Cile, la rivolta dei detenuti mapuche
Cile, la rivolta dei detenuti mapuche
Il caso di uno studente ucciso dalla polizia fa riesplodere la protesta della minoranza indigena
Geraldina Colotti
Il Manifesto, 13 gennaio 2007
Torna in scena la questione Mapuche in Cile. Alla morte del giovane studente Matias Katrileo Quezada, 22 anni, sepolto domenica scorsa, ucciso dai proiettili di un carabinero, potrebbe aggiungersi quella di Patricia Troncoso, da 90 giorni in sciopero della fame e ricoverata all’Hospital Angol di Temuco in condizioni disperate. Altri quattro mapuche, detenuti nel carcere di Angol a Temuco, hanno invece sospeso lo sciopero della fame con cui chiedevano la revisione del processo e il riconoscimento dei loro diritti.
Ieri il risultato delle perizie ordinate dal giudice istruttore che ha messo sotto inchiesta il sottufficiale dei carabinieri cileni Walter Ramirez Espinoza, ha confermato che a uccidere lo studente è stato il proiettile di un’arma di ordinanza. Le associazioni per i diritti umani hanno chiesto garanzie perché il procedimento non venga affidato a un tribunale militare, come già accaduto in un caso analogo recente. Due deputati socialisti (il partito della presidente Michelle Bachelet) hanno presentato interrogazioni parlamentari su tutta la vicenda, e anche l’ex giudice Juan Guzman — noto per avere perseguito i crimini di Pinochet e ora in pensione come avvocato — ha presentato al Consiglio per i diritti umani di Ginevra la lettera di un capo mapuche. Lettere di protesta sono state inoltre presentate alle ambasciate del Cile nel mondo e anche a Roma: «Speriamo che la morte del giovane Matías Katrileo sia l’ultima — ha dichiarato il premio Nobel per la pace Adolfo Pérez Esquivel in un appello al governo cileno — e che una volta per tutte venga abolita la Legge antiterrorista e ratificata la direttiva Onu 169 sui diritti dei popoli indigeni».
L’abolizione della Legge antiterrorismo, insieme alla liberazione dei prigionieri politici e all’autodeterminazione, è una delle tre rivendicazioni avanzate da anni dai mapuche. Per quanto riguarda la 169, invece, il loro accordo non c’è, perché — sostengono — sta per essere ratiticata dal senato in una forma «mutilata». E rigettano la palla nel campo del governo. Michelle Bachelet — impegnata in un significativo rimpasto di governo — l’altroieri ha nominato una commissione di ministri: «per studiare e valutare le attuali politiche nei confronti dei mapuche e della questione indigena in generale». A presiedere il gruppo, il sociologo Jaime Andrade, che ebbe un analogo incarico nel governo precedente. Una via già percorsa e già fallita, per i mapuche, soprattutto finché rimane in piedi la legge antiterrorismo varata da Pinochet. Dai tempi del golpe militare — che oppresse il paese dal 1973 al ’90, stroncando anche la riforma agraria iniziata da Salvador Allende -, i mapuche vengono perseguiti con particolare accanimento in base a questa legge. Basta che ricevano una condanna a dieci anni e un giorno, per essere esclusi dalle cosiddette misure alternative alla detenzione.
Dieci anni e un giorno sconta Patricia Troncoso per l’incendio del Fondo Poluco-Pidenco della Forestal Mininco. Se fosse stata giudicata secondo la legge ordinaria, sarebbe già fuori dal carcere. Ora, invece, è una detenuta con pochissime speranze di sopravvivere, ma finché ha avuto forze, ha scritto che morire non la spaventa se serve al suo popolo.
Quello mapuche è il popolo che, in America, si è opposto con più continuità alle dominazioni coloniali nel corso della storia: prima all’espansione degli incas e poi a quella degli spagnoli. Sopravvissuto anche all’immane massacro dell’esercito spagnolo che, nella seconda metà dell’Ottocento, tentò di spazzarlo via, e alle prigioni di Pinochet, e ora intenzionato a preservare il proprio millenario ordinamento sociale e ambientale dall’imposizione delle monoculture, dalle devastazioni ambientali. Non hanno documenti scritti, ma quelle terre sono le loro.
Oggi i mapuche sono un milione circa, sparsi tra le regioni centromeridionali del paese e la capitale Santiago. Nel corso del 2007, almeno 166 di loro sono stati accusati di diversi reati connessi al conflitto che interessa la «IX Region»: disordini, occupazioni, incendi. Secondo le imputazioni, si aggirano armati a sparare agli elicotteri delle multinazionali. I loro avvocati denunciano invece processi farsa, testimoni pagati e mascherati, e armi lasciate apposta nelle università per accusare poi i mapuche che vanno a restituirle. I mapuche, dicono, bruciano solo le devastanti radici di eucalipto che le multinazionali diffondono sui territori.Rivendicano, però, il diritto di resistenza
Ieri il risultato delle perizie ordinate dal giudice istruttore che ha messo sotto inchiesta il sottufficiale dei carabinieri cileni Walter Ramirez Espinoza, ha confermato che a uccidere lo studente è stato il proiettile di un’arma di ordinanza. Le associazioni per i diritti umani hanno chiesto garanzie perché il procedimento non venga affidato a un tribunale militare, come già accaduto in un caso analogo recente. Due deputati socialisti (il partito della presidente Michelle Bachelet) hanno presentato interrogazioni parlamentari su tutta la vicenda, e anche l’ex giudice Juan Guzman — noto per avere perseguito i crimini di Pinochet e ora in pensione come avvocato — ha presentato al Consiglio per i diritti umani di Ginevra la lettera di un capo mapuche. Lettere di protesta sono state inoltre presentate alle ambasciate del Cile nel mondo e anche a Roma: «Speriamo che la morte del giovane Matías Katrileo sia l’ultima — ha dichiarato il premio Nobel per la pace Adolfo Pérez Esquivel in un appello al governo cileno — e che una volta per tutte venga abolita la Legge antiterrorista e ratificata la direttiva Onu 169 sui diritti dei popoli indigeni».
L’abolizione della Legge antiterrorismo, insieme alla liberazione dei prigionieri politici e all’autodeterminazione, è una delle tre rivendicazioni avanzate da anni dai mapuche. Per quanto riguarda la 169, invece, il loro accordo non c’è, perché — sostengono — sta per essere ratiticata dal senato in una forma «mutilata». E rigettano la palla nel campo del governo. Michelle Bachelet — impegnata in un significativo rimpasto di governo — l’altroieri ha nominato una commissione di ministri: «per studiare e valutare le attuali politiche nei confronti dei mapuche e della questione indigena in generale». A presiedere il gruppo, il sociologo Jaime Andrade, che ebbe un analogo incarico nel governo precedente. Una via già percorsa e già fallita, per i mapuche, soprattutto finché rimane in piedi la legge antiterrorismo varata da Pinochet. Dai tempi del golpe militare — che oppresse il paese dal 1973 al ’90, stroncando anche la riforma agraria iniziata da Salvador Allende -, i mapuche vengono perseguiti con particolare accanimento in base a questa legge. Basta che ricevano una condanna a dieci anni e un giorno, per essere esclusi dalle cosiddette misure alternative alla detenzione.
Dieci anni e un giorno sconta Patricia Troncoso per l’incendio del Fondo Poluco-Pidenco della Forestal Mininco. Se fosse stata giudicata secondo la legge ordinaria, sarebbe già fuori dal carcere. Ora, invece, è una detenuta con pochissime speranze di sopravvivere, ma finché ha avuto forze, ha scritto che morire non la spaventa se serve al suo popolo.
Quello mapuche è il popolo che, in America, si è opposto con più continuità alle dominazioni coloniali nel corso della storia: prima all’espansione degli incas e poi a quella degli spagnoli. Sopravvissuto anche all’immane massacro dell’esercito spagnolo che, nella seconda metà dell’Ottocento, tentò di spazzarlo via, e alle prigioni di Pinochet, e ora intenzionato a preservare il proprio millenario ordinamento sociale e ambientale dall’imposizione delle monoculture, dalle devastazioni ambientali. Non hanno documenti scritti, ma quelle terre sono le loro.
Oggi i mapuche sono un milione circa, sparsi tra le regioni centromeridionali del paese e la capitale Santiago. Nel corso del 2007, almeno 166 di loro sono stati accusati di diversi reati connessi al conflitto che interessa la «IX Region»: disordini, occupazioni, incendi. Secondo le imputazioni, si aggirano armati a sparare agli elicotteri delle multinazionali. I loro avvocati denunciano invece processi farsa, testimoni pagati e mascherati, e armi lasciate apposta nelle università per accusare poi i mapuche che vanno a restituirle. I mapuche, dicono, bruciano solo le devastanti radici di eucalipto che le multinazionali diffondono sui territori.Rivendicano, però, il diritto di resistenza
Wenuykan, amicizia
Dall’Europa al Canada, gli attivisti si mobilitano
E’ nata nel settembre scorso Wenuykan («Amicizia» nella lingua dei mapuche, il mapudungun), associazione d’amicizia con il Popolo Mapuche, composta da alcuni cittadini italiani e da cileni rifugiati in Italia e Europa dai tempi della dittatura di Pinochet. Durante la primavera 2007, l’associazione ha inviato una lettera aperta ai parlamentari europei affinché intervengano per il rispetto dei diritti del Popolo Mapuche in Cile e contesta la laurea ad Honoris poi conferita a Michelle Bachelet dall’università di Siena. Ora l’associazione invita a seguire in Italia le conferenze dell’attivista e poeta Mapuche Rayen Kvyeh, che sarà anche presente a Roma (alla libreria Odradek), il prossimo 25 gennaio. Qualche sito per contatti: wenuykangmailcom — Italia;
www.vientosdelsur.org Udine — Italia
kulturamapuchegmailcom
radioregion14gmailcom
www.vientosdelsur.org Udine — Italia
kulturamapuchegmailcom
radioregion14gmailcom
Ricordiamo che Geraldina Colotti (che ringraziamo) sarà presente il 25 gennaio persso la Libreria Odradek a : Rayen Kvyeh: La parola errante – recital e conferenza stampa sui prigionieri politici Mapuche, iniziativa organizzata dall’associazione Wenuykan.
Per dettagli qui.
Rayen Kvyeh: la parola errante. Recital e conferenza stampa sui prigionieri politici Mapuche.
“Wenuykan” – amicizia con il popolo Mapuche
presenta:
La parola errante
recital di poesie musicate con il tamburo rituale mapuche “kultrun” e conferenza stampa sulla situazione dei prigionieri politici Mapuche in Cile
Rayen Kvyeh – poetessa Mapuche
Libreria Odradek
Via Dei Banchi Vecchi n. 57 – ROMA
25 gennaio – h. 18
partecipano:
Rayen Kvyeh – poetessa mapuche
Geraldina Colotti – Il Manifesto
Annalisa Melandri – www.annalisamelandri.it
Giuseppe De Marzo – Associazione A Sud
Gavino Puggioni — Associazione Wenuykan, wenuykangmailcom
e con la partecipazione di Radio Onda Rossa
La poesia di Rayen Kvyeh viene dalla terra, perchè Mapuche vuol dire “uomini della terra” e viene dall’amore, che si percepisce in ogni suo verso: amore per il suo popolo, per la natura, per la libertà e per la vita.
E’ poesia lenta e sacra come la storia del popolo Mapuche “scritta nel legno, nelle pagine del tempo…”
E’ la voce di Lautaro, figlio della Terra che “parla ai suoi fratelli” attraverso la saggezza degli antichi.
La poesia di Rayen Kvyeh è “terrena” nel senso di essere un vibrante canto di dignità, un potente strumento di lotta, una denuncia toccante e nello stesso momento è “lunare” (Kvyeh vuol dire luna) nel senso di contemplazione rapita e stregata delle montagne, degli “indimenticabili tramonti”, dell’ “aurora con il suo arcobaleno di colori” che apparirà per ricordare chi sono i figli di quella Terra.
Rayen Kvyeh è nata a Weken in Cile. Costretta all’esilio dalla dittatura di Pinochet va a vivere in Germania dove collabora attivamente alle iniziative politiche e culturali degli esiliati. Una sua opera teatrale viene messa in scena a Friburgo. La sua raccolta di poesie Wvne Coyvn Ñi Kvyeh (Luna dei primi germogli) ha inaugurato nel 2006 la collana bilingue di poesia indigena “Le voci della terra” della casa editrice Gorée di Monticiano (Siena). Oltre a Luna de cenizas (Luna di cenere), scritto in spagnolo, ha concluso recentemente un nuovo libro nella sua lingua indigena, che verrà presto tradotto in italiano. Nel 1995 ha vinto a Cuba il premio Josè María Heredia e nel 1998 sempre a Cuba è nominata Presidente Onorario del Centro internazionale delle Culture Indigene. Nel 2007 è stata Menzionata Speciale (seconda classificata) al XXIII Premio Internazionale di Poesia Nosside.
Patricia Verdugo, verità e storia ringraziano.
Scompare dal panorama letterario e giornalistico del Cile una delle voci che più duramente e con più passione hanno condannato la dittatura di Pinochet.
Patricia Verdugo, 61 anni si è spenta la notte di domenica a Santiago, dopo una lunga malattia.
Ha messo a nudo, in tutta la sua crudeltà ed efferatezza, i crimini commessi nel suo paese durante gli anni terribili della dittatura, attraverso un’ eccellente produzione letteraria che le ha valso il premio Maria Moors Cabot nel 1993 negli Stati Uniti, (il più importante riconoscimento attribuito negli USA ad un giornalista straniero) e nel 1997 in Cile il Premio nazionale di giornalismo.
I suoi libri, circa una decina, sono il frutto di un enorme lavoro di ricerca, indagine, raccolta di testimonianze ed atti processuali volto a testimoniare nel modo più dettagliato possibile e con dovizia di particolari i crimini commessi in quegli anni. Molti processi verso i repressori ed i torturatori di allora si sono istruiti con la documentazione raccolta grazie al suo lavoro.
Suo padre, Sergio Verdugo, fu una delle 30.000 vittime del terrore e alla sua storia è ispirato Bucarest 187 del 2001.
La sua opera più importante tuttavia è Gli artigli del puma del 1985 che tratta della “Carovana della morte”, “l’atto fondativo della dittatura” come lo definì la stessa Patricia Verdugo, una squadra militare che aveva il compito di giustiziare tutti gli oppositori politici e che viaggiava tra le varie province cilene a bordo di un elicottero Puma.
La verità e la storia ringraziano Patricia Verdugo.
Il Video della liberazione di Clara Rojas e Consuelo González de Perdomo
Colombia, si torna a sperare…
Un test del DNA stabilì una settimana fa, e la notizia fu confermata successivamente da un comunicato delle FARC, che il piccolo Emmanuel, di cui l’unica foto disponibile è quella a fianco, era “libero” nelle mani del governo Colombiano.
Comunque sia andata, ci auguriamo che possa far parte presto della sua famiglia di origine e nella migliore delle ipotesi possa riabbracciare presto la sua mamma, se come è vero, giunge notizia dal Venezuela che le FARC avrebbero comunicato a Hugo Chávez le coordinate per la liberazione di Clara Rojas e Consuelo González de Perdomo, che potrebbe avvenire già domani.
Lo abbiamo immaginato in una foresta, “bimbo della giungla”, come lo definì la Repubblica in un articolo di Omero Ciai, lo abbiamo immaginato trascorrere tra i guerriglieri i suoi appena tre anni e mezzo di vita. I media ci hanno venduto la sua immagine di bambino maltrattato, costretto a vivere in prigionia, mentre da un comunicato delle FARC pubblicato dalla ABP (Agencia Bolivariana de Prensa) veniamo a sapere che Emmanuel, non potendo stare tra le “operazioni belliche del Plan Patriota, ai bombardamenti e combattimenti, alla mobilità permanente e alle contingenze della selva”, fu “affidato a persone di fiducia di Bogotà mentre si firmava l’accordo umanitario.”
La storia, che potrebbe essere uscita dalle pagine di De Amicis, ha dell’incredibile.
La versione governativa, basata sulla testimonianza di José Gomez, l’uomo che aveva in custodia il bambino è diversa da quella fornita dalle FARC. Secondo il DAS che sta seguendo la vicenda, il piccolo venne affidato ad appena tre mesi di vita da un gruppo di guerriglieri a José Gomez, simpatizzante del movimento, che viveva nel municipio de El Retorno nel Guaviare.
Il bambino venne portato in ospedale dall’uomo, perchè nonostante le prime cure che gli aveva assicurato, le cattive condizioni di salute in cui si trovava (dovute alla frattura del braccio avvenuta al momento della nascita e alla malaria) non accennavano a migliorare.
José Gomez si recò con il piccolo e gli altri suoi figli (ne ha cinque) in canoa al centro medico più vicino, dove sospettando un caso di maltrattamento infantile, segnalarono la situazione del bambino al IBPF (Istituto Colombiano del Benessere Familiare, una sorta di assistenza sociale) che lo prese sotto la sua tutela.
Successivamente il piccolo fu trasferito a Bogotà in un’altra struttura dell’istituto anche per la necessità di sottoporlo ad un’operazione chirurgica al braccio, struttura dove tutt’ora risiede in attesa del disbrigo delle pratiche successive al risultato del test del DNA che lo consegnerebbero finalmente all’affetto dei suoi familiari.
José Gomez, per paura mentì alle FARC che erano tornate nel frattempo a farsi vive per chiedergli notizie del bambino, dicendogli che si trovava presso una sorella che viveva a Bogotà.
Le FARC si ripresentarono a chiedere notizie del piccolo Emmanuel circa tre mesi fa e poi di nuovo verso metà dicembre, dando all’uomo come ultimatum la data del 30 dicembre per la riconsegna del bambino.
José spaventato dalle minacce ricevute si mise allora in contatto con la Fiscalía, mentre confermavano la sua versione una serie di telefonate anonime giunte al CTI (Cuerpo Técnico de Investigación) poco prima del 28 dicembre, comunicando che un bambino, probabilmente il figlio di Clara Rojas, sarebbe stato rapito dal IBPF.
Se si trattasse di un romanzo potremmo dire che la vicenda è intrisa di una buona dose di realismo magico che colora di toni surreali gli avvenimenti, le persone, le casualità..
A partire dalla figura di José Gomez, “el indio”, l’uomo al quale le FARC avrebbero affidato il bambino, colui che nelle ultime settimane è stata la persona più ricercata della Colombia, sia dagli apparati di sicurezza che oramai erano sulle sue tracce, sia dalla guerriglia che aveva necessità di recuperare il piccolo Emmanuel. Strana famiglia quella di José. In un unico nucleo familiare racchiuse tutte le contraddizioni che insanguinano il paese e che palesemente, come spesso accade, finiscono per mettere contro fratelli contro fratelli, amici contro amici. L’esemplificazione anagrafica della guerra civile che vive la Colombia sulla pelle della sua gente.
José Gomez, l’uomo di cui le FARC si sono fidate affidandogli le cure di Emmanuel, è stato infatti candidato del partito Colombia Democratica, praticamente i fedelissimi di Uribe, il partito maggiormente colpito dallo scandalo della parapolitica e presieduto dal cugino di Álvaro Uribe, Mario Uribe Escobar, che tra una riunione di partito e una seduta al Congresso, trovava tempo per intrattenersi a parlare d’affari direttamente con Salvatore Mancuso. Attualmente è indagato per paramilitarismo.
Una delle sorelle di Josè Gomez che vive a Bogotà invece è una funzionaria del DAS, persona affidabilissima, fanno sapere dalla struttura dove lavora con incarichi amministrativi da più di dieci anni. Al momento è sotto protezione dello stato.
Un altro fratello, invece fu un attivo guerrigliero, defunto da tempo, in passato catturato e arrestato, ma del quale non si conoscono le circostanze della sua morte.
Le tre anime del paese in una sola famiglia. Già di per sé questo la dice lunga sulla complessità delle vicende colombiane e lascia spazio e tempo per evitare di dare giudizi affrettati e sicuramente viziati da ignoranza su quanto accade nella grande Macondo latinoamericana, dove si intrecciano magicamente e realisticamente storie tanto diverse, solo apparentemente senza un filo logico.
Ben altre constatazioni di carattere più pragmatico e pratico si impongono comunque all’attenzione dopo un’attenta analisi di quanto sopra.
Al di là dell’evidente riflessione sul fatto che non si possa che esser felici che il piccolo Emmanuel stia bene e abbia avuto, nonostante la sua situazione, quel trattamento umano messo in dubbio da più di una voce, quello che maggiormente risalta all’occhio in questa vicenda è il senso di amarezza e rabbia che ha provato la comunità internazionale fino a quest’oggi, (giornata in cui è stata annunciata l’imminente liberazione delle donne), che evidentemente si aspettava qualcosa in più dalle FARC in questo scorcio di fine d’anno.
L’investitura politica ricevuta da Chávez le aveva caricate della responsabilità di dimostrare al mondo intero che non si sbagliava chi con impegno e serietà verso la loro causa chiede che non vengano considerati dei terroristi come gli interessi congiunti di Uribe e Bush li etichettano, bensì, nonostante le evidenti difficoltà di comunicazione con i loro vertici e di diplomazia, (che non si può pretendere essere equiparata a quella delle “democrazie istituzionali” con le quali stavano trattando la liberazione degli ostaggi), una forza politica in grado di portare una speranza per la pace in Colombia.
Non credo come si sta è affermato in questi giorni sui media del mondo intero, che le FARC abbiano mentito a Chávez e alla comunità internazionale.
Immagino che l’accordo per la liberazione degli ostaggi, pur con tutta la simpatia che sembra esistere tra l’organizzazione insorgente e il presidente venezuelano, non contemplasse la rivelazione di dettagli importanti e specifici sull’ubicazione dei prigionieri o la comunicazione della saggia decisione di aver affidato ad altri quelle cure per il piccolo Emmanuel che non sarebbe stato possibile garantirgli in una foresta. E se Clara Rojas e Consuelo Gonzáles de Perdomo fossero liberate, questo fatto confermerebbe tale versione.
Ciò non toglie che quella delle FARC sia stata una manovra azzardata, un gioco rischioso, che ha fatto pensare per un attimo che per la pace in Colombia davvero non ci fosse più nessuna speranza, anche perchè mentre le FARC, confermando nel loro comunicato che il processo di liberazione di Clara Rojas e Consuelo González de Perdomo, sarebbe andato avanti, “così come stabilito con il Governo della Repubblica Bolivariana del Venezuela” ribadivano che si rendeva necessaria la smilitarizzazione dei territori di Florida e Pradera, Uribe dalla Casa de Nariño tuonava che non avrebbe più accettato missioni umanitarie internazionali in Colombia per la liberazione degli ostaggi. Tabula rasa sulla speranza.
E invece oggi la speranza se pur con le dovute cautele si riaccende, e Uribe ha dovuto in tutta fretta dare un ulteriore via libera alla nuova missione annunciata da Chávez .
Se non verranno liberate domani le due donne sarà la grande occasione mancata delle Farc.
Vorrei dire come Yolanda Pulecio, la mamma di Ingrid Betancourt che “non le conosco molto, ma mi fido più delle FARC che del governo del presidente Uribe” e domani avere la certezza che probabilmente per la Colombia inizi un nuovo capitolo. Non semplice, irto comunque di difficoltà, un processo tutto in salita che deve fare i conti con il potere, con la memoria dei morti e la paura dei vivi, con gli interessi delle multinazionali straniere e le necessità primarie dei contadini, con la contraddizione dei pochi che hanno tutto e dei moltissimi ai quali non è rimasto più nulla. Comunque sia un processo segnato da un passo importante, rispetto al quale il presidente Álvaro Uribe dovrà rivedere tutta la sua strategia politica e militare nella risoluzione del conflitto.
Le FARC sono riuscite in queste settimane ad escluderlo dalle trattative per la liberazione degli ostaggi, lo hanno messo in un angolo mentre loro diventavano i protagonisti indiscussi della scena. Proprio quello che hanno sempre chiesto. Hanno avuto l’attenzione dei media e della diplomazia internazionale, hanno avuto la possibilità di veder veicolato e trasmesso al mondo intero il loro messaggio, il loro essere “forza politica” desiderosa di un cambiamento nel paese.
Giocare questa occasione per una mossa azzardata, peggio, per una superficialità, è questo quello che ha fatto più rabbia, in chi ha sempre sostenuto, spesso sentendosi voce fuori dal coro, la loro posizione.
Non i loro metodi, dal momento che siamo tutti convinti che la pace non si possa conquistare con l’uso delle armi, ma comunque sempre con la consapevolezza che il loro punto d’osservazione e d’azione andasse contestualizzato in quella che è la situazione della Colombia, con una violenza e una barbarie incancrenite e cronicizzate da più di 50 anni di guerra civile.
E’ stata questa una grande occasione, e se l’operazione andasse finalmente a buon fine, Uribe certamente ne uscirebbe come il grande sconfitto, sicuramente non potrebbe più tirarsi indietro nemmeno alle future richieste, ove venissero fatte, della smilitarizzazione di Florida e Pradera dove poter portare avanti i dialoghi di pace e la liberazione di tutti gli altri prigionieri, con l’appoggio e l’occhio vigile della comunità internazionale, ma particolarmente dei paesi latinoamericani come Argentina, Brasile, Cuba, Ecuador che maggiormente spingono per un’unità che non è solo economica e finanziaria ma che come scrive Gennaro Carotenuto è “un concerto autonomo anche per la risoluzione di conflitti” e che oltre ad aver raggiunto obiettivi importanti per la crescita e l’integrazione della regione “è stato ad un passo dal raggiungere un altro straordinario risultato: l’apertura di un processo di pace in Colombia”.
Aggiornamento sullo sciopero della fame nel carcere di Angol — giovane studente mapuche ucciso dalla polizia
Sono trascorsi più di 80 giorni dal 10 ottobre quando i prigionieri politici mapuche:
Jaime Marileo Saravia,
Patricia Troncoso Robles,
Juan Millalen Milla,
Héctor Llaitul Carrilanca,
José Huenchunao Mariñan
nel carcere di Angol iniziarono lo sciopero della fame a oltranza.
A questa azione si sono uniti il Lonco Iván Llanquileo nel carcere di El Manzano e Waikilaf Cadin Calfunao nel carcere di massima sicurezza di Santiago.
Il 9 novembre 2007, è stato scarcerato Iván Llanquileo. I giudici avevano preso atto della totale assenza di prove per i reati a suo carico, ma nel dubbio gli sono state applicate alcune misure cautelative tra cui la libertà vigilata.
Nella settimana precedente il Natale, i prigionieri, in accordo, hanno deciso la sospensione dello sciopero per tre di essi.
Proseguono lo sciopero della fame:
Patricia Troncoso, internata nell’Unità di Trattamento Intensivo dell’Ospedale di Angol, — Héctor Llaitul e Waikilaf Cadin — prigioniero nel Carcere di Massima Sicurezza nonostante abbia scontato la condanna.
Chiedono la libertà di tutti i loro fratelli e la fine della repressione verso le comunità.
La notte del 24 dicembre, Patricia Troncoso ha indirizzato una e-mail a tutti i familiari dei prigionieri politici mapuche in cui è scritto:
“ Se la mia morte servirà per la libertà dei miei fratelli, io non voglio desistere”.
Intanto un altro biglietto di Natale viaggiava in Internet la notte del 24 dicembre, partito dal palazzo della Moneda di Santiago e diretto a tutti i cileni all’estero. L’immagine rappresentava un presepe mapuche, la scritta diceva: Chile Somos Todos e la firma era quella della Bachelet.
Da Angol, Pamela Pessoa, moglie di Héctor Llaitul, a proposito di questa cartolina ha detto “che è una offesa al Popolo mapuche, utilizzare la sue immagini in questa circostanza, è cosa di enorme cinismo”.
Le condizioni fisiche di Patricia Troncoso sono estremamente gravi, ma lei non intende desistere, consapevole delle gravi conseguenze sulla sua salute In queste drammatiche condizioni Patricia Troncoso ha inviato un comunicato “a tutti gli uomini e donne che lottano infaticabilmente per la giustizia”. Con forza e lucità, rivolgendosi in particolare alla Bachelet, accusa il governo e il ceto politico cileno di perseguitare crudelmente il popolo mapuche e di essere degli strumenti nelle mani delle multinazionali. Prosegue con un’ analisi sulle condizioni della classe lavoratrice cilena.
Nell’ultimo mese, in Cile si sono intensificate le manifestazioni di solidarietà con i prigionieri politici mapuche.
Lettere di protesta indirizzate alla Bachelet sono state inviate anche da ex – prigionieri politici della dittatura militare in Cile in seguito al golpe del 1973.
La notte di Natale nella cattedrale di Concepción 15 attivisti hanno interrotto l’omelia del vescovo per chiedere la liberazione dei prigionieri politici mapuche.
La repressione non si è fatta attendere.
Sono stati incarcerati anche alcuni “mache”, personalità spirituali mapuche.
José Galvarino Lepicheo Machacan un adolescentte di 16 anni, della provincia di Arauco, permane in prigione preventiva. E’ stato fotografato nei pressi di una manifestazione per la rivendicazione delle terre. Prima che si arriverà al processo passeranno almeno sei mesi.
Sul caso dei prigionieri politici mapuche gli organi di stampa cileni rimangono in silenzio, o viene applicata la censura come è accaduto per una trasmissione televisiva di Chilevision.
Il gruppo musicale Wechekeche ñi Trawün (Unione di giovani) registrò una canzone, richiesta per la chiusura del programma “El Diario de EVA” sul il vissuto dei giovani mapuche urbani. Si trattava di un mix con le canzoni “Mapuche los magos de la tierra”, e “Resistencia” e a proposito dello sciopero della fame inclusero una nuova frase “Liberar…liberar al mapuche por luchar, a nuestros hermanos que en huelga de hambre están y que el Estado chileno no ha querido escuchar… Liberar…liberar al mapuche por luchar.”, per terminare con la parte finale della canzone “Leftaro” (Lautaro). Il programma fu registrato, ma il giorno della trasmissione furono presentate le canzoni di tutti gli altri gruppi giovanili e gli Wechekeche ñi Trawún furono rimpiazzati da un altro gruppo.
Comunichiamo che Héctor Llaitul Carrilanca ha interrotto il 30 dicembre lo sciopero della fame, dopo 81 giorni senza ingerire nessun alimento (lo sciopero della fame più lungo nella storia del Cile) rispondendo alle richieste di aprenti ed amici e preservando integra la sua salute per le battaglie a venire.
Intanto è notizia di questi giorni che uno studente mapuche, Matías Catriléo di 23 anni è stato ucciso dalla polizia cilena nel sud del paese nel corso di una manifestazione pacifica volta all’occupazione simbolica di un terreno nel fundo Santa Margherita.
La polizia cercando di disperdere i manifestanti, circa una ventina, avrebbe fatto fuoco ad altezza d’uomo, colpendo alle spalle il giovane.
I compagni del giovane si sono rifiutati di consegnare il corpo del ragazzo ai carabinieri e lo avrebbero fatto soltanto dopo l’arrivo dei rappresentanti degli organismi internazionali.
Mentre si va facendo sempre più dura la repressione della polizia cilena contro la comunità mapuche, il lungo sciopero della fame di Patricia Troncoso nel carcere di Angol rischia di trasformarsi in un omicidio di stato, che sembra destare preoccupazione più nella comunità internazionale che nelle istituzioni del suo paese.
…
Con la collaborazione di
Wenuykan Amicizia col Popolo Mapuche
Sede principale a Como
wenuykangmailcom (wenuykangmailcom)
Si ringrazia altresì tutto lo staff di Radio Onda Rossa e particolarmente Salvatore per lo spazio che dedicano con impegno e costanza alla causa del popolo Mapuche.
Leggi anche:
Mapuche: la lunga strada dei diritti di Maurizio Campisi
Cristina Carreño torna in Cile. E’ la prima vittima cilena del Plan Condor.
Cristina Carreño, la prima donna cilena detenuta e scomparsa a Buenos Aires nell’ambito di quella grande operazione del terrore che prese il nome di Operación Condor, e che coordinò negli anni 70/80 le dittature latinoamericane, torna nella sua terra, in Cile.
Torna dalla sua famiglia che l’ha cercata per 27 lunghi anni e che in questo momento si trova in Argentina per organizzare il viaggio di ritorno in patria.
Il corpo di Cristina arriverà da Buenos Aires in un volo speciale il 28 dicembre.
Il suo funerale verrà celebrato il giorno 30 presso il Memorial del Detenido Desaparecido presso il Cimitero Generale di Santiago del Cile.
Cristina quando scomparve aveva appena 33 anni.
Suo padre, comunista, operaio del salnitro, fu detenuto e torturato fino alla morte nel 1974.
Cristina Carreño, dirigente della Gioventù Comunista del Cile si trovava a Buenos Aires per organizzare la Operación Retorno con la quale rientrarono clandestinamente nel paese militanti e dirigenti del Partito Comunista Cileno, tra i quali Gladys Marín segretaria generale della Gioventù Comunista nel governo Allende.
Fu sequestrata nel 1978 a Buenos Aires da agenti della polizia politica, la CNI (Central Nacional de Informaciones) e condotta prima nel centro di detenzione argentino “El Banco” e poi in quello tristemente famoso di “El Olimpo” dove fu l’unica prigioniera cilena. Da lì si persero definitivamente le sue tracce.
Il suo corpo, insieme a quello di altre 8 persone, fu ritrovato sulla costa atlantica nel dicembre del 1978, restituito dal mare dopo esservi stato gettato da un aereo in volo.
Il “trasferimento”, era questo il nome che l’apparato repressivo della dittatura dava alla pratica dei voli della morte con i quali migliaia di detenuti oppositori dei regimi venivano fatti sparire nelle acque dell’Oceano Atlantico.
I voli della morte sono stati confessati pubblicamente nel 1995 da Adolfo Scilingo (ex dittatore argentino ed attualmente in carcere in Spagna) al giornalista Verbitsky che ha pubblicato la testimonianza nel suo libro “Il Volo”.
I corpi dei detenuti ritrovati sulle coste atlantiche a partire dal 1978 vennero sepolti come NN nel cimitero di General Lavalle nella provincia di Buenos Aires.
Riesumandoli nel 2006, il Gruppo Argentino di Antropologia Forense (EAAF) ha identificato quello di Cristina Carreño e di altre 8 persone vittime della repressione.
L’identificazione di questo gruppo di persone segue quella avvenuta poco prima delle Madri della Plaza de Mayo Azucena Villaflor, Esther Ballestrino y Mari Ponce, e della suora francese Léonie Duquet e di Angela Auad.
L’annuncio dell’identificazione è stato fatto nello stesso Olimpo lo scorso 16 agosto (simbolicamente nello stesso giorno dell’inizio delle attività del centro di detenzione, nel 1978) in una conferenza stampa tenuta dal presidente dell’EAAF, Luis Fondebrider, con la partecipazione dei familiari degli scomparsi e del segretario dei diritti umani Luis Duhalde.
Lorena Pizarro, presidente del Raggruppamento dei Familiari dei Detenuti Scomparsi, (AFDD) conferma che Cristina “è la prima vittima dell’Operación Condor di cui riusciamo a recuperare il corpo. Questo dimostra ciò che abbiamo sempre denunciato, che la dittatura cilena non agì in maniera isolata, ma che c’era una coordinazione con le altre, organizzata da Pinochet, e che applicava in maniera sistematica il terrorismo di Stato, politica avallata dalla CIA e che registra vittime cilene e straniere, tra le quali Cristina, che è la prima donna scomparsa che riusciamo a trovare”.
Il rientro di Cristina in Cile, prova tangibile degli orrori del Plan Condor, segna un momento importante per la ricerca di verità e giustizia, la sorella Dora e altre cinque donne di Paraguay, Uruguay e Argentina, portano avanti infatti da anni una causa contro le dittature dei loro paesi per la scomparsa di Cristina ed altre sei persone tra il 1976 e 1978 in Argentina.
Le ricordiamo con le parole di Pablo Neruda, con la stessa poesia con la quale si è conclusa, nel luogo dove sono state torturate e uccise, la conferenza stampa che ne ha annunciato il ritrovamento:
LOS ENEMIGOS
Ellos aquí trajeron los fusiles repletos
de pólvora, ellos mandaron el acerbo
exterminio,
ellos aquí encontraron un pueblo que cantaba,
un pueblo por deber y por amor reunido,
y la delgada niña cayó con su bandera,
y el joven sonriente rodó a su lado herido,
y el estupor del pueblo vio caer a los muertos
con furia y con dolor.
Entonces, en el sitio
donde cayeron los asesinados,
bajaron las banderas a empaparse de sangre
para alzarse de nuevo frente a los asesinos.
de pólvora, ellos mandaron el acerbo
exterminio,
ellos aquí encontraron un pueblo que cantaba,
un pueblo por deber y por amor reunido,
y la delgada niña cayó con su bandera,
y el joven sonriente rodó a su lado herido,
y el estupor del pueblo vio caer a los muertos
con furia y con dolor.
Entonces, en el sitio
donde cayeron los asesinados,
bajaron las banderas a empaparse de sangre
para alzarse de nuevo frente a los asesinos.
Por esos muertos, nuestros muertos,
pido castigo.
pido castigo.
Para los que de sangre salpicaron la patria,
pido castigo.
pido castigo.
Para el verdugo que mandó esta muerte,
pido castigo.
pido castigo.
Para el traidor que ascendió sobre el crimen,
pido castigo.
pido castigo.
Para el que dio la orden de agonía,
pido castigo.
pido castigo.
Para los que defendieron este crimen,
pido castigo.
pido castigo.
No quiero que me den la mano
empapada con nuestra sangre.
Pido castigo.
No los quiero de embajadores,
tampoco en su casa tranquilos,
los quiero ver aquí juzgados
en esta plaza, en este sitio.
empapada con nuestra sangre.
Pido castigo.
No los quiero de embajadores,
tampoco en su casa tranquilos,
los quiero ver aquí juzgados
en esta plaza, en este sitio.
Quiero castigo.
…
Cile, centenario del massacro di Santa María de Iquique, 21 dicembre 1907
“Quando uno rivolge il suo sguardo alla pampa abbandonata
e con l’orecchio attento penetra nel suo silenzio,
c’è bisogno di tenere il cuore con tutte e due le mani”
Floreal Acuña
“ Signore e Signori, racconteremo ciò che la storia non vuole ricordare. Accadde nel Grande Nord, fu Iquique la città. Il millenovecento sette segnò la disgrazia”.
Così inizia la Cantata Santa María de Iquique, composta nel 1969 da Luis Advis e diventata celebre nella versione dei Quilapayún che la eseguirono per la prima volta nel luglio 1970 durante il secondo Festival della Nuova Canzone Cilena e che di questo movimento divenne una delle opere principali.
I nastri originali della Cantata Santa Maria de Iquique furono distrutti dopo il golpe militare e l’esecuzione della canzone fu proibita dalla dittatura di Pinochet fino al 1990.
La canzone narra i fatti avvenuti nella scuola Santa María di Iquique, dove “tremilaseicento sguardi si spensero, tremilaseicento operai vennero uccisi”.
Tra il 15 e il 21 dicembre 1907, sotto la presidenza di Pedro Montt, circa 10.000 minatori del salnitro(nitrato di potassio usato come fertilizzante e nella produzione della polvere da sparo) della regione di Tarapacá scioperarono per le precarie condizioni di vita e di lavoro a cui erano sottoposti.
Le loro richieste, come narrato anche nella celebre canzone, andavano dall’eliminazione dei buoni con i quali erano pagati e che potevano essere spesi solo nei negozi delle stesse imprese che li emettevano, scuole serali per gli operai, aumento degli stipendi, maggiore sicurezza sul lavoro e rispetto della dignità degli operai che spesso erano sottoposti anche a punizioni fisiche.
In Cile agli inizi del ‘900 gli operai cileni non avevano nessuna legislazione sociale che li tutelasse ma già si stavano velocemente diffondendo tra di essi gli ideali socialisti e anarchici e il massacro della scuola Santa María di Iquique rappresentò lo spartiacque nella storia del movimento operaio cileno.
Possiamo dire che nell’arido deserto del Cile, nel dicembre 1907 si consolidò la coscienza di classe degli operai, si organizzò il loro movimento e la loro lotta prese forma.
Protestarono gli operai delle miniere di salnitro, quelli delle ferrovie, quelli portuali, prima timidamente, nei primi giorni di dicembre, poi con sempre più vigore.
Il 10 dicembre furono bloccate le attività della fabbrica di salnitro di San Lorenzo e successivamente quelle della fabbrica di Santa Lucia. La miccia ormai era accesa e tutti gli operai della pampa paralizzarono le loro attività.
Ma era ad Iquique che bisognava andare a far sentire la protesta, dove avevano sede le multinazionali straniere che stavano sfruttando le risorse del paese, quelle naturali e quelle umane.
E così tra il 15 e il 21 dicembre si radunarono nella scuola Santa María di Iquique più di diecimila persone, gli operai pampinos con le loro famiglie, in attesa che le loro richieste venissero accettate dalle multinazionali.
Le trattative non ebbero nessun esito positivo e di fronte al rifiuto dei dirigenti del movimento operaio di far evacuare la scuola, il generale Silva Renard dette ordine di sparare.
Lo stato cileno ammetterà solo 195 deceduti e 390 feriti ma altre fonti parleranno di 3600 morti, come nella canzone…
I lavoratori non avevano manifestato violenza, il loro era uno sciopero pacifico, ma imponente, a Iquique si erano riversati migliaia di operai, con le loro famiglie, le loro cose, mentre la cittadina si era rintanata nelle case e le attività commerciali erano paralizzate.
Dichiarò Silva Renard: “si doveva far scorrere il sangue di alcuni ribelli o abbandonare la città nelle mani dei faziosi, che fanno passare i loro interessi e i loro stipendi prima dei grandi interessi della patria. Di fronte a questo dilemma, le forze della nazione non hanno esitato”.
L’esercito cileno si mise al servizio dell’oligarchia delle multinazionali e fece fuoco. Non si poteva permettere che fosse messo “in pericolo il rispetto e il prestigio delle autorità e della forza pubblica” come ammise il generale.
Quella strage più che una sconfitta fu però però l’inizio di un grande cambiamento, il movimento operaio cileno si organizzò e nuove leggi sociali a tutela dei lavoratori vennero emesse.
Oggi, 21 dicembre 2007 in Cile è giorno di lutto nazionale.
…
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Georgina Gubbins: Lettere dal deserto/Cartas dal desierto
Iquique, 23 dicembre 1907
Mia cara Nonna,
Si ricorda che le raccontai che mio padre era preoccupato per i problemi nelle officine, che c’erano continui scioperi a Iquique e nella pampa e per questo non potevamo uscire?
Come un ronzio lontano, gli uomini scendevano dalla pampa. Erano molti: uomini, donne, bambini, nonni e nonne. Portavano anche i loro cani che correvano tra le loro gambe, come se sapessero che partecipavano ad un avvenimento importante. Le donne portavano canestri ‚pentole e mestoli, i neonati contro il petto e gli uomini con i loro figli più piccoli sulle spalle.
Faceva molto caldo in quei giorni. La camanchaca non portava il suo refrigerio abituale.Il calore si posava sulla città come un pesante mantello. Passavano i giorni e nonostante la quantità di gente, c’era un’atmosfera di speranza.
Secondo Juan, i pamperos dissero che avrebbero aspettato fino a che le loro richieste fossero state accettate. Volevano cambiare molte cose, Nonna, come per esempio eliminare i buoni, avere scuole serali o una migliore assistenza medica. Ma gli andò male. Arrivarono le truppe, le autorità si spaventarono, ci furono scontri seguiti da grida e spari.
Nonna alla fine i pamperos non ritornarono nella pampa. Li uccisero con i loro fucili e le grida che schiacciarono la città furono sostituite da un pianto profondo e disperato come quello di un cane ingabbiato.
Tanti morti solo per voler vivere meglio. Ancora l’aria odora di polvere e paura. Non si preoccupi per noi, stiamo bene. Mio padre vuole che andiamo a Tiviliche a riposare e lì passeremo l’Anno Nuovo.
Addio, cara Nonna. Mi scriva.
Sua nipote Isabelle..
Georgina Gubbins: Cartas del Desierto
Fujimori, “por qué no te callas”?
E’ iniziato lunedì (casualmente nella stessa data in cui si celebra la Giornata Internazionale dei Diritti Umani) in Perù il processo ad Alberto Fujimori per violazione dei diritti umani e corruzione.
Rischia quasi 30 anni di carcere e il pagamento di circa 34 milioni di dollari di indennizzo ai familiari delle vittime, in un processo che nel paese è considerato storico per essere la prima volta che un ex capo di stato risponde davanti alla giustizia per reati commessi durante il suo mandato.
Fujimori è accusato del sequestro e assassinio di nove studenti e di un professore dell’Università la Cantuta nel 1992 ed il massacro di altre 15 persone nel 1991 a Barrios Altos a Lima.
L’udienza è stata sospesa perchè l’imputato ha accusato ipertensione dopo avere gridato a gran voce e con le braccia in alto la sua innocenza. Il suo show gli è costato il richiamo all’ordine da parte del giudice César San Martín.
Intanto da Washington arriva un documento della DIA del 1997 che prova l’ordine dato dallo stesso Fujimori di non lasciare vivo nessun prigioniero Tupac Amaru nell’operazione di riscatto Chavín de Huántar, in cui furono uccisi a sangue freddo, nonostante si fossero arresi, i ribelli che tennero in ostaggio per quattro mesi nella sede dell’Ambasciata giapponese a Lima, centinaia di ostaggi.