Jaime Rodriguez, un colombiano che vive in Italia da anni ha lasciato in questi giorni un lungo commento sul sito, raccontando la sua esperienza e la sua vita. E’ una testimonianza educata e gentile e che merita rispetto, anche se tuttavia rappresenta per così dire, quella che è la versione filogovernativa della realtà colombiana. Perfino nel tentativo di dare la colpa ai “vicini stati latinoamericani” (leggi Venezuela) della distorsione con cui noi europei ci occupiamo della Colombia. La sua lettera mi ha ricordato la conversazione avuta tempo fa con l’ambasciatore colombiano a Roma Sabas Pretelt de la Vega. Sembra che certi discorsi vadano secondo binari stabiliti e rigidi copioni. Tuttavia non è sempre così semplice e la realtà è mutevole e diversa. So bene che non è facile per nessuno e che ognuno ha le proprie ragioni, che anni di guerra civile hanno portato all’imbarbarimento del conflitto, che è facile far passare delinquenza comune per guerriglia, così come è stato facile per i militari dell’esercito far passare giovani innocenti per “pericolosi terroristi”, ucciderli e mettergli addosso una mimetica con il distintivo delle FARC, ma non sono sicura che il popolo voglia per una terza volta Uribe come dice il nostro amico, non sono sicura che il presidente colombiano abbia l’intero consenso nazionale. Piuttosto bisogna sempre scegliere da che parte stare…
Questa è la risposta che ho scritto ieri sera a Jaime e di seguito c’è il suo commento, tanto per riflettere e discuterne, nessuno di noi pretende di avere la palla di vetro o l’elisir della saggezza…
Caro Jaime, ti ringrazio per l’attenzione e per la sincerità e la delicatezza con la quale mi hai raccontato alcune cose della tua vita.
Non ho motivo per dubitare di quanto tu racconti. Tuttavia permettimi di dirti che le storie che giungono dalla Colombia, anche da quello stesso popolo che tu giustamente chiami in causa, sono molto diverse.
So di persone che se ne sono dovute andare perchè minacciate e costantemente in pericolo di vita per il loro lavoro e per il loro impegno.
So di tanti sfollati che hanno dovuto lasciare le loro terre perchè semplicemente gli sono state sottratte dai paramilitari.
Ho conosciuto Aida Quilcué , leader del CRIC, in Italia poche settimane dopo che l’esercito gli ha ammazzato a bruciapelo il marito.
Ho amici che si occupano tra pericoli e difficoltà della difesa dei diritti umani in Colombia e ogni volta che escono da casa la mattina sperano di poter farvi ritorno.
Il giornalista italiano Simone Bruno per aver testimoniato e scritto sull’uso delle armi da parte della polizia durante la Minga indigena dello scorso mese di ottobre, ha ricevuto minacce di morte e ne abbiamo parlato anche in questo sito.
Conosco Iván Cepeda che si batte per la giustizia per le vittime dei crimini di Stato e so che due anni fa in una settimana sono stati ammazzate sei persone del MOVICE, in occasione della marcia del 6 di marzo, dopo che Luis Obdulio Gaviria e lo stesso Uribe in televisione hanno detto che la stessa era stata organizzata dalle FARC.
E potrei continuare all’infinito. E so che purtroppo non sono cose inventate nemmeno queste. So anche di tante persone che vorrebbero lasciare la Colombia e che non lo fanno, o perchè non possono, semplicemente non possono, o perchè non lo trovano giusto e preferiscono rimanere nel loro paese a costo di rimetterci la vita.
Credo anche che stia crollando pezzo dopo pezzo la maschera che è stata costruita ad arte intorno a Uribe e al suo governo.
Democrazia? E’ democrazia quella nella quale ha vinto con una campagna presidenziale finanziata e appoggiata dai peggiori criminali del paese? Quelli sì narcotrafficanti veri.
E’ democrazia quella nella quale 2000 giovani, per lo più umili contadini o disoccupati sono stati uccisi dai soldati e fatti passare da guerriglieri solo per avere una promozione o una licenza? 88 dollari il prezzo del loro cadavere pagato da qualche militare dell’Esercito colombiano.
E la sicurezza, la tanto decantata sicurezza. Per chi? Per le famiglie ricche, barricate nei loro quartieri, o per persone come te che hanno avuto la possibilità di studiare e di lasciare il paese o per quella dei politici corrotti. O la sicurezza dell’impunità per i responsabili dei tanti crimini, o di quella di chi ha messo la politica nelle mani dei paramilitari. Smobilitati dicono. Quando? Dove? Come?
Che sicurezza c’era per le 111 persone scomparse nel corso del 2008 e il cui caso è indicato sotto la voce “desaparición forzada”? O per i 42 sindacalisti uccisi nei primi 6 mesi dello stesso anno?
E se parliamo del “miglioramento del clima politico, sociale ed economico” come tu dici, parliamo anche del 48% di bambini che ancora non hanno accesso all’educazione? O di quelli che ancora muoiono per denutrizione?
Ma tu queste cose le sai, certo, è il tuo paese. Purtroppo le conosciamo anche noi. E siccome noi stiamo sempre dalla parte dei più deboli, di quelli che non possono e non vogliono andarsene, di quelli che non hanno nemmeno i soldi per il bus per Bogotà, di quelli che non hanno il telefono e che quindi non partecipano ai sondaggi Gallup, , di quelli che non riescono ad andare a votare perchè troppo lontano da dove vivono, di quelli che difendono la sopravvivenza dei loro cari e dei loro figli (anche quella alimentare) e non certo di quelli che difendono potere e ricchezze sulle povere spalle del popolo colombiano da decenni, continueremo a denunciare tutto questo.
Un caro saluto.
Ah… scusa se ti ho dato del tu.
..
Cara Annalisa
Ho letto con molta attenzione i suoi articoli in merito al Presidente Colombiano Alvaro Uribe. Io sono colombiano, Ing. Elettronico laureato in università pubblica a Bogotà. Oggi tutta la mia famiglia abita all’estero, perche siamo stati perseguitati e minacciati…… dovevamo pagare il pizzo.
Uno dei miei fratelli è stato sequestrato per motivi estorsivi, e liberato dopo aver pagato una somma per la sua liberazione, anche se abbiamo temuto il peggio. Non eravamo una famiglia benestante ne abbiamo avuto relazioni con la politica ne di destra ne di sinistra.
Anche se negli anni 50 i gruppi guerriglieri che nascevano (per conflitti politici all’epoca)erano insorgenti armati che vivevano nella clandestinità ma avevano molto probabilmente degli ideali politici –come i partigiani all’epoca della seconda guerra mondiale in italia-. Purtroppo con il tempo, furono abbandonati quelli ideali politici che in principio gli fecero nascere…. per sostituirli con quelli economici, denari ottenuti attraverso attività illecite quali sequestro, estorsione e delinquenza organizzata; negli anni 80 diventarono “l’esercito” dei cartelli della droga, e negli anni 90 i quando i “Capi” dei cartelli della droga –Rodriguez Gacha, Rodriguez Orejuela, Pablo Escobar, ecc– furono messi “sotto controllo”, la mal chiamata guerriglia diventava “narcoguerriglia”.
Era un gruppo di delinquenza organizzata diventato economicamente molto forte, che non cercava più di partecipare nella politica democratica ma di creare un nuovo stato dentro lo stato. Sono riusciti a implementare il più grande sistema di corruzione in tutte le istituzioni dello stato… dal parlamento, fino al catasto.
Sono stato testimone vivente del danno economico e psicologico da loro creato. Le multinazionali che stavano investendo in Colombia, iniziarono a chiudere le figliali lasciando migliaia di lavoratori senza posto di lavoro. Le multinazionali che fino a quel momento stavano esplorando il petrolio in Colombia, decisero di spostare l’esplorazione a Venezuela (sempre per causa delle estorsioni, sequestri e attentati agli oleodotti).
Per anni, i guerriglieri furono invitati a partecipare a tavoli di negoziazione, ma loro presero in in giro continuamente ai governi in carica; alcune volte non si sono ne anche presentati. Hanno chiesto e ottenuto “zone di distensione” cioè zone libere della presenza dello stato per “facilitare il clima della negoziazione” che poi si è dimostrato venivano utilizzate come zone per formazione militare, reclutando i figli minorenni dei contadini della zona e ricevendo armi provenienti da aerei russi che sorvolavano la zona.
Tutti i Colombiani ci siamo stancati e molti siamo stati costretti a lasciare il nostro paese vittime della guerriglia negli anni che furono considerati “l’esodo dei Colombiani” dal 1999 al 2001.
Le politiche di Uribe iniziarono ad ottenere risultati per tutelare i cittadini per bene. Io sono tornato un paio di volte negli anni 2005 e 2007, e il riscontro con tutta la popolazione è stato molto positivo.
Molti contadini erano riusciti a riprendere possesso dei terreni di proprietà –da dov’erano fuggiti per causa della violenza-, e avevano ripreso le loro attività economiche. La soddisfazione dei lavoratori, commercianti e impresari ringraziano a Uribe le garanzie istituite per svolgere e tutelare le proprie attività.
Io umanamente vi chiedo di documentarvi direttamente con la popolazione….. ho avuto la possibilità di sentire molti dei miei amici che partecipavano attivamente in movimenti di sinistra e oggi invece condividono e appoggiano incondizionatamente le politiche del presidente Uribe. Non ci sono dubbi dell’intero consenso nazionale da lui ottenuto in una vera democrazia…. il popolo lo vuole rieletto per la terza volta, e chi, meglio che la stessa popolazione per misurare il miglioramento del clima politico, sociale ed economico di uno stato ???
E’ chiaro…. non tutto sono rose e fiori, ma non riesco a capire come facciano gli stranieri a criticare le politiche di Uribe quando la popolazione ne va fiera. Sarà magari che le “politiche in contrapposizione” dei vicini stati latinoamericani con politiche di sinistra, riescono a presentare una realtà sufficientemente distorta approfittando del proselitismo “anti-americano” ????
L’ex ambasciatore colombiano nella Repubblica Dominicana, Juan José Chaux , è stato arrestato ieri all’aeroporto di Bogotá El Dorado per presunti vincoli con gruppi paramilitari che, secondo le accuse, avrebbero sostenuto la sua candidatura (poi ottenuta) come governatore del dipartimento del Cauca.
Il capo paramilitare Herbert Veloza García, conosciuto come “HH”, attualmente in carcere negli Stati Uniti ha dichiarato che in più di un’ occasione Juan José Chaux si riunì con i vertici delle Autodefensas Unidas de Colombia (AUC) come Salvatore Mancuso, “Don Berna” e “El Alemán”.
Chaux rassegnò le sue dimissioni da ambasciatore nel 2008, quando fu accusato dal paramilitare Antonio López, alias “Job” di aver partecipato a una riunione con lui nella Casa de Nariño, sede della Presidenza.
Chaux è stato recentemente sostituito a Santo Domingo, dall’ex capo dell’Esercito colombiano, Mario Montoya, dimessosi per lo scandalo dei “falsi positivi”.
Di rimpasto in rimpasto, di criminale in criminale…
Della nomina di Mario Montoya ne avevamo parlato qui
Le violazioni dei diritti umani del popolo mapuche accertate da parte degli organismi internazionali
Facendo buon viso a cattivo gioco, il Cile ha accettato le raccomandazioni di alcuni Stati membri dell’ONU e di alcune ONG rispetto al tema della violazioni dei diritti umani del popolo mapuche, promettendo entro la fine del corrente anno di dare impulso a un programma nazionale volto al rispetto di questi e realizzato in coordinazione con la società civile.
La sessione speciale dell’ONU si è tenuta martedì 12 maggio nell’ambito della riunione dell’ Esame Periodico Universale (EPU), un nuovo meccanismo delle Nazioni Unite che ogni quattro anni esamina la situazione di un determinato paese.
Povertà estrema, educazione, rispetto dei diritti di donne e bambini, fine della repressione, garanzie giuridiche e diritto alla terra. Questi i principali temi affrontati e le richieste di chiarimenti da parte di alcuni paesi membri dell’ONU, ma sono state proposte anche raccomandazioni sul caso dei giornalisti stranieri espulsi dal paese per aver realizzato reportages sui mapuche e la revisione della legge Antiterrorista, alle quali il governo cileno deve rispondere entro il settembre del 2009.
Tuttavia rischia di trasformarsi nel solito balletto vuoto e senza senso di raccomandazioni, fatto di buone intenzioni e promesse mancate, dove tutti sanno quel che accade ma nessuno è seriamente intenzionato a fare bene la sua parte fino in fondo. E soprattutto dal quale è rimasto escluso il diretto interessato e cioè il popolo mapuche.
Se è vero che nell’assemblea dell’EPU sono state sentite numerose associazioni per la difesa dei diritti umani e molte ONG, è anche vero che non un rappresentate del popolo mapuche è stato invitato a partecipare.
La situazione dei mapuche in Cile oggi è talmente grave e preoccupante che a ben poco potranno servire raccomandazioni e belle parole.
Ha a che vedere direttamente con i giochi di potere e il pinochettismo che è tutt’altro che morto e con una presidente, Michelle Bachelet, che sembra totalmente piegata a poteri molto più forti di lei e che non prende ferma posizione in merito anche perchè tra quasi un anno è in scadenza il suo mandato.
Le violazioni più gravi verso il popolo mapuche sono commesse dall’Esercito e dalla Polizia come riportato anche nella relazione del Comitato Contro la Tortura delle Nazioni Unite, nel quale si è fatto esplicito riferimento a maltrattamenti che si trasformano in veri e propri casi di tortura, all’ impunità imperante per cui chi commette le violazioni non viene mai giudicato e condannato e alla stessa legge di Amnistia per la quale non si possono giudicare le violazioni dei diritti umani commesse tra l’11 settembre 1973 e il 1988.
Le violazioni dei diritti umani contro il popolo mapuche sono commesse soprattutto durante le operazioni di perquisizione delle comunità, durante lo sfollamento forzato e durante gli interventi realizzati in occasione della riappropriazione delle terre da parte dei mapuche.
I morti e le violenze commesse sui bambini
In alcune occasioni le operazioni di polizia hanno avuto esito tragico come accadde nel 2002 con la morte del 17enne Alex Lemún Saavedra, rimasto ucciso da un colpo di arma da fuoco sparato dai Carabinieri o di Juan Collihuín morto per lo stesso motivo nel 2006, o più recentemente per l’uccisione di Matías Catrileo, morto durante una recuperazione di terre il 3 gennaio 2008.
In tutti questi casi gli autori materiali di queste morti sono ancora in servizio e nessun provvedimento è stato preso contro di essi.
Particolarmente grave è la situazione delle donne e dei bambini mapuche, i soggetti più deboli delle comunità.
Ci sono neonati, come è avvenuto ad una bambina di appena sette mesi che è rimasta intossicata dal lancio di un lacrimogeno lanciato all’interno della sua abitazione, che riportano gravi lesioni e traumi durante le operazioni di polizia, o minori che raccontano di essere stati picchiati dai Carabinieri o tenuti per un’intera notte in celle umide e fredde e senza cibo.
Bambini che raccontano di intimidazioni e minacce e altri che ricevono alla schiena o alle gambe i pallini antisommossa o che restano completamente soli dopo l’arresto di tutta la famiglia come è avvenuto alla figlia minore della lonko (dirigente indigena) Juana Calfunao che ha dovuto chiedere asilo a Ginevra.
Il Servizio di Salute dell’Araucania Nord, (Programma di Salute Mapuche — Dipartimento di Psichiatria, Ospedale di Angol) ha testimoniato proprio al riguardo, come i bambini delle comunità mapuche soffrano di tutta una serie di disturbi e problemi psicologici riconducibili al conflitto territoriale e giuridico.
E’ accertato ufficialmente inoltre anche un caso di sparizione forzata, un ragazzo di 16 anni, José Huenante, è scomparso da tre anni dopo essere stato visto l’ultima volta su un’ auto dei Carabinieri. Tre di essi sono formalmente accusati del suo sequestro, ma del giovane nessuna notizia ad oggi.
I prigionieri politici
Non meno grave appare la situazione dei prigionieri politici mapuche nelle carceri cilene. In un recente comunicato dichiarano di rifiutare fermamente “l’integrazione forzata con la società winka (occidentale) corrotta dall’individualismo” e reclamano e confermano i loro diritti sui territori originari svenduti completamente alle multinazionali dai quali sono stati cacciati per permetterne lo sfruttamento.
Lo sfruttamento delle foreste ad opera delle multinazionali del legno, la costruzione di dighe e centrali idroelettriche, di aeroporti, lo sfruttamento minerario delle enormi ricchezze del sottosuolo, sono queste le politiche che attua il governo cileno per svendere le risorse del paese ai capitali stranieri e per la cui realizzazione passa sopra ai diritti dei popoli nativi, decretandone la scomparsa.
C’è una campagna sistematica di distruzione e di annichilamento di intere comunità che si sta portando avanti nel silenzio indecente della comunità internazionale e che si compie attraverso repressione, minacce, uccisioni e arresti.
I membri delle comunità organizzate e in lotta, i weichafe (guerrieri), vengono incarcerati e accusati in base a leggi risalenti alla dittatura di Pinochet di essere “terroristi” e condannati con pene lunghissime che arrivano fino a dieci anni e oltre per reati minori quali l’incendio (elevato alla categoria penale di “incendio terrorista”), la recuperazione di terre e atti di proteste o rivendicazioni sociali.
Soltanto della Coordinadora Mapuche Arauco Malleco sono stati arrestati circa un mese fa 11 membri che vanno ad aggiungersi agli oltre 40 prigionieri nelle carceri che Michelle Bachelet, presidente del Cile, ha più volte ribadito non essere prigionieri politici.
Patricia Troncoso, Elena Varela e i giornalisti “terroristi”
Purtroppo il conflitto con il popolo mapuche fa parte di una delle tante lotte giuste ma dimenticate del mondo. Si fa finta di non sapere che è un intero popolo che si ribella a un sistema di potere con forme di protesta antiche e organizzate e che è sbagliato e disonesto chiamare terrorismo.
La legittimità delle richieste del popolo mapuche, la fierezza della sua gente, l’importanza delle sue rivendicazioni esce soltanto per brevi momenti dai confini nazionali quando il sistema politico e giudiziario cileno “inciampa” in incidenti di percorso come accadde l’anno scorso in occasione del lunghissimo sciopero della fame (112 giorni) che Patricia Troncoso portò avanti dal carcere e che la condusse quasi alla morte e in seguito al quale ottenne soltanto modesti benefici rispetto alla sua detenzione. Le sue richieste politiche più importanti, quali la libertà per tutti i prigionieri politici, la smilitarizzazione dei territori mapuche dell’Araucanía, l’abrogazione della legge Antiterrorista, la fine della repressione contro il popolo mapuche, furono completamente disattese.
Il suo sciopero della fame non si concluse con la sua morte solo per la grande pressione internazionale su di un governo sordo e cieco, dal momento che Patricia non ha mai ricevuto, nemmeno nei momenti più critici, la visita di nessun rappresentante del governo del suo paese.
Sempre lo scorso anno balzò alla cronaca la vicenda della videomaker Elena Varela, arrestata nel maggio del 2008 e tenuta in carcere tre mesi, mentre realizzava un reportage dal titolo Newen Mapuche sul conflitto con le multinazionali del legno, accusata di essere l’autrice intellettuale di alcune rapine in banca commesse tra il 2004 e il 2005 in associazione con la guerriglia del MIR (Movimiento de Izquierda Revolucionaria).
In quell’occasione le fu sequestrato tutto il suo lavoro. Il processo, con il quale rischia una condanna a 15 anni di carcere, che era fissato per il 29 aprile è stato rimandato ai primi di giugno per aspetti formali.
Anche Reporters senza Frontiere ha espresso in una lettera a Michelle Bachelet (alla quale lei non ha mai risposto) preoccupazione per la sentenza che sarebbe scaturita dal processo e i dubbi circa la validità delle accuse.
D’altra parte era già avvenuto in passato che giornalisti stranieri fossero identificati come “terroristi” ed arrestati. Accadde nel marzo 2008 con due cittadini francesi, nella zona di Collipulli quando Christophe Harrison y Joffrey Rossi furono detenuti per poco tempo, accusati di aver provocato un incendio e di appartenere all’ETA e a due cineasti italiani, Giuseppe Gabriele y Dario Ioseffi, accusati di “terrorismo” e poi espulsi dal paese.
Il prossimo Esame Periodico Universale (EPU) si terrà tra quattro anni. In Cile allora ci sarà un altro governo e un altro presidente. Da Michelle Bachelet ci si aspettava molto, sicuramente molto di più di quello che ha fatto per il rispetto dei diritti umani nel suo paese, vista la sua storia personale segnata da gravi perdite familiari durante la dittatura di Pinochet.
Il pinochettismo e il potere militare sono ancora forti in Cile, la destra è sicuramente una delle più forti in America latina, il neoliberismo applicato selvaggiamente negli anni ’70 e ’80 si è radicato prepotentemente creando ferite profonde in un tessuto sociale già gravemente compromesso da anni di terrore.
Il popolo mapuche rivendica i suoi territori, afferma prepotentemente e con orgoglio il diritto di vivere sulle sue terre, riconferma con fierezza usi e tradizioni antiche che non vuole perdere.
“Gli occhi neri di Lautaro
gettano migliaia di lampi.
Come soli fanno germogliare i solchi
come soli guidano l’avanzata di un popolo combattente
che non vuole essere schiavo
come un puma in gabbia”
(Rayen Kvyeh)
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In questi giorni la poetessa mapuche Rayen Kvyeh è in Italia per presentare alla Fiera del Libro di Torino la sua ultima raccolta di poesie dal titolo “Luna di Cenere” per le Edizioni Gorée e con la traduzione dallo spagnolo di Antonio Melis professore ordinario di Lingue e Letterature Ispanoamericane presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena.
Incontreremo Rayen Kvyeh e la poetessa peruviana Gladys Besagoitia venerdì 22 maggio alle 17.00 presso la Sala delle Conferenze dell’Istituto Demoetnoantropologico (Museo delle Arti e Tradizioni Popolari), Piazza Marconi, 8/10 Roma.
Il comitato “Colombiani e Colombiane per la Pace” promosso dalla senatrice Piedad Córdoba e che ha tra i suoi membri Iván Cepeda (figlio di Manuel Cepeda il senatore dell’Unidad Patriótica ucciso il 9 agosto del 1994 dai paramilitari) e portavoce del MOVICE, Movimento Nazionale delle Vittime dei Crimini di Stato, ha dal mese di settembre 2008 avviato una corrispondenza epistolare con la guerriglia colombiana delle FARC-EP, volta alla liberazione degli ostaggi ma anche alla costruzione di una soluzione pacifica del conflitto colombiano.
Il dialogo tra il Comitato e le FARC ha già dato risultati positivi e questa importante iniziativa fa ben sperare per il futuro, infatti nel mese di febbraio scorso la guerriglia ha liberato unilateralmente 6 ostaggi e ha promesso la liberazione senza condizioni del soldato Pablo Moncayo, prigioniero da oltre 11 anni.
Il governo colombiano invece sembra essere il grande assente in questa mediazione, anzi in più di un’ occasione ha respinto il ruolo di mediatrice della senatrice Piedad Córdova e ha addirittura rischiato di compromettere il buon esito della liberazione degli ostaggi per la presenza di numerose attività militari nella zona dove questa sarebbe dovuta avvenire.
Anche l’altra guerriglia colombiana, l’Esercito di Liberazione Nazionale (ELN) ha chiesto l’appoggio di “Colombiani e Colombiane per la Pace” per la risoluzione pacifica del conflitto.
In una lettera del gennaio scorso indirizzata al Comitato, l’ELN (che in passato già aveva intrapreso diverse forme di negoziazione con il governo), scrive che “il principale ostacolo per la continuità del processo di dialogo è la pretesa che ha il governo colombiano che l’ELN sia localizzato e i suoi membri identificati come condizione primaria di qualsiasi iniziativa, negandosi a costruire un’agenda politica e sociale che permetta trattare a fondo i problemi strutturali che sono la causa originaria del conflitto”.
Poche settimane fa la risposta di Colombiani e Colombiane per la Pace e l’impegno assunto da questi per “contribuire a che il governo nazionale e l’ELN riprendano il cammino del dialogo che conduca fino alla soluzione politica negoziata”.
Il presidente colombiano Álvaro Uribe appare sempre più isolato nel suo ostinarsi a perseguire una soluzione militare del conflitto colombiano. Anche adesso che si profila imminente il rilascio da parte della guerriglia di Pablo Moncayo si susseguono le notizie di un’imminente azione militare dell’Esercito volta alla sua liberazione.
Contro questa decisione hanno preso ferma posizione sia il Comitato Colombiani e Colombiane per la Pace sia la famiglia del soldato Moncayo, ma lo hanno fatto anche gli altri ex-ostaggi liberati nei mesi scorsi dalla guerriglia e cioè Alan Jara Urzola, Consuelo Gonzáles de Perdomo, Clara Rojas, Sigifredo López, Orlando Beltran Cuellar, Óscar Tulio Lizcano, Luis Eladio Pérez Bonilla, che solidarizzano con l’operato del Comitato della senatrice Piedad Córdoba.
Ovviamente con l’esclusione di madame Betancourt.
Qui di seguito la lettera dei Colombiani e Colombiane per la pace al comandante delle FARC-EP Alfonso Cano del 27 febbraio 2009:
Signor Alfonso Cano, Comandante delle FARC-EP
Membri del Segretariato
Montagne della Colombia
Vi giunga il nostro saluto di speranza in una pace duratura.
Noi, “Colombiani e Colombiane per la Pace”, reiteriamo la nostra volontá di portare avanti il processo d’interscambio epistolare con le FARC.
Riconosciamo la volontá di questa guerriglia, del CICR e del governo del Brasile, cosí come l’accettazione da parte del governo nazionale, affinché la liberazione di quattro membri della forza pubblica e di due dirigenti politici avesse un epilogo felice.
Tali liberazioni costituiscono un riferimento positivo per il necessario processo di soluzione negoziata che permetta di porre fine al conflitto sociale ed armato interno, per vie diverse da quelle della guerra.
Come abbiamo fatto sin dall’inizio di questo dialogo epistolare, rifiutiamo e condanniamo le pratiche contrarie ai piú elementari principi umanitari, e confidiamo che gesti come quello delle recenti liberazioni portino in breve tempo ad un riconoscimento esplicito del fatto che la degenerazione del conflitto sta disarticolando politicamente e moralmente la societá colombiana; e che ció sfoci in una franca, decisa e definitiva proscrizione delle pratiche lesive dei valori umanitari piú basilari. Reiteriamo la nostra preoccupazione in merito alla disponibilitá o meno delle FARC di escludere, dal conflitto armato, il sequestro come arma di lotta.
Un primo passo in questa direzione é, senza dubbio, l’apertura ad un accordo umanitario, contenuta nei vostri piú recenti comunicati. E’ indispensabile puntualizzare, con urgenza, la cornice all’interno della quale si potrebbe concretizzare un tale accordo, stabilendo le circostanze di tempo, modo e luogo, in modo che noi si possa contribuire alla sua rapida realizzazione. A nostro giudizio, tale meccanismo deve dare inizio alla ricerca di alternative per porre fine al conflitto. Questo accordo, oltre all’interscambio, deve propiziare negoziati politici che portino al conseguimento della pace, come supremo anelito della societá.
Ci proponiamo di portare avanti il nostro appoggio all’accordo umanitario, nei termini segnalati, ed alla costruzione di spazi adeguati per rendere effettivo il diritto costituzionale alla pace.
Cordialmente,
Colombiani e Colombiane per la Pace
di Antonio Mazzeo
Da quel maledetto giorno del marzo 2008 in cui l’esercito colombiano bombardò l’accampamento della guerriglia installato in territorio ecuadoriano, assassinando il numero due delle FARC Raul Reyes, i due paesi latinoamericani hanno rotto le loro relazioni diplomatiche. Adesso il governo di Alvaro Uribe dovrà presentarsi di fronte la Corte internazionale di giustizia dell’Aja per rispondere dei “danni incalcolabili” all’ambiente e alla salute delle popolazioni indigene e afrodiscendenti generati dalle incessanti fumigazioni delle coltivazioni di coca alla frontiera con l’Ecuador.
Il ministro degli esteri ecuadoriano, Fander Falconí, ha presentato al massimo organo di giustizia internazionale una memoria di 450 pagine con oltre 2.900 documenti annessi, chiedendo formalmente la cessazione da parte delle forze armate colombiane delle operazioni di dispersione degli erbicidi, più l’imposizione di “indennizzi e riparazioni” a favore delle popolazioni vittime delle fumigazioni. La richiesta, ha spiegato il diplomatico, si basa sull’impatto che, tra il 2000 e il 2007, è stato causato da “micidiali cocktail chimici” su cui la Colombia “non ha voluto fornito precise informazioni”, utilizzati congiuntamente al glifosato, il potente erbicida commercializzato dalla transnazionale “Monsanto” con il nome di “Round-up”. “L’Ecuador ha potuto dimostrare che le aspersioni hanno provocato danni oltre a costituire, per i loro effetti, in territorio ecuadoriano una violazione della sovranità nazionale e dei diritti dei popoli indigeni”, ha aggiunto Fander Falconí.
Diego Cordovez, rappresentante dell’Ecuador presso la Corte Internazionale ed ex segretario generale aggiunto degli Affari Politici delle Nazioni Unite, ha spiegato che le fumigazioni nei dipartimenti meridionali della Colombia hanno pregiudicato in particolare la popolazione indigena degli Awa. “Essi vivono in isolamento volontario, ma l’erbicida causa un problema ambientale molto preoccupante”, ha dichiarato Cordovez. “Chiediamo che si rispetti una striscia di almeno 10 chilometri dalla frontiera con l’Ecuador per evitare ciò che i ricercatori chiamano “l’effetto deriva” delle fumigazioni”.
Come provato da prestigiosi istituti scientifici ed universitari, l’uso sistematico del glifosato è estremamente pericoloso. E la nocività del prodotto “Monsanto” è nota da lungo tempo alle stesse autorità militari colombiane. Nel 1984, in occasione della prima massiccia utilizzazione del glifosato contro le piantagioni di marijuana della regione settentrionale della Sierra Nevada di Santa Marta, per prevenire gravi pregiudizi alle popolazioni indigene, le forze armate colombiane imposero con la violenza l’allontanamento degli abitanti e la loro deportazione in aree distanti dai territori fumigati. Bogotà era entrata in possesso di un documento in cui la società produttrice del “Round-up” ammetteva che “piccole quantità dell’erbicida possono causare danni e distruzione della vegetazione e della fauna, specie in condizioni climatiche del tutto simili a quelle della Sierra e di buona parte della regione andina”. Nel 1992, l’organizzazione ecologista internazionale Greenpeace presentò un rapporto che rivelava la presenza nel glifosato di “elementi dispersi altamente tossici come la polyoxethylamine (Poea) e la 1,4-dioxane”. Greenpeace denunciò inoltre che il laboratorio a cui il governo degli Stati Uniti aveva affidato la verifica sulla tossicità del glifosato, aveva “alterato l’80% delle 22.000 prove di analisi realizzate”.
Ciononostante, fu deciso di utilizzare “sperimentalmente” il “Round-up” nella jungla meridionale di Panama e, a partire del 1994, contro le coltivazioni di coca dell’area andina della Colombia. Tre anni più tardi, le forze armate colombiane iniziarono le fumigazioni con nuovi e più devastanti erbicidi granulari, come l’Imazapyr e l’Hexaxinona prodotti dalla “Dupont”, che contaminarono suolo e fiumi e causarono danni irreversibili agli occhi, alla pelle e all’apparato respiratorio delle persone che entrano in contatto con essi. Con il Plan Colombia, il programma di aiuti militari per oltre 5,5 miliardi di dollari che Washington implementò a fine anni ’90 per debellare dal continente le ultime organizzazioni guerrigliere, le fumigazioni con contaminanti tossici sono state estese all’intero territorio colombiano e in particolare alla regione amazzonica di frontiera con Ecuador, Perù e Brasile.
È stata la base aeronavale di Manta, in Ecuador, ad avere assunto un ruolo chiave nella cosiddetta “guerra alla droga e al narcotraffico” scatenata dall’amministrazione Bush in America latina. L’uso dell’installazione fu concesso alle forze armate USA il 12 novembre 1999 per un periodo di 10 anni, rinnovabile. Washington assicurò investimenti per oltre 70 milioni di dollari trasformando in breve tempo Manta nel maggiore scalo operativo del continente per i cacciabombardieri, gli aerei cargo C-550, i velivoli cisterna Kc-135 e gli aerei radar Awacs delle forze armate statunitensi. Fu altresì autorizzato dal governo di Quito lo stazionamento nella base di 300 militari e tecnici USA.
Grazie a Manta, gli Stati Uniti si sono garantiti il pieno controllo dello spazio aereo del sud della Colombia e del corridoio oceanico che dall’Ecuador si estende sino a Panama, utilizzato dalle imbarcazioni di fortuna dei migranti latinoamericani che tentano di raggiungere il Messico e la California. Le operazioni di spionaggio ed allerta area condotte dalla base ecuadoriana sono coordinate dal “Joint Interagency Task Force South” di Miami (Florida), un comando speciale che vede la partecipazione dei rappresentanti di otto agenzie delle forze armate e dei servizi segreti USA e di undici paesi stranieri (Argentina, Brasile, Colombia, Ecuador, El Salvador, Francia, Gran Bretagna, Messico, Olanda, Perù, Spagna).
Oggi, Manta rappresenta però un ulteriore elemento di divisione politico-diplomatica tra Ecuador e Colombia ed Ecuador e Stati Uniti d’America. Il governo di Rafael Correa ha deciso di non rinnovare il “contratto” decennale all’uso della base aerea; entro l’11 novembre 2009, gli Stati Uniti saranno costretti a smantellare impianti e sistemi radar e ritirare militari e forze aree. Ripercussioni strategiche per i piani del Pentagono di riposizionamento nel continente latinoamericano? Pochissime, dato che il regime di Alvaro Uribe è venuto prontamente incontro alle esigenze dell’alleato nordamericano, offrendo il territorio nazionale come alternativa a Manta. Il 3 marzo 2009, è stato sottoscritto un accordo (il cui contenuto è ancora segreto) che consentirà alle forze armate statunitensi di accrescere la propria presenza in alcune delle maggiori basi militari colombiane. “Stati Uniti e Colombia stanno operando congiuntamente nella lotta contro il traffico illegale di droga e il crimine internazionale”, ha dichiarato l’ambasciatore USA a Bogotà, William Brownfield. “Parte di questa collaborazione, senza dubbio, richiede l’accesso alle basi militari in entrambi i paesi, cosa che richiede la definizione di un accordo. Tuttavia, un’eventuale base aerea continuerà ad essere sotto il controllo e la giurisdizione colombiana”.
A Bogotà si nega che all’orizzonte ci sia la realizzazione nel paese di una base che possa rassomigliare a quella utilizzata sino ad oggi Manta, con una presenza stabile di personale USA. Il comandante delle forze armate colombiane, generale Freddy Padilla, ha dichiarato che ci si limiterà a concedere a Washington l’uso di “basi militari per permettere agli aerei di rifornirsi di carburante e portare a compimento le loro azioni antidroga”. Versione scarsamente credibile, non fosse altro che questa autorizzazione è in vigore da tempi ormai remoti e riguarda pure la sosta di aerei spia e dei velivoli impegnati nelle fumigazioni di proprietà di società di sicurezza privata USA.
Nonostante siano ormai sotto gli occhi di tutti le devastazioni socio-ambientali causate dal Plan Colombia e il completo fallimento dello strumento militare per impedire la proliferazione delle coltivazioni di coca, la Colombia è stata assunta come esempio di “buone pratiche” da Washington e dall’Agenzia anti-droga delle Nazioni Unite. Alvaro Uribe ha pure risposto positivamente all’ipotesi di inviare personale tecnico-militare colombiano in Afghanistan per addestrare le truppe NATO nella lotta al narcotraffico e contribuire alle operazioni di sminamento della regione. A finanziare la presenza dell’esercito colombiano nel paese asiatico ci penseranno i governi degli Stati Uniti e della Spagna.
di Guido Piccoli
30/04/2009
Ai più che sostengono la fesseria che la violenza in Colombia derivi dallo scontro tra «democrazia e terrorismo» o che dipenda dalla droga, il caloroso invito di Berlusconi a Uribe appare normale. Ai molti che conoscono il marciume del regime colombiano appare invece osceno che Berlusconi individui in Uribe un campione di «governabilità sotto la minaccia del terrorismo» e che per giunta lo proponga in questa veste al prossimo G8.
In realtà, non c’è molto da sorprendersi. Berlusconi e Uribe hanno parecchio in comune. Sono gli orfani più nostalgici di George W. Bush. Godono di un’alta popolarità, pur gonfiata e ottenuta con mezzi diversi, illeciti o controversi. Autoritari per natura, entrambi — chi più e chi meno — vedono un intralcio nelle regole basilari della democrazia e soprattutto odiano quella parte di magistratura che non sono riusciti ad asservire.
Ma anche l’Italia e la Colombia hanno molto in comune. Ad esempio, una sottomissione agli Usa quasi imbarazzante e poco riscontrabile in altri paesi e poi un’incidenza notevole delle mafie nella società e soprattutto nelle istituzioni.
Da un decennio a questa parte, Italia e Colombia si assomigliano di più. O meglio, è l’Italia ad essersi avvicinata, e molto, alla Colombia e non solo nell’edificazione di un paese ancora più ingiusto. Vari punti del programma dell’attuale governo italiano sembrano la fotocopia di quello che in Colombia è da tempo realtà: ad esempio la privatizzazione del sistema scolastico, la militarizzazione di parti del territorio, l’accanimento contro i più indifesi (qui gli immigrati, là gli indigeni). Persino gli aspetti più inquietanti della realtà colombiana sono, consapevolmente o meno, un modello da seguire. Basti pensare al tentativo di reclutare gli italiani, a partire dai medici, nella guerra ai «clandestini», che ricorda l’istituzione dell’esercito di informantes creato da Uribe in funzione anti-guerriglia.
O, ancora di più, alla sinistra somiglianza tra le ronde cittadine composte dalla presunta gente per bene con le «rondas campesinas» e le cooperative Convivir che, in periodi successivi, rappresentarono il germe del paramilitarismo colombiano, di cui Uribe è stato il vate, l’ideologo, il beneficiario e, fin quando gli è servito e ha potuto, il difensore più estremo. Tante e tali affinità elettive hanno spinto Bogotà a fare dell’Italia il ricettacolo di delinquenti, amici di paramilitari, come l’ex ambasciatore Luis Camilo Osorio o l’ex console a Milano, Jorge Noguera. Alla Farnesina, chiunque fosse il ministro, nessuno ha battuto ciglio alla lettura dei loro curriculum.
Sulla corte di Uribe quindi, in patria e fuori, dentro e fuori il parlamento, nelle istituzioni, nei governi locali, nelle caserme, si staglia l’ombra dei paramilitari (che poi, in Colombia, rappresentano anche i moderni narcos). E tutte le indagini, qualunque sia il loro esito, coinvolgono sempre, direttamente o meno, Alvaro Uribe, così come tutte le confessioni fatte dai capi paramilitari. Nell’ultima, l’erede di Pablo Escobar a Medellín, Diego Fernando Murillo Bejarano, detto «don Berna», ha ammesso l’appoggio politico ed economico delle Autodefensas nella campagna presidenziale di Uribe. «Mentono, la loro parola non vale niente, come si fa a credere a dei criminali?» hanno, in ogni occasione, affermato Uribe e i suoi, allo stesso modo come hanno sempre accusato i difensori dei diritti umani, i giornalisti, i sindacalisti e i politici d’opposizione di prestarsi al gioco della guerriglia.
Quando è stato necessario, sono stati utilizzati altri sistemi per tappare le bocche. L’ultimo ad essere ammazzato a Medellín, una settimana fa, è stato Francisco Villalba (un paramilitare ritenuto un maestro nello squartare le vittime), che aveva accusato Uribe e suo fratello Santiago di essere tra i mandanti del massacro di 15 contadini nell’ottobre 1997 a El Aro, nel dipartimento di Antioquia. Benchè fosse stato condannato a 33 anni di carcere, circa un mese fa gli erano stati concessi — stranamente — gli arresti domiciliari per «motivi di salute».
Da qualunque prospettiva si guardi la sua presidenza, ad eccezione di quella inspiegabilmente reticente proposta nei suoi tour da Ingrid Betancourt, Uribe appare il leader di una schiera di delinquenti, poco importa se in giacca e cravatta o in tuta mimetica. E’ singolare che a Roma si ritenga che, pur con metodi un po’ sbrigativi, abbia qualcosa da insegnare riguardo alla «governabilità sotto la minaccia del terrorismo». Sarebbe più giusto considerarlo un fallito.
Nel 2002 vinse le elezioni col visto di Washington, grazie all’appoggio di tutta l’oligarchia (quella tradizionale e quella parvenù e mafiosa), al terrore delle Autodefensas e proclamando la promessa di sbaragliare in pochi mesi le Farc. Quando si rese conto che non avrebbe potuto mantenerla, fece modificare in maniera fraudolenta la Costituzione per farsi rieleggere ed avere altri quattro anni di tempo. Così come adesso ne sta chiedendo altri quattro. Più che un obiettivo, la sua è un’ossessione ben lontana dall’essere soddisfatta, nonostante i colpi assestati nell’ultimo anno.
La declamata «sicurezza democratica» di Uribe beneficia solo i pochi ricchi che possono più tranquillamente raggiungere le loro ville nei week-end, a discapito della massa dei contadini che continuano a dover fuggire dalle loro casupole visto che, ad esempio, nel 2008 gli sfollati per la violenza sono aumentati del 40% rispetto agli anni precedenti. E, oltre tutto, la presunta «sicurezza democratica» ha costi immensi: non solo perché assorbe quasi un quinto del budget nazionale, ma anche per le perdite in vite umane, dei combattenti di entrambi i fronti, e per la decomposizione morale che, a causa della politica di ricompensa di Uribe, ha trasformato i soldati in spregevoli assassini di migliaia di innocenti.
Ma queste sono news che nei palazzi del potere romano, come nei giornali italiani, non sono mai arrivate.
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Qui l’intervista realizzata da Radio Onda Rossa a Guido Piccoli il 29 aprile 2009 sul viaggio di Uribe in Italia
di Simone Bruno
30/04/2009
E’ arrivato a Roma il presidente della Colombia Alvaro Uribe, pluri-inquisito e semi-sepolto da casi giudiziari, scandali e vergogne assortite, sia colombiane che internazionali. Ma Palazzo Chigi e la Santa Sede oggi si apprestano a incontrarlo con tutti gli onori Paramilitari, corruzione, omicidi: in pochi peggio di lui.
Ma pontefice e premier lo incontrano in pompa magna.
Pochi governi al mondo sono stati travolti da tanti scandali quanto i governi Uribe: il record si riferisce sia al numero che alla loro gravità. Tanti da non ricordarsene. La sua elezione favorita dai paramilitari e la rielezione comprata a suon di regali. Paramilitari ricevuti in segreto nel Palazzo per complottare contro la Corte suprema di giustizia. Metà dei congressisti che l’appoggiano (tra i quali suo cugino) implicati nella parapolitica. Ambasciate usate per evitare la galera ai fedelissimi. Servizi segreti usati per spiare giudici, opposizione e giornalisti. I suoi figli che si arricchiscono grazie ai suoi dipendenti. Il fratello giudice del suo ministro degli interni finito in galera per mafia. Un paio di migliaia di giovani fatti fuori dall’esercito per rimpinguare i numeri della guerra alle guerriglie e farsi pagare la ricompensa, proprio come accadeva nel Far West.
Fujimori, al suo confronto, è un angelico statista illuminato.Pochi governi al mondo sono stati travolti da tanti scandali quanto i governi Uribe: il record si riferisce sia al numero che alla loro gravità. Tanti da non ricordarsene. La sua elezione favorita dai paramilitari e la rielezione comprata a suon di regali. Paramilitari ricevuti in segreto nel Palazzo per complottare contro la Corte suprema di giustizia. Metà dei congressisti che l’appoggiano (tra i quali suo cugino) implicati nella parapolitica. Ambasciate usate per evitare la galera ai fedelissimi. Servizi segreti usati per spiare giudici, opposizione e giornalisti. I suoi figli che si arricchiscono grazie ai suoi dipendenti. Il fratello giudice del suo ministro degli interni finito in galera per mafia. Un paio di migliaia di giovani fatti fuori dall’esercito per rimpinguare i numeri della guerra alle guerriglie e farsi pagare la ricompensa, proprio come accadeva nel Far West. Fujimori, al suo confronto, è un angelico statista illuminato.
Ossessionato dal proposito di sconfiggere la guerriglia, a Uribe tutto sembra lecito. Anche governare con la logica della barricata: «O con me o contro di me, e quindi con le Farc». Da qui il suo gridare contro il nemico, il difendersi attaccando, aumentando sempre la posta in gioco, senza nessuna autocritica come un giocatore di blackjack che, persa la posta, raddoppia la giocata sperando di rifarsi, fino a quando non ha più nulla da scommettere. In questo caso, la sua popolarità, che persino i sempre compiacenti istituti di sondaggio sostengono in calo impressionante.
A livello internazionale va anche peggio. La Corte penale internazionale sta studiando con attenzione il caso colombiano. I giudici Luis Moreno Ocampo e Baltasar Garzón si stanno interessando soprattutto allo scandalo della parapolitica che riguarda soprattutto i legami tra i seguaci di Uribe e i capi delle Autodefensas Unidas. Quello che ha attratto i due importanti giudici non sono tanto le indagini realizzate dalla Corte suprema di giustizia quanto gli attacchi scagliati dal palazzo presidenziale contro i giudici.
Si tratta, tra gli altri, degli scandali noti col nome dei loro protagonisti, «Tasmania» e «Job». Tasmania è un paramilitare che nell’ottobre del 2007 scrisse una lettera a Uribe informandolo che alcuni giudici volevano comprare la sua testimonianza per incastrarlo. Si accese uno scontro devastante tra il potere esecutivo e quello giudiziario: i giornali parlarono di uno «scontro di treni». Nel giugno del 2008 Tasmania ritrattò le accuse, confessando di essere stato imbeccato dal suo avvocato per conto di Santiago e Mario Uribe (oggi in galera per la parapolitica), rispettivamente fratello e cugino del presidente che sostenne che tutto fosse accaduto a sua insaputa. Job invece è il soprannome di un paramilitare che si riunì alcune volte e clandestinamente nei sotterranei del palazzo presidenziale con due alti funzionari presidenziali per complottare contro la Corte suprema (pochi mesi fa Job è stato ucciso da due sicari in moto). Anche in questo casi, secondo Uribe, tutto sarebbe avvenuto a sua insaputa.
I giudici della Corte suprema sono anche tra i principali obiettivi di una serie di intercettazioni illegali realizzate dal Das (Dipartimento administrativo de seguridad), il servizio segreto alle dirette dipendenze del presidente. Il Das spiava un po’ tutti: magistrati incaricati delle indagini sulla parapolitica, politici dell’opposizione, giornalisti dei più importanti mezzi di comunicazione, alti prelati, giudici della corte suprema di giustizia, ong, sindacalisti, generali e anche membri del governo. E lo faceva da sei anni, guarda caso in piena era Uribe.
E, naturalmente, a sua insaputa. Durante la sua presidenza, sono caduti in disgrazia ben quattro direttori del Das, compreso Jorge Noguera accusato, tra le altre cose, di essere il mandante di 24 omicidi e di aver usato l’istituzione per operazioni di riciclaggio di denaro sporco. Prima di tentare di salvarlo, spedendolo al consolato di Milano, Uribe affermò di «mettere la mano sul fuoco» sulla sua innocenza.
Quella delle intercettazioni illegali durante l’era Uribe, è un vizietto anche della polizia. Lo scandalo costò nel 2007 il posto a 11 suoi generali, fatto senza precedenti e, come da copione, finito nel nulla. A dirigere la polizia, è stato richiamato il fido generale Oscar Naranjo, ritiratosi anni fa per l’arresto del fratello in Germania per narcotraffico. Di problemi in famiglia ne ha avuti anche l’attuale ministro degli interni Fabio Valencia Cossio (ed ex ambasciatore a Roma): il fratello Guillermo, giudice a Medellín, è finito in carcere per aver aiutato le strutture mafiose locali.
Tra gli intercettati illustri da parte del Das e della polizia c’erano anche i magistrati della Corte costituzionale, e proprio mentre decidevano la costituzionalità della riforma che avrebbe permesso a Uribe di farsi rieleggere nel 2006. La rielezione ricorda un altro scandalo, quello della «Yidis Politica» dal nome della ex parlamentare Yidis Medina, che raccontò di come il presidente e i suoi consiglieri le avessero promesso benefici economici e politici in cambio del suo voto, risultato poi decisivo per l’approvazione della legge che permise ad Uribe di ricandidarsi. La stessa Medina, sentitasi poi defraudata, uscì allo scoperto, meritandosi un processo e una condanna per essersi fatta corrompere. Mentre i corruttori — secondo la Medina, l’attuale ambasciatore in Italia Sabas Pretelt de La Vega, al tempo ministro degli interni, e Diego Palacio, attuale ministro della protezione sociale — l’hanno finora fatta franca.
Premiare con incarichi diplomatici i servitori fedeli caduti in disgrazia è un’abitudine di Uribe. Oltre al caso di Jorge Noguera spedito a Milano, vanno ricordati i processi contro le ex ambasciatrici in Ecuador e Brasile, contro l’attuale ambasciatore in Messico (ed ex ambasciatore in Italia) Luis Camilo Osorio, considerato l’artefice dell’impunità del paramilitarismo per molti anni, contro Salvador Arana, passato dall’ambasciata cilena alla latitanza con l’accusa di omicidio, contro Juan José Chaux, che ha dovuto rinunciare all’ambasciata nella Repubblica Dominicana perché implicato nello scandalo Job e sostituito dall’ex comandante dell’esercito Mario Montoya, costretto alle dimissioni per lo scandalo dei falsos positivos.
Cioè, per un sistema inventato da Uribe, che fa parte della cosiddetta «seguridad democratica», e che comporta premi per chi uccide i nemici: soldi, licenze e rapide carriere nell’arma per i superiori. Un sistema che parve subito funzionare facendo felici i soldati, il ministro della difesa Santos e il presidente che vantava i risultati ai quattro venti. Peccato che i morti non risultassero banditi o guerriglieri, ma ragazzini attirati con la scusa di un lavoro, portati in regioni di conflitto, vestiti da guerriglieri, uccisi e sepolti come N.N. in fosse comuni.
Quando scoppiò lo scandalo, Uribe sostenne che i giovani ammazzati non fossero innocenti: «Se sono andati da quelle parti non è certo per raccogliere caffè». Poi ammise che qualcosa non funzionava, facendo destituire una ventina di alti ufficiali che finirono alla berlina, ma non in galera. E sostiene ancora adesso, che tutto sarebbe successo «a sua insaputa».
Per finire, l’ultimo scandalo che riguarda Tom & Jerry, Tómas e Jerónimo Uribe, i figli del presidente che, nonostante la giovane età, appaiono degli impresari dal grande fiuto. Peccato che questo dipenda dalla solerzia di alcuni funzionari del governo che li hanno resi milionari dall’oggi al domani, trasformando in zona franca alcuni terreni che i due avevano comprato a prezzi stracciati. Anche in questo caso, il papà si dice ignaro. Ancora una volta, tutto sarebbe successo «a sua insaputa».
Altri articoli sul recente viaggio di Uribe in Italia:
Primo Maggio in Italia: Tutti contro Uribe di Nuova Colombia
Chi è Álvaro Uribe, ospite oggi di Silvio Berlusconi e Joseph Ratzinger di Gennaro Carotenuto
Uribe e dintorni di Stella Spinelli (Peace Reporter)
Uribe a Roma: protestano i movimenti e le organizzazioni sociali di A Sud
28 aprile 2009
Il governo di Caracas e l’Autorità nazionale palestinese (Anp) hanno stabilito relazioni diplomatiche in via ufficiale.
Nicolas Maduro, ministro degli Esteri venezuelano e il suo omologo palestinese Riyad al Maliki hanno firmato nella capitale sudamericana il documento che sancisce “l’eterna e permanente solidarietà del popolo venezuelano alla giusta causa dei Palestinesi” ha detto Maduro.
Durante la cerimonia, Al Maliki ha ringraziato il presidente Hugo Chávez per il suo supporto ai civili della Striscia di Gaza durante l’offensiva militare israeliana ‘Piombo fuso’ che ha causato la morte di oltre 1400 persone, in seguito alla quale Caracas ha rotto le relazioni diplomatiche con Israele.
Il ministro ha detto inoltre che “grazie al suo sostegno alla causa palestinese”, e al suo approccio “scevro di pregiudizi” Chávez è il “capo di stato più popolare nell’intero mondo arabo”.
La rappresentanza palestinese inaugurata per l’occasione a Caracas è una delle 10 missioni diplomatiche che l’Anp ha in tutta l’America Latina.
Comitato italiano di solidarietà con il Popolo Colombiano
costituito in occasione della visita del Presidente Alvaro Uribe Vélez
( Roma, 30 aprile 2009 )
All’Unione Europea e agli Stati membri
Al Governo colombiano
Al Governo e ai gruppi armati
Al Governo italiano
(Presidenza del Consiglio, III Commissione Affari esteri e comunitari della Camera, Commissione per i diritti umani del Senato, Ministro Affari Esteri)
Agli organi istituzionali (Nazione Unite)
Al procuratore della Corte Penale Internazionale
Alla comunità internazionale
.
Roma, 27 aprile 2009
Noi, i sottoscritti firmatari, rappresentiamo Associazioni, Movimenti, Istituzioni ed Enti Locali, il cui lavoro è finalizzato alla difesa e promozione dei diritti umani e all’accompagnamento dei processi di costruzione di pace dal basso in Colombia. Sosteniamo pertanto con il nostro lavoro tutti i soggetti e i processi che in Colombia cercano una soluzione al conflitto non attraverso le armi, la violenza, il sopruso, che continuano a produrre soltanto morte, povertà e ingiustizia, ma attraverso l’azione non violenta e il rifiuto degli attori armati. La nostra profonda conoscenza della grave situazione che si trova a vivere il popolo Colombiano, derivante da molteplici e diversificate esperienze sul territorio, e le ultime denunce dei difensori dei diritti umani colombiani e della stampa internazionale ci spingono a far sentire la nostra voce, in occasione della visita del Presidente Uribe a Roma.
Nei prossimi giorni, il Presidente Uribe verrà in visita ufficiale in Italia e sarà ricevuto dal Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e dal Papa Benedetto XVI. L’incontro con il premier italiano, che lo ha formalmente invitato a partecipare come ospite dell’America Latina al prossimo G8 in Italia, è stato incentrato sui temi della sicurezza, della pace e della lotta al terrorismo. Silvio Berlusconi, che ha intenzione di presentare durante il G8 il libro Lo stato del mondo, che raccoglierà gli interventi di tutti i capi di Stato presenti al vertice, ha chiesto al Presidente Uribe di scrivere un contributo sul tema “La governabilità sotto la minaccia del terrorismo”. Inoltre, importanti accordi economici e commerciali sono in via di definizione tra i due Paesi, come testimoniato dal recente viaggio a Medellin di Letizia Moratti e di altri imprenditori italiani, avvenuto in occasione del vertice della Banca Interamericana dello Sviluppo.
L‘ambito in cui avverranno questi incontri ed i temi trattati sono in netto contrasto con quanto non solo da noi ricostruito, grazie al nostro lavoro di monitoraggio, sostegno e protezione dei diritti umani, ma soprattutto con quanto denunciato da numerose istituzioni e organizzazioni colombiane ed internazionali.
Considerato:
- Che la Colombia continua ad essere immersa in un conflitto armato interno complesso e dalle molteplici sfaccettature, il cui effetto sui diritti umani rappresenta una sfida continua per la sopravvivenza della popolazione civile e per la garanzia di una vita degna;
- Che nel contesto latinoamericano la Colombia si presenta come un vero e proprio laboratorio di violazione dei diritti umani fondamentali;
- Che sono 300 mila i morti registrati negli ultimi 10 anni, metà dei quali avvenuti per mano dei paramilitari; 4000 i sindacalisti uccisi negli ultimi 20 anni, migliaia gli indigeni e i contadini sterminati nelle campagne di terrore e 4 i milioni di sfollati;
- Che durante i due mandati del Governo Uribe è stato rilevato un aggravamento del conflitto;
- Che la politica di sicurezza democratica e l’adozione di piani di militarizzazione (Plan Colombia e Plan Patriota) hanno l’obiettivo di controllare il territorio colombiano e di imporre la strategia di sviluppo forzato promosso dal Governo;
- Che dal 2005 al 2007 sono stati denunciati 11.292 casi di uccisioni e sparizioni forzate e che, nello stesso periodo, si è registrata la cifra più alta di investimenti stranieri nella storia della Colombia (si è passati dai 3.786 milioni di dollari del 2005 a 10.085 milioni del 2007), a conferma del persistente legame tra piani di sviluppo, militarizzazione e violenza;
- Che la criminalizzazione messa in atto da alti funzionari del Governo dei gruppi più vulnerabili, dei difensori dei diritti umani, delle comunità indigene, afrocolombiane e contadine e la persecuzione sistematica di ogni forma di denuncia e opposizione alle politiche promosse dallo Stato in materia sociale, lavorativa e di sicurezza, viene fatta rientrare all’interno del paradigma della lotta al terrorismo;
- Che una dei più gravi crimini avallati dal Governo colombiano nell’ambito della politica di pace e di lotta al terrorismo è quello dei “Falsos positivos”,ovvero civili innocenti uccisi dall’Esercito e presentati come guerriglieri, che di certo non rispondono all’obiettivo della lotta alla violenza né contribuiscono al ristabilimento della legalità in Colombia;
- Che la legge di Giustizia e Pace non ha virtualmente smantellato le strutture paramilitari delle AUC (Autodefensas Unidas de Colombia), favorendone di fatto la loro perpetuazione sotto altre sigle e destinandole ad un effettivo controllo sociale, politico ed economico del territorio (regioni di Antoquia, Cauca, Chocò, Cordoba, Narino e Valle del Cauca);
- debitamente indagato e processato gli autori dei crimini di lesa umanità avvenuti nel paese: delle 3.637 persone che dovevano essere indagate e processate, solo 1.626 hanno iniziato la prima fase processuale (dati al 31 dicembre 2008);
- Che la legge di Giustizia e Pace ha favorito la formazione di nuovi gruppi paramilitari che perseguono lo stesso obiettivo delle precedenti AUC, ovvero il controllo sociale, politico ed economico dei territori occupati (regioni di Antoquia, Cauca, Chocò, Cordoba, Narino e Valle del Cauca);
- Che si sta ostacolando il percorso normale della giustizia per chiarire i fatti riguardanti i rapporti tra paramilitari e Governo e la natura corrotta del sistema para-statale
- Che l’estradizione di 13 dei più importanti capi paramilitari smobilitati ha messo a serio rischio la possibilità di ricostruire integralmente i fatti in cui questi erano coinvolti e di riconoscere alle vittime il diritto alla verità, giustizia e riparazione;
- Che ogni negoziazione politica esige, come requisito principale, l’esistenza di posizioni divergenti e opposte, e che con la Legge Giustizia e Pace il Governo ha deciso di orientare il dialogo alle sole forze paramilitari che difendono lo stesso modello politico e sociale;
- Che senza un adeguato riconoscimento del conflitto armato interno e dei gruppi guerriglieri come forze antagoniste non si potrà giungere ad un reale accordo di pace.
Per quanto finora espresso
CHIEDIAMO
All’ Unione Europea ed ai suoi Stati membri
- Di riconoscere l’esistenza di un conflitto armato in Colombia, applicando cosi tutte le normative vigenti che regolano le relazioni con i paesi in guerra;
- Di sospendere la vendita di armi e l’aiuto militare alla Colombia;
- Di monitorare ed eventualmente sospendere la vendita da parte dei Paesi della UE di agenti chimici necessari alla trasformazione della coca in cocaina, nessuno dei quali viene prodotto in Colombia ;
- Di attivare una efficace vigilanza sulle risorse destinate alla cooperazione con la Colombia, per garantire che non siano utilizzate per rafforzare l’apparato militare, per lo sfruttamento illegale ed illegittimo delle risorse naturali, in modo da non contribuire all’acutizzazione della guerra;
- Di condizionare la cooperazione e gli accordi commerciali con la Colombia al rispetto dei diritti umani;
- Di impegnarsi maggiormente nelle iniziative promosse dalla Società civile colombiana ed in modo particolare dalle Comunità in resistenza civile in favore della difesa integrale dei diritti umani.
Specificamente al Governo italiano e all’Ambasciata italiana a Bogotà
- Di appoggiare la relazione solidale che espressioni organizzate della società civile italiana hanno con le Comunità in resistenza civile e le Organizzazioni che difendono i diritti umani in Colombia;
- Di accertarsi prima dell’accredito in Italia dei futuri ambasciatori colombiani, della loro estraneità ai fatti sopra enunciati ed in caso contrario negare il placet necessario;
Ai Governi dell’Italia e della Colombia
- Di attivare meccanismi che combattano efficacemente la relazione tra le organizzazioni criminali della ‘Ndrangheta italiana e paramilitari colombiani particolarmente attive nel traffico di droga ed armi tra i due paesi. Allo stesso modo, contrastare i possibili sostegni che, da istanze ufficiali, funzionari pubblici dei due Paesi potrebbero offrire a queste pericolose organizzazioni illegali.
Al Procuratore della Corte Penale Internazionale:
- Di non rimandare oltre la sua decisione di aprire un’indagine sul caso Colombia.
Al Governo colombiano
- Di accogliere e dare seguito in maniera concreta alle raccomandazioni formulate nel Rapporto annuale dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Colombia (anno 2008) e nella sentenza del Tribunale Permanete dei Popoli su “Empresas transnacionales y derechos de los pueblos en Colombia, 2006–2008” (Bogotà, 21–23 luglio 2008);
- Di riconoscere il conflitto interno e la guerriglia come forza belligerante;
- Di attenersi ai principi del Diritto Internazionale Umanitario rispettando, senza alcuna eccezione, la vita, l’integrità della popolazione civile;
- Di implementare qualsiasi misura per porre fine alle pratiche di esecuzioni extragiudiziali e intensificare la collaborazione con la Fiscalia general de la Naciòn per investigare, giudicare e sanzionare questi crimini e di individuare le misure necessarie per porre fine alla pratica dei Falsi Positivi ed attuare in maniera pertinente perché vengano puniti i responsabili di questi crimini;
- Di astenersi dal segnalare come sostenitori del terrorismo i gruppi più vulnerabili della popolazione civile e i difensori dei diritti umani, includendo le organizzazioni sindacali e cessare immediatamente qualunque tipo di violenza e persecuzione contro di loro;
- Di adottare misure preventive concrete per porre fine al problema del desplazamiento forzado;
- Di garantire il diritto Costituzionale appartenente alle Comunità indigene ed afrodiscendenti alla proprietà collettiva dei loro territori ed inoltre ratificare la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli Indigeni;
- Di impedire che le risorse naturali del Paese continuino ad essere sfruttate per il solo beneficio delle imprese multinazionali; rispettare il diritto del popolo colombiano a determinare il proprio modello economico e il proprio processo di sviluppo;
- Di garantire il diritto alla verità, giustizia e riparazione delle vittime e combattere l’impunità con tutti i mezzi legali disponibili. Riconoscere la ricostituzione di nuovi gruppi paramilitari operanti in molte regioni del Paese e assicurarli alla giustizia;
- Di accogliere con favore il lavoro svolto dalle organizzazioni sociali per i diritti umani con l’obiettivo di costruire politiche di accordo umanitario verso la soluzione negoziata al conflitto sociale e armato in Colombia.
Primi firmatari al 28 aprile 2009
A Sud Ecologia e Cooperazione Onlus, Comitato Carlos Fonseca, Comunità Cristiana di Base di Oregina di Genova, Associazione Narni per la Pace, Rete Italiana di Solidarietà Colombia Vive! Onlus, Comune di Narni, Annalisa Melandri, Partito della Rifondazione Comunista– Sinistra Europea, Vittorio Agnoletto Europarlamentare gruppo GUE/NGL, Partito dei Comunisti Italiani
Riferimenti: