Entrevista a Pablo Romo sobre la mediación entre el EPR y el gobierno de México
Simone Bruno: Álvaro Uribe e i testimoni scomodi
Le rivelazioni sono state rese note martedì scorso da un iracondo presidente Alvar Uribe de Velez sull’ uscio della casa di Alan Jara, ex governatore della regione del Meta, rilasciato quello stesso giorno dalle Farc.
Lo scontro con la stampa è cominciato durante la liberazione dei primi quattro sequestrati la scorsa domenica. In quell’occasione, tra i membri della commissione umanitaria c’era Jorge Enrique Botero, noto giornalista colombiano, colui che con un libro sui sequestrati parlò per primo delle condizioni disumane in cui erano tenuti i prigionieri delle Farc e che per primo rivelò l’esistenza del piccolo Emmanuel, nato durante il sequestro di sua madre Clara Rojas.
Botero fa parte di «Colombianas y colombianos por la paz» un’organizzazione di attivisti, intellettuali, giornalisti e gente comune che ora conta circa 130 mila persone e che ha ottenuto questa liberazione unilaterale dalle Farc dopo uno scambio epistolare lungo sei mesi.
Davvero una buona notizia per il paese, un primo passo verso il risveglio di una società civile assopita nelle città e che ignora la violenza che sconvolge la vita dei propri connazionali nelle zone rurali dove si concentra il conflitto.
Botero, in un collegamento in diretta con Telesur, la catena televisiva, con aspirazioni continentali e sede a Caracas aveva denunciato la presenza di aerei militari colombiani che sorvolavano la zona del rilascio, nonostante l’impegno del governo a sospendere ogni operazione militare per facilitare questa serie di operazioni umanitarie.
Secondo il governo, l’errore di Botero era quello di aver svolto il ruolo da giornalista, quando in quel momento sarebbe dovuto essere solo un garante, per di più aveva intervistato in diretta il comandante guerrigliero incaricato di scortare gli ostaggi fino agli elicotteri messi a disposizione dal governo brasiliano.
La reazione del governo per bocca di Juan Manuel Santos, ministro della difesa con aspirazioni presidenziali, è stata immediata e furente: «Il signor Botero si presta al gioco pubblicitario del terrorismo», è stato solo uno dei commenti piovuti domenica scorsa. Gli aerei erano certo lì, ma oltre i 20 mila metri che, secondo il governo, erano stati pattuiti e in ogni casi sono stati allontanati appena la Corce Rossa internazionale lo ha richiesto.
Lo stesso giorno, Hollman Morris, il giornalista colombiano più conosciuto e premiato all’estero [premio defender di Human rights watch, premio Canadian journalist for free expression, vari riconoscimenti di Reporter senza frontiere, premio Nuevo Periodismo 2007 e l’italianissimo premio Ciriello tra gli altri] era sul luogo del rilascio dei sequestrati per conto di Radio Francia International [Rfi], dopo aver passato vari giorni nella selva colombiana alla ricerca di un’intervista con un alto esponente della guerriglia.
Durante il ritorno verso la città di Florencia, Hollamn e il suo cameraman sono stati fermati dall’esercito con l’intento di sequestrare il materiale giornalistico. In seguito membri della Dijin, la polizia giudiziaria colombiana hanno schedato e fotografato i giornalisti per ragioni sconosciute e solo dopo molte ore e l’intervento di diverse organizzazioni per la difesa dei diritti umani sono stati rilasciati.
Il mattino seguente l’ira del governo si è abbattuta anche su Hollman, accusato di due cose. La prima di aver estorto interviste ai sequestrati minacciati dai guerriglieri e indotti a rispondere secondo i loro ordini, la seconda di essere scappato alla scorta incaricata di proteggerlo. La Corte interamericana dei diritti umani obbliga infatti lo stato colombiano a proteggere Hollman sin da quando ha subito gravi minacce di morte nel 2006 a seguito di una segnalazione del presidente Uribe. Anche in quell’occasione il presidente lo accusò di aver legami con la guerriglia, a causa di un lavoro svolto durante un attacco guerrigliero insieme alla Bbc di Londra. Poco dopo il presidente fu costretto a chiedere scusa pubblicamente.
Il governo fa finta di ignorare una sentenza della Corte costituzionale colombiana del 2008 che riconosce che se la persona sotto protezione è un giornalista, che vuole comunque continuare le sue indagini, allora la protezione non può intaccare la sua libertà di espressione e richiede quindi di accorgimenti particolari: «In particolare è ovvio che i comunicatori posso avere necessità di una certa riservatezza per poter intervistare fonti riservate o per poter fare alcune indagini», hanno scritto i giudici.
Hollman stesso ci ha raccontato il suo punto di vista sulle interviste pilotate dei sequestrati: «Le interviste pilotate ovviamente mi preoccupano, ma il giornalista ha sempre la possibilità di decidere cosa rendere pubblico e cosa no. È qui che a mio modo di vedere il giornalista si blinda. Uno decide cosa dire, cosa pubblicare, cosa rendere visibile e quali immagini far vedere. Io sono molto sorpreso, fino ad oggi non ho pubblicato una sola immagine del mio materiale e mi trovo nell’occhio del ciclone. Ho fatto due reportage dal posto per Rfi, dopo aver parlato con i sequestrati e in nessun momento ho utilizzato le loro interviste. Perché? Per la semplice ragione che non mi sembrava il caso. Quei ragazzi erano nelle mani della guerriglia e quindi quel materiale ha perso per me qualunque interesse, non ha nessun valore giornalistico, è per questo che non ho mai usato quelle interviste e non lo utilizzerò mai».
Hollman, che da quindici anni racconta la storia del conflitto colombiano, dando voce alle vittime che i grandi mezzi di comunicazione troppo spesso dimenticano è un testimone scomodo, come il titolo del film sulla sua storia che sta facendo il giro di vari festival europei. Qualcuno che racconta l’altra faccia del conflitto, quella violenta, quella delle vittime, quell’anima nera della guerra che il presidente nega quando nega l’esistenza stessa del conflitto, riducendo la guerriglia a semplici terroristi e ipotizzando che dopo averli sterminati il paese sarà in pratica la Svizzera andina. Il presidente fa finta di ignorare i problemi sociali, le ragioni per cui ancora oggi migliaia di ragazzini senza futuro non vedono nulla migliore nella vita che ir al monte.
«Se questo paese non si rende conto che esiste un conflitto armato – continua Hollman – un conflitto armato che è barbaro, non potremo mai parlare di pace. C’è gente a Bogotá, a Medellin che dice che in questo paese non c’è una guerra. Se non c’è la guerra è perché non la stiamo mostrando. E i pochi che la mostriamo siamo accusati di essere alleati della guerriglia. Cos’è che da profondamente fastidio al ministro Santos e che preoccupa profondamente certi settori del paese? Che in questo paese esistano giornalisti, o senatori, o leader d’opinione che parlano di pace. Per parlare di pace bisogna innanzi tutto riconoscere l’esistenza di un conflitto armato in questo paese. Il governo vuole dirci cosa possiamo e cosa non possiamo far vedere.»
Il prologo è proprio durante la conferenza stampa appena fuori la casa di Alan Jara che ha preferito lasciare il presidente solo davanti alle telec
amere. Uribe ha colto l’occasione per scagliarsi di nuovo contro Hollman Morris: «Una cosa sono i giornalisti e un’altra cosa i giornalisti amici dei terroristi […] Il signor Morris era lì per fare una festa terrorista» ha dichiarato livido in volto e con l’indice proteso al cielo. Il presidente Colombiano ha poi continuato dicendo che a lui «sta molto a cuore la libertà di stampa», per poi subito dopo evadere la domanda di un giornalista di Telesur, preferendo commentare che la catena internazionale deve stare attenta a non trasformarsi in Telefarc. Poco dopo un giornalista di CityTv, il canale di Bogotà, ha gridato la sua rabbia al presidente per i maltrattamenti che le forze dell’ordine avevano riservato alla stampa per tutto il giorno e per il fatto che gli stessi militari li riprendessero e fotografassero. «Queridos amigos – ha risposto il presidente calmando le acque – che problemi ci sono se vi riprendono, guardate quante camere avete voi!».
Calmandosi ha quindi affermato che ora i giornalisti in colombia si sentono più sicuri, riferendosi probabilmente a quelli che usano in maniera presidenzialmente corretta la loro etica professionale, come ad esempio Álvaro García, ex direttore del seguitissimo canale televisivo Rcn, il più vicino alle posizioni presidenziali.
García ha visto premiata la sua impeccabile etica con una fresca nomina ad ambasciatore in Argentina. Holmman invece al momento della nostra intervista aveva già ricevuto una decina di email di minaccia e d’insulti.
Colombia, liberato il quinto ostaggio
Hollman Morris fermato dall’esercito colombiano
Le Farc liberano unilateralmente quattro prigionieri.
i tre poliziotti liberati
Madame Betancourt, che magnifica delusione!
Mi informano che Ingrid Betancourt ha tenuto la settimana scorsa un incontro pubblico a Terni, dove ha ritirato il “Premio San Valentino un anno d’amore” 2009. Ha parlato di tante belle cose, poco o niente di Colombia. Poi rispetto alla liberazione delle altre persone sequestrate, ha citato la vicenda di Aung San Suu Ki e quella del caporale israeliano Gilad Shalit. Senza aggiungere nessun’altra parola, su Gaza, sui bambini massacrati (almeno loro…) sulla guerra. Niente di niente. Liberate il caporale Gilad Shalit…
Qui di seguito invece le le impressioni di un amico dell’incontro con Ingrid Betancourt di sabato 24 gennaio scorso all’Arsenale della Pace di Torino.
Ieri al Sermig eravamo in molti desiderosi d’incontrare Ingrid Betancourt. E per sentirla parlare, vederla finalmente sorridere e provare l’emozione d’incrociare quel suo sguardo così forte e diretto, ci siamo sobbarcati qualche inevitabile disagio.
Abbiamo dovuto far buon orecchio alla cattiva sorte, e sorbirci i tanti che la circondavano sul palco, e che, escluso il padrone di casa, Ernesto Olivero, non avevano nulla da dire, ma lo hanno fatto con sfoggio di tanta impeccabile quanto insignificante eloquenza. Abbiamo dovuto apprendere dal vice di Bondi che era ansioso di correre a casa dalla consorte per raccontale le mirabilie udite con i suoi occhi, senza poterci togliere la curiosità se, come il suo superiore, era uso scrivere rime poetiche per magnificare, oltre alla sua, anche la Signora Veronica Lario in Berlusconi. Abbiamo dovuto aspettare che nelle prime tre file si accomodasse la “Torino che Conta”, e che con la storia della Betancourt c’entrava come un trapano Black&Decker in una natura morta fiamminga.
Io non conto, e ho atteso pazientemente in quarta fila.
Finalmente è venuto il turno di Ingid che, alternando meravigliose parole in spagnolo e francese, spesso interrotta da applausi spontanei, tra considerazioni filosofiche sul valore della sofferenza, sul significato cristiano del cambiamento e sulle parabole che meglio lo rappresentano, ha raggiunto la fine del discorso senza che una sola volta il termine Colombia facesse capolino, tanto per riportare il significato della vita sulla terra in generale, e in particolare su quella per cui si è battuta politicamente fino a rischiare la vita. In definitiva chi avesse voluto apprendere qualcosa della situazione della Colombia, presente e passata, poteva avere miglior sorte all’interno di un’agenzia di viaggi.
La possibilità di interloquire non era prevista. Forse nel timore che qualcuno potesse sottrarre parte del pubblico dall’empireo in cui commosso si lasciava cullare: cosa non bella, ammettiamolo, ma certamente utile. Quindi la domanda che avrei voluto porre a Ingrid Betancourt, la porrò pubblicamente ora:
“Negli ultimi cinquant’anni delle enormi e vergognose ingiustizie sono state humus ideale per la violenza. Numerosi gruppi hanno scelto la lotta armata come sistema di lotta, a volte travolti da una follia che faceva sembrare la scia di sangue che si lasciavano dietro più il fine che non il mezzo. Molti hanno operato in Sudamerica e in America Centrale, diversi in altri continenti e alcuni nel cuore dell’Europa. Se in Colombia nascevano le FARC, noi imparavamo a conoscere le Brigate Rosse, la banda Bader Meinhoff, l’Esercito Repubblicano Irlandese, l’ETA. Ora, lei non crede che lottare contro la violenza lasciando che permangano inalterate le cause che l’hanno generata, sia inutile come estirpare una mala erba lasciando le radici nel terreno? E soprattutto non crede che l’immensa forza mediatica che la sua vicenda ha catalizzato, vista la superficialità dei nostri mezzi d’informazione, rischi, ora che si è felicemente conclusa, di cancellare qualsiasi traccia di quelle ingiustizie e negare visibilità ai molti che ancora si trovano ad affrontare il dramma che è stato il suo per sei lunghissimi anni?”
Dopo Hugo Chávez anche Evo Morales rompe le relazioni diplomatiche con Israele
Grande discorso! E come sempre grandi segnali di coerenza e solidarietà dall’America latina.
La Paz, 14 ene (ABI).- El Gobierno de Bolivia disolvió este miércoles las relaciones diplomáticas con el Estado de Israel que continúa con los ataques bélicos contra la población civil de la Franja de Gaza que cobró la vida de más de 1.000 personas.
“Bolivia tenía relaciones diplomáticas con Israel, pero frente a estos hechos de grave atentado contra la vida, a la humanidad, Bolivia rompe relaciones diplomáticas con Israel”, afirmó el presidente Evo Morales Ayma.
Esta decisión del Gobierno boliviano, lo hizo conocer en oportunidad del saludo protocolar que recibió del cuerpo diplomático acreditado en el país, realizado en instalaciones de Palacio Quemado.
Además anunció que el país presentará esta denuncia ante la Corte Penal Internacional sobre el genocidio que está cometiendo Israel contra la población civil de la Franja de Gaza.
“Hacemos el llamado, adjunto con muchos estados y organismos internacionales, especialmente organismos que defienden la vida para que a partir de este momento trabajemos para defender a la humanidad”, aseveró.
Recordó que cualquier Estado puede presentar denuncias contra los actores de los crímenes de lesa humanidad, genocidio, exterminio y otros.
“Los crímenes del Gobierno de Israel afectan la estabilidad y paz mundial y han hecho retroceder al mundo a la peor etapa de los crímenes de lesa humanidad que no se habían vivido sino en la segunda guerra mundial y en los últimos años en la ex Yugoslavia y Ruanda”, señaló el Mandatario.
El Jefe de Estado aclaró que Bolivia es pacifista y no puede estar expectante ante el evidente genocidio que comete Israel contra la gente civil en Gaza.
Desde el comienzo de la ofensiva militar israelí han muerto 1.000 palestinos y al menos 4.300 resultaron heridos en la Franja de Gaza, según informes palestinos. Sólo el martes el ataque israelí provocó la muerte de 47 palestinos.
Se anunció un refuerzo en la ofensiva contra la organización islamista Hamas en Gaza, donde los combates continúan sin pausa y las tropas ingresaron por primera vez en varios suburbios de la capital.
Pio Laghi
La dictadura, el exilio, la impunidad y la justicia internacional: hablan las víctimas de Alfonso Podlech Michaud.
Conversamos con los ex presos políticos que estuvieron hace unas semanas atrás (1,2, y 3 de Diciembre) en Roma, testimoniando ante el fiscal italiano Giancarlo Capaldo en contra del ex Procurador Militar Alfonso Podlech Michaud, acusado por la magistratura italiana del homicidio y la desapareción, en octubre 1973, bajo la dictadura de Pinochet, del ex sacerdote ítalo chileno Omar Venturelli. Alfonso Podlech, contra quien existía una orden de captura internacional, fue detenido el 27 de julio de 2008 en el aeropuerto Barajas de Madrid y extraditado en Italia. Carlos Lopez Fuentes, ex preso político condenado en Consejo de Guerra por el Fiscal Militar Podlech a 9 años de cárcel, Jeremías Levinao, mapuche, militante del Movimiento Campesino Revolucionario, que en Temuco sufrió la cárcel y las torturas y su hija Tania. Ellos nos cuentan en esta entrevista, que parece más una conversación entre viejos amigos, los primeros días del golpe del 11 de septiembre de 1973 y lo que siguió después, en Temuco en la región meridional de Chile llamada Araucanía. Y el rol de Alfonso Podlech Michaud en el aparato represivo chileno. También nos hablan del exilio en Francia, donde viven actualmente.
A.M. — El martes pasado se encontraron con el fiscal Giancarlo Capaldo. ¿Cómo les pareció el encuentro y qué impresión tuvieron?
Carlos Lopez Fuentes — Yo personalmente pienso que el encuentro con Capaldo fue positivo, porque son testimonios y elementos nuevos que no estaban en el proceso contra Podlech y que pueden acelerar el juicio contra él.
Jeremías Levinao — De hecho fue positivo porqué pienso que en mi caso, yo entregué elementos de cómo se utilizaba la tortura durante la dictadura después del golpe y demostré que Podlech era el que ordenaba el castigo de los prisioneros.
A.M. — ¿En tu caso, Jeremías, puedes afirmar que la represión era más cruel contra el pueblo mapuche, y que muy diferente a la que se llevó en contra de todos los demás prisioneros políticos?
J.L. - Yo pienso que la represión fue la misma para todo el mundo, pero creo que fue masificada contra el pueblo mapuche por haber participado, de una manera destacada, en la profundización del proceso de la reforma agraria implementada por el gobierno de Salvador Allende. La reforma agraria afectaba al latifundio chileno de la zona y una gran parte de los latifundistas fueron beneficiados después del golpe con la recuperación de las tierras que habían sido expropiadas legalmente por el gobierno de la Unidad Popular. Y es por eso, que pienso que hubo cómo una venganza de la parte de los terratenientes que participaron en la represión.
A.M. — ¿Se adjuntaron elementos nuevos que puedan contribuir al juicio contra Podlech?
C.L.F. - Creo que sí, porque yo entregué también mi testimonio escrito( legalizado en el consulado español en París), de mi querella contra Pinochet ante el juez Garzón. El testimonio que yo entregué en esa querella, es lo mismo que yo entregué al juez Capaldo, con nuevos elementos. No puedo dar detalles, pero exactamente el mismo testimonio que yo di contra Pinochet lo di contra Podlech, más nuevos elementos, que ya decía anteriormente, dispondrá la justicia Italiana ahora.
J.L. - Yo hice un testimonio contra Pinochet que fue legalizado en España. En mi caso entrego los detalles de torturas y tratamientos que yo recibí durante mi detención.
A.M. — ¿Ustedes conocieron Venturelli en la cárcel o lo conocían antes de la detención?
C.L.F. - Yo personalmente no lo conocía. Cuando llegué a la cárcel él estaba ya desaparecido. El desapareció el 4 de octubre del ‘73 y yo llegué a fines de noviembre del mismo ano a la cárcel. Lo que pasaba era que cuando uno llegaba a la cárcel, se acercaban inmediatamente a ti, muchos compañeros presos y te entregaban informaciones sobre lo que había que hacer y sobre todo te daban informaciones de la gente que había estado presa y que había desaparecido. Entonces te entregaban información para protegerte y al mismo tiempo para estuvieras consciente del peligro que seguías corriendo, aún estando en la cárcel. No era porqué estábamos a la cárcel que podíamos tener la seguridad de haber salvado nuestras vidas. La Fiscalía Militar dirigida por el Sr. Podelch nos tenía en sus manos, y las órdenes de esta Fiscalía eran: torturar, matar o hacer desaparecer. Los presos políticos que estaban ahí vieron como los compañeros que llegaban a la cárcel, como por ejemplo, el caso de Venturelli, podían desaparecer después. Podlech firmaba la orden de libertad, salían de la cárcel y los esperaban otros equipos de las fuerzas represivas para llevárselos. Pero todo esto estaba coordinado por la Fiscalía Militar que funcionaba en el Regimiento Tucapel de Temuco y que trabajaba en conjunto con los otros uniformados (Fuerza Aérea, Carabineros y civiles).
AM. — ¿Y qué recuerdos tienen del 11 de septiembre en Temuco? A ti Carlos te detuvieron en noviembre de 1973, entonces ¿estabas libre en estos dos meses?
C.L.F. — No, yo estaba libre, pero estaba en la clandestinidad. El 11 de septiembre fue el golpe de Estado, empiezan a salir los bandos. Los bandos son los comunicados de las nuevas autoridades militares de la zona. En esos bandos los militares llamaban a la gente a presentarse a la Fiscalía o al Regimiento Tucapel. Ellos decían que era solamente para verificar la dirección, de donde vivían las personas aparecidas en los bandos. Hay mucha gente que desapareció después que se presentaron de buena fe al Regimiento Tucapel, cómo por ejemplo, el compañero Venturelli y muchos casos más. Quien podía pensar que por el hecho de ser llamado, por los bandos militares, podría significar: peligro de muerte.
A.M. — Entonces ya desde el mismo 11 de septiembre los militares tenían los nombres, de todos los que después desaparecieron o mataron o encarcelaron…
C.L.F. - Sí, claro. Si nosotros revisamos las listas de la gente que se presentaba al Regimiento Tucapel, vemos que en las listas estaban: los nombres de los dirigentes sindicales, de los dirigentes campesinos, de los profesores universitarios de izquierda, de los funcionarios de servicio nacional de salud, que eran de izquierda…
A.M. - Se dice que Podlech ya el 11 de septiembre estaba en la cárcel de Temuco firmando las ordenes de excarcelación de los militantes pertenecientes al grupúsculo de ultraderecha: Patria y Libertad, que se encontraban presos por delitos cometidos contra el gobierno de Unidad Popular. ¿Cuál fue antes y después del golpe el rol de Patria y Libertad?
C.L.F. - Patria y Libertad fue un movimiento de ultra derecha que nació en Chile, inmediatamente después de que Allende fue elegido democráticamente cómo Presidente de la República de Chile. El doctor Salvador Allende fue elegido el 4 de septiembre de 1970, cinco días después el movimiento Patria y Libertad estaba creado y el objetivo inmediato de ellos era boicotear y destruir el gobierno de Salvador Allende a través de un golpe de Estado. Patria y Libertad se auto disolvió dos o tres días después del golpe de Estado, cuando habían cumplido con su misión. Aunque muchos de sus miembros, cabe destacar, pasaron a integrar los aparatos represivos. La misión era boicotear el gobierno de Allende por todos los medios, sobre todo ilegales: atentados, volar los puentes, volar las vías férreas, matar dirigentes sindicales, mercado negro…
A.M. — ¿Y tu Jeremías cuando fuiste detenido?
J.L. - Yo fui detenido en junio de 1974.
A.M. — ¿Y desde el 11 de septiembre estabas en clandestinidad tu también?
J.L. – Si, yo también estaba en clandestinidad en Temuco.
A.M. — ¿Y qué recuerdos tienes de entonces?
J.L. — En el campo, los campesinos se organizaron para trabajar la tierra en cooperativas campesinas e asentamientos. Estas organizaciones estaban asesoradas de los organismos estatales: Corporación por la Reforma Agraria (CORA) y el Instituto de Desarrollo Agropecuario (INDAP). Estos eran organismos de ayuda a los campesinos para trabajar las tierras. Cómo existían listas de campesinos miembros de cooperativas, los militares se apoderaron de las listas de estos organismos y empezaron a reprimir y a pedir a los campesinos que se presentaran a los regimientos, a las fiscalías y a los puestos de policías. Los latifundistas aún pusieron a disposición sus vehículos personales para arrestar a los campesinos.
A.M. — ¿Cuánto tiempo estuviste preso?
J.L. — Yo estuve preso un año y medio, fui detenido en junio de 1974. Me mantuvieron en centro de detención secreta, donde fue torturado hasta el mes de octubre de 1974. En esa fecha me pasaron a la Fiscalía. Entonces en ese momento fui reconocido públicamente como preso político. Posteriormente, fui condenado en el penúltimo Consejo de Guerra en mayo de 1976. Este Consejo de Guerra estaba dirigido por Alfonso Podlech quien era el Fiscal Militar. Era Podlech que acusaba.
C.L.F. - El Consejo de Guerra estaba conformado 9 miembros: 3 carabineros, 3 miembros del Ejército y 3 de la Aviación. Este jurado dictaba las condenas, tomando como elemento esencial los cargos entregados por el Fiscal Militar. Y el Fiscal acusador, siempre, de todos los Consejos de Guerra de Temuco, fue Podlech, desde el principio hasta el final. (altro…)
Guido Piccoli e Ingrid Betancourt
Ingrid Betancourt abbraccia il generale Mario Montoya il giorno della sua liberazione. Il generale Montoya si è recentemente dimesso dalla sua carica seguito dello scandalo dei “falsi positivi” , cioè persone sequestrate dall’esercito, poi uccise e fatte passare come appartenenti alle FARC. Si parla di migliaia di giovani innocenti.
Probabilmente Guido Piccoli è riuscito ad essere come l’elefante nella cristalleria organizzata dal comitato Con Ingrid Betancourt a Bologna il 16 dicembre scorso per promuovere la candidatura dell’ex senatrice colombiana al Premio Nobel per la Pace e dove Ingrid Betancourt ha ricevuto dal sindaco Sergio Cofferati la cittadinanza onoraria. All’evento hanno partecipato anche il presidente nazionale di Amnesty International, Paolo Pobbiati, l’attrice Margaret Collina, i cantanti Luca Barbarossa, Francesco Baccini e Marina Rei, e il giornalista dell’Unità Maurizio Chierici anche lui impegnato da tempo nella promozione della candidatura di Ingrid Betancourt al premio Nobel.