Ricevo e pubblico la lettera che a poche ore dal terremoto l’amica Rayen Kvyeh ci ha inviato per rassicurarci sul fatto che stava bene e per raccontarci ciò che stava avvenendo. Rayen vive a Temuco.
Cara amica, caro amico
Da questa terra, scossa da terremoti e devastata dalle acque, ti scrivo queste poche righe, intrise di sentimenti di dolore e di rabbia.
Il terremoto – tsunami è stato ed è terribile.
Ha trascinato persone, case, ospedali, navi, ponti, strade, assemblaggi elettrici, e così via.
Siamo senza acqua, senza luce, senza cibo, senza trasporti e senza comunicazioni.
I grandi supermercati che vendono generi alimentari, rimangono chiusi. Il suoi MODERNI SISTEMI DI VENDITA, non funzionano. Non importa se il popolo non ha cibo. E’ fine mese e la maggior parte dei settori popolari, si è trovata con le dispense vuote aspettando la paga. La disperazione per mancanza di acqua e cibo per i bambini, ha portato la gente ad assaltare i supermercati in cerca di cibo.
LA MADRE TERRA, TUTTA LA NATURA SI È RIBELLATA e non funziona nulla.
Il Cile si vanta di essere uno STATO MODERNO E RICCO, tuttavia, la sua modernità è inutile in questi tragici istanti. L’aiuto dello Stato non raggiunge il popolo affamato, assetato, che piange i suoi cari scomparsi o morti mentre i grandi supermercati, mantengono gli alimenti nei loro lussuosi magazzini, aspettando che vengano ripristinati i moderni sistemi di vendita. Solo piccoli negozi di quartiere hanno continuato a provvedere alle popolazioni e hanno ormai esaurito le loro provviste. La Comunità Lafkenche* sono scappate verso i monti, e nelle valli e montagne sono crollate le case e le cose si sono perse e loro sono rimasti isolati. La catastrofe è grande, il dolore e la sofferenza indescrivibili ed è grande l’indifferenza di coloro che detengono il potere economico. La solidarietà della gente comuove, condividi ciò che hai e ciò che non hai e lì trovi rifugio al dolore e la speranza.
La mia casetta è un disastro, ma ancora regge in piedi ed io sono e ti mando i miei saluti e il mio abbraccio. Rayen
Recibo y publico la carta que ha enviado mi amiga Rayen Kvyeh para asegurarnos que está bien y para contarnos la situación. Ella vive en Temuco.
Querida amiga — Querido amigo:
Desde esta tierra , sacudida por temblores y arrasada por las aguas , te escribo estas cortas líneas, impregnadas de sentimientos encontrados de dolor y rabia. El terremoto– maremoto fue y es terrible.- Arrasó con gente, casas, hospitales, barcos, puentes, caminos, montajes eléctricos, etc. Estamos sin agua, sin luz, sin alimentos., sin transporte y sin comunicación..- Los grandes supermercados de ventas de alimentos, se mantienen cerrados. Sus MODERNOS SISTEMAS DE VENTAS, no funcionan. No importa si el pueblo no tiene alimentos. Es fin de mes y la gran mayoría de los sectores populares, estaba con sus despensas vacías esperando el pago. La desesperación de falta de agua y alimentos para los niños, llevó a la gente a asaltar los supermercados en busca de alimentos. LA MADRE TIERRA, LA NATURALEZA TODA SE HA LEVANTADO y nada funciona. Chile hace gala de ser un ESTADO MODERNO Y RICO, sin embargo, su modernidad no sirve de nada en estos trágicos momentos. La ayuda del estado no llega al pueblo hambriento , sediento , llorando a sus seres queridos desaparecidos o muertos y los grandes almacenes, guardan los alimentos en sus lujosas instalaciones esperando que se restauran sus modernos sistemas de ventas. Sólo los pequeños almacenes de barrios se han mantenido abasteciento a las poblaciones y han agotado sus provisiones. Las comunidades lafkenche se fueron a los cerros, y en los valles y montañas se derrumbaron las casas y se perdieron los enseres y se quedaron aislados. La catastrofe es grande, el dolor y el sufrimiento indiscriptible y grande la indiferencia de quienes tienen el poder económico. La solidaridad del pueblo emociona, compartes lo que tienes y lo que no tienes y allí encuentras el refugio al dolor y la esperanza. Mi casita es un caos, pero aún se mantiene en pie y yo estoy aquí envíandote mi saludo y mi abrazo en la distancia. Rayen
Giunge proprio in queste ore la notizia che il governo messicano si è espresso negativamente rispetto alla richiesta avanzata dalla Magistratura dell’Ecuador dell’estradizione di Lucía Morett.
Rafael Correa nel suo incontro con i familiari degli studenti messicani e con il papà di Lucía aveva espresso il suo parere contrario a questa stessa richiesta ma aveva anche detto di non poter far nulla in quanto nel paese vige una netta separazione dei poteri.
La decisione del governo messicano, resa nota tramite il ministero degli Affari Esteri, rappresenta un grande successo per l’Associazione dei Genitori e Familiari delle Vittime di Sucumbíos che da due anni conduce con dignità e convinzone una dura battaglia anche con lo scopo di portare al banco della giustizia internazionale i responsabili di quel massacro.
I familiari dei giovani studenti messicani e i genitori di Lucía Morett non sono mai stati soli in questi 24 mesi di mobilitazione costante, la Limeddh (Lega Messicana per la Difesa dei Diritti Umani) li ha sempre appoggiati e sostenuti nella loro lotto contro l’impunità, così come molte associazioni e singoli cittadini in tutto il mondo. La Campagna Permanente Cada Uno por la Justicia continuerà fino alla condanna dei responsabili materiali e intellettuali di quella carneficina..
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Nella foto il presidente ecuadoriano Rafael Correa, riunitosi a Playa del Carmen con i familiari degli studenti messicani deceduti a Sucumbíos (Ecuador) e con il papà dell’unica sopravvissuta Lucía Morett.
Correa ha affermato che i cinque giovani messicani e Lucía Morett sono stati “vittime” e non “carnefici” e non devono essere diffamati per essersi trovati in quel luogo.
“Se si fosse trattato della morte di cinque giornalisti , che scandalo sarebbe stato! Ma erano cinque studenti messicani, universitari, semplici … allora sì sono cinque guerriglieri che meritano la fine che hanno fatto” ha affermato Correa al quotidiano La Jornada.
I cinque giovani rimasero uccisi durante l’attacco dell’esercito colombiano a un campamento delle FARC a Sucumbíos (Ecuador) compiuto in violazione di trattati internazionali con l’appoggio di mezzi della forza aerea statunitense allora presenti nella base di Manta in Ecuador. Durante l’attacco morirono una ventina di guerriglieri tra i quali uno dei leader della guerriglia Raúl Reyes. Lucía Morett e due guerrigliere colombiane Susana e Diana sono le uniche sopravvissute.
Tre ufficiali colombiani hanno accusato il generale in ritiro Mario Montoya, ex capo dell’Esercito ed attuale ambasciatore della Colombia in Repubblica Dominicana, di aver partecipato alla pianificazione dell’Operazione Fenix condotta nella regione dell’Urabá e culminata in quello che è conosciuto come il massacro di San José de Apartadó. Esattamente cinque anni fa, il 21 febbraio del 2005, a San José de Apartadó, venivano brutalmente massacrate otto persone appartenenti alla locale Comunità di Pace. Si trattava di cinque adulti e tre bambini, Natalia e Santiago Muñoz, rispettivamente di 6 anni e 18 mesi e Deiner Guerra di 10 anni, sgozzati con i machete dopo aver assistito all’omicidio dei loro genitori. Deiner era figlio di Luis Eduardo Guerra Guerra, il più importante leader della comunità, ucciso barbaramente anche lui.
Secondo la recente confessione dei tre ufficiali dell’esercito, resa nel corso del processo che proprio in questi giorni vede implicati 10 militari per responsabilità dirette nel massacro, sarebbe stato proprio Montoya (all’epoca comandante della Prima Divisione) ad autorizzare la Brigata XVII ad avvalersi di guide paramilitari, circa 60 uomini in tutto, per la perlustrazione della zona.
Tutti, fin dai primi giorni successivi alla vicenda, dal presidente della Repubblica fino all’ultimo funzionario, fecero la loro parte per garantire l’immunità dei militari implicati nella strage e per sviare le indagini. Sebbene già il giorno seguente il sacerdote gesuita Javier Giraldo e i membri della comunità di Pace avessero denunciato le responsabilità dell’esercito e di un gruppo di paramilitari, lo stesso presidente Álvaro Uribe incolpò pubblicamente invece la guerriglia delle FARC. Fu negata anche la presenza di truppe dell’esercito nella zona il giorno 21 febbraio, presentando carte geografiche e documenti militari in seguito dimostrati come falsi. Il processo ai dieci militari coinvolti ha rischiato di decadere per decorrenza di termini in quanto le udienze si sono tenute con alcuni mesi di ritardo per la scomparsa dagli uffici della Procura Nazionale di Medellín dove erano custoditi, di 9 fascicoli che contenevano le prove proprio contro i militari.
Fu proprio il paramilitare Diego Fernando Murillo Bejarano, alias “Don Berna” a dare l’avvio al processo confessando, nel maggio del 2008, che il suo gruppo “Bloque Héroes de Tolová” insieme a militari della XVII Brigata dell’Esercito colombiano aveva compiuto il massacro.
Confessione avvalorata da quella depositata appena tre giorni dopo, del capitano in ritiro Guillermo Armando Gordillo Sánchez, arrestato nel novembre del 2007 che ha ammesso la sua partecipazione all’Operazione Fenix.
Mario Montoya, dopo i fatti di San Josè de Apartadó fu promosso capo dell’Esercito della Colombia e i paramilitari “Don Berna” e “Salvatore Mancuso” furono estradati da Uribe negli Stati Uniti per timore di ulteriori rivelazioni.
Adesso, dopo che Montoya ha recentemente dato le sue dimissioni per lo scandalo dei “falsi positivi” (circa 2000 giovani assassinati da militari e fatti passare come guerriglieri uccisi in combattimento) e dopo la sua “premiazione” come ambasciatore nella Repubblica Dominicana, l’ulteriore confessione di un altro paramilitare, Daniel Rendón Herrera, alias “Don Mario”, davanti all’Ufficio di Justicia y Paz (il programma di smobilitazione dei paramilitari) aggrava ulteriormente la sua posizione. “Don Mario” accusa infatti l’ex generale di aver ricevuto 1.500 milioni di pesos da Miguel Arroyave, soldi che gli furono consegnati per ottenere, nella guerra contro un altro gruppo paramilitare, l’appoggio dell’esercito al Bloque Centauros al quale egli apparteneva.
“Il generale Mario Montoya, grande generale, esempio di efficienza, uomo sincero che non ha nulla da nascondere, che tutto ciò che pensa o che crede lo dice, con la schiettezza che lo caratterizza, uomo intraprendente, ha presentato la sua rinuncia, senza che nessuno la avesse richiesta… Io gli dissi: Generale non rinunci per queste difficoltà, la cosa buona è che tutto sta avvenendo pubblicamente, è stata questa la regola del governo findal principio: che nulla resti nascosto. Non rinunci mio generale, questo lo supereremo”.
Questa fu la difesa pubblica del generale Montoya da parte del presidente della Repubblica Álvaro Uribe, che è anche Comandate Supremo delle Forze Armate della Colombia.
I familiari delle vittime di San José de Apartadó hanno chiesto l’immediato mandato di cattura per Mario Montoya, “esempio di efficienza e uomo che non ha nulla da nascondere”. Probabilmente molto presto egli si vedrà costretto a rinunciare al suo incarico e a ritornare in Colombia per rispondere delle pesanti accuse.
Sono gli strani paradossi colombiani. La giustizia spesso funziona ed eminenti delinquenti politici e militari prima o poi nelle sue maglie ci finiscono. Vengono resi pubblici tramite la stampa nazionale i loro crimini e i loro vincoli con il paramilitarismo. Stampa che è tutta in mano all’oligarchia del paese e soprattutto alla famiglia Santos, la stessa della quale fanno parte anche il vicepresidente della Repubblica, accusato da Salvatore Mancuso di essere vincolato al paramilitarismo, e l’ex ministro della difesa Juan Manuel Santos. Gli eminenti delinquenti, collusi a vario titolo con i paramilitari spesso vengono anche arrestati e ricordiamo per tutti il caso noto dell’ex capo del DAS, i servizi segreti colombiani, Jorge Noguera Cote, poi console a Milano, accusato di aver aperto le porte di quella struttura e di averla consegnata ai paramilitari, per i quali compilava liste di persone da uccidere.
A volte prima ancora che vengano formalmente avviati i procedimenti penali contro questi para-paramilitari, essi vengono promossi con incarichi diplomatici, consolati e ambasciate in vari luoghi del mondo, alcuni considerati “strategici” per i servizi di sicurezza colombiani.
Lo stesso Montoya fu inviato in Repubblica Dominicana a sostituire Juan José Chaux arrestato nel maggio del 2009 all’aeroporto di Bogotà per essersi incontrato in più di una occasione con alcuni dei più importanti capi paramilitari colombiani. Ma non era soltanto quello probabilmente lo scopo della sua nomina. In Repubblica Dominicana i servizi segreti colombiani, in combutta con la CIA e con quelli israeliani, hanno cercato almeno due volte di organizzare piani per attentare alla vita del dirigente comunista dominicano Narciso Isa Conde, sempre solidale con le diverse forme di lotta di liberazione del popolo colombiano e fortemente critico del governo di Uribe, il quale lo ha accusato pubblicamente in varie occasioni di essere “un terrorista”. Ma c’è dell’altro…
La Repubblica Dominicana sta diventando in questi ultimi anni la propaggine caraibica di tutto il traffico di stupefacenti proveniente dalla Colombia, un narco-stato in cui la corruzione, proprio come in Colombia, impera nelle strutture politiche e tra gli alti vertici militari del paese, che restano ai loro posti nonostante alcuni scandali recenti che hanno visto militari coinvolti in vicende di narcotraffico con criminali colombiani. Esistono vincoli criminali tra uomini dei servizi segreti colombiani, militari e generali dominicani (molti di loro appartenenti alla Direzione Nazionale del Controllo Anti Droga e alla Marina di Guerra) e lo stesso generale Montoya.
Tornando alla Colombia, strani paradossi, dicevamo. Tutti sanno tutto, le notizie sono di dominio pubblico almeno nel paese e qualcuno finisce anche in galera. Liste di uomini da squartare con motoseghe, giudici poco malleabili costretti alle dimissioni, paramilitari utilizzati come guide turistiche per massacri dell’orrore, soldati ubriachi che giocano a palla con le teste dei contadini … ma il Maestro Uribe, il burattinaio, resta al suo posto, anzi si fa rieleggere (fraudolentemente) e pensa a come riprovarci per la terza volta…
El sábado 20 de febrero, en Milán (Italia), miles de personas protagonizaron una combativa marcha en solidaridad con las luchas antiimperialistas de los pueblos del mundo. En esta movilización internacionalista, con una pancarta a la cabeza con la consigna “MUCHOS PUEBLOS, UNA SOLA LUCHA”, se destacó un fuerte contingente de las asociaciones y comités solidarios con los pueblos latinoamericanos, llevando una gran pancarta con el tricolor bolivariano y la consigna “POR LA NUEVA COLOMBIA , LA PATRIA GRANDE Y EL SOCIALISMO”, rodeada por las banderas de aquellos pueblos y sus organizaciones que vanguardean la histórica lucha por la segunda y definitiva independencia de Nuestra América: Colombia, Venezuela, Cuba, Bolivia, Nicaragua, Honduras, Ecuador, El Salvador, Bolivia, etc.
El mensaje no habría podido ser más claro: estos pueblos de la América bolivariana, cuya lucha alimenta y fortalece sin descanso la esperanza en un mundo más justo y solidario opuesto al sistema capitalista, y los pueblos europeos, condenan mancomunadamente y sin vacilaciones el putrefacto régimen colombiano de Álvaro Uribe Vélez, y su papel de vasallo de los rapaces y guerreristas intereses del imperialismo gringo. Y entienden que la lucha revolucionaria del pueblo colombiano es un factor clave en el proceso de liberación del continente entero, y en la construcción de la justicia social, la paz y el socialismo para todos los pueblos.
Cuando la movilización pasó frente al ilegitimo consulado de Colombia, miles de voces se levantaron condenando y rechazando al gobierno mafioso y paramilitar encabezado por Uribe, el narcotraficante numero 82.
También se rindió homenaje a los estudiantes mejicanos masacrados hace casi dos años durante la operación terrorista internacional ejecutada por el ejército colombiano (con tecnología norteamericana y violando piratescamente la soberanía del Ecuador), al igual que al Comandante de las FARC-EP Raúl Reyes, asesinado en el mismo bombardeo cuando, en su campamento temporal, desempeñaba un trabajo orientado a propiciar el intercambio humanitario de prisioneros de guerra en poder de las dos partes beligerantes.
Sin duda alguna fue una gran jornada internacionalista, que clausurando la “Semana de Solidaridad con el Pueblo Vasco” ha puesto de manifiesto la esencial identidad de objetivos entre todas las luchas antiimperialistas: desde Palestina hasta Kurdistan, pasando por el País Vasco y América Latina, cada victoria, en cualquier parte del mundo, es una victoria de todos los pueblos.
Gli amici Fabrizio Lorusso e Diego Lucifreddi si sono recati da Città del Messico dove vivono ad Haiti, ospiti dell’associazione locale per la difesa dei Diritti Umani AUMOHD, il cui presidente è l’avvocato Evel Fanfan. A questa piccola ma attivissima associazione ovviamente non è giunta nemmeno una briciola di tutti gli aiuti internazionali stanziati per l’emergenza terremoto eppure i suoi membri, quasi tutti avvocati, si prodigano costantemente fornendo internet gratuito per le comunicazioni a chi ne avesse bisogno, medicinali e assistenza di qualsiasi genere. Da anni presenti sul territorio offrono consulenze gratuite in materia di lavoro e assistenza legale, accompagnando anche gli abitanti del quartiere di Delmas nella realizzazione di progetti di cucina comunitaria. Per sostenere economicamente l’associazione AUMOHD, sottoscrivere qui. (AM)
Port au Prince e la notte di pioggia a un mese dal terremoto di Fabrizio Lorusso 15 febbraio 2010 Ad Haiti non è ancora ufficialmente iniziata la stagione delle piogge, per fortuna manca ancora qualche mese come nel resto dei Caraibi, ma anche qui ci sono i mesi pazzi e alle 4 del mattino dell’11 febbraio, la capitale ha vissuto ore di disagio e paura per le piogge intense cadute durante alcune ore. Rispetto agli uragani che periodicamente sconvolgono il paese o alle piogge torrenziali di maggio e giugno quello dell’altra sera poteva considerarsi solo uno “sfogo temporalesco” notevole ma non eccessivo. Purtroppo anche un po’ d’acqua può far notizia. Circa un milione e duecentomila sfollati si sono infatti ritrovati ai bordi di fiumi di fango e detriti, con le loro tende e i giacigli invasi dall’acqua, secondo un copione che potrebbe ripetersi ogni giorno se nelle prossime settimane non verrà risolto il problema delle abitazioni. Gli accampamenti ufficiali e spontanei che sono stati allestiti nei parchi, nelle piazze e per le strade non sono pronti per drenare i flussi d’acqua piovana e quindi gli interventi previsti dalla comunità internazionale, dalle autorità e dagli stessi campi autogestiti dovranno presto cercare di risolvere questo problema. Ormai le cifre relative alle vittime hanno superato ogni stima iniziale e si parla di 220mila morti mentre dal punto di vista degli aiuti ricevuti i giornali locali (segnalo “Le Nouveliste”) riportano un altro dato allarmante fornito dal Bureau de coordination des affaires humanitaires (Ocha) che segnala che solo 50mila famiglie (cioè 272mila persone) hanno ottenuto “materiali d’emergenza” come tende e materassi. Per chi non ha un tetto proprio questi beni elementari si trasformano in preziose ancore di salvataggio e, sebbene non costituiscano una dimora stabile e dignitosa, sono pur sempre un appiglio utile e, direi, quasi un privilegio. Per questo motivo Evel Fanfan, il presidente dell’associazione (Aumohd) che ci ospita nel quartiere Delmas, ci aveva chiesto di portare tende e materiali da campeggio come le pile elettriche e i sacchi a pelo oltre alle sempre necessarie medicine. Anche qui nel parcheggio dove abbiamo piantato un paio di canadesi ci siamo dovuti svegliare all’improvviso per cercare protezione dallo scrosciare della pioggia che non dava segni di cedimento e soprattutto per evitare che i computer e le stampanti, protette solamente da un telone di plastica, non venissero danneggiati. In una conferenza stampa l’ambasciatore americano a Porto Principe, Kenneth H. Merten, ha dichiarato che le tende non rappresentano l’unica priorità e che è meglio pensare già da ora a soluzioni più stabili come per esempio i prefabbricati di legno e plastica che sono più resistenti. Inoltre – sintetizzo le sue parole – l’idea è quella di evitare che la gente si abitui alle tendopoli che potrebbero trasformarsi in città permanenti che ostacolerebbero l’opera di ricostruzione generale e i piani di ricollocamento della popolazione in zone più sicure. Intanto però la gente se la deve cavare con quello che c’è o con i teloni di plastica che in città sono diventati carissimi e ricercatissimi tanto che alcune persone che ci hanno visto per la strada ci hanno chiesto di procuraglieli pensando che siamo americani. L’ambasciatore ha anche risposto a una domanda di un giornalista haitiano su una questione poco nota: una percentuale (intorno al 3%) dei soldi raccolti negli USA viene incamerata come contributo direttamente dall’esercito americano anziché venire usata per l’acquisto di ulteriori beni per gli haitiani e a questo Mr. Merten ha affermato che per ora gli Stati Uniti hanno stanziato ufficialmente 537 milioni di dollari e che quindi si giustifica un piccolo prelievo sulla raccolta fondi. E’ vero che ogni paese gestisce le proprie missioni umanitarie in modi differenti però possiamo dire che i cittadini americani che hanno donato per Haiti lo stanno effettivamente facendo col 97% del loro denaro e con il restante 3% stanno anche pagando la missione dell’esercito, cosa che forse non era chiarissima e che può assimilarsi a una tassa nascosta. E’ stato anche annunciato un relativo allentamento delle norme migratorie riguardanti gli haitiani che si trovavano negli USA prima del 12 gennaio e che potranno rimanere legalmente nel paese per altri 18 mesi. Il 12 gennaio tutto il paese si ferma per ricordare le vittime del terremoto a un mese dalla catastrofe. Si pregherà dalle 7 del mattino alla sera tardi. Sarà un giorno di calma e di riflessione per cercare di intravedere la speranza, gli aiuti, la ricostruzione e il futuro. Continuo a segnalare QUESTO LINK . per le donazioni dato che sto lavorando con loro qui a Port au Prince e stanno cercando in varti modi di aiutare la popolazione del quartiere esclusa dalla solidarietà internazionale ufficiale. A questo link invece c’è un album fotografico sulla capitale haitiana che spero possa interessarvi e da cui si può attingere citando la fonte (!): http://picasaweb.google.com/FabrizioLorussoMex/Haiti
Qui si può firmare la lettera, che in versione cartacea verrà spedita ai destinatari nella giornata di lunedì dall’Associacione Colombia Vive!
Presidente de la Republica de Colombia
ALVARO URIBE VELEZ
Fiscal General de la Nación
GUILLERMO MENDOZA DIAGO
Presidente Consejo Superior de la Judicatura
JORGE ANTONIO CASTILLO RUGELES
Signori:
Intutto il mondo, cittadini e cittadine sia della Colombia che di altri Paesi, solidali con le Comunità contadine colombiane che quotidianamente devono sopportare affronti e aggressioni da parte di membri della forza pubblica in opposizione ai loro diritti inalienabili, esprimono indignazione per il modo in cui lo Stato colombiano ha costantemente ostacolato il processo giudiziario tramite il quale si spera di giungere ad una giusta sentenza per gli accusati di crimini di lesa umanità per il massacro compiuto il 21 febbraio 2005 nel quale otto membri della Comunità di Pace di San José de Apartadó sono stati assassinati in modo cruento.
Fin da quando fu commesso il crimine, la comunità internazionale non ha mai cessato di scrivere petizioni e d’inviare comunicati alle autorità colombiane affinchè quell’atroce massacro non rimanesse impunito come è successo invece per altri 197 crimini perpetrati ai danni di questa Comunità di civili i quali, nel portare avanti il loro percorso di resistenza civile e non violenta, le uniche cose che chiedono allo Stato colombiano sono il rispetto della Costituzione e, concretamente, il rispetto per la Vita dei membri della Comunità e il loro Diritto a vivere in Pace.
Dal momento stesso in cui fu denunciato il massacro perpetrato da membri dell’Esercito Nazionale in connivenza con paramilitari, lo Stato Colombiano, rappresentato da Lei, Signor Presidente, dal Procuratore allora in carica, Luis Camilo Osorio e dal Ministro della Difesa in carica ai tempi del crimine, Signor Jorge Alberto Uribe, e da altri rappresentanti del Governo di allora, ha dichiarato una serie di cose che i fatti hanno poi dimostrato essere non vere. In primo luogo, fu negata la presenza di truppe nella zona del massacro nel giorno 21 febbraio 2005, presentando carte geografiche militari e documenti ufficiali che poi sono stati riconosciuti come falsi. Egualmente, il signor Luis Camilo Osorio, Procuratore Generale nel periodo 2002–2005, quando in seguito ricoprì la carica di ambasciatore della Colombia in Italia, affermò che il massacro del 21 febbraio 2005 era stato compiuto da guerriglieri delle FARC in vista di un prossimo reinserimento di Luis Eduardo Guerra nella vita civile mediante un programma presidenziale. Questa accusa, che si ripete in varie comunicazioni scritte in risposta alle denuncie internazionali riguardanti il suddetto crimine, oltre ad essere falsa può considerarsi anche come una calunnia, visto che fa insinuazioni e vuol creare dubbi sull’integrità morale di Luis Eduardo Guerra, che in quel momento svolgeva il ruolo di interlocutore tra la Comunità di Pace e la Vicepresidenza affinché non fosse istallato un posto di polizia nel podere della Comunità, come dovrebbe ricordare il Signor Vicepresidente Francisco Santos.
Anche a Lei Signor Presidente, in varie occasioni, organizzazioni come la Rappresentanza in Colombia del Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani e la Commissione Interamericana per i Diritti Umani, le hanno fatto notare che in alcuni suoi interventi pubblici aveva parlato di questa Comunità di Pace come di un’organizzazione vicina alla guerriglia.
Ed allora le recenti notizie sulla sparizione avvenuta nella sede della Procura Nazionale di 9 fascicoli contenenti prove accusatorie nei confronti dei militari processati per il massacro e, in aggiunta la possibile prescrizione dei tempi del processo e la strategia di dilazione da parte dei difensori dei militari, in sintonia con il contesto anteriormente descritto, ci inducono a pensare che vi sia una ben precisa strategia d’ostruzione della giustizia per evitare l’assunzione di responsabilità penali tanto agli autori materiali che a quelli morali del sopra citato pluriomicidio.
Noi chiediamo come sia possibile che documenti di tale importanza per la sicurezza di tutti possano sparire senza nessuna spiegazione dalla sede della Procura Nazionale. Se una cosa del genere può accadere proprio nella sede dell’ente responsabile di garantire le misure necessarie per la comparsa in giudizio degli imputati di un processo penale, della conservazione delle prove e della protezione di tutta la popolazione, e con maggior ragione delle vittime, cosa si può sperare dalla giustizia colombiana?
Risulta evidente la gravità di questi crimini considerati di lesa umanità, e che oggi, ancora una volta, chiediamo non restino impuniti, e non solo per il fatto stesso del delitto ma anche perché a questo si aggiungono altre aggravanti, come, ad esempio, il ruolo sociale e comunitario a favore della pace in Uraba’ svolto da alcune delle vittime del massacro, ruolo riconosciuto tanto localmente che internazionalmente; la crudeltà con la quale furono assassinati tre bambini e la natura di chi si suppone abbia commesso il massacro, membri delle forze dell’ordine e della sicurezza. Proprio coloro i quali dovrebbero preservare l’integrità e la sicurezza della popolazione colombiana.
Signor Presidente e Signori membri del Governo Colombiano, sembra che gli avvocati difensori dei militari accusati del massacro avvenuto il 21 febbraio 2005 non condividano l’opinione del Presidente che risulta contrario alla prescrizione dei processi e alla messa in libertà degli imputati per scadenza dei termini, opinione espressa nel comunicato del 12 gennaio del corrente anno per mezzo del suo portavoce César Mauricio Velásquez. Poiché in caso contrario non ricorrerebbero a questi artifici per approfittare del poco tempo concesso a questi processi dal codice penale colombiano.
Per questo, le chiediamo che, come massima autorità dello Stato, proceda a fare chiarezza sulla scomparsa di documenti tanto importanti riguardanti un crimine sul quale il mondo intero tiene attentamente lo sguardo e per evitare che sia concessa l’impunità ai colpevoli di questo crimine.
Il prossimo 21 febbraio ricorderemo che cinque anni fa tre bambini, due donne, un lavoratore e due leader sociali furono brutalmente squartati da membri del Esercito nazionale e che fino ad ora non è stata emessa una giusta sentenza per questo crimine di lesa umanità.
C'è chi usa la penna come un fucile al servizio di giustizia e verità e chi invece, come strumento di potere. E menzogna e falsità sono strumenti di potere. (AM)
“Colombia Invisible” largometraje de Unai Aranzadi. El nuevo teaser.
Lo que hizo Trujillo en el Rio Masacre fu un GENOCIDIO si asumimos la definición de genocidio dada por la el estatuto de Roma de la Corte Penal Internacional en su artículo n. 6:
A los efectos del presente Estatuto, se entenderá por “genocidio” cualquiera de los actos mencionados a continuación, perpetrados con la intención de destruir total o parcialmente a un grupo nacional, étnico, racial o religioso como tal:
a) Matanza de miembros del grupo;
b) Lesión grave a la integridad física o mental de los miembros del grupo;
c) Sometimiento intencional del grupo a condiciones de existencia que hayan de acarrear su destrucción física, total o parcial;
d) Medidas destinadas a impedir nacimientos en el seno del grupo;
e) Traslado por la fuerza de niños del grupo a otro grupo.
Reflexionando… cooperación internacional
Creo que la cooperación internacional tenga que dejar definitivamente ese rol compasivo y caritativo que caracteriza sus acciones, que además de permitirle recaudar mucho dinero (sobre el cual hasta cierto punto hay control) y una estructuración demasiado burocrática y clientelar de su aparato, funciona solo como paliativo de las situaciones de subdesarrollo. Si la cooperación no asume la tarea de impulsar cambios ESTRUCTURALES y definitivos en las realidades en las que trabaja nunca, nunca lograremos reducir pobreza y miseria, ya que estas confirmarán, definitivamente ser funcionales al mismo sistema neoliberista.
«Nadie es una isla completo en si mismo; cada hombre es un pedazo del continente, una parte de la Tierra. Si el mar se lleva una porción de tierra, toda Europa queda disminuida, como si fuera un promontorio, o la casa de uno de tus amigos, o la tuya propia; por eso la muerte de cualquier hombre me disminuye, porque estoy ligado a la humanidad; y por consiguiente, nunca preguntes por quién doblan las campanas porque están doblando por ti».
HONDURAS
23/9 E' stato ucciso l'avvocato Antonio Trejo difensore dei contadini che stanno portando avanti le lotte per la recuperazione delle terre appartenenti ai movimenti MOCSAM, MARCA y el MUCA; aveva presentato inoltre un ricorso di incostituzionalità delle Citta Modello
COLOMBIA/URIBE
El expresidente de Colombia, Álvaro Uribe, concedió docenas de licencias para disponer de pistas de aterrizaje al capo del narcotráfico Pablo Escobar, aseguró la periodista Virginia Vallejo, quien fuera amante del jefe del Cartel de Medellín.
"Por Pablo (Escobar) pude saber que (Álvaro) Uribe le concedió docenas de licencias para disponer de pistas de aterrizaje. Me decía que sin la ayuda de 'ese muchachito bendito' estaría trayendo la pasta de coca a pie desde Bolivia", dijo Vallejo en una entrevista a la revista argentina 'Noticias'. Fue organizada con el motivo de la reedición en Argentina de su libro 'Amando a Pablo, odiando a Escobar', lanzado en 2007.
Texto completo en: http://actualidad.rt.com/actualidad/view/124476-escobar-uribe-narcotrafico-colombia-aterrizaje-vallejo
MEMORIA
El 3 de octubre de 1984, Luis Fernando Lalinde Lalinde, de 26 años de edad, fue detenido y posteriormente desaparecido por el Ejercito colombiano. Desde ese día, Fabiola Lalinde emprendió la búsqueda de su hijo. Aunque sufrió constantes hostigamientos e intimidaciones, logró encontrar el cadáver de Luis Fernando después de 4.428 días de incesante búsqueda. Fue detenido en el marco de la “Operación Cuervos” adelantada por el ejército, cuando se encontraba en Jardín (Antioquia) tratando de rescatar un guerrillero herido del EPL, en 1984, durante el Proceso de Paz del Presidente Belisario Betancur, cuando este movimiento político se encontraba en cese al fuego.