di Claudio Tognonato
«Ritardi» nei carteggi tra Italia e Uruguay: torna in libertà il capitano Nestor Troccoli, detenuto a Regina Coeli per la scomparsa di 6 cittadini italiani e 30 urugaiani. Era il solo dei 140 arrestati del Plan Condor a essere in prigione
L’ex capitano di vascello Néstor Troccoli, uruguayano, già membro dell’intelligence della dittatura del suo paese, accusato della scomparsa di sei cittadini italiani e arrestato a Salerno il 23 dicembre 2007 è stato rimesso in libertà. Il tribunale del riesame di Roma prima, la Cassazione uruguayana poi, ed infine Carlos Abin, ambasciatore del Uruguay in Italia, hanno ognuno fatto del loro peggio. Di 140 mandati di cattura nei confronti dei responsabili delle giunte militari e dei servizi di sicurezza che negli anni ’70 hanno orchestrato il Plan Cóndor, la multinazionale del crimine organizzata da militari cileni, argentini, uruguaiani, paraguaiani boliviani e brasiliani, solo uno era finito in carcere. Ora anche lui è libero.
Néstor Troccoli è stato scarcerato il 23 aprile. In realtà sarebbe uscito di prigione prima se non ci fosse stata una richiesta di estradizione della magistratura uruguayana che lo accusa della scomparsa di trenta cittadini del suo paese che erano fuggiti in Argentina nel 1978 e lì sono diventati desaparecidos. Troccoli, che da due anni risulta residente a Marina di Camerota e ha passaporto italiano, è fuggito verso l’Italia quando ha capito che sarebbe stato arrestato in Uruguay. Il militare è stato tra i primi a riconoscere l’uso della tortura negli interrogatori, ha ammesso di averla praticata sui prigionieri, ma precisa di non aver mai ucciso un detenuto. Il compito del Plan Cóndor era quello di coordinare internazionalmente il sequestro, la tortura, l’uccisione e la scomparsa dei corpi. Un lavoro pulito, messo a punto da Augusto Pinochet e Jorge Videla, che non prevedeva problemi di giurisdizione, né lunghe procedure di estradizione.
Dopo anni di indagini e su istanza dei familiari delle vittime il pubblico ministero Giancarlo Capaldo ha chiesto al gip Luisanna Figliolia di emettere un mandato di cattura nei confronti di Troccoli. Dal 1999 Capaldo raccoglie informazioni su questa sorta di internazionale del terrorismo di stato, dieci anni per ricavarne, dopo solo qualche giorno, una istanza di scarcerazione del tribunale del riesame.
Troccoli, che era stato rinchiuso a Regina Coeli il 24 dicembre, il 17 gennaio 2008 aveva ottenuto l’annullamento dell’ordinanza di custodia cautelare. Troccoli, però, non è stato scarcerato perché era stata avviata una richiesta di estradizione da parte di Luis Charles, giudice della magistratura dell’Uruguay. Solo che trascorsi i 90 giorni che prevede il trattato stipulato tra i due paesi, le carte non erano arrivate alla Corte d’Appello di Salerno che ha concesso la scarcerazione per scadenza dei termini.
Come mai la documentazione non è arrivata a destinazione? A questo punto nasce un giallo con accuse reciproche tra le diverse parti che sono intervenute in questo lungo pellegrinaggio. Anche se il risultato non cambia è importante chiarire che, ancora una volta, tutto gioca a favore dell’impunità dei militari. Come all’epoca dei desaparecidos «nessuno si è accorto di nulla». Ma per fortuna i familiari delle vittime non accettano, dopo 30 anni, che un torturatore torni in libertà per negligenza o peggio. «Ci sono ancora alcune situazioni da chiarire», dice Cristina Mihura, moglie del desaparecido Bernardo Ardore, rappresentate dei familiari. Cerchiamo di ricostruire la vicenda. Innanzitutto non si capisce come mai la Corte di Cassazione dell’Uruguay abbia ricevuto i documenti italiani solo il 13 febbraio. Come mai, considerando che in quel momento mancavano solo 38 giorni alla scadenza dei termini, l’Uruguay ha impiegato un mese per tradurre in italiano il dossier? E poi come mai la Cassazione, a 9 giorni alla scadenza, ce ne mette altri 6 per spedire le carte in Italia.
Martedì 18 marzo gli incartamenti sono arrivati a Roma e qui entra in gioco l’ambasciatore Carlos Abin. Aveva tre giorni a disposizione per consegnare alla Farnesina i documenti che motivavano l’estradizione, ma ha deciso che era meglio controllare per bene il voluminoso dossier — ha dichiarato — per assicurarsi che tutto fosse a posto. Aveva tre giorni, ma non si è accorto che gli atti processuali hanno una scadenza e ha depositato i documenti alla Farnesina il 31 marzo, otto giorni dopo la data di scadenza. «Evidentemente l’ambasciatore Abin non è l’unico responsabile — precisa Cristina Mihura — se al posto di temporeggiare avesse consegnato gli incartamenti, Troccoli sarebbe rimasto in carcere».
In Uruguay la vicenda è arrivata ai vertici dello stato. Il presidente Tavaré Vázquez difende l’operato del suo ambasciatore, ma la Corte di Cassazione non vuole essere incolpata e l’avvocato dei familiari ha chiesto al governo le dimissioni dell’ambasciatore. Forse è il caso di ricordare che dopo la dittatura militare (1973–1985) l’Uruguay ha sancito la legge della caducità che impedisce il processo ai militari responsabili di violazioni dei diritti umani. Ora il governo di sinistra vuole riaprire il capitolo, si raccolgono firme per un referendum abrogativo, ma ci sono molti contrasti interni.
L’Italia ha condannato alcuni responsabili della scomparsa di cittadini italiani in Argentina. Queste condanne sono meritevoli, così come il lavoro di chi ha gestito e reso possibile questi traguardi, ma c’è poco da festeggiare. Quando la condanna arriva a 30 anni di distanza è una condanna storica, i familiari delle vittime ringraziano, ma non si dica che questo è giustizia. I condannati non erano né in aula né in Italia, nessuno li ha disturbati. Non si erano nemmeno preoccupati di procurarsi avvocati difensori, sapevano che sarebbero stati condannati, ma sapevano anche che la condanna non sarebbe stata mai eseguita. In Spagna Adolfo Scilingo sta scontando una condanna a 640 anni per i voli della morte, noi in Italia abbiamo fatto scappare nel 2000 Jorge Olivera e ora il torturatore Nestor Troccoli è tornato in libertà.
CON I MOVIMENTI SOCIALI BOLIVIANI E IL GOVERNO MORALES
PER LA DEMOCRAZIA, LA PARTECIPAZIONE, LA GIUSTIZIA SOCIALE
CONTRO IL REFERENDUM REAZIONARIO DELL’OLIGARCHIA
LA DISCRIMINAZIONE RAZZIALE, LA SCHIAVITU’
SOSTENIAMO LE NAZIONI E I POPOLI INDIGENI DELLA BOLIVIA
NEL LEGITTIMO RECUPERO DELLE PROPRIE TERRE ANCESTRALI
DICIAMO NO AGLI ABUSI E ALLE VIOLENZE DEI LATIFONDISTI
Per il 4 maggio 2008, settori conservatori della Bolivia, oligarchia e latifondisti, e le autorità del Dipartimento di Santa Cruz, loro emanazione, hanno promosso il “Referendum per gli Statuti di Autonomia”. Un atto illegittimo e illegale che si pone al di fuori delle leggi e della Costituzione minacciando l’unità nazionale.
Lo Statuto di Autonomia proposto disconosce il governo centrale e dispone che le regioni abbiano il controllo delle terre e delle risorse naturali, cosi come delle tasse derivanti dallo sfruttamento delle medesime risorse. Non riconosce né i popoli indigeni, né la loro cultura o i loro idiomi come elementi fondamentali delle sue proposte. Anzi!
Inoltre prevede un’autonomia pressoché completa dallo stato centrale – art.122 “Nel caso in cui la conformazione dell’organo di controllo di costituzionalità della Bolivia venga realizzato in violazione dei principi costituzionali di indipendenza dei poteri, delle idoneità e delle specificità della funzione giuridica, il Dipartimento Autonomo di Santa Cruz non si sottometterà alla sua giurisdizione […]” — con addirittura diritti politici diversi per i cittadini cruzeñi rispetto al resto dei boliviani, e conta anche su di una legislazione sulla terra molto differente: art. 102, “Il diritto alla proprietà della terra, la regolarizzazione dei diritti, la distribuzione, riditribuzione e amministrazione della terra nel Dipartimento di Santa Cruz è responsabilità del Governo Dipartimentale [..]”; art. 105, “Il Governo Dipartimentale, attraverso l’Istituto Dipartimentale della Terra (IDT), applicherà processi di raggruppamento, distribuzione e ridistribuzione della terra per evitare l’apparizione del fenomeno del minifondo improduttivo [..]”; art. 109, “Il Governatore firmerà tutti i Titoli Agrari che accreditano proprietà sulla terra […]”.
Questi articoli forniscono una risposta precisa alla domanda su chi abbia redatto un simile Statuto di Autonomia e su quali fossero le sue intenzioni: contrastare le riforme politiche-economiche del governo Morales e le azioni dei movimenti sociali che si sono battute per la difesa delle risorse naturali, per il cambiamento politico, l’eliminazione dei latifondi e la restituzione delle terre agli indigeni.
Rodolfo Stavenhagen, relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali dei popoli indigeni, nel rapporto redatto in seguito alla visita ufficiale in Bolivia dal 25 novembre al 4 dicembre 2007, ha dichiarato:
“Il progetto di statuto di autonomia prevede una serie di disposizioni di carattere razzista, compreso l’articolo 161, che sarebbe estremamente dannoso per le popolazioni indigene del dipartimento”.
Di fatto l’art. 161 dello statuto mostra il suo carattere razzista quando “riconosce con orgoglio la sua condizione razziale a maggioranza meticcia” e limita il riconoscimento dei popoli indigeni ai soli oriundi: “conservare la cultura e promuovere lo sviluppo integrale e autonomo dei popoli indigeni oriundi del dipartimento: Chiquitano, Guaraní, Guarayo, Ayoreo e Mojeño…”.
In realtà più del 20% della popolazione di Santa Cruz si auto identifica come Quechua o Aymarà. (dati censimento 2001)
E come vogliono “promuovere lo sviluppo dei popoli indigeni” i latifondisti e l’oligarchia Cruzeña?
Con la riduzione in schiavitù degli indigeni guaranì e l’opposizione armata al legittimo recupero delle terre ancestrali da parte dei popoli indigeni!
È il caso della hacienda “Caraparicito”, di proprietà del nordamericano Larsen.
Questo latifondista tiene in suo potere indigeni guaranì ridotti in schiavitù e per due volte, il 29 febbraio e il 4 aprile, ha impedito che venisse portata a compimento la restituzione delle terre, occupate da lui illegalmente, al Popolo Guaranì, ostacolando, sequestrando e minacciando di morte le commissioni ufficiali giunte alle porte della sua hacienda.
Il 4 aprile, Larsen ha minacciato personalmente e in maniera esplicita Alejandro Almaraz, viceministro per la Questione della Terra, e Wilson Changaray, Presidente dell’Assemblea del Popolo Guaranì.
Anche il già citato Rodolfo Stavenhagen, relatore speciale delle Nazioni Unite, ha dichiarato di aver
“osservato con preoccupazione e condannato le aggressioni che nei giorni passati hanno colpito nella regione dell’Altipiano Cruzeño alcuni funzionari pubblici e membri delle comunità guaranì durante il processo di restituzione dei territori ancestrali a questo popolo”.
Il raggiungimento di una giustizia sociale a livello globale, di nuovi modelli di sviluppo che non comportino lo sfruttamento o la distruzione dell’ambiente naturale né degli esseri umani che lo popolano, passa dall’abbattimento delle oligarchie, dal recupero delle terre occupate arbitrariamente dai latifondisti, dall’eradicazione di ogni schiavitù, discriminazione, razzismo.
Facciamo un appello ai movimenti sociali Italiani, alle personalità politiche e intellettuali affinché sottoscrivano questo messaggio di solidarietà con le nazioni e i popoli indigeni, i movimenti sociali Boliviani e il Governo Morales.
Primi firmatari :
Confederazione COBAS, ARCI, Partito Rifondazione Comunista, SELVAS.ORG-Osservatorio Informativo, Associazione ASUD, REBOC — Rete Boicottaggio Coca Cola– Comitato Carlos Fonseca, Associazione Italia Nicaraguacircolo “Leonel Rugama” Roma, Spazio Sociale EX-51 Roma- El Vagon Libre.Onlus — Claudio albertani, insegnante messico – Guido Piccoli, giornalista
[1] La Bolivia, paese a maggioranza indigena (il 62% della popolazione) è la patria di 36 popoli indigeni ufficialmente riconosciuti, dei quali i maggiori per numero sono i Quechua e gli Aymarà.
[2] I popoli indigeni hanno ottenuto i titoli di proprietà per 11 milioni di ettari, sulla base della Legge Agraria 3545 di “Reconducción Comunitaria de la Reforma Agraria”, promulgata il 28.11.2006 dal presidente della repubblica Evo Morales.
[3] La nuova costituzione risponde a vari momenti storici: il superamento della colonia con il riconoscimento dei diritti dei popoli indigeni; il fallimento della riforma agraria del 1953; le conseguenze delle dittature degli anni ’70; il flagello neoliberista imposto dal 1985; le nuove sfide della Bolivia e del Mondo: una democrazia partecipativa, una giustizia reale e una umanità in armonia con la natura.
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per aderire:
comitatocarlosfonsecavirgilioit (comitatocarlosfonsecavirgilioit)
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“Le associazioni sindacali, in coordinazione con le associazioni per la difesa dei diritti umani, le organizzazioni sociali ed alcuni partiti politici, hanno stabilito che questo primo maggio 2008 debba avere un elevato contenuto politico” ha detto Fabio Arias, vicepresidente della
Central Unitaria de Trabajadores (CUT). Ha aggiunto anche che il “movimento sindacale è stato uno delle vittime principali del paramilitarismo”.
Nel corso del 2008 sono stati assassinati già 24 sindacalisti, 39 sono stati quelli uccisi invece nel 2007.
Tra il gennaio 1991 e il dicembre 2006 invece sono stati uccisi 2245 sindacalisti, 3400 sono stati minacciati e 138 sono stati vittime di sparizioni forzate (Fonte Amnesty International)
L’impunità è elevatissima, se si pensa che dal 1986, secondo la Escuela Nacional Sindical (ENS) sono stati registrati 2.578 casi di omicidi di sindacalisti, di questi solo in 76 casi sono state emesse sentenze. Rimangono ancora pertanto 2.500 casi irrisolti.
Per i casi più recenti il gruppo paramilitare delle “Aguilas Negras” è il maggior indiziato degli omicidi di sindacalisti in Colombia .
Julio Roberto Goméz della Confederación General del Trabajo (CGT) denuncia inoltre una persecuzione “legale” dell’attività sindacale nel paese. Ci sono infatti notevoli difficoltà a registrare nuovi sindacati, il Ministero della Protezione Sociale ne ha bloccato la registrazione di circa 230 e spesso i lavoratori sono costretti a firmare contratti dove rinunciano alla loro adesione a un sindacato.
E’ richiesta a gran voce inoltre la ricomparsa in vita di Guillermo Rívera, leader sindacale e militante del Partito Comunista Colombiano scomparso il 22 aprile scorso, anche per lui si è sfilato a Bogotà in questo 1 maggio.
Situazione sempre più difficile in Colombia per Álvaro Uribe, ma probabilmente si profilano tempi duri anche per l’attuale ambasciatore colombiano in Italia, Sabas Pretelt de la Vega e per altri funzionari, tra i quali il Fiscal General (la massima carica della magistratura colombiana) Mario Iguarán. La Corte Suprema di Giustizia, forse l’unica ancora di salvezza che rimane alla Colombia, sta indagando addirittura sulle modalità con la quale fu approvata nel 2004 la riforma costituzionale che ha reso possibile la rielezione del presidente colombiano due anni più tardi.
E’ stato emesso infatti un mandato di arresto per la parlamentare Yidis Medina, la quale una settimana fa ha rivelato in un’ intervista ai mezzi di comunicazione, di aver accettato incarichi pubblici, tra i quali probabilmente un consolato, in cambio del suo voto favorevole che fu decisivo proprio per l’approvazione di quella riforma costituzionale. La stessa Medina ha affermato inoltre in quell’intervista, che sia Uribe, sia alcuni suoi stretti collaboratori, quali l’allora segretario generale della Presidenza Alberto Velásquez, l’attuale ambasciatore colombiano a Roma e all’epoca ministro dell’Interno, Sabas Pretelt de la Vega ‚ nonché l’attuale Fiscal General Mario Iguaráni, erano perfettamente a conoscenza della proposta dello scambio del voto contro incarichi pubblici. La Medina attualmente è latitante, ma ha comunicato tramite il suo avvocato, Ramón Ballesteros, che probabilmente si consegnerà alla giustizia tra lunedì e martedì prossimo.
Tutte le persone coinvolte potrebbero essere pertanto inserite nelle indagini e l’attuale ambasciatore colombiano essere richiamato in patria. Egli operò nella vicenda come tramite tra le proposte del governo e Yidis Medina.
La storia si ripete quindi, e per il corpo diplomatico di via Pisanelli, sede dell’ambasciata colombiana a Roma, potrebbe figurarsi un nuovo cambio al vertice se la Corte Suprema di Giustizia della Colombia decidesse di procedere anche contro l’ambasciatore Sabas Pretelt de la Vega e se lui dovesse quindi far ritorno in patria per far luce sul suo ruolo nell’intera vicenda. Già in passato sorte analoga era toccata all ’ex console di Milano Jorge Noguera Cote e al precedente ambasciatore a Roma, Luis Camilo Osorio.
Luis Camilo Osorio, fu trasferito da Roma alle sede diplomatica messicana, e fu costretto a ritornare in patria per rispondere in tre processi tutt’ora aperti in cui è accusato di aver favorito l’ingerenza dei paramilitari quando ricopriva la carica di Fiscal General tra il 2001 e il 2005. Secondo le accuse e le testimonianze fornite, favorì l’impunità dei criminali e politici che avevano commesso crimini contro l’umanità legati al paramilitarismo e al narcotraffico, proteggendo tra gli altri il generale Rito Alejo del Río, indicato da Salvatore Mancuso come artefice dell’espansione del paramilitarismo in Colombia. Nel 2002 fu denunciato da Human Right Watch per aver ostacolato la giustizia con il suo operato: “mancanza di appoggio ai pubblici ministeri che lavoravano su casi sensibili di diritti umani, incapacità di fornire una protezione efficace e tempestiva ai funzionari le cui vite erano minacciate, e licenziamento o rinuncia forzata di pubblici ministeri e investigatori esperti”.
Jorge Noguera Cote, ex console a Milano, fu costretto invece a lasciare l’incarico nel 2006 per i procedimenti penali avviati contro di lui e fu arrestato nel luglio del 2007 in Colombia, con l’accusa di avere avuto stretti legami con i paramilitari e di aver fornito ai capi delle AUC informazioni riservate, in particolare è accusato di aver fornito agli stessi liste di sindacalisti, politici e attivisti sociali che furono successivamente eliminati.
Sabas Pretelt de la Vega , l’ideatore della legge di Giustizia e Pace, con la quale i paramiliatri che si sono macchiati di crimini terribili vengono condannati con pene che prevedono la reclusione al massimo per otto anni di carcere, è accusato da due capi paramilitari di aver promesso loro la non estradizione negli Stati Uniti in cambio del loro appoggio alla rielezione di Uribe. I due fratelli Mejía Muñera (alias Los Mellizos) lo hanno accusato invece di aver fatto da tramite nel trasferimento del denaro con il quale i paramilitari hanno finanziato la rielezione di Uribe nel 2006, denaro sporco di sangue e frutto dei proventi del narcotraffico.
Si trova ancora a Roma, ma se dovessero essere confermate le accuse mosse contro di lui da Yidis Medina e se la Corte Suprema dovesse decidere di procedere nelle indagini, ben presto potrebbe essere costretto a rinunciare per finire sotto processo in Colombia e quindi fare ritorno in patria in veste di inquisito.
L’Italia in Europa, quindi, sembrerebbe svolgere rispetto alla Colombia, lo stesso ruolo che svolge il Messico in America centrale: entrambi i paesi funzionano da centro di smistamento di loschi personaggi coinvolti con il paramilitarismo e il narcotraffico nel loro paese; personaggi sul capo dei quali pendono accuse gravissime che poi si concretizzano in mandati di cattura.
E’ evidente che la Farnesina dovrebbe compiere indagini più accurate sulla storia personale dei diplomatici provenienti dalla Colombia. Jorgue Noguera Cote per esempio fu accettato in Italia, allora era Gianfranco Fini ministro degli affari Esteri, dopo aver dovuto, nel 2005, rassegnare le dimissioni come direttore del DAS (Dipartimento Amministrativo di Sicurezza, la polizia segreta colombiana), per le accuse che Rafael García, ex capo del reparto di informatica del Dipartimento gli stava muovendo. Accuse che successivamente si dimostrarono fondate, dal momento che Jorgue Noguera Cote fu arrestato nel febbraio del 2007. In seguito alle sue dimissioni, il presidente Uribe lo nominò console a Milano, dopo che il Canada aveva rifiutato saggiamente la proposta di averlo nel suo paese come rappresentante diplomatico della Colombia.
In Italia non si guardò tanto per il sottile, accuse come collusione con il paramilitarismo, organizzazione di frode elettorale (con la quale Uribe avrebbe vinto le elezioni nel 2002), ingerenza negli affari interni di un paese straniero (il Venezuela) dove Noguera avrebbe tentato di organizzare insieme ad alcuni capi paramilitari l’omicidio di Chávez e dove avrebbe pianificato l’omicidio del pubblico ministero Danilo Anderson, (che stava svolgendo indagini sul golpe dell’aprile 2002), probabilmente sembrarono cose di poco conto, dal momento che la Farnesina lo accolse senza nessuna riserva nel nostro paese.
Il presidente Álvaro Uribe ha ammesso ieri di essere oggetto di indagini per il suo coinvolgimento diretto in un massacro compiuto da paramilitari, che sarebbe avvenuto nel 1997 quando egli era governatore del dipartimento di Antioquia.
Nella località di El Aro, in sei giorni vennero assasinate e torturate 15 persone, distrutte 43 abitazioni, violentate donne e spinte all’esodo circa 800 persone della zona.
Le indagini sarebbero state avviate in seguito alla confessione di un testimone che lo accusa di aver preso parte ad una riunione alla quale erano presenti tra gli altri il generale Ospina, il generale Rosso e il capo paramilitare Salvatore Mancuso, riunione che aveva lo scopo di pianificare e organizzare il massacro.
Uribe, secondo il testimone, un ex paramilitare, avrebbe anche ringraziato personalmente gli autori materiali del massacro perchè nell’occasione riuscirono a liberare anche sei sequestrati tra i quali un suo cugino e che il fratello del presidente, Santiago Uribe, avrebbe “prestato” 20 paramilitari per compiere quel crimine.
Questa notizia giunge appena dopo l’arresto del cugino del presidente Uribe, Mario Uribe Escobar, in carcere oggi per vincoli con il paramilitarismo e nel momento in cui circa 30 parlamentari del congresso si trovano in carcere e una settantina sono inquisiti.
Ad essi si aggiunge adesso il Presidente in persona.
Si rende pertanto sempre più necessaria nel paese, come chiesta a gran voce in questi giorni dalle associazioni, dai movimenti sociali e dalle forze politiche di opposizione, in particolare dal Polo Democrático Alternativo, una Assemblea Costituente, con il fine di “rilegittimare le istituzioni del paese”.
Il presidente Uribe, ovviamente respinge tutte le accuse come prive di fondamento e nega la possibilità di convocare l’Assemblea Costituente.
Resta l’ipotesi delle elezioni anticipate ma è sempre più evidente che la Colombia potrebbe trovarsi ad una svolta decisiva per ristabilire la democrazia perduta tra massacri e fosse comuni.
Arrestato Mario Uribe Escobar, cugino del presidente colombiano Álvaro Uribe per vincoli con il paramilitarismo. Il cerchio intorno al parapresidente sembra stringersi sempre più. Nel parlamento colombiano 32 parlamentari detenuti e 70 inquisiti.…
Que se vayan todos…
di ABP Messico
16/04/2008
Fonte :ABP Agencia Bolivariana de Prensa
Traduzione di Annalisa Melandri
La denuncia presentata lo scorso 7 aprile alla Procura Generale della Repubblica (PGR) del Messico contro Lucía Morett ed altri 15 messicani, tra i quali i quattro studenti universitari morti in territorio ecuatoriano per mano dell’esercito colombiano, è opera dell’organizzazione cattolica di estrema destra conosciuta come El Yunque .
Il così detto Consejo Ciudadano para la Seguridad Pública y la Justicia Penal, A.C.
(CCSPyJP) propone una denuncia penale contro Morett e gli altri messicani per il reato di terrorismo con l’accusa basata su documenti che sarebbero stati passati dagli organismi di sicurezza messicani e colombiani a quotidiani, settimanali e televisioni controllate dalla destra di entrambi i paesi.
Il suo presidente José Antonio Ortega Sánchez è, come hanno segnalato ricercatori specializzati nello studio dell’estrema destra messicana, e in modo particolare il giornalista del settimanale messicano Proceso, Álvaro Delgado, dirigente di El Yunque.
Gli altri dirigenti del gruppo fascista messicano sono: Jorge Espina Reyes (ex presidente della Condeferazione Patronale Messicana , Coparmex) e Jorge Serrano Límon(presidente del gruppo antiabortista Provida) . El Yunque rappresenta l’ala più radicale e intollerante del Partito di Azione Nazionale (PAN), rappresentazione politica dell’attuale presidente Felipe Calderón.
Rispetto ai membri di El Yunque, Calderón è un moderato. Sono vari i contrasti che ci sono all’interno del PAN tra Calderón e l’organizzazione fascista messicana, di fatto, a suo dire Calderón non prende sufficienti misure repressive contro le organizzazioni sociali e la sinistra in Messico.
Il giornalista Álvaro Delgado, dopo alcuni anni dedicati a studiare questo gruppo di destra, conclude che i membri di El Yunque si caratterizzano per “essere nemici di tutte le libertà umane, estremamente intolleranti, anticomunisti, antisemiti e contro la sinistra (.…) e si dichiarano soldati di Dio”.
Con questa concezione, El Yunque ha creato organizzazioni di scontro responsabili di omicidi contro dirigenti di destra, sindacalisti, accademici, etc. I suoi gruppi più conosciuti sono stati Il Muro, DIHAC, Asociación Cívica Femenina, el Comité Nacional Pro-vida, la Unión Nacional de Padres de Familia, la COPARMEX e ovviamente il Consejo Ciudadano para la Seguridad Pública y la Justicia Penal, A.C.
Il caso dei messicani morti in Ecuador
Nei giorni scorsi, il CCSPyJP ha presentato una denuncia penale contro Lucía Morett, la messicana sopravvissuta all’attacco colombiano contro il campo delle FARC in territorio ecuatoriano, e altri quindici messicani. Il reato contestato è quello di “terrorismo internazionale”.
Secondo l’organizzazione yunquista i messicani morti, la ragazza ferita e gli altri, i cui nomi sono stati riportati da alcuni mezzi di informazione dominati dalla destra messicana e colombiana, sarebbero responsabili “di atti di terrorismo” in territorio messicano.
Nella sua pagina internet (www.seguridadjusticiaypaz.org) , il CCSPyJP fa affermazioni che per la loro grossolaneria e mancanza di fondamenta sembrano più un proclama ideologico che un’argomentazione giuridica. Per esempio il titolo del documento nel quale espongono la loro denuncia alla PGR dice: “ In quali sequestri e attacchi terroristici in Messico hanno partecipato i messicani che hanno ricevuto addestramento terroristico in Ecuador? Per commettere quali crimini sono stati addestrati? Cosa stanno tramando adesso?”
In un documento firmato l’11 aprile del 2008, il presidente di questa organizzazione cerca di supportare la sua denuncia con presunte prove che riescono solo a ridicolizzare il querelante. Per esempio: il 27 marzo 2008 l’emittente televisiva TC dell’Ecuador, filiale di RCN colombiana e poi la stessa RCN, hanno diffuso un video dove si vede Lucía Morett che indossa abiti militari e che riceve addestramento terrorista nello stesso campo delle FARC che fu attaccato il 1 marzo 2008. La registrazione però corrisponde al dicembre del 2007. E quindi Morett e gli altri messicani si sarebbero recati in varie occasioni ai campi delle FARC. Il video si può vedere qui:
Raccomandiamo al lettore la visione del video per farsi un’idea più chiara del livello di disinformazione e del montaggio propagandistico di stampo fascista che c’è dietro la campagna di El Yunque. E’ impossibile perfino per i periti più inesperti sull’argomento, confondere Lucía Morett con la persona indicata nella registrazione.
La CCPSPyJP segnala, nello steso documento che “nel suo viaggio di addestramento terroristico (sic), i 16 (messicani) avrebbero speso per lo meno 50 mila dollari, quantità di denaro fuori dalla portata di semplici studenti e sulla cui origine non è stata fatta chiarezza fino a questo momento”.
Così, senza dire secondo chi, o in che modo, si conclude che questa cifra fu spesa dagli studenti messicani. Questa cifra è stata inventata e diffusa sui mezzi di informazione di destra del paese.
Il suo documento conclude dicendo che: “Non c’è nessuno sforzo serio per superare il grave deficit di sicurezza del governo sul terrorismo. Il messaggio che tutto questo rimanda ai terroristi e alle altre persone fanatiche della violenza e della sovversione, è che lo Stato messicano è disposto a tollerare tutto, che sta in ginocchio davati a loro (sic) e davanti a questo invito a scatenare impunemente l’inferno , quale ammiratore messicano del Che o di Osama (sic) potrebbe resistere? Giudicate voi la stupidità del discorso yunquista.
E se non bastasse, il documento segnala che il governo messicano “invece di appoggiare la Colombia che si difende dal terrorismo e dall’aggressione esterna, mantiene una posizione secondo le necessità e gli interessi di Castro e Chávez (mentre questo ruba ai nostri compatrioti che investono in Venezuela)”
Merita essere preso in considerazione questo rabbioso proclama come denuncia penale seria e consistente? Tutto indica di no, ma sembra che alcuni settori della cancelleria e dell’apparato giuridico messicano, come coloro i quali che autorizzarono l’aggressivo interrogatorio della PGR a Lucía nell’Ospedale Militare di Quito, credono che questa propaganda di estrema destra sia sufficiente motivo per dare fondamento a una azione giuridica.
Qual’è l’obiettivo dell’estrema destra quando cerca di stravolgere il ruolo delle vittime messicane dell’attacco colombiano trasformandole in carnefici?
Sarà un pretesto per poter dare seguito definitivamente alla così detta Iniziativa Mérida di stampo statunitense? Che ruolo gioca in questo il governo narcoparamiliatre di Álvaro Uribe Vélez in Colombia?
Questo sì merita una indagine approfondita.
Un dimostrante mangia erba di fornte ad un casco blu dell’ONU durante le recenti proteste contro il carovita (AP Photo/Ariana Cubillos)
5 morti e decine di feriti. Questo è il saldo delle proteste avvenute a partire dalla fine di marzo ad Haiti contro l’alto costo della vita, in uno dei paesi più poveri dell’America Latina e dei Caraibi, dove l’80 per cento della popolazione vive con meno di due dollari al giorno e dove oggi, a differenza di 20 anni fa, quando si produceva il 95 % del riso consumato, se ne importa l’80% dagli Stati Uniti.
Proteste però anche contro i circa 9000 militari della Missione delle Nazioni Unite per la Stabilizzazione di Haiti (MINUSTAH), che dal 2004, cioè da quando il presidente Aristide in seguito ad un colpo di stato è stato costretto a rifugiarsi Sud Africa, presidiano il paese.
Militari accusati più volte dalla popolazione locale di aver compiuto, restando tuttavia impuniti, crimini che vanno dalle violenze sessuali alle torture.
Ed è proprio uno dei caschi blu dell’ONU di nazionalità nigeriana, una delle cinque vittime dei disordini, che, iniziati nel sud del paese, si sono ben presto diffusi in tutto lo stato.
Medici senza Frontiere rende noto che, a Port au Prince, molti dei feriti assistiti negli ospedali riportavano ferite da arma da fuoco. La situazione inoltre si è aggravata e complicata ulteriormente per lo sciopero dei camionisti contro l’aumento del prezzo del carburante che aveva paralizzato il traffico cittadino, rendendo difficoltoso il trasporto dei feriti negli ospedali.
I manifestanti più vicini al vecchio presidente Aristide ne chiedono il ritorno, nonostante le elezioni del 2006 abbiano confermato la presidenza di René Préval, sostenitore dello stesso Aristide, che ha vinto con il 51, 15% dei voti.
A causa dei disordini e della situazione di crescente tensione nel paese, il senato haitiano ha ritirato quasi all’unanimità la fiducia al primo ministro Jacques Edouard Alexis.
Préval ha predisposto intanto un piano di emergenza volto alla riduzione drastica del prezzo del riso, che in una settimana era passato da 35 dollari a 70 dollari il sacco, affermando in un discorso rivolto alla popolazione, che il paese “sta pagando le conseguenza di politiche sbagliate applicate da oltre 20 anni ad Haiti”.
Intanto è sempre più sotto esame il ruolo svolto dal MINUSTAH, composto per circa il 40% da effettivi provenienti da paesi latinoamericani con governi di sinistra o progressisti ( Brasile, Uruguay, Argentina e Cile).
Sembrerebbe, come denuncia anche il Premio Nobel per la Pace, Adolfo Pérez Esquivel, che nel primo anno della missione ONU siano morte 1200 persone per episodi di violenze. In altri due episodi, i caschi blu avrebbero sparato sulla popolazione disarmata nei quartieri più poveri di Port au Prince provocando decine di morti.
Adesso, dopo la riduzione del prezzo del riso, la situazione sembra essere tornata tranquilla.
Fino a quando?
Questa è una poesia scritta da un giovane cantautore colombiano, trovador, mejor dicho.
Lizandro Carvajal: “le luci si accendono. Sul palco un giovane cantautore colombiano, “più moderno che medioevale”. Con la sua chitarra sembrano una cosa sola. Sono una miscela indissolubile, un centauro contemporaneo: mezzo uomo, mezzo chitarra…
Consiglio una passeggiata nel suo sito, tra suoni e colori, atmosfere suggestive, esperimenti e laboratori di melodie.
Lizandro sarà in Europa a maggio, in una tournée che lo porterà anche in Polonia, Francia e Spagna, chi fosse interessato a organizzare un concerto con lui, magari cogliendo l’occasione per parlare di Colombia, può contattarlo tramite il suo sito.
E ora che succede,
se siamo rimasti soli,
che ci invadano, che sarebbe meglio.
Sarebbe una benedizione per la nostra terra,
che circondino le nostre frontiere,
che ci invadano i nostri
fratelli latinoamericani.
Che ci invadano gli ecuatoriani,
così magari avremo di nuovo
tenero come mais, il cuore che abbiamo perduto.
Che ci invadano i cubani!
affinchè i nostri bambini
siano educati gratuitamente
e non muoiano davanti alle porte
degli ospedali privati.
Che venga il meglio della nostra America.
Che venga un contingente
di ragazze brasiliane
con le quali fare l’amore
fino a perdere la lieve forza di cui si ha bisogno
per premere un grilletto.
La cosa migliore per la Colombia
sarebbe un’invasione brasiliana di vasta portata;
Così che un giorno,
vinciamo un mondiale di calcio.
Abbiamo urgente bisogno
di una invasione venezuelana,
per tornare a dire
le cose con chiarezza,
sinceramente, senza tradimenti,
Con oratoria bolivariana.
Ci serve con urgenza
un’invasione boliviana
che ci tolga questa vergogna
di essere indios, questa vergogna,
che ci condanna eternamente
al peggiore dei sottosviluppi.
Reclamo con ansia l’invasione
di truppe di piqueteros argentini,
di madres y abuelas de plaza,
che ci raccontino storie
nelle quali riconoscere
le nostre proprie storie.
Che vengano truppe spagnole e cilene,
a raccontarci come imputridisce il cuore
di una patria fascista.
Vengano gli uruguaiani con il loro mate amaro
a raccontarci la milonga triste e sdolcinata
dei loro desaparecidos.
Che vengano tutti i fratelli
del mondo in questa terra dimenticata
a farci capire che il nostro
paese non è il migliore del mondo
perchè è una patria ingiusta.
Che Colombia è passione…
e morte.
Speriamo che ci invada la batucada festosa
che ponga fine al nostro lutto
che ponga fine a questo silenzio assordante.
Siamo soli, alla destra della cartina geografica.
Ci fa compagnia soltanto il nostro caro amico
Quello che invase il paese delle mille e una notte.