Silvio Berlusconi e Álvaro Uribe: Sì ai profitti, no ai diritti umani

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“Stando alla lista dei guerriglieri uccisi, le FARC le abbiamo sterminate due anni fa”

Il Presidente colombiano Álvaro Uribe Vélez incontra Berlusconi: SI AI PROFITTI, NO AI DIRITTI UMANI
 
Il  30 aprile 2009  il presidente della Colombia Álvaro Uribe sarà in Italia invitato ufficialmente dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. 
Incontrerà il premier, ministri, imprenditori e, per finire, il Papa.
 
Tratteranno di accordi economici e commerciali, investimenti di capitali, relazioni bancarie e finanziarie tra i due paesi, già predisposti dal recente viaggio di Letizia Moratti e di altri imprenditori italiani a Medellin in occasione del vertice della Banca Interamericana dello Sviluppo. 
 
Ma non una parola sul rispetto dei diritti umani in Colombia, con un presidente, Uribe, a capo di un governo da molti definito “narco-fascista”. Un governo, quello colombiano, che si è macchiato e continua a macchiarsi di gravi crimini contro la popolazione colombiana come attestano numerose denunce fatte da Amnesty International, HRW ‚ ONU, ecc.
 
Il bilancio del governo di Álvaro Uribe dal 2002 (anno della sua prima elezione) ad oggi è negativo sotto ogni aspetto; quello dei diritti umani, quello della sicurezza del paese, quello economico, quello della soluzione del conflitto che insanguina la Colombia da più di 50 anni.
Uribe, appoggiato da Bush, ha imposto al paese la cosiddetta “politica di sicurezza democratica” che ha reso la Colombia un enorme campo di battaglia dove, nonostante la legge di smobilitazione dei paramilitari, conosciuta come legge di Justicia y Paz, questi si sono riorganizzati sotto diverso nome e ancora controllano ampi settori della società, della politica e dell’economia.
Basti pensare che il 30% dei membri del Parlamento colombiano sono inquisiti per narcotraffico e paramilitarismo.
 
Oggi molti paesi europei e perfino il congresso degli Stati Uniti minacciano di sospendere gli aiuti al governo colombiano per il recente scandalo dei falsi positivi, esecuzioni extragiudiziali commesse dall’Esercito colombiano: un vero e proprio crimine di Stato, per giustificare in termini di numeri e cadaveri la lotta contro il terrorismo.
 
Berlusconi inviterà Uribe al prossimo G8 per dare un suo contributo al tema “Governabilità sotto la minaccia del terrorismo” nel libro “Lo stato del mondo” che dovrebbe contenere contributi di tutti i capi di Stato presenti al G8.
PROFITTI E CAPITALI VI INTERESSANO …DIRITTI UMANI NO!!!
Di fronte a questa gravissima provocazione, noi della società civile e democratica italiana comunichiamo al presidente colombiano che siamo molto attenti a quanto avviene nel suo paese in merito al rispetto dei diritti umani da parte dello Stato e leviamo un monito al governo e agli imprenditori italiani di condizionare la firma di ogni accordo commerciale con la Colombia al rispetto dei fondamentali diritti umani e civili del popolo colombiano.
 
(Comitato di solidarietà con il popolo Colombiano)
Costituito in occasione della Visita del Presidente Colombiano, Alvaro Uribe Velez, in Italia
Prime adesioni: Comitato Carlos Fonseca, A Sud, Comunità cristiana di base di Oregina di Genova, Narni per la Pace, Rete Italiana di Solidarietà Colombia vive! , Partito della Rifondazione Comunista - Sinistra Europea, Annalisa Melandri, Vittorio Agnoletto Europarlamentare gruppo GUE/NGL, Partito dei Comunisti Italiani
Info: href=“annalisamelandriatyahoodotit“>annalisamelandriatyahoodotit
 
 
 
 

Febbre suina, situazione in Messico sempre più grave

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Domani, 27 aprile alle ore 12 ne parlerà in diretta dal Messico  Matteo Dean su Rai News24 (video)
La situazione in Messico rispetto al dilagare della febbre suina sembra aggravarsi con il passare delle ore.
Come riporta il quotidiano La Jornada il numero dei morti in un solo giorno è passato da 62 a 81 e  i casi di persone che hanno contratto il virus da 1000 a 1324. Negli Stati Uniti sono già 11 quelli accertati, ma alcuni casi sospetti si registrano in Nuova Zelanda e probabilmente in Spagna.
In Messico l’epidemia sembra al momento concentrata nella zona del Distretto Federale, nello Stato delMessico e a San Luis Potrosí e la popolazione è invitata a non effettuare spostamenti all’interno del paese  se non strettamente necessari.
Il presidente Felipe Calderón ha già predisposto misure straordinarie, quali la chiusura delle scuole fino al 6 maggio prossimo, il divieto di celebrare messe e qualsiasi altra iniziativa pubblica dove si possa avere grande concentrazione di persone, la chiusura di bar e locali pubblici, l’orario di lavoro sarà ridotto di 4 ore e la gente è invitata a restare nelle proprie abitazioni senza uscire per evitare il rischio di contagio.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità,  che in settimana terrà una riunione per fronteggiare lo sviluppo della febbre porcina ha dichiarato che la malattia ha il potenziale per trasformarsi in una pandemia.
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Leggi anche :
Città del Messico, cittadinanza in quarantena di Matteo Dean da Città del Messico
 
 

Il Vertice delle Americhe e il Vertice dei Popoli di Trinidad e Tobago: La riappacificazione tra i potenti di sempre e i “discoli” passa sulla testa dei soggetti realmente antagonisti

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Tito Kayak sulla statua della LibertàNell’entusiasmo generale che ha accompagnato il Vertice delle Americhe di Trinidad e Tobago, è sfuggito agli osservatori internazionali che hanno seguito con trepidazione forse eccessiva l’incontro e la “storica”  stretta di mano tra il neo presidente degli Stati Uniti Barack Obama e quello del Venezuela Hugo Chávez, che alcune ore prima, mentre i media internazionali si beavano di un’atmosfera  festosa da inizio di nuovo mondo, all’aeroporto dell’isola venivano arrestati senza nessuna  spiegazione alcuni rappresentati dei movimenti antagonisti sociali latinoamericani che erano appena arrivati   per partecipare al contro Vertice dei Popoli, la risposta organizzata dei  movimenti  al Vertice istituzionale dei capi di Stato.
 
Le delegazioni fermate sono state quelle del Brasile, del Venezuela, di Cuba e di Porto Rico. Questi due ultimi paesi sono i due grandi esclusi dal Vertice delle Americhe, sebbene i riflettori come ogni anno  siano accesi più sull’assenza  di Cuba (che alla fine si trasforma di fatto in una grande presenza a livello mediatico) che su quella  di Porto Rico.  
 
Ai delegati di questi paesi, appartenenti a diverse associazioni latinoamericane sono stati sequestrati i passaporti e dopo essere stati trattenuti  alcune ore in stato di fermo senza nessuna giustificazione né motivazione,  sono stati rilasciati  con la minaccia  che se avessero organizzato qualunque tipo di manifestazione sarebbero stati arrestati nuovamente ed espulsi dal paese.
 
Diversamente è andata però ad uno degli appartenenti della delegazione di Porto Rico, le cui già note forme di protesta pacifiche ma spettacolari e di grande impatto hanno sempre riscosso grande simpatia. Alla notizia infatti  dell’arrivo all’aeroporto del leader   ambientalista  Alberto de Jesús,alias Tito Kayak,  militante del gruppo ambientalista Amigos del M.A.R (Movimiento Ambiental Revolucionario) la polizia locale di Trinidad e Tobago in sinergia  con l’FBI ha preso contro di lui  misure straordinarie  e gravemente lesive della libertà di movimento e del diritto di protesta pacifica delle persone.
 
Tito Kayak è stato accolto al suo arrivo all’aeroporto di  Trinidad e Tobago  da un nutrito numero di poliziotti armati fino ai denti che lo hanno ammanettato appena sceso dalla scaletta dell’aereo davanti a tutti gli altri passeggeri.
 
“Non so perchè mi hanno arrestato” ha commentato Kayak. “”Non potevano permettere che la mia presenza in nessun modo rovinasse quello che si sarebbe celebrato il giorno dopo” ha detto in un’intervista.
 
Tito Kayak da anni porta avanti una lotta del tutto pacifica, ma espressa sempre spettacolarmente,  per chiedere  l’indipendenza di Porto Rico dagli Stati Uniti, sotto il cui dominio  si trova dal lontano 1898, dal tempo della guerra Ispano-Americana.
 
Nel 2005 fu arrestato per aver cercato di togliere  la bandiera degli Stati Uniti sostituendola  con  quella di Porto Rico dalle aste davanti agli Uffici delle Nazioni Unite a New York; sempre nello stesso anno si è arrampicato sulla Statua della Libertà e nel suo paese e nell’intera area caraibica è conosciuto per le proteste ambientali e politiche che compie sul suo kayak.
 
Ha detto Tito che non gli sono stati spiegati i motivi del suo arresto durato una intera notte a Trinidad e Tobago e che al mattino seguente è stato rimesso su di un aereo che lo ha riportato a Porto Rico senza nemmeno avergli riconsegnato il passaporto. Al suo arrivo è stato interrogato a lungo da un agente dell’FBI.
 
“Non ci sono dubbi che dietro quanto accaduto ci sia il governo statunitense” ha dichiarato con convinzione  Tito Kayak. Il grande show del vertice delle Americhe non poteva essere rovinato dalla presenza di un pacifista ambientalista già noto per le sue proteste improvvise e spettacolari.
 
L’agenda del Vertice delle Americhe come sempre viene stabilita dagli Stati  Uniti e se era stato deciso che questo era il momento di accendere i riflettori sull’incontro tra  Obama e Chávez e sull’apertura verso Cuba, non sarebbe stato permesso  nessun  “fuori programma” che avesse portato l’attenzione su problematiche sulle quali l’amministrazione di Obama non ha ancora deciso di prendere posizione, come per esempio la richiesta di indipendenza di Porto Rico.  
La riappacificazione tra i potenti di sempre e i “discoli” (Chávez ma anche Raúl Castro) passa sempre sulla testa dei soggetti realmente antagonisti che non ci stanno a subire un’agenda dettata dall’opportunismo del momento e dalle convenienze economiche.
 
Gli antagonisti di sempre riuniti nel Vertice dei Popoli che si è svolto regolarmente nonostante i tentativi del potere di boicottarlo e cancellarne la presenza delle sue voci più significative, hanno discusso di crisi economica, di ambiente, di alimentazione, di cultura, di disarmo.
 
Hanno convenuto che al pari dell’analisi delle cause della crisi economica attuale è importante mettere in atto strategie appropriate per affrontarla.
 
Sono state denunciate  realtà dove ancora viene applicata  una schiavitù di tipo moderno e dove gli immigrati, vengono sfruttati in condizioni disumane, concludendo che la globalizzazione e le sue politiche economiche stanno alla base dei moderni e massicci fenomeni migratori.
 
Hanno chiesto che sia Cuba ma anche Porto Rico vengano ammessi a partecipare ai vertici internazionali, e per la piccola  colonia a stelle e strisce è stata chiesta l’indipendenza.
 
I popoli, i veri attori di questo vertice, le donne e gli uomini latinoamericani, i giovani studenti, gli operai,  i sindacalisti, i contadini e gli indigeni hanno chiesto che la loro terra sia smilitarizzata, che vengano smantellate le basi militari, che la IV Flotta degli Stati Uniti di pattuglia nella regione lasci le acque del Mar dei Caraibi, che vengano rispettate le garanzie e i diritti individuali e dei popoli calpestati dagli Stati nel nome della politica di “sicurezza democratica”.
 
Hanno chiesto di essere ascoltati, hanno concluso che “ascoltare i popoli ed operare in funzione dei loro interessi e non dei guadagni di pochi è l’unica via di uscita alla crisi, durevole, sostenibile e che va nel senso di un’America più giusta”.
 
Vedi la fotogalleria di Tito Kayak 
 

Bolivia: sventato attentato contro Evo Morales

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Ascolta qui l’intervista a Giuseppe De Marzo fatta da Radio Onda Rossa sulle nuove costrituzioni latinoamericane, quella della Bolivia e dell’Ecuador
Sabato 18 Aprile
Il presidente boliviano Evo Morales ha denunciato ieri che le forze di sicurezza boliviane hanno sventato due giorni fa a Santa Cruz un piano organizzato da «mercenari internazionali» per attentare contro la sua vita e quella del vicepresidente, Alvaro Garcia Linera: lo ha detto in Venezuela lo stesso Morales, mentre a La Paz la polizia locale annunciava l’uccisione dei tre attentatori.
I tre uomini uccisi dalle forze speciale sono il rumeno Mayarosi Ariad, l’irlandese Dyer Micheal Martin e il boliviano di origine ungherese Eduardo Rozsa Flores, sospettato di essere il capo della banda. Lo affermano fonti ufficiali di La Paz, e lo ha ripetuto Morales subito dopo essere giunto a Cumanà, in Venezuela, dove partecipava al vertice dell’Alternativa Bolivariana delle Americhe (Alba), accolto dal presidente Hugo Chavez.
 
L’anno scorso l’opposizione è fallita nel tentativo di allontanarlo dalla presidenza tramite un referendum, ha ricordato Morales: «successivamente, ha aggiunto, hanno provato con un golpe di stato civile… ora stavano cercando di crivellarci».
 
La polizia ha arrestato altre due persone, il boliviano Francisco Tadic Astorga (ex militare residente in Croazia) e l’ungherese Elot Toazo (anche esgi residente in Croazia) con l’accusa di essere coinvolte nell’attentato. Il capo della polizia di Santa Cruz, Victor Hugo Escobar, ha precisato che i tre attentatori uccisi erano «terroristi specializzati e addestrati» per questo tipo di attentati e che la polizia è intervenuta «per rispondere al fuoco» dei tre.

Lo scenario disegnato dagli attentati contro il Presidente e il Vicepresidente della Bolivia e contro il cardinale di Santa Cruz appare estremamente grave e preoccupante non solo per la Bolivia ma per tutte le forze democratiche e progressiste dell’America Latina e del mondo.

Il coinvolgimento di mercenari europei, già attivi nelle milizie di destra all’interno della guerre che hanno dilaniato la Jugoslavia negli anni Novanta, rivelano all’opinione pubblica internazionale l’esistenza di una rete terrorista neofascista ancora attiva e che trova nelle forze reazionarie ancora dominanti in alcune regioni boliviane, un inquietante centro di complicità.

 
Il senatore del MAS Riccardo Diaz ha accusato l’ex governatore di Santa Cruz Branco Marinkovic  di avere legami con i grupp terroristi croati.
 
Quanto accaduto in Bolivia concretizza agli occhi dell’opinione pubblica l’esistenza ancora attiva di quella rete terroristica neofascista che da mesi in Bolivia tenta di ribaltare il governo legittimo di Morales e che ha trovato  rifugio e complicità proprio negli ambienti della destra boliviana che oggi si oppone violentemente al cambiamento democratico in corso nel paese, dove proprio all’inizio del 2009 è stata approvata da referendum consultazione popolare la nuova costituzione: una costituzione che riconosce nuovi diritti e disconosce antichi privilegi, minacciando lo status quo della ricca oligarchia boliviana.
 
 
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Leggi anche: Evo Morales in sciopero della fame di Gennaro Carotenuto
 
 
 

Letizia Moratti, Don Verzè e la Colombia: l’ipocrisia in passerella

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Letizia Moratti e Alvaro Uribe 

Letizia Moratti e Álvaro Uribe

“Ho trovato un paese che vive grandi trasformazioni, un paese con una grande energia, che si sta rilanciando e che dimostra tutta la sua volontà nell’essere protagonista del suo futuro e in tutta la regione”.
Così il sindaco di Milano Letizia Moratti ha parlato della Colombia visitata nel suo recente viaggio in occasione del quale ha partecipato a Medellin all’assemblea della Banca Interamericana di Sviluppo che si è svolta alla fine di marzo e nel corso della quale ha anche incontrato il presidente Álvaro Uribe.
 
Il sindaco Moratti, che ha firmato un accordo chiamato delle tre M (Milano, Medellin, Moda, visto che Medellin è la capitale colombiana della moda e tra le più importanti in America ) ha dichiarato inoltre di voler mettere a disposizione a Milano un edificio che si chiamerà Casa Colombia e che sarà un luogo dove diffondere la cultura e le potenzialità del paese latinoamericano. Milano farà anche da palcoscenico alle iniziative che l’ambasciata colombiana in Italia, congiuntamente ad altre rappresentanze diplomatiche della Colombia nel mondo, stanno portando avanti per lanciare l’immagine di paese paladino della lotta al narcotraffico e della legalità.
 
Anche la Chiesa fa la sua parte nel balletto: la Fondazione San Raffaele, diretta da Don Luigi Verzé metterà a disposizione un “San Raffaele natante” per portare la medicina del centro medico milanese sulle coste della Colombia e dei Caraibi e che si chiamerà “Vita senza Droga” .
Lo show Italia – Colombia continuerà, probabilmente con un prossimo viaggio nel nostro paese del presidente Uribe e probabilmente con la firma di qualche accordo più propriamente commerciale in senso stretto favorevole per l’Italia.
Ogni riferimento a sparizioni forzate, violazioni dei diritti umani, falsi positivi, leader sindacali morti ammazzati (due proprio negli ultimi giorni) è volutamente omesso…
 
Per noi, la Colombia è invece rappresentata da queste tre M : Muertos, Motosierras, Montoya.
 
Muertos, morti ammazzati in vere e proprie esecuzioni extragiudiziali, 1600 persone circa dal 2002 al 2008 nella politica di Sicurezza Democratica voluta dal governo Uribe.
 
Motosierras come le motoseghe che i paramilitari utilizzano per squartare i corpi dei contadini o presunti guerriglieri e per terrorizzare intere comunità costringendole a fuggire dalle loro terre, lavoro svolto per lo più in combutta con le Forze Armate. Ricordiamo che l’80% del parlamento colombiano è indagato per reati connessi con il narcotraffico e il paramilitarismo.
 
Montoya, come il generale a capo dell’Esercito colombiano, costretto alle dimissioni per lo scandalo recentemente scoppiato in Colombia e conosciuto come “dei falsi positivi” , cioè omicidi compiuti a vario livello dall’ esercito e dalle forze di polizia di giovani innocenti fatti passare come “terroristi uccisi nel corso di scontri a fuoco” per giustificare le risorse destinate alla politica di sicurezza democratica e alla lotta contro il terrorismo del governo ma anche per amplificare mediaticamente i suoi risultati concreti e cercare quindi consenso tra la popolazione.
 
Questa è per noi la Colombia oggi, al governo colombiano andrebbero chieste le dimissioni del suo presidente Álvaro Uribe per l’incapacità nel gestire una situazione di violenza radicalizzata ormai nel paese e per la presenza di una intera rappresentanza governativa con un piede nelle patrie galere; la firma di accordi commerciali con la Colombia e le collaborazioni anche da parte della Chiesa dovrebbero  essere vincolate invece al rispetto della giustizia e dei trattati internazionali in materia di diritti umani e dei popoli.

 


Strage di Tlatelolco: fu genocidio ma senza colpevoli. Luis Echeverría libero.

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Foto: H.I.J.O.S. México
L’oscurità genera la violenza
e la violenza ha bisogno di oscurità
per diventare crimine.
Per questo il due di ottobre attese la sera
perchè nessuno vedesse la mano che impugnava
l’arma, ma solo i colpi che sparò.
(Da Memorial de Tlatelolco di Rosario Castellanos)
 
Da genocida a “innocente con riserva di legge”. Questa potrebbe essere la formula magica con la quale la giustizia messicana ha  salvato il 27 marzo scorso,  l’ex presidente Luis Echeverría Álvarez, 87 anni,  dall’accusa di genocidio, come richiesto già  dal Tribunale Speciale per i Movimenti Sociali e Politici del Passato (Femospp). Il massacro di Tlatelolco (o  della Piazza delle Tre Culture)  fu chiamata quella strage, compiuta  dallo stato per distruggere nel giro di poche ore  il movimento studentesco messicano.
 
E di genocidio si trattò, compiuto contro un “gruppo nazionale” (quello degli studenti) come ha dichiarato una perizia sociologica.
 
Correva l’anno 1968. Il magnifico 1968. Fu magnifico ed organizzato non solo negli Stati Uniti e in Europa. In Messico non si erano mai viste manifestazioni spontanee di quella portata, il momento d’oro del movimento studentesco si sviluppò  proprio tra l’agosto e il settembre del 1968.
 
Il 2 ottobre di quello stesso anno, alle cinque e mezza del pomeriggio, nella piazza delle Tre Culture a Città del Messico,  c’erano diecimila persone. Quasi tutti giovani studenti universitari, ma anche bambini, casalinghe, lavoratori, abitanti delle palazzine circostanti scesi a curiosare, anziani, migliaia di persone  che si erano date appuntamento per ascoltare il comizio dei promotori del Consejo Nacional de Huelga (Comitato Nazionale dello Sciopero) che parlava dal terzo piano dell’edificio Chihuahua.
 
All’improvviso un bagliore alto in cielo, le luci di alcuni bengala. Un segnale. Lo si capì dopo, soltanto dopo. E fu una pioggia di proiettili, infinita, implacabile. 29 minuti di orrore. 5mila soldati armati di mitragliatrici per 29 minuti contro 10mila persone inermi chiuse in una piazza che sembra un’arena.
 
Dopo 40 anni ancora non si conosce con esattezza il numero dei morti né quello delle persone scomparse quel giorno.
La sentenza del tribunale ha accertato che nonostante sia  vero che  il 2 ottobre 1968 fu compiuto un genocidio  e che tale delitto non è prescrivibile essendo un crimine contro l’umanità,  ha però confermato un verdetto del 2007 con il quale di fatto viene sollevato dalle sue responsabilità l’ex presidente Luis Echeverría Álvarez che all’epoca dei fatti ricopriva la carica di segretario del governo del presidente Gustavo Díaz Ordaz.
 
Luis Echeverría che  si trovava agli arresti domiciliari dal 2006,  in seguito a tale sentenza è adesso un uomo libero e innocente, nonostante in Messico pochi siano convinti della sua estraneità al massacro.
 
Quella di Tlatelolco non è la prima accusa di genocidio per l’ex presidente. E non è la prima dalla quale viene prosciolto. Era già accaduto con la strage detta del Corpus Domini o del halconhazo dal nome degli halcones, (falchi),  gli agenti speciali della polizia al suo servizio quando ricopriva la carica di presidente della Repubblica (dal 1970 al 1976),  che massacrarono decine di studenti mentre manifestavano il 10 giugno del 1971.
 
Alcune associazioni tra le quali il Comité 68, Eureka, e H.I.J.O.S. México, che raggruppano i familiari dei desaparecidos del movimento studentesco e della guerra sucia degli anni ’70 hanno organizzato qualche giorno dopo la sentenza, il 1 aprile scorso, un escrache, (lett. uno sputtanamento) come si definisce in Messico (ma anche in Argentina) la protesta pubblica  solitamente agita sotto l’abitazione o il luogo di lavoro della persona che si vuole denunciare.
 
Hanno circondato la casa dell’ ex presidente Echeverría con cartelli recanti le scritte “Genocida libero” e “Luis Echeverría il popolo ti condanna” e lanciato uova e pomodori contro il suo portone. Nelle vie circostanti altri cartelli con la fotografia di Echeverría  avvisavano i passanti e i residenti che in quella zona  risiede un genocida.
 
Era presente all’iniziativa anche Lucía Morett, l’unica sopravvissuta al massacro compiuto  a Sucumbíos (Ecuador) dall’esercito colombiano, dove sono morti 4 suoi connazionali oltre a una ventina di guerriglieri   e al numero due delle FARC Raúl Reyes. Ha ricordato che,  come Echeverría, anche Álvaro Uribe è un genocida e un terrorista di stato.
Le associazioni che hanno organizzato la protesta hanno anche  annunciato che nei  prossimi giorni presenteranno  ricorso ai tribunali internazionali.  

In Perú intellettuali e poeti protestano contro la firma del TLC con il Cile

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Le poetesse Patricia del Valle (sin), Rosina Valcárcel (centro) e Marcela Pérez Silva (destra) lavando la bandiera del Perú

Un sondaggio realizzato in Perú  dall’agenzia  Ipsos Apoyo rivela che il 42% delle circa mille persone intervistate da questa  agenzia in tutto il paese sono contrarie al Trattato di Libero Commercio  che il presidente Alan García ha recentemente firmato con il Cile e che è operativo ormai dal 1 marzo scorso.
 
La protesta è condotta  dal Partido Nacionalista guidato  dall’ex candidato presidenziale,  Ollanta Humala, che ha minacciato battaglia legale  contro il TLC in virtù del fatto che l’accordo è stato firmato senza la ratifica del Congresso. Inoltre il Partido Nacionalista considera prioritaria la definizione della disputa sui confini marittimi e terrestri con il Cile, attualmente in discussione al  tribunale internazionale dell’Aja.
 
Altri tipi di proteste e manifestazioni si sono realizzate spontaneamente in tutto il paese, come quella organizzata a Lima da alcuni amici, un gruppo di circa 30 poeti ed intellettuali,   tra i quali Rosina Válcarcel, Patricia Del Valle, Ana Maria Intili e Winston Orrillo,che  hanno organizzato il 22 marzo scorso  una singolare forma di protesta:  lavando simbolicamente la bandiera del loro paese  nella Plaza San Martín a circa 500 metri dal palazzo del governo, hanno tenuto a sottolineare  come l’accordo con il Cile sia “lesivo degli interessi nazionali”, come ha precisato   lo scrittore Winston Orrillo, docente di giornalismo dell’Universidad Nacional Mayor de San Marcos.
 
 
P.S.
Va sottolineato che alcune di queste persone, impegnate da tempo anche nella campagna per il trasferimento di Victor Polay Campos, leader del MRTA, in un carcere civile (è detenuto ormai da 17 anni nella Base Navale del Callao) e per il loro impegno in difesa dei diritti umani stanno ricevendo via mail  da settimane ormai,  minacce e insulti provocatori.
Victor Polay Campos deve scontare ancora 18 anni di carcere,essendo stato condannato dalla Corte Suprema a una pena di 35 anni. Chi volesse firmare la petizione per il trasferimento di Victor Polay Campos a un carcere  civile può farlo inviando una mail a:
comiteprolibertadvictorpolayathotmaildotcom  (comiteprolibertadvictorpolayathotmaildotcom)  
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I poeti Winston Orrillo (sin) e Germán Carnero Roqué (destra) lavando simbolicamente la bandiera del Perú


26 marzo: Giornata Internazionale della Resistenza Armata

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Si sono conclusi in Venezuela, a Caracas,  il  26 marzo,  dichiarata “Giornata  Internazionale della Resistenza Armata”,   gli incontri della  Scuola Continentale di Formazione  Marxista “Manuel Marulanda”, organizzati dalla Coordinadora Continental Bolivariana (CCB).
 
Come è noto  la Coordinadora Continental Bolivariana, (in via di trasformazione in Movimiento Continental Bolivariano), è un coordinamento latinoamericano che,  solidale con le lotte di liberazione delle popolazioni oppresse e vicino  ai movimenti sociali, organizzazioni contadine, indigene e sindacali della regione, non ha mai discriminato forme diverse di lotta, a partire da quella armata. Semplicemente,  in alcune particolari condizioni di sfruttamento e oppressione si considera che questa sia un diritto inalienabile dei popoli, una “risposta possibile a pressioni sociali ricorrenti e ingiuste” come ha dichiarato lo scrittore e analista politico messicano Carlos Montemayor in questa intervista rilasciata qualche mese fa a chi scrive.
 
La scuola Continentale di Formazione Marxista  Manuel Marulanda vuole essere uno spazio permanente e  un momento importante di formazione per quadri di base e quindi per tutti quei rappresentanti sindacali, contadini, difensori dei diritti umani  o semplici militanti affinché possano operare e attuare richieste e trasformazioni nella società consapevoli del loro ruolo e della loro missione. Partire dallo studio dei classici del marxismo e delle esperienze rivoluzionarie internazionali,  può essere un momento importante di riflessione in questo periodo di crisi del capitalismo e del neoliberismo, ma soprattutto deve essere uno strumento valido per coloro che hanno deciso di fare della politica e della propria militanza un’opportunità per tutta  la collettività.
 
I lavori e gli incontri della scuola sono stati inaugurati  il 20 marzo scorso  dall’intellettuale  marxista argentino Nestor Kohan con una conferenza sul tema “Materialismo, Dialettica, e Filosofia  della Prassi”. (Qui una sua intervista in italiano rilasciata alla agenzia ABP)
 
Carlos Casanueva Troncoso, segretario generale della CCB e dirigente del Partito Comunista del Cile, introducendo i lavori ha salutato la vittoria del FMLN nelle ultime elezioni presidenziali in El Salvador e  ha dichiarato che nonostante fosse prevista ai seminari una partecipazione di circa  60 persone,  le presenze registrate sono state ben superiori alle 250.
 
Sono intervenuti apportando contributi importanti nonché la loro  personale esperienza di militanti e rivoluzionari, oltre ad Amilcar Figueroa del Parlatino, Paul del Río, presidente del Cuartel San Carlos, Narciso Isa Conde della presidenza collettiva  della CCB, anche numerosi delegati e rappresentanti del Partito Comunista del Venezuela, mentre Iñaki Gil de San Vicente de Heuskal Herria, della presidenza collettiva della CCB, non potendo essere presente per motivi di salute al seminario,   ha inviato la sua esposizione sul tema: Marx e tutte le forme di lotta, la violenza e l’aspetto militare in Marx.
 
Le attività della scuola e gli incontri non potevano non essere caratterizzati da un forte appoggio solidario con la lotta dell’insorgenza colombiana delle FARC  e grande enfasi è stata data alla figura del leader guerrigliero colombiano deceduto proprio il 26 marzo dell’anno scorso, Manuel Marulanda, alias Tirofijo.
 
Lo stesso tema della vigenza della lotta armata e della sua legittimità, che accesi dibattiti e opinioni controverse suscita anche nel nostro continente, è stato indubbiamente centrale a quasi tutti i seminari ed è stato l’argomento principale del foro conclusivo sulla “combinazione di tutte le forme di lotta e la violenza in Carlo Marx”  tenutosi simbolicamente nel Cuartel San Carlos, centro di detenzione e tortura soprattutto negli anni ’70 ma in uso fino a tutto il 1994 (vi fu rinchiuso nel 1992 anche Hugo Chávez).
 
Gli incontri si sono conclusi con un corteo autorizzato dal municipio Libertador verso la piazza Marulanda dove un busto del guerrigliero è stato inaugurato lo scorso mese di ottobre.
 
Al riguardo ha segnalato Narciso Isa Conde che questa commemorazione è stata possibile nell’ambito dello spazio dell’autonomia di alcune organizzazioni del potere popolare e che “una cosa sono le relazioni tra gli stati e un’altra l’esercizio del diritto dei popoli all’interno di tali stati”.
 
Percorsi diversi caratterizzano il Venezuela di oggi, sempre sospeso tra passato e presente ma sempre più deciso a partire dalla base, in un percorso che trova riscontro anche nelle istituzioni,  a ridare dignità al popolo. Perchè no? Partendo anche da quei simboli che nel bene o nel male hanno segnato la cultura di una intera regione.
E così mentre si accoglie una scuola di pensiero marxista che legittimi il diritto dei popoli all’insorgenza (diritto riconosciuto come inalienabile in altre diverse situazioni geopolitiche) o si innalzano busti a Manuel Marulanda o a Che Guevara o a  Emiliano Zapata, viene rimossa la statua di Cristoforo Colombo dal parco del “Calvario”.
 
E non si tratta di “riscrivere” la storia come la miopia tutta eurocentrica di Rocco Cotroneo vorrebbe far credere ai lettori del Corriere della Sera, ma semplicemente  di restituire centralità alla consapevolezza della realtà storica latinoamericana   e quindi di viverla  finalmente da protagonisti e non da soggiogati, in un percorso che vuole essere più sociale che storico, più culturale che politico.
 
Non si tratta di un “richiamo alle origini indigene del Venezuela, evidente nei tratti somatici del suo comandante” come sottolinea il Cotroneo con una punta di razzismo, ma della rivalutazione delle figure eroiche continentali che fino a questo momento sono state oscurate e nascoste dall’iconografia occidentale dominante.
 
E se finalmente il 12 ottobre legittimamente potrà essere  chiamata “Giornata della resistenza indigena”, allora salutiamo con la simpatia che nutriamo da sempre per tutti i popoli oppressi, il 26 marzo “Giornata Internazionale della Resistenza Armata”. 
 

El caso Lage — Perez Roque y los cambios en Cuba

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Lage-Roque

Propongo questo articolo, scritto da un intellettuale e una persona che stimo moltissimo, sperando che possa scaturirne un dibattito sereno.(AM)
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El caso Lage — Perez Roque y los cambios en Cuba      
 
Escrito por Narciso Isa Conde   
miércoles, 11 de marzo de 2009
Fonte: CCB
La desinformación definitivamente no ayuda, como no ayuda el contenido común de las cartas publicadas, ambas estructuradas sobre un mismo y escueto patrón.
 
Esta forma de presentar el problema más bien siembra confusión, desata especulaciones, reitera un mal histórico dentro del denominado “socialismo de Estado”: el secretismo en el ejercer de funciones públicas y políticas que deben serejercida abiertamente, de cara al pueblo y a sus organizaciones políticas y sociales, frente a la base del partido y ante toda la sociedad a la que estos funcionarios y dirigentes políticos están en el deber de rendir cuentas.
 
En estos días me enviaron desde Cuba esta nota informativa:
 
“La Habana, 05/3/2009. RPA. El diario Juventud Rebelde publica hoy las cartas renuncias del Vicepresidente del Consejo de Estado y miembro del Buró Político del Partido Comunista de Cuba (BP PCC), Carlos Lage Dávila, y del destituido ministro de Relaciones Exteriores, Felipe Pérez Roque. En las cartas, breves, ambos ex-hombres importantes del gobierno y del estado cubano, reconocen sus errores, no especificados, y ratifican su lealtad a la Revolución, el Partido y a Fidel y Raúl Castro.”
 
“Lage renuncia a su condición de Vicepresidente del Consejo de Estado, a miembro del Buró Político y a su condición de Diputado en el Parlamento.
Por su parte, Pérez Roque renuncia a su condición de integrante del Comité Central del Partido Comunista de Cuba y a la de Diputado al parlamento.
En las cartas, fechadas el pasado día 3 de marzo, los ex–dirigentes dicen aceptar las conclusiones del análisis realizado por el Buró Político, pero hasta el momento dicho análisis no es del dominio público. Solamente el ex-presidente Fidel Castro en una reflexión publicada hace dos días (ver Radar Cubano) usó de una categoría moral (indignidad) como básica para la remoción de estos dos funcionarios y dirigentes; si bien el aspecto moral es esencial en todo funcionario público y/o político, buena parte de la ciudadanía, que no duda de las aseveraciones de Fidel Castro, se pregunta hasta dónde llegaron en su conducta moral. Otros ciudadanos estiman que además debía hacerse pública la valoración de su proceder en el ámbito político-administrativo.”
 
Un análisis y unos errores desconocidos por silenciados
 
Porque me siento parte de la revolución cubana, porque me duelen sus problemas y me alegran sus éxitos, porque su destino impacta sensiblemente el proceso hacia la nueva independencia, la nueva democracia y el tránsito al nuevo socialismo en nuestra América, me parece importante el debate sobre estos hechos relacionados con el presente y el futuro de esa revolución pionera.
 
A mi particularmente, abordado periódicamente y sistemáticamente por los medios de comunicación de mi país sobre los hechos que acontecen en Cuba, me resulta imposible evadir y guardar silencio sobre lo que aprecio y pienso sobre estos nuevos acontecimientos. Además, siempre hay lecciones y valoraciones útiles en situaciones como la comentada.
 
Concuerdo con le criterio que favorece conocer el análisis y los motivos que condujeron a calificar de “indignos” y “ambiciosos” y a sancionar, nada más y nada menos por el propio Fidel, a estas dos destacadas figuras de la llamada “segunda camada” o “segunda generación” de dirigentes revolucionarios cubanos.
 
Sobre ambos Fidel y los dirigentes históricos de la revolución cubana habían depositado una gran confianza, entendiendo que su edad y sus cualidades políticas, ideológicas y profesionales le daban frescura al proceso..
 
De ahí primero el impacto de las medidas administrativas anunciadas por el Consejo de Estado, luego de las descalificaciones morales planteadas por Fidel (quien nunca se a arriesgado a hacer una acusación moral sin fundamentos serios y hechos demostrables) y finalmente del contenido de sus respectivas cartas renunciando a todos los cargos electivos en el partido y en el Estado, admitiendo errores y expresando lealtad y fidelidad a la revolución y a sus máximas figuras: Fidel y Raúl.
 
Pero lo común –y un tanto desconcertante– ha sido que en esos tres momentos ni el Presidente Raúl Castro, ni el Consejo de Estado, ni el Buró Político del Partido, ni el Comité Central, ni Fidel, han dado a conocer en que consistieron los “errores” de Lage y Pérez Roque, cuales fueron sus faltas morales, que los hace indignos y en qué consistieron sus ambiciones. Y no creo que sea imposible decir lo esencial sin afectar zonas de seguridad, siempre con el interés de que la sociedad quede bienedificada y pueda sacar las lecciones correspondientes y sugerir correcciones.
 
El secretismo en estos casos no ayuda
 
La desinformación definitivamente no ayuda, como no ayuda el contenido común de las cartas publicadas, ambas estructuradas sobre un mismo y escueto patrón.
 
Esta forma de presentar el problema más bien siembra confusión, desata especulaciones, reitera un mal histórico dentro del denominado “socialismo de Estado”: el secretismo en el ejercer de funciones públicas y políticas que deben serejercida abiertamente, de cara al pueblo y a sus organizaciones políticas y sociales, frente a la base del partido y ante toda la sociedad a la que estos funcionarios y dirigentes políticos están en el deber de rendir cuentas.
 
Además, el secretismo impide en general apreciar la real magnitud de los errores, hasta donde fueron exclusivos e individuales y hasta donde no; hasta donde el análisis fue justo, las correcciones adecuadas y la crítica y la autocrítica acertadas; hasta donde llegan las responsabilidades individuales y hasta donde las colectivas; si hubo o no métodos y estilos de trabajo tradicionales, usos y costumbres –o situaciones estructurales– que pudieron servirles de caldo de cultivo a esos errores individuales;hasta donde esos errores fueron tolerados hasta convertirse en algo graves mientras no se habían generado determinadas tensiones políticas, y hasta donde hubo o no factores extras que provocaron ese desenlace.
 
Y lo que peor es que de esa forma es imposible conocer si hubo o no un examen del caso que posibilite una aproximación a determinar las causas, el porqué o los porqués de la generación periódica de ese tipo de errores y de situaciones, así como la razón o razones que determinan que dirigentes de ese calibre incurran en errores tan graves como para ser calificados de indignos y entonces asumir más allá de las sanciones institucionales una serie de renuncias, declarando a la vez su fidelidad a la revolución, a Fidel y a Raúl, aceptando errores no identificados y se auto-sancionándose más allá de lo anunciado a través de sendas cartas que evidentemente responden a un mismo patrón y que realmente no explican nada.
 
La reiteración de casos parecidos
 
El paso brusco de la gracia total a la desgracia total inexplicada es además de evidentemente defectuoso, realmente confuso y desconcertante. Pero resulta además que ese tipo de situaciones, con motivos, formas y sanciones distintas, es bastante repetitiva.
 
Ahora me llegan a la mente aquellas palabras de la doctora Tablada, prestigiosa profesional revolucionaria, cuando desde su condición de miembra del Consejo de Estado de Cuba, en ocasión del proceso contra el general Ochoa (héroe internacionalista de la campaña africana), planteó –sin objetar la sanción necesaria a los graves delitos cometidos por él– la necesidad de indagar en las causas estructurales que generaban la corrupción, al tiempo devaticinar que si eso no se abordaba como era debido, de seguro se iban a presentar nuevos casos. Y así ha sido.
 
Recuerdo, entre ellos, los casos posteriores de Carlos Aldana y del ex-canciller Roberto Robaina, comprobación de la certeza de esa sincera preocupación, entonces no escuchada; esto si nos atenemos estrictamente a los motivos oficiales que se alegaron para la sanción y exclusión total de esos dos altos dirigentes. Y hay otros casos parecidos, entre ellos el de Luis Orlando Domínguez, quien después de haber sido un Primer Secretario de la Unión de Jóvenes Comunistas (UJC) desempeñó el cargo de director del Instituto de Aeronaútica Civil de Cuba (IACC), donde estalló bajo su responsabilidad un grave escándalo de corrupción
 
En verdad situaciones de ese tipo, e incluso mucho más cuestionables, se presentanban periódicamente a lo largo de la historia de los modelos estatistas –burocráticos en el llamado socialismo euro-oriental y también en el asiático; en unos casos con formas más bárbaras y grotescas que en otros, y también con desenlaces trágicos y comisiones de graves injusticias, que felizmente no se han dado en el curso de la revolución cubana por los principios morales y la aversión al crimen que han animado a los líderes del proceso.
 
Esto de todas maneras nos remite a la cuestión estructural, a las características esenciales del modelo cubano, aun con todo lo atenuadas que puedanhaberse desarrollado sus aristas y esencias negativas, generadoras de corrupción, sistemas de privilegios, centralización extrema, intolerancia y negación de democracia integral y participativa.
 
Las ideas preeminentes en el pensamiento revolucionario y en los grandes referentes socialistas del siglo XX, la bi-polarización y la guerra fría, el trasplante deformador y dogmatizante del modelo soviético en una significativa dimensión del sistema cubano y, en consecuencia, la progresiva, contradictoria y tortuosa evolución del proceso cubano hacia el predominio de un estatismo-burocrático todavía no superado, es lo que puede explicar estas lamentables situaciones.
 
No se trata de casos aislados o debilidades personales. Es a todas luces un problema sistémico–estructural, que genera censuras y autocensuras e islas de poder que encumbren y posibilitan la acumulación de los males; que facilita formas de hacer políticas y métodos verticales de dirección, con ausencia de control social, poderes superpuestos a las bases de la sociedad, superestructuras y organismos incontrolables desde el pueblo y vulnerables a los excesos y a la repotenciación del patrimonialismo y del paternalismo estatal.
 
Por razones históricas, familiares, de formación, unos cuadros pueden tener una ética y una moral revolucionaria más recia y resistente que otros; pero de todas maneras el “ambiente” permea y contamina a no pocos y en amplias franjas de la sociedad, y los males acumulados en las alturas generalmente rodeado de un gran hermetismo tienden en algunos casos a estallar en función de la gravitación de ciertas diferencias políticas o de problemas adicionales de otra índole.
 
Crisis, cambios, vías y opciones
 
Cuba vive hoy una fase que exige cambios. El modelo estatista se estancó y se está agotando. Lo central ahora debería ser la discusión sin restricciones del nuevo rumbo a seguir.
 
Creo que de más en más la contradicción de más valor cualitativo es si se da el viraje en función de reformas económicas parecidas o inspiradas en las que se han dado en China (que a mi modo de ver, hasta el momento y tal y como se publicita, ha sido unreferente exitoso y atrayente que conduce a modelos antidemocráticos, combinación de capitalismo Estado con cierta vocación social y de capitalismo privado transnacionalizado con muchas desigualdades y sobre-explotación y demasiada corrupción), o si se asume el camino de socialización progresiva y diversa de lo estatal y la democratización del sistema político hacia una democracia basada en el poder popular, participativa e integral; esto es hacia un nuevo socialismo (que a mi entender es la opción paraprofundizar la revolución anticapitalista y anti-imperialista).
 
Es la disyuntiva entre la llamada “vía china” o “vietnamita”, adecuada a la realidad cubana (que conduce a la paulatina restauración o desarrollo capitalista con las características ya descritas), y el tránsito hacia el socialismo autogestionado, cooperativista, democrático y participativo (con variadas formas de propiedad social, sin descartar cierto grado de propiedad privada y mixtas subordinadas a la socialización progresiva, con democracia directa, participación y representación socialmente controlada).
 
Ambas vías implican superar el inmovilismo o estancamiento y evitar un eventual colapso del modelo en crisis; colapso que podría llevar a una tercera opción, la más o¬nerosa de todas: a la contra-revolución imperialista, al intento de restauración violenta y brusca del capitalismo, a la anexión de Cuba a los EEUU y al imperialismo occidental; sin descartar en ese contexto la guerra civil con resultados no previsibles.
 
Al tema del modelo agotado se agrega el serio problema generacional que afecta, debido al envejecimiento de la generación histórica y al distanciamiento político de una gran parte de la juventud por serios en esa dirección. La exclusión de dirigentes de la “camada intermedia” y de otros más jóvenes con cierto impactoen las nuevas generaciones, junto al peso excesivo en primera línea de los históricos afecta el tema y refuerza imágenes negativas. Recientemente, también, fueron sustituidos dos cuadros relativamente jóvenes y muy capaces: Elíades Acosta (del Departamento de Cultura del CC del PCC) y Marta Loma (Ministra de Inversiones y Colaboración), ésta última sustituida por Malmierca jr., que ahora asume la fusión de ese organismo con el Mincex, del cual quitaron a otro relativamente joven (de la Nuez).
 
No desprecio en absoluto la importancia de la experiencia en la política de cuadros, tampoco los valores positivos de las reestructuraciones del modelo estatista, las compactaciones, modernizaciones, separación de funciones y los nuevos métodos anunciados recientemente por el gobierno del comandante Raúl Castro; como tampoco la búsqueda de mejores modelos gerenciales, algunos de ellos ensayados con éxitos relativos por las propias Fuerzas Armadas Revolucionarias de Cuba.
 
Pero lo entiendo esas reestructuraciones muy insuficientes y a la vez compatibles con las dos vías apuntadas en el debate: la neo-china y la neo-socialista. Como también entiendo que existe en fuerte desequilibrio generacional en el desempeño de las funciones públicas y políticas en detrimento de la juventud y sus grandes valores creativos en la Cuba de hoy
 
Esas reestructuración del Estado es una cuestión importante, pero sin posibilidad alguna por sí sola de superar la crisis estructural delmodelo vigente, la cual exige definiciones de otro orden en cuanto al remonte de las relaciones de producción y distribución y servicios basadas en la propiedad estatal y el trabajo asalariado, en cuanto a la superación de la gestión burocrática, en cuanto al nuevo patrón tecno-científico del sistema, en cuanto a la inserción internacional de Cuba, en cuanto al rescate y renovación de los valores culturales y éticos del socialismo, en cuanto a los cambios en el sistema político, sus bases constitucionales del país y sus instituciones en todo lo que se refiera a democracia social, política, racial, de género, de generaciones y cultura.
 
De todo esto se ha estado hablando bastante y habrá que seguir insistiendo, proponiendo y recreando: cambio de modelo dentro de una orientación socialista, democratización socialista, relevo y equilibrio generacional y posicionamiento en el tema de la revolución y la integración continental, son desafíos actuales ineludibles para la revolución cubana de hoy. De lo contrario el camino habrá de ser tormentoso y los males se seguirán acumulando; mientras que la adopción de la llamada “vía china”, si bien puede evitar el derrumbe, equivale a una especie de Termidor cubano, al freno a la revolución desde adentro, a su reversión hacia modalidades capitalista asentadas y al cierre de la vía socialista.
 
Mas allá del caso Lage-Pérez Roque, los cambios ejecutados apuntan en dirección a una mayor hegemonía del equipo de gobierno del comandante Raúl Castro y de su visión a corto y mediano plazo, lo cual todavía no se ha desplegado como para ser evaluada, aunque es apreciable que no está muy inclinada ni hacia la socialización acelerada de lo estatal ni hacia la democracia participativa e integral, sino hacia otro tipo de reformas más asimilables por las elites políticas, burocráticas y tecnocráticas, y al parecer, aunque no inexorablemente, más próxima al referente chino– vietnamita.
 
De todas maneras no está predeterminado con claridad el nuevo rumbo, mucho menos desplegado su programa a ejecutar. Tampoco, debido a esos déficits, son tan previsibles el tipo y la intensidad de las contradicciones, consensos y disensos que habrá de provocar.
 
Lo importante ahora es debatir con altura, sin exclusiones ni intolerancia, las alternativas a decidir,procurando abrirle cada vez más espacio a la PARTICIPACIÓN Y A LA CREACIÓN HEROICA DEL PUEBLO.
 
 
7 de marzo 2009, Santo Domingo, RD
 

Colombia: cosa sono i falsi positivi

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(Clicca sull’ immagine per ascoltare  la registrazione della clip realizzata da Guido Piccoli sullo scandalo dei falsi positivi)

Ascolta la registrazione dell’intervista a Guido Piccoli realizzata da Radio Onda Rossa l’11 marzo 2009

E LO STATO DIVENNE IL VERO TERRORISTA
Colombia DEI FANTASMI
  
di Guido Piccoli
Fonte: Il Manifesto 
Scoppia lo scandalo dei «falsi positivi»: l’esercito uccide innocenti e li veste da guerriglieri.
Per soldi, mostrine, licenze. Rimossi 27 ufficiali. Ma il capo, il generale Montoya, viene promosso ambasciatore
Quando si parla di terrorismo in Colombia si è indotti a pensare alla guerriglia, anzi alla «narcoguerriglia, com’è definita dalla gran parte della stampa. Paragonati non solo ai gruppi paramilitari ma anche all’esercito, però, i ribelli appaiono degli angioletti. Anche quelli delle Farc, nonostante i crimini e i frequenti «errori» nelle loro attività (che vanno dai sequestri di civili agli omicidi di persone non combattenti, per arrivare all’uso delle mine antipersona e delle bombole a gas trasformate artigianalmente in ordigni). Non si tratta di assolvere il male col peggio, ma di raccontare la realtà per quella che è, squarciando il velo di falsità e ipocrisia che nasconde il maggiore protagonista del terrorismo nel paese: cioè lo stato, con gli agenti legali e quelli clandestini.
Le dittature latinoamericane dei decenni scorsi, poco importa se con giunte infarcite di militari o civili, crearono macchine di morte capaci di crimini su larga scala e fino ad allora sconosciuti come le cosiddette «sparizioni forzate». Ma quelle erano dittature e combattevano le «guerre di bassa intensità», proclamate dagli Usa di John F. Kennedy. Ma lo scandalo detto dei «falsi positivi», che dopo anni di denunce affiora finalmente anche fuori dai confini colombiani è ben più ignobile. Perché realizzato da una presunta democrazia e perché manca di una qualunque giustificazione ideologica.
Per falsi positivi s’intendono le montature organizzate dai militari per prendersi meriti rispetto al potere politico e, al loro interno, con i superiori. Negli anni 90, erano soprattutto attentati da attribuire alle Farc o a Pablo Escobar, quando questi cominciò a perdere potere e amici potenti: una strategia della tensione alla colombiana che aveva pur sempre un fine politico. Poi si cominciarono ad ammazzare degli sconosciuti, presi a caso nella campagne e costretti ad indossare tute mimetiche prima di essere uccisi. «Mi arrivavano denunce, che trasmettevo regolarmente a Washington, di cadaveri insanguinati dentro uniformi che non avevano un solo foro. Non occorreva essere Einstein per capire» ha ammesso pochi giorni fa al New Herald Myles Frechette, ambasciatore statunitense a Bogotà dal 1994 al 1997.
La pratica assassina, passata inosservata fin quando ad essere ammazzati erano umili contadini, emerse nel novembre 2005 quando nella regione di Cordoba un plotone della XI° brigata uccise e presentò paradossalmente come guerrigliero il fratello latifondista di Eleonora Pineda, senatrice filo-Auc e amica di Uribe (e attualmente detenuta per paramilitarismo). Tutti i delitti, compreso questo ultimo, rimasero impuniti grazie al gioco di squadra delle più alte cariche dello stato: del presidente Uribe e del ministro della difesa Juan Manuel Santos fino ai comandanti militari e ai diversi giudici, intimoriti o complici, che usavano ogni cavillo per insabbiare indagini e processi. La paura costringeva al silenzio i familiari delle vittime. L’impunità indusse gli assassini ad organizzare un vero e proprio commercio d’innocenti, spesso sequestrati con l’inganno anche nelle periferie delle grandi città, trasportati nelle regioni di conflitto del paese e ammazzati senza pietà.
Nel settembre scorso lo scandalo dei «falsi positivi» scoppiò a Soacha, un quartiere meridionale di Bogotà, grazie al coraggio di un funzionario comunale e alla disperazione dei parenti di una ventina di ragazzi denunciati come desaparecidos e ritrovati (alcuni già il giorno dopo) cadaveri nell’obitorio di Ocaña, una cittadina nord-orientale distante 500 chilometri dalla capitale, e presentati dalla locale brigata come sovversivi «caduti in combattimento». Poprio ad Ocaña, mesi prima, un sergente aveva denunciato che nel suo battaglione i soldati erano premiati con cinque giorni di licenza per ogni nemico ucciso: venne espulso dall’esercito. Dopo Soacha si conobbero casi simili in tutto il paese. Inizialmente Uribe e i suoi uomini negarono ogni responsabilità dell’esercito. «Dicono che da qualche parte ci sono settori delle nostre forze armate che misurano i loro successi con i cadaveri, stento a credere che sia vero» disse il ministro della difesa Juan Manuel Santos. In realtà, il body counting era il logico effetto delle pressanti richieste fatte da Uribe ai vertici delle forze armate di mostrare risultati nella loro guerra alla sovversione. Per qualche giorno Uribe continuò a difendere l’esercito, arrivando ad insultare le vittime: «Se sono finiti in quella regione non è certo per raccogliere caffè», disse due giorni prima di cambiare sorprendentemente atteggiamento, ammettendo l’esistenza nella truppa di qualche pecora nera. A fine ottobre il gran colpo ad effetto della rimozione di tre generali e una ventina di altri ufficiali e sottufficiali, coinvolti nel massacro. E, per ultimo, le dimissioni forzate del comandante in capo dell’esercito Mario Montoya, il generale che Ingrid Betancourt abbracciò appena libera. La stampa parlò di depurazione e gran repulisti. In realtà nessuno degli implicati è finito in galera. Al massimo qualcuno ha dovuto cambiare lavoro passando, come tanti paramilitari smobilitati, al soldo delle potenti compagnie di sicurezza private. Montoya, che già annoverava un bel passato criminale (come organizzatore degli squadroni della morte e collaboratore delle bande paramilitari), è stato premiato da Uribe con la nomina ad ambasciatore a Santo Domingo.
E’ molto probabile che anche questo scandalo rimanga quindi impunito, grazie all’efficace copione di sempre, diviso in tre capitoli. Finchè si può, si negano le denunce dei familiari delle vittime o degli organismi di difesa dei diritti umani e si giura sull’onore dei militari (e nel mentre magari si assoldano sicari per far tacere i testimoni più testardi). Poi si finge di sacrificare qualche pecora nera o si fabbrica un capro espiatorio. Alla fine, spenti i riflettori, si salvano le pecore nere (quando non si premiano senza pudore, come nel caso di Montoya) o, nei casi estremi, si eliminano, pur di perpetuare un sistema di potere mafioso e assassino spacciato per democratico.
«Ma quale democrazia? Ti sequestrano, t’ammazzano e ti danno il colpo di grazia» urlavano nella manifestazione del 6 marzo scorso i parenti dei ragazzi uccisi in nome della «sicurezza democratica» di Uribe. La speranza di ottenere giustizia per questa carneficina punendo anche i suoi responsabili maggiori, come Uribe e Santos, risiede lontano dalle aule giudiziarie colombiane, nel rigore della Corte penale internazionale e, ovviamente, nella valutazione politica degli Usa, i veri sovrani della Colombia. Non si sa dove sia meglio, o peggio, riposta.

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