Illuminiamo il Messico, ma che ci sia luce per tutti

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Iluminemos México” (illuminiamo il Messico) è stato lo slogan che ha identificato la marcia  organizzata contro la delinquenza e l’inefficacia del governo a fronteggiarla e  che si è svolta sabato 30 agosto a Città del Messico. Si calcola che vi abbiano partecipato circa 200 mila persone, forse più,  ognuna delle quali portava  una candela accesa per “illuminare” simbolicamente il  baratro di violenza nel quale sembra essere precipitato il paese negli ultimi tempi.
 
Tuttavia questa manifestazione non esprime i desideri e il sentire di tutta la società messicana.
Questa marcia esprime soltanto il timore di una piccola porzione di essa   che si sente minacciata  dalla criminalità organizzata nei suoi affetti e nei suoi interessi.
Alla quale appartenevano per esempio  il piccolo Fernando Martí, appena 14 anni, figlio dell’imprenditore Alejandro Martí, sequestrato e poi  trovato morto il 1 agosto scorso dopo il pagamento di un riscatto di  5 milioni di pesos e   Silvia Vargas Escalera di 19 anni, figlia del titolare della Commissione Nazionale dello Sport, sequestrata il 10 settembre del 2007 e di cui non si hanno più notizie da quella data.
Due nomi e due volti apparsi sulle prime pagine di tutti i giornali nazionali per settimane e il dramma delle loro famiglie trasmesso in  televisione per mesi.
Due storie che hanno provocato, giustamente,  indignazione e rabbia nella gente  che sono state  raccolte dagli organizzatori della manifestazione, appoggiata tra gli altri anche dal gruppo  di estrema destra del Yunque e sostenuta  dal governo, dalla Chiesa e massicciamente dai mezzi di comunicazione nazionali.
 
Una marcia quindi anche e soprattutto con forte  rilevanza politica, si chiede a Carlderón (e il Yunque da tempo lo fa) maggior sicurezza e  maggior militarizzazione del paese, come se quella imponente già messa per le strade non fosse sufficiente. E tale richiesta va di pari passo con le istanze che di fatto tendono a polarizzare il paese: la penalizzazione dell’aborto (recentemente depenalizzato nel Distretto Federale), la privatizzazione della Pemex, la compagnia petrolifera del paese,  la criminalizzazione della protesta sociale e l’applicazione di politiche neoliberiste che rappresenterebbero ulteriore miseria e povertà per milioni di messicani. Inoltre a tratti, gli slogan della marcia si sono dimostrati anche e soprattutto essere,  slogan contro Manuel López Obrador, da più di mezzo paese considerato il presidente legittimo del Messico, che se pur ha perso qualche consenso, continua ad essere amato e rispettato.
 
Restano invece dimenticati da questa società,  dalla Chiesa, dal governo e dai principali  media   i nomi dei 23 desaparecidos registrati dall’inizio del mandato di  Felipe Calderón, in cima alla cui lista figurano quelli dei due integranti dell’EPR (Esercito Popolare Rivoluzionario) Edmundo Reyes Amaya e  Alberto Cruz Sánchez, scomparsi da Oaxaca il 25 maggio del 2007 e  quello di Francisco Paredes Ruiz, difensore dei diritti umani scomparso da Michoacán il 26 settembre del 2007 e per i quali nessuno è disposto a marciare.
Questa lista include soltanto  nomi per i quali si sospetta unicamente   un movente politico, per cui i casi di sparizioni forzate o sequestri indiscriminati (levantones) sarebbero molti di più, circa 600,  come denuncia la rivista Proceso.
 
Purtoppo spesso le vittime dei levantones vengono poi ritrovate in qualche discarica decapitate o con il corpo squarciato e queste morti vengono associate a crimini legati al narcotraffico o alle delinquenza comune. Ma non è sempre così, nel mucchio dei numeri cadono anche giovani, leader di comunità contadine o indigene, innocenti cittadini o attivisti politici e sociali. I familiari delle persone scomparse, come accadeva negli anni della “guerra sucia”, hanno anche oggi  paura a sporgere denuncia alle autorità i per timore che i nomi dei loro cari  vengano gettati nel gran mucchio dei morti  della guerra al narcotraffico di Felipe Claderón.
E quando invece vengono sporte le denunce i nomi vengono presto  dimenticati  dalle istituzioni, le quali  si rifiutano o sono incapaci di fornire notizie di queste persone, e dai mezzi di  comunicazione,  che riservano il loro spazio a scomparsi di ben altra estrazione sociale.  Nomi come quelli di Virginia e  Daniela Ortiz Ramírez, 20 e 14 anni, indigene di etnia Triqui dello stato di Oaxaca, scomparse più di un anno fa. Tutto un’altro Messico, diverso da quello che ha sfilato sabato, da dimenticare in fretta e per il quale non vale la pena di marciare né di accendere candele,  il Messico vittima dell’abuso di potere delle forze di polizia e di quella stessa militarizzazione che si chiede venga intensificata.
 
 
 

Narciso Isa Conde: una mirada “radical” del conflicto colombiano

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Narciso Isa Conde

Narciso Isa Conde se puede considerar como uno de los revolucionarios que han hecho la historia de su país, la República Dominicana y de toda América Latina por el aporte de su pensamiento y por su compromiso militante por una región libre de vínculos con el imperialismo de “los halcones” del Norte. Nacido en 1942, ya desde la adolescencia participó en la lucha contra el régimen de Trujillo. Luego llegò a ser Secretario General del Partido Comunista Dominicano.
Participó también en la revolución de Abril de 1965 y en la Guerra Patria contra la invasión de Estados Unidos.
Durante el régimen de Joaquín Balaguer sufrió cárceles, persecuciones y exilio.
Actualmente es parte de la presidencia colectiva de la Coordinadora Continental Bolivariana (CCB) junto al sociológo estadounidense Jaime Petras, el obispo Casaldáliga de Brasil y otros destacados politícos e intelectuales latinoamericanos.   
Por este empeño revolucionario caracterizado por no haber nunca discriminado diferentes formas de lucha, incluida la lucha armada de las FARC, con las cuales “sostiene vínculos públicos de amistad y solidaridad de larga data” está sufriendo recientemente una campaña de mentiras montada desde el gobierno de Colombia.
Buscando noticias de él se encuentra que es tildado cómo: “ideólogo de las Farc”, ‚“agitador multicarta”, “alto dirigente de las FARC”, “expositor de las ponencias de las FARC”, “amigo del separatismo vasco”, “admirador de Marulanda” y por último Álvaro Uribe lo ha definido recientemente “líder terrorista”.
Lo encuentro en su casa de Santo Domingo, amable y cordial, no parece realmente un terrorista. En su país es respectado y conocido, hablando de él con la gente del pueblo se nota siempre encenderse una luz en los ojos de algunos, recordando el “revolucionario radical” que ha luchado por la libertad de su país.
 
A.M. — ¿Quien es Narciso Isa Conde en realidad?
 
N.I.C. — Yo soy un revolucionario radical en el sentido más profundo del término, porqué trato de ir a la raíz de los problemas, no por la estridencia del verbo ni tampoco por la modalidad o por la forma de lucha que se pueda emplear en un momento determinado.
 
A.M. — Narciso, tu eres un líder revolucionario en República Dominicana, ¿has participado en primera persona a la lucha por la libertad de tu país verdad?
 
N.I.C. — Inicié mi actividad politíca en clandestinidad contra Trujillo y luego fui parte de la insurgencia de Abril de 1965, después del golpe militar contra Juan Bosch. Participé en el levantamiento militar encabezado por los coroneles Fernández Domínguez y Francisco Caamaño y los militares constitucionalistas, en su conversión en una insurgencia popular militar cuando se produjo la alianza de patriotas militares y el pueblo armado.
Vivimos la invasión norteamericana y la masacre que esta invasión impuso, entonces también EEUU nos calumnió presentándonos dizque fusilando civiles en el Parque Independencia, acá en la ciudad de Santo Domingo; entonces yo aparecía en una lista de 56 terribles comunistas, era   apenas un dirigente universitario, pero por los grandes medios de comunicación del imperio, incluyendo aviones que con bocinas potentísimas sobrevolaban la ciudad, mencionando mi nombre y los otros 55 describiéndonos como seres diabólicos…
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A.M. — Sin embargo, en ese momento determinado hay una profunda campaña de desprestigio contra tu persona y hasta circula la noticia que elementos de la inteligencia colombiana y del ejército cómo el general Mario Montoya han visitado tu país indagando sobre tus vincúlos con las Farc. ¿Está solamente el riesgo de una demanda judicial o algo más?
 
N.I.C. — Generalmente cuando se dan estas campañas, que tienen su centro en una especie de terrorismo mediático, que uno sabe perfectamente quien las instrumenta, que llegan desde el centro de los halcones de Washington, desde la Cia, desde las agencias norteamericanas, y especialmente en este caso también desde los organos de seguridad e inteligencia del régimen narcoparaterrorista de Álvaro Uribe, al que yo he enfrentado con toda responsabilidad, es claro que persigue la criminalización para facilitar procesos seudojudiciales y estimular el asesinato.
Se origina esa campaña porque siempre he considerado a las FARC como un movimiento politíco militar que tiene justa razón de ser.
Yo no puedo viajar a Colombia porqué hay planes de atentar contra mi vida a ser ejecutados por sicarios de la CIA y de la misma inteligencia colombiana, hay claras señales de eso y además el propio Uribe se lo comentó al expresidente dominicano Hipólito Mejía.
Por otros asuntos ya intentaron matarme en el pasado, hubo una trama criminal en mi contra en 1987 orquestada por la mafia cubana-americana de Miami en complicidad con el régimen de Balaguer, fue por mi lucha contra la impunidad del crimen de Estado, por haber tratado de reactivar las acusaciones contra los autores materiales e intelectuales del asesinato gran amigo y camarada, formidable periodista, miembro del Partido Comunista Dominicano, Orlando Martínez Howley; que fue asesinato por haber denuncia en los años 70 los vínculos existentes entre crimen y poder. Pasaron 25 años sin que se realizara el juicio por ese asesinato y nosotros mantuvimos el caso vivo, no solo desde el punto de vista judicial sino también politíco. Hemos logrado a principio de este año la condena a 30 años de prisión de los autores materiales del asesinato, pero faltan todavía los autores intelectuales. 
 
 
A.M. ¿Tu crees que tiene sentido todavía la lucha armada de las FARC?
 
N.I.C. — Hay que considerar que en Colombia lucha armada tiene ya 60 años de vigencia, con 43 años de vida de las FARC. Yo creo que para que un movimiento político militar haya podido reunir miles y miles de combatientes, de milicianos, de simpatizantes durante una lucha tan difícil y tan larga, tienen que haber causas motivantes muy profundas.
En la historia de Colombia se ve que todo eso surge a raíz del inicio de la guerra sucia, por los años 50, y tiene mucho que ver con el asesinado de Gaitán y la matanza de 300 mil colombianos. Imagínate 300 mil personas en esa época,   y así uno se da cuenta del nivel de violencia y del poder terrorista de ese Estado.
Desafortunadamente esa guerra sucia no se ha detenido, antes en muchos casos se ha profundizado. Y no se han superado tampoco las causas profundas de la desigualdad, de la exclusión, de la discriminación de los movimientos sociales.
Incluso se habla del tema de los secuestros, ¿que conflicto armado no ha tenido de alguna manera rehenes, prisioneros? En algunos casos se puede decir más justificados que en otros, pero la guerra no se gana a través de una alfombra rosada, las guerras son duras, las guerras son crueles.
 
 
A.M. — Eres uno de los presidentes de la Coordinadora Continental Bolivariana que aparece en unos medios de comunicación de America Latina como la fachada política de las FARC. Diferentes diarios, sobre todo los de Perú y de Colombia la acusan de tener vínculos con el terrorismo, en Perú más que todo es acusada por ser lugar de reactivación del MRTA. ¿Vedades o mentiras?
 
 
N.I.C. — Cómo se sabe la Coordinadora surgió hace cinco años a raíz de una acción muy audaz en la que participaron sobretodo jóvenes revolucionari@s de Venezuela, Colombia y Ecuador, en una especie de réplica de la Campaña Admirable del libertador Simón Bolívar, la marcha triunfal que hizo desde Cartagena de Indias hasta Caracas.
Así se lanzò la idea de construir la CCB, motivada por la necesidad de crear un espacio de confluencia del movimiento revolucionario en toda su diversidad, partidos de izquierda, movimientos sociales, organizaciones comunitarias, personas, intelectuales, artistas, movimientos de pueblos originarios… Todos coincidimos en la necesidad de unificar fuerzas, no solo en escala nacional, en cada país, sino continentalmente, para enfrentar una estrategia que también tiene caracter continental. Una estrategia politica, militar, económica, mediática… de los Estados Unidos y de sus fuerzas aliadas en la región.
Este es un un periodo que valoramos como un periodo de viraje luchas sociales y políticas, de ola de cambio, de ola progresista, de procesos avanzados, ya con la revolución bolivariana de Venezuela en marcha, con la Cuba que ha logrado resistir heroicamente, con el proceso avanzadisímo en Ecuador, con el triunfo de Evo Morales y su poder indígena emblemático, con la recuperación del gobierno sandinista en Nicaragua, con el triunfo del obispo Lugo en Paraguay, con los piqueteros y cortadores de rutas, con los grandes combates sociales urbanos y rurales, con las inderrotables insurgencias colombiana y mexicana…
Toda esa diversidad de lucha necesita también una unidad de actores. La Coordinadora surge con la idea incluyente de no discriminar a nadie por forma de lucha, eso es lo que determina que las FARC, o que los movimientos con pasado insurgente o con presente insurgente, formen parte también de la Coordinadora.
En la presidencia colectiva desde el inicio participan figuras como el Obispo Casaldáliga de Brasil, como la de Manuel Marulanda de las FARC y de Víctor Polay líder del MRTA de Perú, como la cantautora Lilia Vera y todo lo que fue su rol en la lucha de la Venezuela de los años 60/70… poetas, secretarios generales de partidos comunistas, partidos que están desarrollando su lucha en la legalidad, que están participando en procesos electorales… como están también los Fogoneros de Uruguay, como está el PCML de Brasil y otros partidos marxistas junto a una serie de movimientos sociales.
Entre los temas asumidos por la CCB está el de la solidaridad con los presos políticos, porqué así como han sido consecuentes los camaradas cubanos en la defensa de sus cinco patriotas, así nosotros, solidarios con ellos, también tenemos que tener en cuenta la terrible situación de una cantidad enorme de presos politicos de los movimientos revolucionarios, de los movimientos sociales y políticos del continente y del mundo.
Otro gran tema es la nociva presencia militar directa de Estados Unidos que aparece muy débilmente tratado en la agenda de una parte importante de la izquierda latinoamericana y por eso hemos lanzado la campaña de “ni un soldado yankee en nuestra América”.
Estamos en un continente colonizado y recolonizado económicamente en la manera más brutal y además encima sufriendo los efectos de una estrategia militar de los Estados Unidos, con una fuerte presencia de bases militares, de operaciones militares, de maniobras, verdaderamente impresionantes. Ese desafío de la Coordinadora es el de dejar de ser pasivos frente esas realidades dramáticas, ser izquierda de verdad, entendiendo la izquierda cómo una diversidad, pero entendiéndola además como una necesidad en términos de ser profundamente revolucionaria, contestataria, transformadora.
 
 
A.M. — Desde la computadora de Raúl Reyes salió que tu estabas metido en la mediación entre Correa y las FARC por la liberación de Ingrid Betancourt. ¿Qué pasó realmente?
 
N.I.C. — Eso es un invento. Mi papel respecto en Ecuador estuvo relacionado con el II Congreso de la CCB. Los compañeros depositaron en mí y en el camarada Amilcar Figueroa la confianza para iniciar en ese país los contactos que posibilitaran la realización de ese congreso, procurando sensibilizar a los actores del proceso ecuatoriano. Eso incluyó un gran número de intercambios con fuerzas políticas y sociales del Ecuador.
Por la posición delicada de ese proceso frente a la oligarquía y al imperialismo consideramos obligado comunicarle al gobierno ecuatoriano nuestro propósito y con esos fines solicitamos una entrevista con Gustavo Larrea, el Ministro de Gobernación. El nos recibió y entonces le dijimos con toda claridad que la Coordinadora era una organización que no tenía vínculos de Estado y que en consecuencia no le estabamos pidiendo un compromiso de gobierno, pero si necesitamos contar con su aprobación puesto que no queríamos hacer un congreso desafiando la autoridad ecuatoriana o incomunicándole algo de su competencia, y el contestò que entendía perfectamente el asunto y que no tenía ninguna objeción a que se realizara un evento asì en Ecuador.
Aconteció que mientras se realizaba nuestro evento se estaba desarrollando entre las Farc y entre los gobiernos ecuadorianos, venezolanos y el francés un nuevo proceso dirigido a lograr la libertad Ingrid Beatncourt y algunos otros rehenes. Eso explica el porqué el campamento móvil de Raúl Reyes estaba en ese momento cerca de la frontera y en territorio del Ecuador. Imagino que Raúl pensó que Uribe no iba a sabotear el pro ceso en un territorio de otro Estado. Ya había informaciones que las negociaciones para esa liberación estaban avanzadas.
Luego, ya concluido el Congreso de la CCB, fue cuando recibimos la infausta noticia del bombardeo del acampamento. En ese proceso yo no tuve nada que ver, ni estuve previamente enterado del mismo.
 
 
A.M. — ¿Y entonces cuáles son tus verdaderos vínculos con FARC?
 
N.I.C. — Mis vínculos con FARC son públicos y yo cada vez que he tenido una entrevista con sus dirigentes la he dado a conocer. Fui en el Caguán cómo testigo de la apertura del proceso de paz, que más tarde se obstruyó por la presión norteamericana sobre el régimen de Pastrana. Evidentemente el gobierno de Estados Unidos ya estaba contemplando la perspectiva de victoria de Uribe, que era mejor garantía por una política mucho más dura.
Yo si participé poco tiempo después en una gestión por la liberación de Ingrid Betancourt desde aquí, Santo Domingo, y eso tuvo que ver con mi viaje al Caguán. Creo que esos niveles de relaciones siempre hay que darlos a conocer a nuestra sociedad; y por eso entonces yo preparé un reportaje para el periódico Hoy, un diario muy importante de la Republica Dominicana, que publicò una página completa donde yo aparecì en una foto con Marulanda y donde redactaba mi viaje al Caguán y mi estadía en los campamentos de las FARC.
Eso fue en 2001, después de esa publicación vino en mi casa un periodista francés y un diplomático francés y el diplomático francés es el ex esposo de Ingrid Betancourt. El Estado francés estaba muy interesado a la liberación de Ingrid y él me pidió hacerle llegar un mensaje a FARC y servir de intermediario para una señal de vida de Ingrid, que era lo que ellos necesitaban como paso previo a cualquier acuerdo mayor.
El ex esposo de Ingrid me explicó los niveles de hostilidad de Uribe, como se manejaba este señor con la familia y la desconfianza que ellos tenían en él. El gobierno francés estaba en disposición de tratar bilaterlamente con las FARC, hasta reconocer a las FARC cómo fuerza beligerante y hasta tratar cualquier tema relacionado con su situación.
Yo hice la gestión, llegò el mensaje, los dirigentes de las FARC dieron las pruebas de vida y salud de Ingrid, aceptaron el proceso y se avanzó significativamente camino a producir la liberación, pero tan pronto se enteraron y pudieron hacerlo, Uribe y el ejército bloquearon esa posibilidad.
 
 
A.M. — Siempre has sido muy solidario con la revolución bolivariana de Venezuela
y con el presidente Chávez, ¿Qué opinas de las recientes declaraciones del él y de Fidel Castro sobre la guerrilla y la lucha armada?
 
N.I.C. — Lo de Chávez fue un viraje fuerte, sorpresivo, desconcertante. Lo peor para mí fue decir que la lucha armada no tiene ya ninguna vigencia. Como explicar entonces que él mismo, se alzó en armas.
Porque Chávez no se levantò con una florcita, el se levantò con fusiles y eso fue lo que entonces aplaudimos. Lo aplaudimos y lo defendimos en el momento en que que ese gesto trascendente estaba siendo estigmatizado, en el momento en sus protagonistas eran calificados mendazmente de golpistas.
Creemos que se necesita reciprocidad en todo esto y ninguna razón de Estado debe dar lugar al reconocimiento de la verdad. Si en Colombia hay lucha armada con tal nivel y tantos años de existencia, es por que esta tiene razón de ser y pertinencia.
En Venezuela evidentemente ha predominado la decisión de recomponer las relaciones entre Uribe y Chávez, entre ambos gobierno y ambos estados; y para facilitar ese paso se ha incurrido en dos grandes errores: exaltar la amistad con el régimen narcoparamilitar terrorista de Uribe, desagraviándolo por todas las verdades que el propio Chávez le dijo y reclamar la desmovilización de las FARC como algo saludable para paz y la democracia y necesario para una la relación de buena vecindad con el país hermano. Y algo peor criticar la lucha armada, intentar deslegitimar la guerra de todo el pueblo y el despliegue de todas las formas de lucha cuando el gobierno colombiano asume una línea guerrerista y EEUU amenaza con su Cuarta Flota.
Eso equivale afilar cuchillo contra la garganta de la revolución bolivariana y contribuye a afianzar un Estado que esta pretendiendo jugar en esta región el papel que juega Israel en el Medio Oriente. Y la verdad es que si se comienza a ceder un dedo en ese terreno, luego te piden el brazo y finalmente la cabeza.
Las declaraciones de Fidel Castro y la posición de Cuba frente a Colombia van evidentemente en la misma dirección, aunque ciertamente trató con más cuidado el tema de las armas cuando afirmó: “yo no le estoy pidiéndole a nadie deponer las armas”.
Pero ese posicionamiento de liderazgos tan influyentes en el continente, más que afectar   a la insurgencia colombiana acostumbrada a situaciones difíciles, golpea sobretodo la posibilidad inmediata de un cambio democrático en ese país; cambio que estaba madurando a consecuencia de la descomposición del régimen de Uribe y los avances hacia una plataforma común de todas las fuerzas progresistas se le oponen.
 
 
A.M. — ¿Crees que hay salida de la situación colombiana?
 
N.I.C. — Yo creo que el régimen de Uribe imposibilita un proceso de dialogo y de acuerdo. Me parece que hay evidencias muy claras de eso, o sea no se trata simplemente de Uribe sino todo lo que él representa.
Lo que hay que producir en Colombia es una confluencia entre las fuerzas políticas civiles y militares alternativas, las fuerzas políticas, la insurgencia armada, los movimientos sociales politizados… con una propuesta de gobierno soberano, democrático y participativo que posibilite abrir la mesa de diálogo sobre el tema de la violencia para encontrar rutas de paz y bienestar.
En Colombia estaban creciendo y pueden volver a crecer las fuerzas que plantean la renuncia de Uribe, como los movimientos que existieron en America del Sur, Ecuador, Argentina, Bolivia…se trata de sacarlo de la presidencia por ilegitimo, por usurpador , por criminal y corrupto, se trata de lograr otra composición gubernamental.
Tanto el ELN como las FARC han demostrado que están a disposición de ser parte se un proyecto con esas características y de una salida política al conflicto armado. Pero un proceso de ese tipo necesita de garantías y condiciones imposibles de alcanzar en el contexto de un gobierno como el de Uribe y por la vía de la desmovilización de la insurgencia armada e frente él. Eso equivale al suicidio colectivo.
Yo le doy la razón a Marulanda: recuerdo que así me lo planteó en una conversación personal que tuvimos cuando fui al Caguán. Él decia: “yo no voy a desbaratar a cambio de nada o poco, no voy a desmontar una construcción historíca de 40 años, un ejército popular, en una mesa de negociación”.
Ese fuerza armada irregular tiene que ser un componente de la salida política como lo intentó ser el FMLN en El Salvador antes de entregar armas, cuando planteó que se le reconociera en el aspecto militar y solo se le consideró limitadamente para el caso de la nido policía civil, con las consecuencias negativas que conocemos.
Hay que aprender de todas las experiencias de paz negociada. Las FARC tienen la ventaja de haber sobrevivido y crecido para poder ponderarlas mejor, amén de tener fuerza considerable y logística propia para resistir.
Hay que darle rienda suelta a la imaginación, pero yo creo que las armas en mano de las FARC en cualquier acuerdo serían una garantía para ellos y para una buena parte de la sociedad civil.
De inmediato hay que contribuir a una política de humanización del conflicto y la humanización del conflicto tiene un capitúlo que se llama canje humanitario de prisioneros, y canje implica intercambio de prisioneros de ambas partes. No se debe hablar de la crueldad de la retención de prisioneros en las montañas y silenciar la enorme crueldad de un régimen que desquartiza gente, que tortura gente, que siembra el país de cadáveres. Entre esos presos que tiene las FARC los hay paramilitares y motosierreistas, torturadores, narcotraficantes, verdaderos criminales. Las FARC han intentado muchas veces el canje y ha dado muchos gestos positivos en esa dirección, yo estuve invitado a aquel canje, cuando liberaron más de trescientos militares, y me negaron la visa.
 
A.M. — ¿E Ingrid Betancourt?
 
N.I.C. — Está claro que Ingrid Betancourt es una candidata de Francia, no de Colombia, y que es parte del proyecto francés para América Latina. Ella hizo una alabanza a Uribe y al general genocida Montoya que nunca debió salir de sus labios, aunque luego se tornó más opositora. Y la diferencia de posturas entre ella y su familia, más allá del origen oligárquico común, es que mientras ella está actuando con su proyecto político en la cabeza y con Sarkozy en la presidencia de Francia por obra y gracia de la CIA, su familia actúa con sus sentimientos y con el dolor que le ha provocado el cinismo de Uribe.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


¡Te quiero México!

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Poche città mi rapiscono come e quanto riesce a fare Città del Messico. E questo avviene fin da quando, in aereo, pochi minuti prima dell’ atterraggio, ti si manifesta in tutta la sua imponenza e appare all’improvviso smisurata. El monstruo”, la chiamano. Ed in parte lo è, un mostro. Arrivando di notte, appare all’improvviso, un mostro di luci, che sembrano non avere fine e che si spengono pian piano, con lentezza, solo lungo le pendici dei cerros che la circondano.
Una città che mi entusiasma e che mi fa sorridere, che mi commuove e mi intriga ad ogni passo. La osservo dagli infiniti angoli che offre e godo dei suoi colori e delle sue contraddizioni, della sua viva umanità con la sua capacità di resistere, con il suo orgoglio, la fierezza e la dignità.
È magica una città che riesce ad offrire continui spunti di riflessione al visitatore, sul senso della storia, sul destino dei vinti, sul ruolo e il peso dei vincitori nelle generazioni a venire.
Che sa rimettere in gioco e mescola continuamente,   i concetti eterni di giustizia e di ingiustizia, di passato, di presente e di futuro, di sogno e di realtà.
Che sa sfidare sfrontatamente facendolo  tuttavia senza rabbia né malizia, quasi senza averne consapevolezza, miti antichi e tradizioni consolidate, potere e religione con l’ingenuità di quella rebeldía naturale che qui ancora sopravvive e che, si esprime e si manifesta quotidianamente per le strade di quella che è una delle metropoli piu‘grandi del mondo. E che va di pari passo con lucha e resistencia, concetti che qui sono parte imprenscindibile del bagaglio umano ma anche del vissuto quotidiano di milioni di persone.
Non è mai avara questa città con gli altri, si offre completamente, ostentando orgogliosamente la sua storia e il suo passato, splendida negli scorci isolati e silenziosi, nei passagi moderni e caotici, negli angoli chiassosi e tipici. Spettacolare nelle sue espressioni architettoniche ora ostentate, ora più nascoste e segrete, che appaiono agli occhi più attenti e sensibili come vere preziosità incastonate tra dettagli di culture differenti, particolari unici per i quali ogni palazzo, ogni angolo, ogni patio, ogni balcone sono capaci di trasformarla in un vero e proprio museo a cielo aperto che affascina continuamente.
 
….
P.S. Ma forse tutto ciò  ha a che vedere più in generale con quanto sto costruendo in Messico  in questo ultimo anno e quanto mi sta offrendo questo paese.
¡Te quiero México! e  dopo aver passato il pomeriggio con i narcocorridos dei vicini a palla, finamente mañana ….Real de Catorce y Cerro del Quemado… desierto…  2750 mt.

Gossip presidenziale dal Perú: Alan García teme che se Victor Polay esce dal carcere gli soffia la moglie

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La mia amica Rosina Valcárcel, nota antropologa, giornalista, scrittrice e poetessa peruviana, nonché militante  battagliera, da tempo porta avanti una campagna  in difesa  del leader del MRTA (Movimiento Revolucionario Túpac Amaru) Víctor Polay Campos, che conosce da anni.

Victor Polay, figlio di Victor Polay Prisco, fondatore del Partito Aprista Peruviano, fondò l’MRTA nel 1982 . Nel 1993 fu condannato all’ergastolo dai così detti  “giudici a volto coperto” della dittatura fujimorista.. Questa sentenza  fu poi  annullata in seguito alla pressione degli organismi internazionali in  difesa dei Diritti Umani.
A marzo di quest’anno la Corte Suprema del Perù lo ha condannato invece a 35 anni di carcere per terrorismo.
Victor Polay si trova da ormai circa 17 anni nel carcere di massima sicurezza della Base Navale del Callao, la nuova condanna quindi equivale ad un ergastolo.
Rosina Valcárcel crede che Alan García non lascerà mai uscire dal carcere Victor Polay per il  fatto che l’affascinante leader del Movimento Túpac Amaru in gioventù ebbe  in passato una relazione con Pilar Nores, prima che questa diventasse la moglie del presidente peruviano.
Lo ha dichiarato in un’intervista al programma radiofonico del giornalista César Hildebrandt.
 
 

Los celos de Alan García

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Mi amiga Rosina Valcárcel, reconocida antropóloga, periodista,   escritora y poeta de Perú, además de miltante y luchadora , desde tiempo impulsa una  campaña en defensa del líder del MRTA  (Movimiento Revolucionario Túpac Amaru)  Víctor Polay Campos, quien conoce desde tiempo.
Víctor Polay , hijo de Víctor Polay Prisco, fundador del Partido Aprista Peruano, fundó el MRTA en el año 1982.
En 1993 fue condenado a la cadena perpetua por los “jueces sin rostro” de la dictadura fujimorista.
Esa condena fue cancelada por la presión de los organismos internacionale de defensa de los Derechos Humanos.
En marzo de ese año la Corte Suprema de Perú lo ha condenado a 35 años de carcél por terrorismo.
Víctor Polay se encuentra desde 17 años en el penal de maxima seguridad de la Base Naval del Callao, la nueva condena a 35 años por lo tanto equivale a una cadena perpetua.
Rosina Valcárcel, cree que el presidente de Perú, Alan García,  nunca dejará salir de la carcél a Víctor Polay por el hecho que el fascinante líder del Movimiento Túpac Amaru en su juventud tuvo una relación amorosa con  Pilar Nores antes que esa fuera la esposa del mandatario peruano.
Lo ha declarado en una entrevista al programa radial del periodista César Hildebrandt.

Yo apoyo a Evo

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Il Messico dice NO alla privatizzazione del petrolio

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Domenica 27 luglio si è tenuta in Messico la Consulta Ciudadana, con la quale la popolazione è stata chiamata ad esprimersi sulla proposta di completa privatizzazione dell’impresa petrolifera PEMEX presentata da Felipe Calderón, il presidente del paese.
L’85% della popolazione  ha detto NO.

Anche la Repubblica Dominicana contro la Direttiva di Ritorno

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Contro la così detta “Direttiva di Ritorno” e cioè il pacchetto di normative approvate il 18 giugno scorso  dal Parlamento Europeo, si sono espressi in vario modo già il presidente venezuelano Hugo Chávez, quello ecuadoriano Rafael Correa e il presidente della Bolivia Evo Morales, nonché tutto il Mercosur.
Particolarmente dure sono state le parole di Hugo Chávez che ha minacciato di sospendere la fornitura di petrolio a quei paesi che ratificheranno le nuove misure adottate.
Il  24 luglio, anche  il governo delle Repubblica Dominicana,  ha reso noto attraverso i maggiori mezzi di comunicazione del paese, la  posizione ufficiale rispetto alla “Direttiva di Ritorno”.
Portavoce del governo in questa materia si è fatto il CONDEX (Consejo Nacional para las Comunidades Dominicanas en el Exterior) e cioè il consiglio Nazionale per le Comunità Dominicane all’Estero, un ente la cui costituzione è stata prevista all’interno della legge CONDEX, approvata all’inizio dell’anno in corso dallo stesso presidente della Repubblica Dominicana, Leonel Fernández.
Praticamente si tratta di uno strumento, assente fino a questo momento nel paese, che permetterà la costituzione di reti di appoggio e solidarietà alle comunità di cittadini dominicani residenti all’estero, facilitandoli nella ricerca di un lavoro, nella formazione di un’ educazione adeguata, nella costituzione di imprese commerciali.
A Barcellona, inmediatamente dopo l’approvazione della Direttiva di Ritorno,  il vicepresidente del CONDEX,  Alejandro Santos, nel corso di una conferenza stampa,  aveva fatto sapere che l’ente era contrario a tali normative in materia di immigrazione  e che era in preparazione un documento, il quale una volta sottoposto all’approvazione del  presidente della repubblica, sarebbe stato reso noto. E così è stato.
Il documento,  dopo una serie di  considerazioni iniziali nelle quali vengono riconosciuti   il diritto sovrano di ogni nazione di stabilire autonomamente i flussi migratori e il fatto che la Repubblica Dominicana appoggia tutte le iniziative multilaterali e bilaterali che sanzionano e prevengono il traffico di persone, conferma di aver preso in  considerazione la posizione del Mercosur espressa nella Dichiarazione del suo XXXV vertice firmato dai paesi membri ( Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay e Venezuela in corso di adesione) e quelli associati (Bolivia Cile, Ecuador, Perù e Colombia) che hanno manifestato formalmente la condanna alla Direttiva di Ritorno dell’Unione Europea.
Il CONDEX inoltre considera che più di un milione di dominicani   e cioè una decima parte della popolazione, risiede all’estero e invia rimesse al paese per una cifra che supera i tre milioni di dollari, circa il 12% del Prodotto Interno Lordo.
Nel documento inoltre si conferma la posizione del governo dominicano e quindi si ribadisce  che “la decisione adottata dall’Unione Europea pone a rischio i cittadini dominicani e gli altri cittadini dell’America Latina e del mondo che sono emigrati in Europa  per integrarsi tramite un lavoro degno che gli permetta di sopravvivere” e si pone l’accento sul fatto che  la Repubblica Dominicana e i paesei della regione,  in passato sono stati generosi e ospitali con i cittadini dell’Unione Europea quando essi  sono stati costretti ad emigrare in questi paesi.
Si dichiara nelle conclusioni finali inoltre che:
  • le misure adottate dal Parlamento Europeo relative alla detenzione per 18 mesi degli immigrati senza documenti nei centri speciali,  aprono uno spazio pericoloso rispetto alle violazioni dei diritti umani.
  • le misure adottate dal Parlamento Europeo contraddicono le valutazioni positive che vengono generalmente espresse  riguardo all’immigrazione come opportunità di crescita per entrambi i paesi toccati dai flussi migratori, e cioè quello di partenza e quello di arrivo.
  • si esorta i paesi dell’Unione Europea a rivedere la Direttiva approvata recentemente e ad  incorporare in essa  meccanismi e strumenti affinché venga preservata e tutelata  la dignità umana.
  • si fa un appello ai governi dei paesi dell’Unione Europea affinché abbandonino l’uso di misure di coercizione come la reclusione  e l’esplulsione e al loro posto si applichino strategie  di sviluppo che includano il contingente umano che e’ stato costretto ad abbandonare il suo paese di origine come una volta, decenni fa,  sono stati costretti a farlo gli stessi cittadini europei quando l’America latina presentava migliori possibilità di vita che la stessa Europa.
  • si rende noto che il livello di attenzione riguardo alla difesa della dignità e dei diritti umani dei cittadini dominicani residenti all’estero verrà tenuto elevato.
  • il CONDEX come loro rappresentante si adopererà  affinché le comunità dei dominicani residenti all’estero siano continuamente informate sui loro diritti e doveri offrendogli appoggio e sostegno e rimarrà attento  di fronte agli eccessi di razzismo e xenofobia che possano scaturire dall’applicaziobne della Direttiva di  Ritorno in ognuno dei paesi dell’Unione Europea.

Il Tribunale Permanente dei Popoli contro le multinazionali in Colombia

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Ascolta l’intervista di Cecilia Rinaldini a Adolfo Pérez Esquivel al GR1.
Il premio Nobel per la Pace,  Adolfo Pérez Esquivel, presiederà a Bogotà il prossimo  23 luglio l’ultima udienza del Tribunale Permanente dei Popoli, sezione Colombia.
Verranno  emesse in questa udienza finale le condanne a carico delle  multinazionali straniere e delle imprese nazionali colombiane che hanno commesso violazioni dei diritti umani e crimini contro l’umanità verso tutte le popolazioni indigene e verso le  comunità di contadini che si trovano nei territori dove queste operano e lavorano.
Il  processo, iniziato a Berna  due anni fa, conclude questa sua prima fase di indagine nella quale sono stati esaminati gli impatti delle politiche delle multinazionali sui territori e sulle comunità particolarmente nelle zone in cui maggiore è la loro attività e cioè  quelle più ricche di risorse petrolifere e minerarie.
Sono state tenute davanti alla sezione Colombia del Tribunale Permanente dei Popoli 17 udienze preliminari nazionali e internazionali e sei udienze specifiche relative a questi settori: agroalimentario, petrolifero, minerario, della biodiversità, dei servizi pubblici e dei crimini contro le comunità indigene.
Le multinazionali accusate sono la  Coca Cola, Nestlé, Chiquita Brands, BP, OXI, Repsol, Drummond, Cemex, Holcim, Muriel, Glencore-Xtrata, Anglo American, Bhp Billington, Anglo Gold, Monsanto, Smurfit Kapa – Cartón de Colombia, Multifruits S.A. – Delmonte, Pizano S.A e la sua filialel Maderas del Darién, Urapalma S.A, Dyncorp; Unión Fenosa, Aguas de Barcelona, Canal Isabel II, Endesa, Telefónica y TQ3, nonché i governi dei paesi dove queste aziende hanno  sede e  il governo colombiano per aver permesso lo sfruttamento delle sue ricchezze e per essere stato complice silenzioso nei crimini che tali multinazionali hanno compiuto nel corso di questi anni contro il suo popolo.
Alcune di esse, avvalendosi infatti dell’appoggio di gruppi armati vincolati in maniera piu o meno evidente con lo Stato hanno commesso crimini che vanno dallo sfollamento di intere comunità., agli omicidi contro dirigenti sindacali ed attivisti politici, alla sparizione forzata.
Particolarmente grave è la situazione dei lavoratori della Nestlè, denuncia il  sindicato Sinaltrainal.
Dal 1996 al 2007 undici operai di questo gruppo sono stati uccisi, altri sono stati espulsi dalle loro terre ed altri ancora sono stati costretti costretti all’esilio per le minacce ricevute.
La stessa Nestlè è stata investita da uno scandalo circa un mese fa quando nel corso della trasmissione “Temps present” della televisione svizzera  venne diffusa la notizia che la multinazionale, servendosi di una società di sicurezza privata, la Securitas, aveva spiato per più di un anno il lavoro del gruppo Attac, i cui militanti stavano scrivendo un libro dal titolo “Attac contro l’impero Nestlè”.
Almeno una infiltrata della Securitas partecipò alle riunioni del gruppo Attac e alla stesura del libro, tenendo accesso a informazioni strettamente riservate e importanti e potendo relazionare su di esse la dirigenza della società, che informò prontamente i vertici della multinazionale. Queste informazioni riguardavano tra l’altro nomi e indirizzi ddi membri del sindacato colombiano, dal momento che uno dei capitoli particolarmente importanti del libro era dedicato proprio alle violazioni dei diritti umani in Colombia commesse da parte del gruppo Nestlè.
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La vehemencia logorreica de Ingrid

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Estoy convencida de que la cosa más sabia que podía haber hecho Ingrid Betancourt –y que, como todos nos enteramos, no hizo– era declarar un prudente y sabio silencio ante la prensa y disfrutar de su familia por al menos un mes, el tiempo justo para restablecerse, formarse una idea de lo que ha ocurrido durante  su ausencia, hablar con sus familiares y luego surgir consecuentemente. Me sorprende y molesta esta vehemencia logorréica que ha caracterizado su primera semana de libertad. Me sorprenden sus declaraciones que, según un análisis no dictado por la compasión y el “buenismo”, parecen demasiado apresuradas. Todos nosotros sentimos pena por el aspecto humano y doloroso que ha caracterizado su vicisitud; la lejanía de sus hijos, la reclusión en condiciones seguramente nada fáciles. Claramente consideramos inaceptable el secuestro cómo práctica de lucha revolucionaria. Pero nosotros, que con escritos, artículos, movilizaciones, llamados y solidaridad con las víctimas silenciosas y olvidadas de una guerra civil que no cesa  desde hace casi medio siglo, nosotros que trabajamos para que  sobre Colombia no baje el silencio rigurosamente impuesto por las multinacionales de la información, tenemos ahora más que nunca el deber de recordar que en Colombia se cometen  contínuamente  crímenes y barbaridades desde “la parte legítima” del país.

La misma que ahora aparece a los ojos del mundo como paladín de las libertades cíviles por restituir a Ingrid Betancourt su vida. Nosotros, coherentes con nuestras posturas,  no podemos aceptar, por ejemplo, que un presidente corrompa a una diputada comprando su votación para la reelección. Coherentemente con nuestras posturas, no podemos aceptar que en lo que se hace llamar una democracia se pongan uniformes de la guerrilla y se  mate a ciudadanos inocentes  para testimoniar el éxito de la política de gobierno de Seguridad Democrática, o que se utilicen sus cadáveres cómo comprobante de gasto ante el Congreso de Estados Unidos.
No podemos aceptar y callar el hecho de que en Colombia la Fiscalía está investigando sobre la desaparición de 15 645 personas, de las cuales el 97% de las denuncias se dirigen contra los paramilitares y agentes del Estado, y solamente el 3% contra la guerrilla. De estas, 1 259 denuncias de desapariciones forzadas se refieren al periodo comprendido entre el primer mandato de Uribe y la mitad del año 2007.Y por eso, coherentemente con nuestras posturas –siempre expresadas con fuerza y determinación–, por todas esas razones, no entendemos por qué Ingrid Betancourt, que en el momento de su secuestro estaba al pie del cañon en la lucha contra la corrupción en Colombia y favorable al diálogo con la guerrilla, una vez liberada diga que “Uribe ha sido un buen presidente” o que “los colombianos eligieron libremente a Uribe”, o el “por qué no?” que se le escapó comentando la oportunidad de al menos un tercer mandato del presidente colombiano.
Son declaraciones fuertes y llenas de sentido político. Qué se podía esperar, por lo tanto? Decir que Felipe Calderón, presidente de México, puede ser de gran ayuda a Colombia para la liberación delos rehenes es una afirmación grave e imprudente. No creo que Ingrid Betancourt no sepa nada de lo ocurrido en Oaxaca hace dos años; no creo que Ingrid Betancourt no conozca la grave situación de violación de los derechos humanos en México, a tal grado que hasta los Estados Unidos condicionaron sus ayudas a la Iniciativa Mérida al respeto de ellos. Y si Ingrid Betancourt no sabía todo eso, hubiera hecho mejor en callarse e informarse primero.
Es difícil pensar que  ella, en la selva,  no estaba al tanto de lo que ocurría en el país y  en el exterior. Ella tenía acceso a la radio cada día y hasta estaba informada sobre el cabezazo de Zidane a Materazzi, imaginémonos si no sabía que el segundo mandato de Uribe está en riesgo de ser juzgado ilegal. Imaginémonos si la guerrilla, si los jefes carceleros de los rehenes –con uno de los cuales Ingrid admitió tener una intíma amistad– no comentaban entre ellos y hasta con ella los escandálos casi diários de la parapolítica donde hay casi 70 parlamentarios investigados y 30 en la cárcel por diferentes delitos  y vínculos con el paramilitarismo.
Entonces, si es verdad que nadie tiene el derecho de juzgar y condenar a quien ha pasado seis años como prisionera en la selva, alejada del cariño de los suyos, pensando día tras día en sus hijos, es también verdad  que  existen responsabilidades bien ciertas cuando uno decide revestir un rol público y político. E Ingrid Betancourt asume también ahora el rol de “paladín de los derechos del pueblo colombiano” como lo había asumido antes de ser secuestrada, dejando imaginar o postulando una próxima candidatura presidencial, y aún más declarando querer hacer de la liberación de los demás rehenes de la guerrilla su batalla.
Pero va a ser una batalla política, no militar, la que tendrá que conducir –ha declarado Ingrid que desearía ser un soldado más del ejercito colombiano–; política, porqué en Colombia los rehenes en la selva no están jugando al ajedrez. El hecho de estar ella misma prisionera por seis años, el hecho que están otros rehenes desde hace más tiempo todavía (recordamos al hijo del maestro Moncayo, secuestrado desde hace 10 años), el hecho que en las cárceles colombianas están centenares de guerrilleros en condiciones ciertamente no mejores de las que están  los rehenes de las FARC, es una clara demostración, también para los que menos saben de la realidad de Colombia, de que en el país se está desarollando desde hace tiempo una guerra. Y  para rescatar a los rehenes producto de una guerra hay que ser soldados o políticos.
Qué  puede hacer Ingrid Betancourt una vez quitado el casco militar que le pusieron en la cabeza en el avión que la estaba llevando a la libertad? Una vez terminado el concierto en París donde cantará con Miguel Bosé, Manu Chao y Juanes; qué hará Ingrid Betancourt por todos los rehenes que todavía siguen prisioneros en Colombia? Y tiene claro ella que liberar a los prisioneros quiere decir también mediar por un Intercambio Humanitario, buscar una solución que no sea llevar diez mil hombres a pudrirse en una cárcel, o peor, a ser descuartizados por la represalia de las motosierras de los paramilitares?
Tiene claro Ingrid Betancourt que existe la guerrilla porqué existe conflicto social, y existe conflicto social porque hay injusticia, pobreza y represión? Parecería que sí;  si declaró que mientras Uribe entiende el problema de Colombia vinculado a la seguridad y a la violencia, ella lo entiende como vinculado al malestar social que, consecuentemente, produce violencia.
Y entonces, ya que lo sabe, cómo se puede decir que Uribe ha hecho mucho por el país y que ha sido un buen presidente? Ingrid no descarta la posibilidad de candidatearse a la presidencia de Colombia, y un compañero de prisión liberado antes que ella  nos cuenta de un programa electoral de 200 puntos ya listo, escrito en la selva.
Asumir una responsabilidad como ésta necesita obligatoriamete de prudencia. Quien dice no descartar la hipótesis de candidatearse como futuro presidente de Colombia no puede decir tres días después que por el momento no volverá a Colombia y no sabe cuándo volverá.
Quien se proclama líder de la batalla por la liberación de todos los rehenes de las FARC no puede decir tres días después que no puede ir a la manifestación del 20 de julio porqué teme por su vida, y entonces organiza una en la más comoda y segura Paris.
Preguntemos a Iván Cepeda, a Piedad Córdoba, al maestro Moncayo y a todos los valientes, anónimos y humildes defensores de los derechos humanos cuánto miedo tienen de luchar en Colombia, y todavía siguen haciendólo, a veces sin protección, a veces con Uribe que no los abraza como hizo con la Betancourt, pero sí los ataca a través de los medios televisivos y la prensa escrita,  acusándondolos de ser simpatizantes de la guerrilla y, de hecho, condenándolos a muerte.
Le hubieramos podido preguntar a John Fredy Correa Falla, de los Comités Permanentes por la Defensa de los Derechos Humanos,  si tuvo miedo cuando hace días fue asesinado por cuatro hombres armados. Él gozaba de algunas medidas de protección claramente  insuficientes; él y su familia estaban  amenazados por grupos de paramilitares de la zona.
Entonces me pregunto, cómo se puede hablar de liberación de todos los rehenes en la manera como lo está haciendo Ingrid Betancourt, entre una referencia a su pelo largo y otra a los perfumes y los pintalabios que le faltaron, entre un viaje a Lourdes y una audiencia papal?
Entendemos muy bien sus temores y los de su familia por claros motivos de seguridad, entendemos que las FARC ahora le puedan parecer como lo peor que haya en Colombia, y que si la hubiera rescatado Hitler personalmente lo hubiera abrazado como lo hizo con el general Montoya (controvertido personaje del ejercito colombiano vinculado con los paramilitares), pero Colombia , y eso Ingrid Betancourt debe saberlo, es un país difícil, donde se muere matados por todos los lados y donde la violencia del Estado supera la de la guerrilla y es mucho menos aceptable que ésta.
Por todas estas razones, creo que sería correcto un decoroso silencio por parte de Ingrid Betancourt. Al menos por ahora.
Publicada por ABP acá

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