In Colombia ancora una volta salta l´ accordo umanitario

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È talmente raro leggere notizie sulla Colombia dai nostri quotidiani che quando questo accade, vale senz’altro la pena riportarle.
Ancora di più vale la pena se a scrivere è Guido Piccoli , il quale riesce, credo, come nessuno in Italia, a collocare gli avvenimenti colombiani nella loro giusta prospettiva, con profonda lucidità e senza mezzi termini.
Uribe ha avuto il pretesto che cercava o Uribe piuttosto si è creato il pretesto che cercava?
In Colombia più che in ogni altro paese al mondo niente è come sembra e tutto è relativo.
Il potere politico e quello militare manipolano la realtà, i morti, le stragi e le carneficine a loro piacimento.
Civili uccisi e fatti passare per ribelli dove averli opportunamente “mascherati”, imboscate a paramilitari organizzati dallo stesso esercito con il quale collaboravano, in pochi hanno dubbi ormai sulla vera regia di questi nuovi attentati.
Fonte: www.ilmanifesto.it

Uribe ha avuto il pretesto che cercava. Per la guerra totale
In Colombia le speranze di un accordo Farc-governo per uno scambio di prigionieri sono subito svanite nel nulla
GUIDO PICCOLI
Com’era ampiamente prevedibile, in Colombia l’illusione, se non della pace almeno del dialogo, è subito sfumata per lasciare il posto alla solita sequela d’attentati, imboscate ed esecuzioni sommarie o mirate.
L’ultima azione clamorosa è l’assalto concentrico, martedì scorso, di mezzo migliaio di guerriglieri, che ha provocato la morte di una ventina di poliziotti, a guardia di Tierradentro, villaggio del dipartimento atlantico di Cordoba, ritenuto l’incontrastato regno paramilitare.
Tra le vittime di questo clima di guerra ci sono anche la cinquantina di sequestrati delle Farc (tra i quali l’ex-candidata presidenziale franco-colombiana Ingrid Betancourt) e i cinquecento e più ribelli detenuti nelle carceri statali che, a meno di un miracolo sempre possibile nella terra di Macondo, dovranno aspettare che Uribe se ne vada nel 2010 da Palacio Nariño per rivedere la libertà.
Anzi, il primo gruppo dovrà scongiurare che non abbia successo il riscatto militare, promesso da un indemoniato Uribe una decina di giorni fa. Sarebbe la loro condanna a morte: secondo le ferree regole della barbarie colombiana, finirebbero uccisi dai commando militari (notoriamente restii alle operazioni chirurgiche) o giustiziati dagli stessi guerriglieri, appena questi si trovassero circondati o costretti alla fuga.
A cambiare il clima nel paese, è bastata un’autobomba che, senza fare morti, ma solo una ventina di feriti, è scoppiata nel parcheggio della Scuola superiore di guerra, nella zona nord di Bogotà e soprattutto nel cuore del potere militare colombiano ( a poche centinaia di metri ci sono le sedi della XIII Brigata, della V Divisione e delle scuole di Fanteria e di Guerra psicologica). Dopo poche ore dall’esplosione di sessanta chili del potente R-1, in base ad una frase di una telefonata (che nessuno ha potuto ascoltare), che sarebbe stata intercettata tra il presunto attentatore e il capo militare guerrigliero, il cosiddetto Mono Jojoy, Uribe ha annunciato un’offensiva frontale contro le Farc, descritte come una banda di terroristi, fantocci e vigliacchi.
Pochi credono che quella bomba sia stata effettivamente messa dai guerriglieri (così come pochi, a suo tempo, credevano all’attribuzione di tutte le auto-bombe a Pablo Escobar e non alla variegata schiera dei suoi nemici, che comprendeva, tra gli altri, la Cia, i paramilitari e le diverse polizie segrete colombiane). Gli indizi non mancano. A cominciare dalla smentita (quasi insolita) delle Farc.
Ma soprattutto, anche in questo caso, è legittimo chiedersi «cui prodest?»: puntuale come un orologio svizzero, l’attentato ha tolto Uribe dall’impaccio di accettare il cosiddetto «scambio umanitario» con la guerriglia, e la relativa smilitarizzazione di una zona meridionale del paese, vista come fumo negli occhi non solo dal vertice delle Forze armate, ma anche da Washington.
A far propendere per l’auto-attentato, c’è anche una clamorosa coincidenza: appena un mese e mezzo fa è venuta alla luce la messinscena, ad opera di quattro ufficiali (in collaborazione con una ex guerrigliera, affamata di soldi e libertà) di tre attentati, sventati all’ultimo momento o realizzati (con un paio di vittime) a Bogotà, nei mesi precedenti l’insediamento di Uribe. Che quest’ultimo sia al corrente di questo nuovo episodio della «strategia della tensione» poco importa. Di fatto, quando, dal palchetto montato sul luogo dell’attentato, ha finito il suo bellicoso discorso (secondo le parole del giornalista del quotidiano El Tiempo) «era tornato ad essere quello di prima. Quello di sempre. Il suo viso lo diceva. Era raggiante».
Per sfortuna sua, e dei suoi alleati, sponsor e tifosi, la guerra non si vince a suon d’insulti, ma sul campo di battaglia (e l’attacco delle Farc a Tierradentro rivela tutta la debolezza dell’esercito colombiano). Oppure lavorando seriamente per la pace. Una strada che Uribe, «quello di sempre», non sembra avere nessuna intenzione di percorrere.


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