Il nostro appello sulla Colombia arriva al Parlamento Europeo: 26 eurodeputati scrivono al presidente colombiano Uribe.
Chi è colpevole? Ama gli altri come te stessa. Chiusi gli occhi e vidi il modo come un embrione sul punto di abortire”
Melissa Patiño (dal carcere)
Melissa e gli altri
Melissa Patiño Hinostroza ha 20 anni ed è una giovane poeta peruviana di Lima.
Si trova in carcere dal 29 febbraio scorso, arrestata ad Aguas Verdes, dipartimento di Tumbes, al confine con l’Ecuador, con l’accusa di terrorismo internazionale, mentre faceva rientro in patria dopo aver partecipato al Secondo Congresso della Coordinadora Continental Bolivariana, tenutosi a Quito dal 23 al 27 febbraio. Congresso che rappresenta un importante momento di incontro per tutta la sinistra latinoamericana, per i movimenti sociali e le organizzazioni popolari della regione, e al quale avevano partecipato, insieme a circa 800 delegati di diversi paesi del mondo, anche i tre giovani messicani che si trovavano nel campo delle FARC per motivi di studio e dove hanno perso la vita in seguito all’attacco dell’esercito colombiano in cui è morto il comandate guerrigliero Raúl Reyes, che stava conducendo trattative con la Francia per la liberazione di Ingrid Betancourt.
Insieme a Melissa sono stati arrestati con la stessa accusa e senza nessuna prova, anche altri 6 peruviani che si trovavano con lei sullo stesso autobus messo a disposizione dagli organizzatori del Congresso, durante il viaggio di ritorno dall’Ecuador al Perú e che sono: Roque González La Rosa, Damaris Danitza Velasco Huiza, Armida Esperanza Valladares Jara, Guadalupe Alejandrina Hilario Rivas, María Socorro Gabriel Segura y Carmen Mercedes Asparrent Rivero.
Sono stati accusati dal direttore generale della Polizia Nazionale di essere affiliati alle Forze Armate Rivoluzionarie di Colombia (FARC) e al Movimento Rivoluzionario Tupac Amaru (MRTA) e di essere in procinto di compiere attentati nel paese con lo scopo di colpire i vertici internazionali che si terranno a Lima nei prossimi mesi.
Nonostante non ci sia nessuna prova che dimostri queste accuse, la notizia del vincolo dei giovani con le FARC e con l’MRTA, che è uno dei due gruppi ribelli (l’altro è Sendero Luminoso) attori della guerra civile del Perù tra il 1980 e il 2000, ha trovato ampia diffusione nei mezzi di comunicazione che già davano per sicuri gli attentati che i “terroristi” stavano organizzando.
La solidarietà degli intellettuali e degli artisti
Melissa Patiño, oltre ad essere studentessa della prestigiosa Università San Marcos di Lima, svolge un’intensa attività culturale essendo membro del “Círculo del Sur” , che riunisce giovani poeti limeñi e che ha come scopo la diffusione della poesia e della letteratura.
Melissa è anche molto conosciuta ed apprezzata per le sue opere dalla nutrita comunità di intellettuali, poeti e scrittori di Lima, molti dei quali premi nazionali di poesia ed affermati artisti.
Tutti, all’unisono, confermano l’assoluta estraneità della giovane a qualsiasi movimento politico.
Personalmente conosco abbastanza bene alcuni di essi, soprattutto Rosina Valcárcel, che è una delle promotrici delle numerose iniziative che si stanno svolgendo a Lima in questi giorni per richiedere la liberazione di Melissa e degli altri.
Rosina Valcárcel è un’ antropologa, importante poeta e scrittrice, giornalista, nonché attivista sociale.
E’ anche la figlia del grande poeta Gustavo Válcarcel, scomparso nel 2002 dopo una vita intensa fatta di un attivo impegno politico, di viaggi, (a Cuba, in Russia, in Cile) , di poesia e letteratura e che conobbe negli anni ’50 l’esilio in terra messicana per sfuggire alla dittatura di Manuel Odría.
Il 5 marzo scorso, di ritorno dal primo sit-in organizzato per strada di fronte alla sede della Direzione Contro il Terrorismo (DIRCOTE), in cui era prevista la lettura di poesie di Melissa, Rosina mi ha raccontato di come sia stata violenta e sproporzionata la reazione delle forze di polizia che hanno represso duramente e con l’uso di idranti, il tentativo di alcuni artisti ed intellettuali che si erano riuniti per chiedere la liberazione della loro compagna. Tra gli altri, erano presenti Victor Delfín, stimato scultore della generazione del ’50, Gustavo Espinoza, ex parlamentare degli anni ’60, e Dante Castro, scrittore, premio Casas de las Americas, della generazione anni ’80.
“Non si potrà mai raggiungere un clima di riconciliazione se si continua a perseguitare le persone per il loro passato”
“Oggi ho una nuova vita, non ho vincoli con nessun gruppo terroristico. Inoltre la stessa Commissione di Verità e un gruppo di analisti politici hanno riconosciuto che in Perú, l’esperienza del MRTA si è conclusa. Non mi si può giudicare some sospetto all’infinito.Non si potrà mai raggiungere un clima di riconciliazione se si continua a perseguitare le persone per il loro passato”.
Così dichiara in un’intervista rilasciata dal carcere di massima sicurezza dove è attualmente detenuto, Roque González La Rosa, uno dei sette arrestati e coordinatore nazionale del Capitolo Perú della CCB
La sua posizione forse è la più difficile di tutti, dal momento che in passato aveva già scontato nove anni di prigione per militanza nel MRTA e che si trovava al momento del suo arresto, in condizione di libertà vigilata. Fece parte infatti nel 1995, del gruppo che sequestrò l’imprenditore boliviano Samuel Doria Medina, e che fu rilasciato soltanto dopo il pagamento di un riscatto di 1.4 milioni di dollari, cifra che servì al finanziamento dell’operazione contro l’ambasciata giapponese a Lima avvenuta nel 1996.
Si trova in carcere anche sua moglie, Damari Velazco, che lo accompagnava durante il viaggio in Ecuador.
Una delle altre persone arrestate, è Armida Valladares Jara, presidente dell’Associazione per la difesa della Vita e della Libertà “Micaela Bastidas” (APRODEVIL) , alla quale appartengono i familiari dei prigionieri politici accusati di far parte del MRTA e che da circa 18 anni conducono una difficile battaglia per la difesa dei diritti civili dei loro congiunti detenuti e per la denuncia del clima di intolleranza e criminalizzazione al quale essi stessi, fuori dal carcere, sono sottoposti.
La politica di “sicurezza” in vista dei prossimi vertici internazionali.
L’arresto di queste 7 persone, si inserisce in un contesto generale e più ampio di “sicurezza pubblica” che le autorità e le forze di polizia peruviane, a capo delle quali si trova il ministro dell’Interno Alva Castro, stanno portando avanti in vista dei prossimi vertici internazionali che si terranno a Lima. Particolarmente importante è il Foro di Cooperazione Economico Asia Pacifico (APEC), del quale il Perú detiene la presidenza quest’anno, oltre al quinto Vertice dei Capi di Stato e di Governo dell’Unione Europea e dei paesi dell’America Latina e dei Caraibi, che si terrà a Lima nel mese di maggio.
Parallelamente all’incontro dei Capi di Stato di UE e America Latina e Caraibi, si terrà a Lima, negli stessi giorni, anche il terzo appuntamento de la Cumbre de los Pueblos: Enlazando Alternativas 3 (Vertice dei Popoli: intrecciando alternative 3) ‚ una rete bicontinentale, che esprime la resistenza della società civile europea e latinoamericana al “progetto europeo” , in particolare contro il “neoliberismo dal volto umano”, che le multinazionali europee cercano di sviluppare nel paese andino e che l’Unione Europea cercherà di formalizzare con questo con la firma di nuovi Trattati di Libero Commercio.
E’ particolarmente importante questo appuntamento di Lima, in quanto il Perú, come si è appena visto è uno uno dei paesi latinoamericani (insieme alla Colombia) più aderenti alle politiche economiche neoliberali e uno dei meno tolleranti verso le domande sociali e con una lunga tradizione di criminalizzazione della protesta.
A conferma di quanto appena detto, giunge denuncia proprio in questi giorni, da parte di alcuni rappresentanti delle organizzazioni sociali, di una “sistematica campagna” portata avanti dal governo peruviano con lo scopo di boigottare l’organizzazione di Enlazando Alternativas 3.
Tra di essi il senatore italiano Francesco Martone e i dirigenti peruviani Miguel Palacín e Rosa Guillén, hanno denunciato quanto sopra in una conferenza stampa. In particolare Miguel Palacín ha ricordato di come i rappresentanti del governo di Alan García abbiano in varie occasioni accusato gli organizzarori della Cumbre de Los Pueblos di voler “promuovere la violenza e destabilizzare il regime costituzionale”.
Il senatore Martone, ha affermato invece, che il Vertice dei Popoli sta cercando di “smantellare la retorica” dell’ Europa, la quale, contrariamente a quanto a parole dice di voler fare, ha più interesse in un’agenda economica che non nell’impegno nella lotta contro la povertà e i cambiamenti climatici.
Nella Cumbre de los Pueblos di Enlazando Alternativas 3 è prevista anche la partecipazione dei presidenti di Ecuador e Venezuela, i quali insieme agli altri delegati, “analizzeranno ed elaboreranno proposte” da presentare al vertice ufficiale, e dove proprio Hugo Chávez, Rafael Correa ed Evo Morales, tra gli altri, attivamente impegnati nella difesa della loro sovranità territoriale e politica, nonché dell’integrazione latinoamericana, rappresentano una nota discordante con i rappresentanti degli altri governi. Proprio contro Venezuela, Ecuador e Bolivia, denunciano da Enlazando Alternativas, si sta negli ultimi mesi sviluppando una violenta e campagna di “terrorismo mediatico”.
Il “terrorismo mediatico” nella regione contro il “movimento bolivariano”. Perù e Colombia in prima linea.
Il Congresso della Coordinadora Continental Bolivariana, (CCB), evento internazionale che ha riunito a Quito delegati di 21 paesi, si è svolto in un clima di assoluta legalità e legittimità, dal momento che sia la sua organizzazione , sia il calendario, erano perfettamente a conoscenza del governo ecuadoriano che li aveva previamente autorizzati. La campagna mediatica contro la CCB va avanti da tempo, e i suoi delegati spesso sono accusati di essere terroristi al soldo dei gruppi ribelli della regione come le FARC (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia). Quest’anno il secondo congresso della CCB è stato attaccato da più parti e principalmente dal governo colombiano di Álvaro Uribe, in seguito al fatto che i tre giovani messicani morti nel campo delle FARC in Ecuador durante l’attacco dell’esercito colombiano avvenuto il 1 marzo scorso, erano giunti proprio da Quito, dove avevano partecipato ad alcuni incontri della CCB.
Il vicepresidente Francisco Santos aveva affermato in quell’occasione che le FARC reclutavano giovani tra gli appartenenti dei circoli bolivariani presenti in Messico e finanziati dal Venezuela.
Nessuno degli altri 21 paesi, cui delegati hanno partecipato agli incontri della Coordinadora Bolivariana, hanno intrapreso azioni repressive verso i propri partecipanti, ad eccezione del Perú che ne ha arrestati sette senza prova alcuna e che si distingue nella regione, proprio insieme alla Colombia, per l’impronta conservatrice della sua politica interna.
Già negli ultimi mesi il governo di Alan García aveva infatti represso duramente alcune manifestazione di protesta sociale e di mobilitazione, soprattutto quelle rivolte alla lotta contro le politiche neoliberali e il TLC.
Nel mese di febbraio, i due giorni di sciopero nazionale degli agricoltori, che protestavano per chiedere al governo misure efficienti per contrastare gli effetti nocivi del Trattato di Libero Commercio con gli Stati Uniti, si sono concluse con la morte di quattro persone e decine di arresti. In quell’occasione furono sospese da parte del presidente del Consiglio dei Ministri, Jorge del Castillo, le garanzie costituzionali, dichiarando lo stato di emergenza.
In questi giorni, invece,in vista dei prossimi appuntamenti internazionali, il ministro dell’Interno, Alva Castro, annunciando che “farà il possibile per dare tutte le garanzie ai paesi e agli ospiti, dimostrando che il Perú è un paese democratico, di libertà e che ha come segno e destino, il progresso”, si è impegnato a mettere il silenziatore su qualsivoglia forma di dissenso o di protesta.
Così, con l’arresto dei 7 “terroristi internazionali” cerca di dimostrare al mondo intero che “il paese sta prendendo tutte le precauzioni necessarie per il successo dei vertici internazionali” come ha confermato l’attuale ministro della Difesa Flórez Aráoz, felicitandosi con l’operato di Alva Castro.
La criminalizzazione del movimento bolivariano, che in questo caso diventa sinonimo di “chavismo” era iniziata sin dalla campagna eletterale in Perù dell’anno 2006 che si concluse nel mese di giugno con la vittoria di Alan García sul candidato Ollanta Humala del Partido Nacionalista, accusato di essere appoggiato e finanziato da Hugo Chávez.
Volarono parole grosse in quell’occasione fra Chavéz e García e si giunse quasi alla rottura diplomatica delle relazioni tra i due paesi. La campagna di Alan García volta a spaventare gli elettori su una possibile vittoria del “chavismo” e di un candidato tanto vicino al “dittatore populista” probabilmente fu ciò che gli permise di vincere su Ollanta Humala.
Tale campagna, effettivamente non si è mai conclusa. Nel mese di ottobre dell’anno passato, l’ex ministro della Difesa Allan Wagner, ha accusato i circoli bolivariani dell’ALBA (Alternativa Bolivariana per le Americhe), detti Casas de Alba, di essere in effetti centri di destabilizzazione del potere finanziati da Caracas.
In Perù ne hanno sede una decina e si occupano di inviare pazienti all’estero per interventi di varia natura alla vista, nell’ambito della così detta Operación Milagro, un piano sanitario sviluppato congiuntamente dai governi di Cuba e del Venezuela e rivolto ai settori più umili e poveri della popolazione latinoamericana.
L’Operación Milagro fa parte integrante del programma dell’ALBA.
L’attività dell’ Alternativa Bolivariana delle Americhe, (ALBA) rappresenta infatti un accordo commerciale e non solo, tra Venezuela, Cuba, Bolivia e Nicaragua e che si contrrappone nella regione a quella dell’ Area di Libero Commercio delle Americhe (ALCA) promossa dagli Stati Uniti.
I sette giovani arrestati sono stati presentati ai media e al paese come la “prova del vincolo tra il regime del Venezuela e l’MRTA” che si svilupperebbe tramite le Casas de Alba.
Il ruolo di Perú e Colombia
Il Perú e la Colombia si configurano pertanto alleati fondamentali degli Stati Uniti per contrastare nella regione le politiche dei governi “nemici” di Washington come quelli del Venezuela, della Bolivia e dell’Ecuador, il così detto “asse del male latinoamericano”.
Alleati importanti sia dal punto di vista economico, con i quali è possibile ancora stipulare Trattati di Libero Commercio, in quanto le proteste sociali vengono contenute e silenziate, sia strategici, in quanto la firma del TLC con il Perú sembrerebbe fosse stata vincolata alla costruzione di una base militare americana a Piura, al confine con l’Ecuador e che sarebbe stata destinata a sostituire quella di Manta. Proprio in questi giorni in Ecuador, l’Assemblea Costituente ha approvato alcuni articoli della nuova Costituzione, nei quali è espressamente vietata la presenza delle basi straniere militari in territorio nazionale. Correa inoltre ha ufficialmente anticipato che alla scadenza del 2009 non rinnoverà la concessione agli Stati Uniti dell’utilizzo del porto di Manta come base militare.
Si intende bene quindi il motivo per cui la “bolivarizzazione di alcune organizzazioni politiche peruviane”, come ha affermato il ministro della Difesa Flórez Aráoz, possa essere vista con estrema preoccupazione si internamente ma anche da Washington.
Flórez Aráoz, ha definito il presidente venezuelano Hugo Chávez addirittura come “pericoloso”.
L’”infiltrazione chavista” secondo il ministro agirebbe nel paese come agisce il neosenderismo, cioè cercando consenso sociale tra la popolazione”.
In questo contesto, le Casas de Alba, sarebbero delle “teste di ponte utilizzate per indottrinare i settori più economicamente svantaggiati della popolazione”.
Sarebbero cioè , insieme alla CCB, anche la nuova veste del MRTA e punto chiave di connessione in questo processo sono proprio gli ex tupacamaristi accusati di essere vincolati oggi con le FARC, come González La Rosa, in carcere da più di un mese con altre sette persone, accusato di essere un terrorista internazionale, senza nemmeno una prova a dimostrarlo.
E’ iniziato lunedì (casualmente nella stessa data in cui si celebra la Giornata Internazionale dei Diritti Umani) in Perù il processo ad Alberto Fujimori per violazione dei diritti umani e corruzione.
Rischia quasi 30 anni di carcere e il pagamento di circa 34 milioni di dollari di indennizzo ai familiari delle vittime, in un processo che nel paese è considerato storico per essere la prima volta che un ex capo di stato risponde davanti alla giustizia per reati commessi durante il suo mandato.
Fujimori è accusato del sequestro e assassinio di nove studenti e di un professore dell’Università la Cantuta nel 1992 ed il massacro di altre 15 persone nel 1991 a Barrios Altos a Lima.
L’udienza è stata sospesa perchè l’imputato ha accusato ipertensione dopo avere gridato a gran voce e con le braccia in alto la sua innocenza. Il suo show gli è costato il richiamo all’ordine da parte del giudice César San Martín.
Intanto da Washington arriva un documento della DIA del 1997 che prova l’ordine dato dallo stesso Fujimori di non lasciare vivo nessun prigioniero Tupac Amaru nell’operazione di riscatto Chavín de Huántar, in cui furono uccisi a sangue freddo, nonostante si fossero arresi, i ribelli che tennero in ostaggio per quattro mesi nella sede dell’Ambasciata giapponese a Lima, centinaia di ostaggi.
Lo aveva previsto perfino Mario Vargas Llosa in un suo articolo del 16 gennaio scorso che sarebbe successo. Scriveva allora infatti: “El ojo que llora” (L’occhio che piange), in “un paese dove tutto è possibile, potrebbe essere distrutto da una singolare congiuntura di ignoranza, stupidità e fanatismo”.
E così è stato, il singolare monumento, costruito in memoria delle circa 70 mila vittime del conflitto in Perù negli anni compresi tra il 1980 e il 2000, domenica 23 settembre è stato il bersaglio mirato di un atto vandalico e non privo di inquietanti interrogativi (vista l’estradizione di Fujimori in Perù), da parte di un gruppo armato di circa venti persone, che si sono introdotte nel complesso dell’Alameda della Memoria in Campo di Marte a Lima, minacciando e immobilizzando il custode.
“El Ojo que llora” è una creazione della scultrice olandese, ma residente in Perù da circa 40 anni, Lika Mudal, la quale per commemorare le vittime, i cui nomi sono stati presi direttamente dalla relazione finale della Commissione di Verità e Riconciliazione, ha concepito un percorso labirintico che conduce fino ad una immensa pietra (che rappresenta la Terra Pachamama) dalla quale fuoriesce acqua come se fossero lacrime. Il cammino che porta fino alla pietra centrale è delineato da 32 mila pietre bianche sulle quali altrettanti nomi sono stati scritti da volontari con vernice indelebile.
In un percorso quasi onirico e caratterizzato da un forte simbolismo, il visitatore attraversando il dolore e la violenza rappresentati dai nomi scritti sulle pietre, giunge fino al cospetto della Madre Terra che versa lacrime per tutti i suoi figli.
Per tutti i suoi figli indistintamente, siano essi i 9 studenti della Cantuta giustiziati nel 1992 insieme al loro professore da un reparto del gruppo paramilitare Colima o gli otto giornalisti e la loro guida massacrati sulle montagne di Uchurracay il cui omicidio fu commissionato direttamente da membri dell’Esercito e della Marina o tutti gli altri desaparecidos, torturati e uccisi tra il 1980 e il 2000, così come per tutte le vittime della violenza senderista.
Certo che se è Mario Vargas Llosa a parlare di “ignoranza, stupidità e fanatismo”.…non possiamo non credergli.
Egli fu nominato presidente della Commissione Uchurracay, che era composta da importanti personalità del mondo culturale e giudiziario dell’epoca e che aveva il compito di fare chiarezza sulle cause del massacro dei giornalisti, invece mentirono Vargas Llosa e la commissione, accusando ingiustamente dei contadini indigeni per coprire le reali responsabilità dell’esercito nell’accaduto.
Risale al mese di gennaio 2007 la sentenza della Corte Interamericana dei Diritti Umani che ha condannato lo stato peruviano per violazione dei diritti umani e lo ha obbligato a risarcire i familiari dei 42 senderisti trucidati nel penale limeño di Castro Castro tra il 6 e il 9 maggio 1992, nonchè ad inserire i nomi delle vittime nel complesso monumentale del “Ojo que llora”.
La decisione causò allora la protesta dei familiari delle vittime degli attentati compiuti da Sendero Luminoso, indignati per il fatto che i nomi dei loro cari si trovassero vicino a quelli dei militanti del gruppo maoista, in un monumento da loro stessi poi ribattezzato come “monumento ai terroristi”.
L’ex senatrice fujimorista Martha Chavez d’altra parte ha elogiato in questi giorni l’atto vandalico dicendo che “finalmente qualcuno ha avuto il coraggio di eliminare questo monumento spazzatura, dove con cattiveria sono stati messi i nomi dei terroristi convinti vicino a quelli che del terrorismo senderista sono state le vittime, questo disonore non doveva essere permesso e qualcuno doveva fare ciò che è stato fatto”.
Francisco Soberón, direttore dell’Associazione per i Diritti Umani (APRODEH) rende noto invece che il colore arancio usato per imbrattare il monumento è quello che identificava il fujimorismo negli anni della dittatura e che l’APRODEH “condanna energicamente questa barbara aggressione, che coincide con l’arrivo di Fujimori, fatto che indica degli indizi sui responsabili materiali dell’accaduto”.
Chissà a chi addosserebbe ora Vargas LLosa la responsabilità dell’atto vandalico compiuto su “El Ojo que llora”.
Por Julio Carmona
Mucho se ha hablado a raíz de la extradición del ciudadano japonés Kenya Fujimori Fujimori. Pero se ha hecho muchas veces tergiversando los términos. Por ejemplo eso de seguir considerándolo como “ciudadano peruano”. Y no es así, porque esa nacionalidad peruana devino nula, en la medida que la Constitución que se lo impedía no es la del ’93 sino la del ’33, que es la que regía cuando él llegó al Perú sin haber renunciado a la nacionalidad japonesa, la misma que hizo valer para refugiarse en el Japón al fugar abandonando el cargo de Presidente que ostentó por diez años, ilegalmente no sólo por el golpe de Estado del ’92, sino porque para ser presidente del Perú, según la Constitución del ’79 –aplicable para el caso-, se debía tener la nacionalidad peruana, que la daba el haber nacido en el Perú o el haber renunciado a la nacionalidad de origen: y en ambos casos está probado que Fujimori no cumplía con esos requisitos.
La otra tergiversación de los hechos –en el tráfago discursivo denunciado– es seguir llamándolo “Presidente” (como hacen sus ayayeros, para impresionar a los incautos y lograr para él un estatus de privilegio) o “ex Presidente” (como hacen los desinformados); porque lo que hizo el reo Fujimori fue usurpar funciones y, conforme lo establece la Constitución engendrada por él mismo (razón más que suficiente para invalidarla, pues sigue ostentando su firma), “nadie debe obediencia a un gobierno usurpador”, es decir, que un gobierno usurpador es nulo como son nulos sus actos (Artículo 46º). Por eso cuando se exige para él un trato “de acuerdo con su investidura de ex jefe de Estado”, no sólo se ignora o se pretende ignorar la invalidez de dicho estatus, sino que además se olvida que incurrió en otro delito (Artículo 380º del Código Penal) que es el de “abandonar” el cargo que usurpó por diez años, lo que también lo desautoriza para reclamar la validez de un cargo usurpado y abandonado.
Por otro lado, esa descalificación de haber sido Jefe de Estado la proporciona el mismo reo al decir que él no estaba enterado de ninguno de las actos ilícitos por los que se le juzga, cometidos en su “gobierno”, pues de ser así lo único que demuestra es una absoluta incapacidad para gobernar, dado que los delitos cometidos y publicitados incriminaban a sus agentes de manera flagrante y, no obstante, su “gobierno” no sólo no los persiguió ni condenó sino que los condecoró y felicitó y (cuando fueron perseguidos y juzgados por el impulso de los organismos de derechos humanos y del periodismo honesto) él los amnistió. Pero todas esas tergiversaciones de los términos se hacen patéticas cuando se pretende minimizar su responsabilidad en actos tan execrables haciendo un paralelo con la supuesta estabilidad económica que introdujo (luego de la debacle del primer gobierno aprista), y esto se derrumba por su propio peso, porque esa recuperación económica lo que hizo es llevar al Perú a la mayor dependencia de toda su historia, y para lograr eso no era necesario hacerlo derramando sangre inocente. Los tiranos (homónimos del reo Fujimori, tal el caso de Pinochet) pretenden siempre tapar sus crímenes amparándose en el “orden”, pese a ser un “orden” represor de los derechos del pueblo, y favorable a unos pocos privilegiados –incluido el propio tirano– que ven crecer sus riquezas.
Por último (la cereza que corona la torta): decir “Fujimori ha vuelto” es también erróneo, porque si bien es cierto él planeó volver vía Chile, lo hizo suponiendo que se iba a cumplir el –felizmente fallido– pronóstico Valle Riestra: que ningún expresidente había sido extraditado. Y, bueno, la justicia chilena parece haber visto que no tiene el estatus de expresidente. Y por eso digo que “no viene” como tal, sino que “lo traen como reo flagrante y contumaz”. Para paz espiritual de todas sus víctimas.
Julio Carmona
Miembro de la Directiva (Vicepresidente) del Gremio de Escritores del Perú
Miembro del Comité de Redacción de la Revista Digital argentina
< www.redaccionpopular.com>
Un abrazo solidario a todos mis amigos peruanos. Quisiera estar con Ustedes.
La notizia è importante, non ho purtroppo tempo per approfondire ulteriormente, comunque il Cile ha negato al Perù, l’estradizione di Alberto Fujimori, dove doveva essere giudicato per crimini contro l’umanità. La sentenza verrà nuovamente discussa dal Tribunale Penale della Corte Suprema.
Por: Julio Carmona
Con estupor recibimos la noticia. Desconociendo la sólida argumentación de la fiscal Mónica Maldonado, los antecedentes del ingreso ilegal de Fujimori a Chile, el clamor del pueblo peruano, los llamamientos internacionales, la larga lista de hechos que demuestran la actitud delincuencial del prófugo, incluida la maniobra de candidatear a una senaduría en Japón, ORLANDO ALVAREZ ha rechazado la extradicción de quien fugó del Perú dejando a los cómplices y operadores de sus délitos envueltos en juicios y ahora en cárceles.
Su resolución será revisada por la Sala Penal de la Corte Suprema donde el peso de la justicia tendrá que estar de lado la vida de los asesinados, los miles de desaparecidos, el dolor de una sociedad mancillada, el destrozo de la institucionalidad, la verdad manipulada hasta la náusea y la ingente cantidad de dinero robado a un pueblo pobre.
Chile tiene que recordar que se trata de un delincuente, conocido como uno de los jefes de estado más corruptos del mundo. Chile, el pueblo, que sufrió la dictadura de Pinochet, el mismo pueblo que en su momento recibió la concreta solidaridad de tantos hermanos peruanos que sufrimos y nos solidarizamos con su causa, no puede preferir la bolsa a la vida.
De otro lado, los crímenes de lesa humanidad son imprescriptibles. Y si Chile exculpa al delincuente prófugo, no solo el Perú será ofendido sino la conciencia moral del planeta.
Una espera activa se impone.
Los gremios nacionales, ahora movilizados, las diversas instituciones del país, cada persona que se tenga un mínimo de respeto no puede dejar de hacer sentir su estupor y su reclamo.
Para empezar, esta tarde en Lima, frente a la Embajada de Chile.
Dieci anni fa, il 22 aprile 1997 si concludeva tragicamente a Lima, nella sede dell’Ambasciata giapponese la così detta “crisi degli ostaggi” iniziata 126 giorni prima, il 17 dicembre 1996.
Allora, 14 appartenenti al gruppo TUPAC AMARU guidati dal comandante Néstor Cerpa Cartolini tennero in ostaggio, in un’operazione chiamata “Rompiendo el silencio” (Rompendo il silenzio), per circa 4 mesi, centinaia di persone appartenenti all’alta società peruviana che si trovavano nell’Ambasciata riuniti per un ricevimento, dopo aver rilasciato i più deboli ed anziani tra i quali la madre del presidente Fujimori.
Fujimori per i quattro mesi del sequestro finse di portare avanti una trattativa con i ribelli i quali chiedevano in cambio del rilascio dei prigionieri la liberazione di alcuni appartenenti al MRTA detenuti presso le carceri peruviane.
Il 22 aprile, complice anche Monsignor Cipriani (arcivescovo di Lima e membro dell’Opus Dei) il quale avendo accesso all’interno dell’Ambasciata per celebrare la messa, riuscì ad introdurre nella stessa una radio e consegnarla agli ostaggi con la quale questi vennero informati preventivamente dell’irruzione delle forze speciali dell’esercito.
I ribelli Tupac Amaru vennero trucidati e con essi Carlos Giusti un magistrato che faceva parte del gruppo degli ostaggi ma che risultava “scomodo” al governo Fujimori per aver più volte ribadito l’indipendenza della magistratura dal potere politico.
Già Human Right Watch all’indomani della presa dell’ambasciata, pur condannando l’azione del MRTA aveva richiamato il governo peruviano e lo aveva invitato ad ascoltare le richieste dei ribelli Tupac Amaru i quali in sostanza oltre alla liberazione dei loro compagni reclamavano condizioni carcerarie più umane e processi giusti, cosa che non avveniva in Perù per i prigionieri politici. Inoltre HRW suggeriva al governo di seguire l’esempio delle trattative portate avanti in una caso analogo, quando guerriglieri dell’M-19 assaltarono l’ambasciata della Repubblica Dominicana in Colombia. In quel caso gli ostaggi furono posti in libertà con la promessa che una delegazione della Commissione Interamericana dei Diritti Umani partecipasse in qualità di osservatore al processo di circa 200 guerriglieri detenuti.
In un comunicato stampa di HRW diffuso dopo la liberazione degli ostaggi e il massacro dei ribelli da parte dell’esercito, si rende noto che molti di essi furono giustiziati dopo essere stati disarmati e catturati vivi. Inoltre nonostante fosse stato promesso ai familiari la restituzione dei corpi per darne degna sepoltura, essi successivamente vennero gettati in fosse comuni.
Riporta testualmente il comunicato di HRW:
“Organismi per la difesa dei diritti umani hanno documentato centinaia di esecuzioni extragiudiziali, incluso vari massacri, per mano di membri delle forze di sicurezza peruviane da quando Fujimori ha assunto la presidenza della nazione.
Il Perù oggi non dimentica la passeggiata macabra di Fujimori tra i cadaveri dei 14 Tupac Amaru, e la sua fuga in Giappone non molto tempo dopo e aspetta con ansia la sua estradizione dal Cile perchè venga condannato finalmente per i crimini commessi.
A Vladimiro Montesinos, all’epoca suo braccio destro e attualmente detenuto nella Base Navale del Callao, per la responsabilità nell’esecuzione extragiudiziale dei 14 Tupac Amaru, il prossimo 18 maggio verrà aperto un procedimento penale per omicidio.
Il Movimento Rivoluzionario Tupac Amaru, nello stesso giorno in cui cade l’anniversario del massacro all’ambasciata giapponese, diffonde un comunicato nel quale, “chiama all’unità il popolo peruviano, la sinistra , i movimenti sociali e i settori progressisti e invoca un’Assemblea Costituente che sia espressione della volontà popolare”.
Chiede inoltre che venga rispettata la sovranità popolare tradotta in una “politica latinoamericanista dove i popoli decidano autonomamente il loro futuro” Un primo passo per realizzare questo progetto sarebbe “ il ritiro delle basi nordamericane dal Perù e dall’America Latina” , nonché la nazionalizzazione degli idrocarburi, la difesa delle risorse naturali, la difesa dell’Amazzonia e il rispetto delle identità culturali ed etniche del paese.
Alan García rappresenta tuttavia la continuità del progetto liberista applicato dalla dittatura di Fujimori, che almeno nei metodi era intenzionato a restaurare con la proposta, bocciata dal Congresso, di reintrodurre la pena di morte per i prigionieri accusati di terrorismo. Nonostante cresca il malcontento di ampi settori della popolazione e la popolarità dell’attuale presidente vada diminuendo sempre più, per il Perù la primavera appare ancora lontana.
Polemico e vergognoso discorso del presidente peruviano Alan García i giorni scorsi rivolto ai settori più poveri del suo paese in occasione della presentazione di un ingente piano di investimenti che comprendeva anche il lancio del programma “Agua para todos” (Acqua per tutti).
Costui, definito addirittura dal nostro Ministro degli Esteri, Massimo D’Alema in una recente intervista “esponente storico della sinistra latinoamericana (lo sa D’Alema che su García pende un’accusa per crimini contro l’umanità commessi nel suo paese durante il suo precedente governo 1985/1990?).
Il presidente peruviano avrebbe invitato i poveri del suo paese “a non vedere lo Stato come unica forma di salvezza, ed essere essi stessi il motore del cambiamento” . “Smettete – ha continuato – di tendere le vostre mani per vedere se piove, smettete di chiedere, perchè questo lo fanno solamente i parassiti” “Dacci lavoro, dacci acqua potabile, dacci reti fognarie. Cosa vuoi che ti dia ancora? Crescete con i vostri sforzi , lavorando uniti e smettetela di chiedere, perchè questo vi fa diventare dei parassiti”.
E meno male che “era un esponente storico della sinistra latinoamericana”…
Caro García anche i motori delle macchine per poter camminare hanno bisogno della benzina.
E ancora su Alan García:
Polémico y vergonzoso discurso del presidente peruano Alan García los días pasados dirigido a los sectores más pobres de su país en ocasión de la presentación de un ingente plan de inversiones y del programa Agua para todos.
Él, que hasta fue indicado por el Ministro del Exterior de Italia, Massimo D’Alema, como un “historico esponente de la izquierda latinoamericana” (sabe D’Alema que García está acusado por crimines scontra la humanidad cometidos en su primer gobierno entre 1985 y 1990?).
El presidente peruano invitò los pobres de su país a “no ver al Estado como su única salvación y ser ellos mismos el motor de su proprio cambio.
“Dejen — continuó– de pedir que eso solo los hacen los parasitos”.
“Dame trabajo, dame agua potable, dame alcantarillado. Qué más quieres que té papito? Crece por tu proprio esfuerzo, trabajando unidos. Deja de pedir, eso te convierte en un parásito”.
Y menos mal que era “un esponente historico de la izquierda latinoamericana”…
Querido García hasta los motores de los carros para andar necesitan gasolina.
Tempi duri per il governo del Perù e particolarmente per l’ex presidente e dittatore Alberto Fujimori attualmente detenuto in Cile e del quale il Perù attende da mesi l’estradizione. Con due sentenze del Tribunale Interamericano per i Diritti Umani, con sede in Costa Rica emesse a distanza di pochi giorni l’una dall’altra, sembra avvicinarsi sempre di più il momento per poter rendere finalmente giustizia alle vittime della dittatura di Fujimori. Quella più importante, del 21 dicembre scorso e che ha già causato grande clamore, nonché la disapprovazione dell’attuale presidente del Perù Alan García, condanna lo stato peruviano per crimini di guerra.
Questa sentenza può già considerarsi storica perché è la prima volta che viene applicata la convenzione di Belem do Parà redatta nel 1994 per prevenire, condannare e combattere la violenza sulle donne e per la prima volta dallo stesso tribunale la violenza sessuale contro una donna viene intesa secondo i canoni del diritto internazionale. La sentenza riguarda i fatti accaduti nel penitenziario di Miguel Castro Castro di Lima tra il 6 e il 9 maggio 1992, allora presidente Fujimori, dove con un’operazione militare in piena regola furono giustiziati 42 detenuti, 175 furono feriti e 322 furono torturati, giustificando agli occhi del paese tanta violenza con il tentativo fallito, a causa di un’insurrezione tra i detenuti, di trasferire le donne accusate di terrorismo in un altro carcere.
In effetti i penitenziari peruviani, in quegli anni affollati di dirigenti, attivisti e semplici simpatizzanti dei gruppi eversivi Sendero Luminoso e Túpac Amaru erano in una situazione di sovraffollamento e mal gestiti dall’autorità giudiziaria, per cui nel 1991 si autorizzò l’ingresso delle forze armate nelle prigioni. I problemi maggiori si avevano all’interno del penitenziario di Miguel Castro Castro, dal quale i ribelli riuscivano comunque a portare avanti la loro attività eversiva.
Il legale dei 300 detenuti vittime di torture, Mónica Feria, lei stessa ex detenuta e sopravvissuta al massacro, è riuscita a dimostrare al Tribunale Interamericano per i Diritti Umani, dopo 10 anni di discussione del caso, che in realtà il trasferimento dei detenuti fu solo un pretesto per effettuare decine di esecuzioni sommarie dei capi dei gruppi ribelli che si trovavano a quel tempo in carcere. Fu usato allo scopo un vero e proprio arsenale di guerra, incluse armi chimiche tra cui il fosforo bianco. Molte delle donne detenute erano in avanzato stato di gravidanza e fu rifiutato espressamente dal governo peruviano nella persona dell’ex presidente Alberto Fujimori, l’intervento sia della Croce Rossa Internazionale che di vari organismi internazionali per la difesa dei diritti umani.
Il Tribunale Interamericano ha riconosciuto colpevole lo stato peruviano per la violazione dei diritti umani e in particolar modo per quelli delle donne (per cui è stata applicata la convenzione di Belem do Pará), “le quali sono state colpite dagli atti di violenza in modo differente rispetto agli uomini e alcuni atti violenti sono stati diretti loro in quanto donne”. Sono stati riconosciuti dal giudice Cancado Trindade casi di violenza pre-natale in quanto alcune vittime erano in stato di gravidanza che sicuramente hanno causato traumi prenatali nei nascituri, la cui entità è difficilmente valutabile.
Alle violenze subite da queste donne è stato riconosciuto inoltre il carattere di continuità in quanto sono proseguite anche in seguito alla conclusione dell’operazione militare. Alcune di essere sono state ripetutamente violentate e nei mesi successivi sono state tenute in regime di stretto isolamento nonostante avessero bisogno di cure.
La seconda sentenza, del 29 novembre 2006, condanna invece lo stato peruviano, per il caso di “
La Cantuta ”
riconoscendolo colpevole del massacro del professore Hugo Muñoz Sánchez e di nove suoi studenti dell’Università Nazionale “Enrique Guzmán Valle”
(
La Cantuta ) avvenuto il 18 luglio 1992
sempre durante la presidenza di Alberto Fujimori. Il professore e gli studenti furono prelevati da militari appartenenti al gruppo paramilitare Colina, facente capo a Vladimiro
Montesinos e dopo essere stati giustiziati furono sepolti in una fossa comune e i loro corpi ritrovati solo mesi più tardi. Il caso di
La Cantuta è uno dei crimini per i quali è stata
richiesta l’estradizione di Alberto Fujimori nel 2003 dal Giappone e successivamente
nel
gennaio 2006 al governo del Cile, il quale ora, come paese membro del Tribunale Interamericano per i Diritti Umani non potrà
non prendere atto di queste due sentenze e negare ancora l’estradizione di Fujimori. Il verdetto del tribunale cileno sull’estradizione
è atteso per marzo 2007.
E per un ex presidente e dittatore, che vede sempre più vicina la possibilità di finire in prigione nel paese dove ha commesso i suoi crimini più efferati , ce n’è un altro, quello in carica, evidentemente in calo di popolarità, che responsabile anch’egli di numerosi crimini durante il suo precedente mandato (1985–1990), teme un giorno di poter fare la stessa fine del suo collega e infatti condanna a gran voce la sentenza del Tribunale Interamericano dei Diritti Umani relativa al caso del penitenziario Miguel Castro Castro, affermando che non è disposto in nessun modo ad adempiere all’obbligo prescritto in essa di rivendicare pubblicamente la responsabilità dello stato nel massacro, ritenendo inappropriata una sentenza che dia risarcimenti e indennizzi a criminali terroristi.
García forse non sa che i diritti umani si applicano ANCHE ai detenuti. E che torturare un essere umano è SEMPRE un crimine.
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