alloggio, e né dal verbale di perquisizione risulta che fu mai ritrovata della carta intestata.
Ma questo è il risultato del compromesso di alcuni mezzi di comunicazione del paese con gli organi militari e di sicurezza, che in modo irresponsabile pubblicano ciò che gli capita fra le mani, senza nessun rigore né etica giornalistica e con evidente intenzione di causare danno.
Ci troviamo di fronte alla forma più specializzata di coercizione della libertà di stampa e di criminalizzazione della diversità informativa. Così come gli Stati Uniti accusano giornalisti arabi, rifugiati in Francia, di far parte della rete “Al Qaeda” e di aver partecipato alla terribile tragedia dell’11 settembre solo per aver intervistato e informato sulle caratteristiche ed azioni di quel gruppo, qui in Colombia si pretende di detenere l’annunciata espansione di TeleSUR con fotomontaggi come questo.
Ai nostri avvocati è stato negato l’accesso alla pratica, la quale è passata per la città di Cali, fatto inspiegabile secondo i molti giuristi consultati. Non è stato inoltre ancora notificato il pubblicizzato ordine di cattura. Credevamo che le fughe di notizie fossero l’eccezione e invece si scopre che è re la regola, indagando un po’ nel passato dei funzionari giuridici coinvolti in questa montatura.
Il DAS di Barranquilla manovrato dal paramilitare Rodrigo Tovar Pupo, alias Jorge 40 è l’ente che esegue l’arresto. Precedentemente aveva arrestato Alfredo Correa de Andreis, amico e maestro, e una dozzina tra attivisti sociali, studenti, sindacati, dirigenti culturali e maestri.
È provata la partecipazione di paramilitari e agenti di questo corpo nel ripudiato crimine di Alfredo Correa ed di dettagli a sangue freddo trapelati dal personal computer di Jorge 40 , trovato nella proprietà dell’ alias “Don Antonio” un militare in ritiro al servizio del paramilitarismo.
Il pubblico ministero Manuel Hernando Molano Rojas, non specializzato, e con delega alla cosiddetta Unidad de Reacción Inmediata del DAS nel Atlántico, accogliendo la mia richiesta di istruttoria, alla conclusione di essa chiese scusa al mio avvocato per le “irregolarità commesse” e mi disse testualmente “A te quelli che ti vogliono fottere (sic) sono quelli della Marina”.
Il processo giunge allora nelle mani del giudice di terzo grado di Cartagena, Miriam Martínez Palomino, (responsabile di arresti di massa denunciati dal Tribunale del Popolo del Bolívar, conclusi con l’assoluzione dei prigionieri) la quale è seriamente implicata con gruppi paramilitari, come fu denunciato anche da avvocati di parte di Cartagena in una nota dell’anno 2004.
Questi avvocati, stanchi della corruzione e del servilismo della Fiscalía al paramilitarismo, denunciarono in un comunicato che Miriam Martínez Palomino, con Demóstenes Camargo de Ávila, (oggi a capo dei pubblici ministeri di Cartagena, e colui il quale all’epoca accusò Alfredo Correa de Andreis e a dirigenti come Amaury Padilla Cabarcas), e con i pubblici ministeri Pedro Díaz Pacheco e Jesús García Castillo, guidati dal direttore di sezione della fiscalía di Cartagena, erano compromessi con il paramilitarismo.
Alla metà dell’anno 2004 questo gruppo di funzionari giuridici si riunirono, dice il comunicato, in una proprietà in San Jacinto, Bolívar, dell’ex senatore conservatore Rodrigo Barraza, proprietà nella quale giunse una pattuglia della polizia che ebbe uno scontro a fuoco con loro e li scoprì in compagnia dei capi paramilitari, Antonio Orozco Ochoa, alias “el comandante” e Álvaro Rodríguez Pérez, alias “don Rodri” , più otto paramilitari che servivano da scorta.
In possesso di questa congiura di fiscalía-paramilitarismo, si trovarono copie di tutte le pratiche di persone che furono arrestate nella regione, accusati di ribellione e terrorismo.
Ciò nonostante questo accaduto fu cancellato da un ordine della Fiscalía General alla cui direzione in quel momento c’era Luis Camilo Osorio, al quale si attribuiscono ora, dopo le prime libere deposizioni dei capi paramilitari, le più oscure alleanze con queste organizzazioni di ultradestra.
Dalle mani di questi pubblici ministeri uscì il processo che oggi, dopo un inesplicabile passaggio dalla città di Cali, pensa di risorgere sotto il peso di fotomontaggi come quelli mostrati da alcuni mezzi di comunicazione del paese.
Faccio un appello alle associazioni nazionali ed internazionali dei Diritti Umani, alle Organizzazioni Non Governative, alle associazioni che difendono la libertà di stampa, al giornalismo indipendente, alle corporazioni della stampa, alle associazioni degli utenti della stampa, e a tutta la collettività critica e attiva del nostro continente ad essere vigile rispetto all’evolversi di questa situazione.
Nego pubblicamente, quanto affermano in forma tendenziosa gli organismi di sicurezza e i suoi mezzi di corte, che sono uscito dal paese. Dallo scorso 1 febbraio a causa delle gravi e continue minacce contro la mia vita mi proteggo da esse e faccio in modo di proteggere anche la mia famiglia, all’interno del mio paese. Nonostante queste circostanze, i miei avvocati non hanno abbandonato il processo.
Voglio richiamare l’attenzione del Tribunale Nazionale del Popolo affinché garantisca il nostro diritto alla vita , al processo giusto, alla libera espressione e al buon nome, il mio, della mia famiglia e quello dei miei colleghi di TeleSUR in Colombia e che intervenga tra tante e tali sleali minacce.”
Fredy Muñoz 14 Febbraio 2007
Traduzione di Annalisa Melandri
Sul sito di TeleSUR ulteriori notizie.
Liberato Fredy Muñoz!
FREDY MUÑOZ LIBERO!
Dopo 52 giorni di prigionia è stato rilasciato ieri, 9 gennaio, il corrispondente dalla Colombia di Telesur, Fredy Muñoz. Si trovava nel carcere di Barranquilla. La Fiscalía colombiana ha dichiarato insufficienti le prove a suo carico che consistevano esclusivamente in dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia attualmente in stato di detenzione.
Uno di questi testimoni, Yainer Rodriguez Vásquez ha affermato inoltre di aver ricevuto minacce e intimidazioni dai servizi segreti colombiani affinché depositasse testimonianza contro persone a lui sconosciute tra le quali Fredy Muñoz.
Quanto accaduto a Fredy ricorda il caso del sociologo colombiano e professore universitario Alfredo Correa de Andreis, che fu accusato e messo in carcere con le stesse modalità e le identiche accuse rivolte a Fredy Muñoz e che dopo essere stato rilasciato fu assassinato circa due anni fa a Barranquilla, regno dei paramilitari fedeli a Jorge 40.
Per questo sia Fredy che i suoi cari temono per la sua incolumità dal momento che il processo va avanti e non sono state formalmente ritirate le accuse a suo carico.
C’è da aggiungere che tutto ciò accade in un momento di particolare tensione politica e sociale in Colombia in cui sempre più evidenti appaiono i legami tra politica e narco-paramilitarismo e sempre più violente si fanno le pressioni contro i giornalisti e i mezzi di comunicazione che li denunciano. Particolarmente evidente è stato il tentativo di criminalizzare Telesur cercando di limitare così la sua influenza in Colombia attentando direttamente al cuore del nuovo processo di integrazione latinoamericana che l’emittente rappresenta.
Fonte:TELESUR
Articoli precedenti sul caso Fredy Muñoz:
Attacco Colombiano a Telesur 21/11/06
Breve aggiornamento sul caso 25/11/06
Guido Piccoli: Colombia, uno scontro interno all’oligarchia fa traballare Uribe
Da Il Manifesto del 28 dicembre 2006
Narcos e generali, la resa dei conti
La Colombia sull’orlo del caos. Dal computer di un capo paramilitare escono nomi di politici, generali e narcotrafficanti, «committenti» di omicidi e stragi. Lo scandalo innesca confessioni, accuse, ricatti. Emerge tra gli altri il nome di un famigerato comandante, cittadino italiano: ma perché l’ambasciata d’Italia ha dato il passaporto a Salvatore Mancuso?
Guido Piccoli
Nelle prossime settimane la Colombia potrebbe conoscere un bagno di sangue peggiore di tutti quelli accaduti nella sua travagliata storia. Paradossalmente però potrebbe anche avviarsi a diventare un paese normale.
Cosa sta accadendo? L’attuale caos è stato determinato da alcuni episodi. Come il casuale ritrovamento del computer di un capo delle Auc (Autodefensas Unidas de Colombia, famigerata organizzazione paramilitare di estrema destra), Jorge 40, contenente nomi di politici e generali suoi soci. O la scoperta di decine di fosse comuni con i resti delle vittime dei paramilitari, e poi le confessioni e reciproche accuse di alcuni detenuti eccellenti, mandanti ed esecutori di omicidi. Col passare dei giorni questi scandali stanno sconvolgendo, con un imprevisto effetto domino, lo stato e la società colombiani.
C’è di più: probabilmente in Colombia è arrivato al capolinea un regime corrotto e criminale, ma anche sofisticato, fatto di democrazia formale e di terrore sostanziale. E, non a caso, accade sotto la presidenza di un personaggio come Alvaro Uribe, ricattabile per i suoi legami antichi e recenti con narcos e paramilitari, ma anche incapace di portare, nonostante i suoi metodi autoritari, una sorta di pace nel paese. Quando s’insediò la prima volta a Palacio Nariño i paramilitari cantarono vittoria e cominciarono a «passare in cassa», decisi a farsi ripagare per i loro servizi di morte per conto dello stato. «Non saremo più il rotweiler del palazzo» annunciò il loro capo, Carlos Castaño. Da allora, però, le loro ruberie e le loro pretese sono aumentate fino a diventare insopportabili anche all’oligarchia tradizionale, che si era beneficiata dei loro omicidi mirati e dei loro massacri.
La crisi attuale non è causata solo da quei pochi settori dello stato che mantengono un minimo d’indipendenza da Uribe (come la Corte Costituzionale o la Corte Suprema di Giustizia), e neppure dalla resistenza popolare al neo-liberismo, dall’opposizione legale che sta crescendo intorno al Polo Democratico o dall’azione delle Farc, per nulla intaccate dalla recrudescenza del conflitto armato.
Conta forse di più la determinazione dell’oligarchia tradizionale di non farsi estromettere da quella mafiosa e paramilitare. Alvaro Uribe non può accontentare la prima, che l’ha votato nel maggio scorso, ritenendolo «insostituibile» (come scrisse il quotidiano El Tiempo) e neppure la seconda, che gli chiede di mantenere le promesse d’impunità assoluta e di legittimazione del potere acquisito col sangue.
I boss chiedono protezione
Come un Arlecchino creolo «servitore di due padroni», Uribe non sa più come destreggiarsi nella contesa che contrappone i paramilitari e la Casa Bianca, che vorrebbe rinchiudere questi ultimi nelle carceri statunitensi, anche se solo nella veste di narcos. Il presidente vive ormai alla giornata, senza una strategia. Una settimana fa ha fatto trasferire i capi paramilitari dal club turistico, dove godevano di ogni confort e della più assoluta libertà, al supercarcere di Itaguì. Forse Uribe voleva ammansire gli Stati uniti, sempre più irritati dall’immunità «politica» concessa ai narcos.
Se è vero che in Colombia sono stati sistematicamente insabbiati tutti gli scandali, per Uribe e il suo schieramento, sembra essere arrivata l’ora della resa dei conti. Tutti accusano tutti: perfino Uribe ha denunciato la tolleranza verso i paras dei presidenti che l’hanno preceduto.
I capi paramilitari, che minacciano di rivelare le loro relazioni con lo stato e la politica, temono di essere scaricati come fu a suo tempo il gran capo Pablo Escobar. E proprio come fece il boss, nei suoi ultimi anni, chiedono protezione alla sinistra. Uno di loro, tale Salvatore Mancuso, ha chiamato il senatore Gustavo Petro, ex guerrigliero dell’M-19 e ora esponente del Polo Democratico, diventato (anche per il suo ruolo di denuncia del para-stato) il più probabile candidato d’opposizione in caso di elezioni anticipate.
In un’intervista pubblicata in prima pagina da El Tiempo domenica scorsa proprio Petro, oltre a definire i paramilitari «sicari alle dipendenze di uno stato mafioso», ha fatto previsioni tetre: «I datori di lavoro del paramilitarismo — narcos, generali dell’esercito e della polizia, politici, imprenditori — i cui nomi stanno per essere resi pubblici, cercheranno di impedire che la verità venga a galla. Alcuni nuclei tenteranno destabilizzare il paese e generare un caos cieco, colpendo non soltanto l’opposizione, il Polo, me e la mia famiglia, ma anche lo stesso presidente Uribe». Per evitare di finire come tanti altri coraggiosi colombiani che si sono opposti al terrorismo statale, Petro gira con un giubbotto antiproiettile e una scorta di una ventina di guardie del corpo.
Secondo Petro, anche Uribe rischia. Sebbene sia l’ultimo governante di fiducia degli Usa nel loro traballante «cortile di casa», Uribe potrebbe essere scaricato dalla nuova maggioranza democratica a Washington. E saltare: letteralmente (per opera dei suoi soci) come paventato da Petro, o pacificamente, grazie a un «impeachment», possibile per il contributo decisivo e documentato dei paramilitari alle sue due elezioni presidenziali o perchè coinvolto dagli scandali di questi giorni, visto che tutti i personaggi accusati di paramilitarismo sono amici suoi.
In questa polveriera appare sempre più decisivo il ruolo del Polo Democratico, unica forza capace di far uscire il paese dal caos. Magari alleandosi con la parte del partito liberale non coinvolta col paramilitarismo, e anche intavolando un dialogo con la guerriglia che resiste senza difficoltà alle roboanti quanto impotenti azioni militari del nuovo Plan Victoria (discendente dei falliti Plan Patriota e Plan Colombia). «Questa emergenza merita la convocazione urgente di nuove elezioni. Bisogna lavorare per un’alleanza che salvi la nazione. Le organizzazioni politico-sociali, i partiti e i movimenti democratici, i militari rispettabili, tutti i colombiani che hanno a cuore la patria devono unirsi per costruire un’alternativa decorosa al governo», ha detto Ivan Márquez, comandante delle forze guerrigliere nel nord della Colombia membro del segretariato delle Farc. Almeno nell’opposizione, la politica potrebbe prendere il sopravvento sulle armi.
«El Mono» e la ‘Ndrangheta
Nel frattempo quel Salvatore Mancuso sta diventando un caso — anche in Italia, visto che è un cittadino italiano. Detto «El Mono», la scimmia, da anni alterna le stragi di umili contadini con i trasporti di droga nell’Atlantico. Molti fingono di non saperlo. Stando alle intercettazioni telefoniche che un mese fa hanno reso possibile l’operazione «Galloway Tiburon» (realizzata dalle polizie italiana, spagnola, colombiana e dalla Drug Enforcement Administration, l’antidroga statunitense, e conclusa con un centinaio di arresti), qualcuno della nostra ambasciata di Bogotà avrebbe concesso a Mancuso il passaporto italiano, prendendo per buona la sua dichiarazione di buona condotta. «Mancuso potrà viaggiare tranquillamente in Italia per realizzare i progetti che ha in mente», diceva il suo amministratore di fiducia parlando con Giorgio Sale, un imprenditore romano, arrestato insieme con i suoi tre figli con l’accusa di riciclare, attraverso ristoranti, pub e una cinquantina di negozi di abbigliamento di Bogotà, Barranquilla e Cartagena, i ricavi del narcotraffico
del boss.
Nell’operazione è caduto anche un pezzo da novanta, José Alfredo Escobar, presidente del Consiglio superiore della magistratura colombiana, che controlla le risorse della giustizia, la carriera dei magistrati e ha la facoltà di distribuire i casi ai tribunali civili o a quelli militari. Secondo gli inquirenti, dall’inizio dell’indagine, le Auc avrebbero fatto arrivare otto tonnellate di cocaina purissima, soprattutto sulle banchine del porto di Goia Tauro, destinate alle varie famiglie della ‘Ndrangheta diventata, secondo la Direzione Centrale per i Servizi Antidroga, egemonica nel «traffico internazionale di cocaina, grazie ai canali diretti di approvvigionamento dai Paesi del Sudamerica e alla dimostrata abilità nel gestire complessi sistemi di riciclaggio». Agli occhi dei narcos colombiani, «la ‘Ndrangheta è l’organizzazione più affidabile, perchè quasi impermeabile al fenomeno del pentitismo», ha detto Nicola Gratteri, giudice della direzione antimafia di Reggio Calabria.
Per ora il sogno di Salvatore Mancuso di tornare con i suoi immensi bottini di guerra nella terra dei suoi avi paterni, sulla costa meridionale salernitana, è sfumato: a causa dell’iniziativa della magistratura italiana, che rimase inerte dopo altre inchieste che l’avevano coinvolto in passato (come la «Decollo» del gennaio 2004). Nei prossimi giorni, su richiesta di Nicola Gratteri, dovrebbe partire la richiesta di estradizione del leader delle Autodefensas Unidas de Colombia per narcotraffico.
Le possibilità che Mancuso arrivi ammanettato in Italia sono al momento nulle, vista l’immunità concessa a lui, all’intero vertice narco-paramilitare e al loro esercito dal presidente Alvaro Uribe. Ma questo provvedimento agevolerebbe comunque la comprensione della natura del parastato colombiano da parte del nostro governo.
Tra gli interlocutori della Farnesina non sono mancati sinistri figuri. Coloro che dirigevano fino a pochi mesi fa l’ambasciata e il consolato di Milano, Luis Camilo Osorio e Jorge Noguera, quando erano a capo della Fiscalía (la magistratura inquirente) e del Das (la più potente delle polizie segrete colombiane), facilitarono spudoratamente la penetrazione paramilitare nelle istituzioni colombiane. L’attuale ministro degli esteri, María Consuelo Araújo, ha un fratello senatore indagato per paramilitarismo e fa parte di una famiglia sotto protezione del capo paramilitare Jorge 40. Infine il nuovo ambasciatore a Roma, Sabas Pretelt: quando era alla direzione del ministero degli Interni e della Giustizia (significativamente unificati sotto il regime uribista) fu l’architetto del farsesco «negoziato» con le Auc e in quella veste assicurò ai capi paramilitari che non avrebbe fatto estradare negli Usa se si fossero impegnati a far vincere nelle scorse elezioni Uribe e lui in quelle del 2010 — questo secondo le confessioni di alcuni capi paras riportate sull’ultimo numero della rivista Cambio. Tutta gente «per bene» con troppi scheletri nell’armadio.
Amnistia? Impunità per i «paras»
La legge di «giustizia e pace» è un indulto di fatto generalizzato per i paramilitari. «Ha offerto legittimità internazionale a assassini, terroristi e capi narcos», secondo Amnesty. L’Unione europea esprime dubbi, ma ha dato un «appoggio condizionato»
G. P.
«Immaginati in fila con altri disgraziati, legato mani e piedi, sulla riva del rio Magdalena. Di fronte a te, due uomini che affilano i loro machete. E intorno, i tuoi familiari e gli abitanti del villaggio che ascoltano i tuoi gemiti di terrore, e le tue urla quando ti squarteranno e nessuno potrà avvisare la polizia per non finire, quella stessa notte, a pezzi nel fiume. Adesso a quei due, come a tutti gli altri, Uribe ha applicato un paio d’ali da angelo. Ma che cazzo di paese è il nostro?». Questo è il commento di un lettore di Tiempo alla notizia dell’indulto che il governo Uribe ha concesso ai membri delle Auc: impunità su misura per i paramilitari che hanno aderito alla «Legge di Giustizia e Pace».
Il decreto governativo sancisce che l’indulto sia applicato soltanto a coloro che non risultino colpevoli di «delitti di lesa umanità». In realtà significa a tutti, o quasi, visto che i giudici inquirenti non hanno tempo e mezzi (e forse nemmeno voglia) per indagare sulle malefatte di ciascuno e visto che è difficile che eventuali vittime o testimoni dei loro delitti vincano la sfiducia nella giustizia e il terrore ancora esercitato dai paras in molte regioni.
A quei due delle Auc, come a tutti gli altri, basterà quindi una semplice autocertificazione per uscire puliti. Obbrobri del genere, che stanno alla base della legge di Giustizia e Pace e fanno da cornice giuridica alla legalizzazione delle Autodefensas, non sono bastate finora a indignare l’Unione europea. Pur continuando ad esprimere dubbi sull’effettivo smantellamento delle strutture paramilitari, la vaghezza della definizione del delitto politico, l’insufficiente tempo per indagare sulle confessioni e sull’insufficienza delle pene massime previste, l’ultima dichiarazione del Consiglio dei ministri europei sulla Colombia del 3 ottobre 2005 ribadisce il suo appoggio al governo Uribe e alla sua «politica di pace».
Sono rimaste inascoltate le proteste degli organismi di diritti umani colombiani e di Amnesty International che ha accusato l’Unione Europea di «offrire una legittimità internazionale a una legge che non rispetta le norme su verità, giustizia e riparazione», e che secondo il New York Times garantisce «l’impunità per una massa di assassini, terroristi e capi narcos». Tra la Francia, che si è detta contraria alla farsa in atto, e la Spagna di Zapatero, la Gran Bretagna e la Germania, che la sostengono, è finora prevalsa la linea, ambigua e ipocrita, portata avanti da Italia, Olanda, Danimarca e Finlandia di «appoggio condizionato», con richieste di modifica sistematicamente ignorate da Bogotà e impegni di verifica che si rivelano cortine di fumo.
«Invece di aiutare le vittime, i finanziamenti europei rischiano di sostenere il reinserimento bellico dei paramilitari», sostiene l’eurodeputato Vittorio Agnoletto del gruppo della Sinistra Europea. Buona parte dei soldi infatti finisce nelle regioni, in progetti di ridistribuzione di ex paras (come nel caso dei cosiddetti «guardaboschi»), che ubbidiscono soltanto alla logica di «controllo territoriale militare» da parte del governo centrale.
Salvatore Mancuso
La carriera di un massacratore
Tra i massacri di cui Salvatore Mancuso è stato mandante o esecutore (e per i quali potrebbe scontare al massimo una condanna di 8 anni, grazie alla legge del suo socio e vicino di fattoria Alvaro Uribe), i più noti sono quelli di El Aro, nella regione di Antioquia, e di El Salado, in quella del Sucre. A El Aro, il 22 ottobre 1997, trenta suoi uomini del Bloque Catatumbo torturarono e ammazzarono 14 contadini, tra i quali un tredicenne, dopo aver incendiato e saccheggiato le loro case. A molte vittime furono strappati gli occhi e i genitali. Per questo massacro, Mancuso è stato condannato a 40 anni di carcere.
A El Salado, en Sucre, il 16 febbraio 2000, 38 contadini (tra i quali un bambino di 6 anni) furono mutilati atrocemente prima di essere uccisi. Prima di dare il colpo di grazia, i paras obbligarono le loro donne a denudarsi e a ballare al suono di un vallenato. Secondo Amnesty International, le donne furono violentate.
Il 19 dicembre scorso, dopo un conflitto a fuoco in un villaggio della regione di Antiochia, che ha provocato due vittime, è stato catturato un altro italo-colombiano delle Auc: Alberto Laino Scoppeta, proprietario di una rivendita di auto blindate ed erede di Jorge 40 alla testa del Bloque Norte. L’uomo stava per ritornare in Italia. Un altro «angioletto» col passaporto in regola? (g.p.)
L’EX CONSOLE COLOMBIANO A MILANO RICERCATO NEL SUO PAESE PER PARAMILITARISMO
È notizia di questi giorni che Jorge Noguera Cote, ex direttore del DAS (Dipartimento Amministrativo di Sicurezza, la polizia segreta colombiana) nonché ex console della Colombia a Milano è ricercato nel suo paese e deve rispondere alla Fiscalía per due procedimenti penali e uno disciplinare. Altre indagini in fase preliminare sono state avviate su di lui. Alla data odierna Jorge Noguera non si è ancora presentato alle autorità. Il suo avvocato Orlando Perdomo ha comunicato che il suo assistito si trova momentaneamente all’estero. Il presidente Álvaro Uribe in persona lo ha invitato a rendere conto alla Giustizia in quanto “una persona che ha ricoperto un ruolo pubblico di così elevata responsabilità non può eludere la legge”. Questi procedimenti si riferiscono all’epoca in cui Jorge Noguera era direttore del DAS e riguardano l’eliminazione dagli archivi informatici del dipartimento di sicurezza di dati inerenti a paramilitari e narcotrafficanti e presunte irregolarità nel trasferimento di un detenuto al carcere di massima sicurezza di Cómbita. Noguera già nel maggio scorso ha reso inoltre dichiarazioni in merito a un’inchiesta per frode elettorale nelle elezioni presidenziali del 2002 ed è anche accusato di aver fornito informazioni riservate a paramilitari.
Jorgue Noguera è stato direttore del DAS dal 2002 al mese di ottobre 2005 quando rassegnò le dimissioni dal suo incarico nel mezzo del più grande scandalo che abbia mai coinvolto la polizia segreta colombiana e venne nominato console a Milano dal presidente Álvaro Uribe. Testimone chiave in queste accuse è stato Rafael García, ex capo del reparto di informatica del DAS, che si trova in carcere dal dicembre 2005 accusato di riciclaggio di denaro e della cancellazione dagli archivi informatici dei precedenti penali di paramilitari e narcotrafficanti. Il 16 dicembre scorso, García rivolgendosi al giudice iniziò così il suo racconto: “sono disposto, signor giudice, ad ottenere i benefici contemplati in caso di collaborazione con la giustizia” spiegando così come fu che Jorge Noguera aprì gli uffici (e le casse) del DAS al servizio dei paramilitari.
In questi giorni, Rafael García sta confermando davanti alla Corte tutte le sue accuse e denunce sulle infiltrazioni dei paramilitari nella politica, mostrando così uno scenario grave e compromettente per cui decine di nomi di politici stanno entrando negli archivi penali e già quattro senatori e quattro deputati sono stati arrestati in uno degli scandali più clamorosi della storia politica della Colombia.
Le accuse di Rafael Garcia a Jorge Noguera sono:
1. Di aver stretto relazioni con i capi paramilitari particolarmente con Jorge 40 capo delle AUC, Hernán Giraldo, capo del Fronte di Resistenza Tayrona, e David Hernández capo delle Autodifese del Cesar.
2. Esecuzioni extragiudiziarie di sindacalisti. Jorge Noguera avrebbe consegnato ai paramilitari della Costa Atlantica liste di sindacalisti, insegnanti, studenti e leader di sinistra che successivamente sono stati uccisi o minacciati.
3. Frode elettorale. Noguera avrebbe organizzato con i paramilitari una frode elettorale durante le elezioni presidenziali del 2002 mentre era direttore della campagna elettorale del presidente Uribe nel Magdalena. Con questa frode, Uribe ottenne circa 300.000 voti in più.
4. Omicidi politici in Venezuela. Secondo García il DAS avrebbe collaborato con i paramilitari nell’organizzazione di un presunto attentato contro il presidente Hugo Chávez e il pubblico ministero Danilo Anderson.
In reltà più di un centinaio di paramilitari colombiani furono poi arrestati vicino Caracas e Danilo Anderson fu assassinato nel Novembre del Novembre del 2004. Uno dei paramilitari in prigione ha confermato che Jorge Noguera era a conoscenza del golpe contro il Venezuela.
Noguera dal canto suo, dall’Italia, dove si trovava, aveva sempre negato queste accuse rispondendo che erano false, che erano manovrate da interessi oscuri e che volevano colpire solo il presidente.
Non si comprende però perché il presidente Uribe ricevendo le dimissioni di Noguera da direttore del DAS lo abbia premiato nominandolo console a Milano.
Si domandò infatti allora Daniel Coronell giornalista di Semana che “se il governo era a conoscenza del grado di coinvolgimento del DAS, perché ha premiato con il consolato in Europa colui il quale lo aveva portato ai livelli più bassi?” E ci domandiamo noi invece, perché l’Italia aveva accettato la nomina di Jorgue Noguera se anche il Canada al quale precedentemente era stata offerta aveva rifiutato? Il presidente Uribe alle domande che sempre più insistentemente gli venivano poste dai media colombiani, rispose a suo tempo che “non avrebbe mai permesso che il Governo fosse coinvolto in uccisioni di sindacalisti, in cospirazioni contro il Venezuela o che si sarebbe fatta strada la tesi secondo la quale lui avrebbe rubato le elezioni del 2002”. In realtà questa tesi ha fatto una strada molto lunga, signor presidente, dal momento che Jorge Noguera deve proprio rendere conto alla giustizia, come lei stesso afferma, in merito a queste accuse.
La posizione che ha mantenuto il presidente Uribe nei mesi scorsi (ha sempre appoggiato Noguera, “uomo integro”, disse di lui) quando la stampa colombiana dette ampio spazio alle dichiarazioni di García fu attaccata molto duramente anche da Human Rights Watch che affermò che il presidente colombiano “aveva risposto in modo aggressivo e squalificante ai giornalisti”. Uribe infatti aveva accusato la rivista Semana di essere frivola e irresponsabile per aver pubblicato le dichiarazioni di García e aveva affermato che queste pubblicazioni ledevano la legittimità costituzionale. Secondo Human Rights Watch la posizione adottata da Uribe, generava preoccupanti dubbi sul suo coinvolgimento nella vicenda in quanto aveva provocato un effetto intimidatorio sull’esercizio della libertà di espressione.
Invece di attaccare i mezzi di comunicazione, disse Miguel Vivano direttore di HRW per il Sud America, Uribe avrebbe dovuto far svolgere un’inchiesta sul DAS.
Il DAS dipende direttamente dal Presidente della Repubblica e già lo scorso mese di Aprile, Semana lo accusava di essere un organismo profondamente in crisi per essersi “dimostrato un’istituzione inefficiente e vulnerabile” fino a “trasformarsi in una specie di organo repressore senza controllo. Una struttura debole che esegue arresti di massa basati sulla testimonianza di informatori poco affidabili le cui versioni non vengono mai verificate”.
Alla luce anche del recente arresto di Fredy Muños Altamiranda, corrispondente colombiano di TeleSUR accusato di essere un terrorista sulla base di testimonianze di collaboratori di giustizia, tutto ciò appare molto preoccupante.
Ricordiamo inoltre che Roma si trova l’attuale ambasciatore colombiano Luis Camilo Osorio, personaggio molto poco pulito, sicuramente legato al paramilitarismo, che fu fiscal general nel suo paese ( la massima carica della magistratura). A quel tempo insabbiò più di qualche inchiesta e denuncia su paramilitari e narcotrafficanti. (prossimamente…)
P.s. Un amico, che ringrazio, mi comunica che l’attuale ambasciatore a Roma è Sabas Pretelt, ex ministro dell’interno, Luis Camilo Osorio, è stato trasferito in Messico. La cosa purtroppo non ci rende particolarmente felici, in Messico infatti già hanno i loro loschi personaggi ‚non servivano anche quelli di importazione, quindi prossimamente… notizie più dettagliate sull’ex ambasciatore colombiano a Roma.
La mia lettera di protesta alle autorità italiane del 11 aprile 2006 relativamente ai diplomatici colombiani nel nostro paese.
BREVE AGGIORNAMENTO SUL CASO DI FREDY MUÑOZ-APPELLO DELLA RETE IN DIFESA DELL’UMANITA’
E MENTRE LA STAMPA ITALIANA CONTINUA A TACERE…
Per Fredy Muñoz continua la detenzione in Colombia, nonostante le accuse che gli siano state mosse appaiano sempre più deboli ed incongruenti.
I testimoni che lo avrebbero riconosciuto e identificato come tal Jorge Eliecer, membro delle FARC e autore degli attentati nel 2002 alla centrale elettrica di ElectroCosta sarebbero tre collaboratori di giustizia che dal 2000 sono rinchiusi in carcere.
Questa è infatti la prima incongruenza del caso a cui si aggiunge quella delle presunte ferite e ustioni che riportò l’attentatore e che gli avrebbero dovuto lasciare profonde cicatrici ma che Muñoz non presenta.
I suoi accusatori infine sostengono che Fredy Muñoz, alias Jorge Eliecer, avrebbe trascorso un lungo periodo di tempo nel corso dell’anno 2002 con il Fronte 41 delle FARC, mentre è dimostrato che in quell’anno Muñoz era capo redattore del quotidiano Al Dia .
Il presidente di Telesur, Andrés Izarra nel corso di una conferenza stampa tenuta proprio in questi giorni, si chiede “come sia possibile che le dichiarazioni di tre delinquenti possano avere più importanza della carriera giornalistica di Muñoz” e inoltre si è mostrato molto preoccupato per l’incolumità di Fredy una volta liberato.
Infatti, suona abbastanza inquietante, alla luce degli ultimi scandali in cui il DAS (Dipartimento di Sicurezza colombiano) appare sempre più un “fortino di narcoparamilitari” per dirla con le parole di Maria Jimena Duzan, giornalista de El Tiempo, che Fredy sia stato fotografato e interrogato da agenti del DAS dopo aver subito già un interrogatorio da parte della Fiscalía.
Ricorda Izarra che “il DAS non ha nessun potere di effettuare interrogatori e tanto meno di fotografare persone” ma il suo compito è solo quello di effettuare l’arresto e assicurare i criminali alle autorità.
Il giornalista di TeleSUR inoltre ha espresso preoccupazione perché Fredy Muñoz è stato condotto a Barranquilla regno incontrastato dei paramilitari di Jorge 40, il quale ha un procedimento in corso con le autorità venezuelane con l’accusa di aver partecipato ad attentati contro il presidente Hugo Chavéz.
Le accuse a TeleSUR di promuovere il terrorismo vengono dalla Colombia già da molto tempo prima dell’arresto di Fredy Muñoz e queste, oltre a configurarsi come un attacco alla libertà di stampa, assumono il preciso significato di attentato al processo di integrazione della regione latinoamericana che sempre più si sta affermando con successo e che inevitabilmente vedrà isolati paesi che, come la Colombia, si prestano ai giochi imperialistici degli Stati Uniti.
La Rete in Difesa dell’Umanità ha diffuso un appello contro l’arresto di Fredy Muñoz Altamiranda e contro la criminalizzazione di TeleSUR che si può sottoscrivere indicando nome, cognome, professione e paese, a questo indirizzo libertadparafredygmailcom (libertadparafredygmailcom) .
ATTACCO COLOMBIANO A TELESUR — UNA COINCIDENZA?
LIBERTÀ PER IL GIORNALISTA ARRESTATO IN COLOMBIA!!