Jacinto de Los Santos recorre el país a pie, vocero de la ruptura del contrato social entre pueblo y estado dominicano.
Jacinto de los Santos recorre el país a pie, vocero de la ruptura del contrato social entre pueblo y Estado.
Por Annalisa Melandri* 23 de septiembre de 2011En el día de ayer, jueves 22 de septiembre, se ha visto necesaria la suspensión del peregrinaje que algunos compañeros de la Filial de Bávaro-Verón de la Comisión Nacional de los Derechos Humanos (CNDH), acompañados y respaldados por representantes de diferentes asociaciones de la provincia La Altagracia, habían empezado el lunes desde Bávaro con el propósito de entregar un documento de protesta y reclamos al Presidente de la República, Leonel Fernández. (altro…)
Informe 2010 Comisión Nacional de los Derechos Humanos (CNDH)
Ben oltre il realismo magico in Repubblica Dominicana
Abbiamo installato oggi la filiale della Commissione Nazionale dei Diritti Umani ad Hato Mayor del Rey, un piccolo paesino capoluogo del municipio di Hato Mayor che fa parte della Región Este della Repubblica Dominicana.
Con piú chiese (appartenenti ad ogni setta possibile ed immaginabile) che buche per strada e con un colonnello della Polizia Nazionale che ci ha giurato, (altro…)
Il Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) in Repubblica Dominicana “purga” i suoi migliori ricercatori.
Il Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) in Repubblica Dominicana “purga” i suoi migliori ricercatori.
Quale sviluppo in Repubblica Dominicana? Mancato rinnovo di contratti nell’Ufficio per il Rapporto sullo Sviluppo Umano (ONU) per aver dimostrato, dati alla mano, il fallimento del modello neoliberista imposto dalle politiche economiche dell’attuale governo.
E’ noto che quando in Repubblica Dominicana si parla di “sviluppo”, generalmente ciò che si intende è lo “sviluppo” dei capitali dell’ oligarchia del paese, formata da appena una decina di famiglie e che detiene il potere economico e finanziario. Tuttavia non si tratta solo di questo, ma anche dello “sviluppo” delle multinazionali straniere che considerano questo angolo di Caribe ancora alla stregua di terra di conquista (e che sono in questo senso gentilmente favorite da un pugno di politici corrotti) e dello sviluppo visto secondo la prospettiva distorta del Fondo Monetario Internazionale che ha appena ricattato il paese per mezzo di un pacchetto fiscale pesante e inopportuno.
Parlare invece di sviluppo sociale e umano in Repubblica Dominicana effettivamente non è semplice e tale difficoltà è visibile e si percepisce molto bene per esempio uscendo dai grandi alberghi o dai resort che nascono come funghi in tutto il paese favoriti dalle vendite a basso prezzo di terre statali e dalle politiche neoliberali che favoriscono gli investimenti e i capital stranieri .
Deve essere per questo motivo che la direzione del Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite (la sigla in inglese è UNDP) non ha rinnovato i contratti di lavoro in scadenza alla fine di giugno, a due dei più validi collaboratori e ricercatori dell’Ufficio per il Rapporto per lo Sviluppo Umano, da sempre impegnati nella difesa degli interessi dei settori del paese più deboli economicamente. Si tratta dei noti economisti Miguel Ceara Hatton coordinatore dell’ Ufficio per il Rapporto sullo Sviluppo dell’ UNDP e di Pável Isa Contreras coordinatore dei progetti dei rapporti provinciali dello Sviluppo Umano dello stesso gruppo di lavoro. (altro…)
El Programa de la Naciones Unidas para el Desarrollo (PNUD) en República Dominicana “purga” sus mejores investigadores.
¿Quién necesita huracanes? El tifón más devastador Es muchos menos terrible que el hombre Cuando quiere divertirse. (…) No hay necesidad de huracanes No hay necesidad de tifones Todo el daño que pueda causar Podemos causarlo Podemos causarlo Podemos causarlo nosotros mismos. BERTOLT BRECHT «Grandeur ed Decadence de la ville de Mahagony». … No existe la sociedad, Existen solamente los individuos. MARGARETH THATCHER
El Programa de la Naciones Unidas para el Desarrollo (PNUD) en República Dominicana “purga” sus mejores investigadores.
por Annalisa Melandri 28 de junio de 2011
¿Cual desarrollo en República Dominicana? Despidos en la Oficina de Desarrollo Humano de la ONU por haber demostrado el quiebre del modelo neoliberal impuesto por las políticas económicas del actual gobierno.
En República Dominicana es noto que cuando se habla de “desarrollo” lo que sobretodo se entiende es el “desarrollo” de los capitales de la oligarquía del país que detiene el poder económico y financiero y que está conformada por una decena de familias. Sin embargo no se trata solamente de ese “desarrollo”, sino también del “desarrollo” de las transnacionales extranjeras que consideran este rincón de Caribe todavía cómo tierra de conquista (y que son amablemente favorecidas por un puñado de políticos corruptos) y del “desarrollo” visto en la perspectiva distorsionada del Fondo Monetario Internacional, que acaba propio en estas días de chantajear el país a través de un “paquetazo” fiscal muy pesado.
En cambio, hablar de desarrollo social y humano en República Dominicana efectivamente no es simple y esa dificultad es visible y se percibe muy bien al salir por ejemplo de los grandes hoteles y resort que crecen como hongos en todo el país favorecidos por las ventas a bajo precio de las tierras del Estado y por las políticas neo liberales que favorecen la inversiones extranjeras y el capital foráneo.
Debe ser por esta razón que la dirección del Programa de las Naciones Unidas para el Desarrollo (PNUD) no ha renovado los contratos a dos de sus más valientes colaboradores e investigadores de la Oficina de Desarrollo Humano (ODH), desde siempre comprometidos con la defensa de los intereses de los sectores del país más débiles económicamente. Se trata de los reconocidos economistas Miguel Ceara Hatton, coordinador de la Oficina de Desarrollo Humano del Programa de las Naciones Unidas para el Desarrollo (ODH/PNUD) y de Pável Isa Contreras, coordinador de los proyectos de los informes provinciales de Desarrollo Humano del mismo grupo de trabajo. (altro…)
Intervista per Bucanero (Radio Popolare Roma) su Haiti e Repubblica Dominicana, violenza sulle donne in America Latina e Conferenza Mondiale delle Donne
Intervista realizzata il 28 novembre scorso per Bucanero (Radio Popolare Roma) . Ascoltabile e scaricabile BUCA_281110.mp3 (al minuto 13)
Elezioni ad Haiti tra macerie e colera
Ad Haiti il 28 novembre 2010 i vota. A votare tra le macerie una popolazione allo stremo. Perché le elezioni? Chi sono i candidati? Cosa c’è da aspettarsi? Ne parliamo con Maurizio Chierici, giornalista del Fatto Quotidiano. Dall’altra parte dell’isola, a Santo Domingo, dalla Repubblica Domenicana c’è Annalisa Melandri, suo il blog: www.annalisamelandri.it che ci racconta come da lì si percepisce la situazione ad Haiti, della giornata contro la violenza sulle donne e dell’organizzazione della Conferenza mondiale delle donne a Caracas (28/11/10)
Bucanero
Bucanero
Bucanero è realizzata in collaborazione con Terre Madri, organizzazione di cooperazione internazionale che realizza e sostiene progetti di sviluppo e di informazione con l’America latina e l’Africawww.terremadri.it
Bucanero
Ogni domenica alle 12.30
A cura di Nadia Angelucci, Gianni Tarquini e Rachele Masci
Lista di avvocati di fiducia della Commissione Nazionale dei Diritti Umani (CNDH) della Repubblica Dominicana
Visti i notevoli e gravi problemi ai quali sono andanti incontro i detenuti italiani in Repubblica Dominicana proprio per non aver goduto di una assistenza legale degna di questo nome, la Commissione Nazionale dei Diritti Umani ha messo a disposizione dell’ Ambasciata italiana a Santo Domingo una lista di avvocati ai quali poter fare riferimento in caso di necessità. Per ulteriori informazioni mi si può contattare al mio indirizzo di posta elettronica: annalisamelandriyahooit
1– JUANA MAGALIS LEISON GARCIA
Cedula no. 001–0504272-5
TEL (829)890‑9233
2- ARACELIS FRANCISCA MORALES ARIAS
Cedula no. 001–1404739-2
Tel (829)383‑8749
3-LICDO.ANDRES CESPEDES
Cedula no. 001–0137904-8
Tel (829)707‑2129
4-LICDO EDWARD DAVID CAPELLAN LIRIANO
Cedula no.001–0903726-7
Tel.(809)399‑0015
5– LICDA MILVIA YOSELIN MELO CIPRIAM
Cedula no.010–0010523-7
Tel (829) 983‑3050
LOCALIZABLE EN AZUA
6– LICDO. JOSE ANIBAL GUZMAN JOSE
Cedula no.001–0476802-3
Tel. (809)882‑7881
7 LICDO. PEDRO VALDERA
TEL. (809)915‑2661 LOCALIZABLE EN NAGUA
8-DR. MANUEL MARIA MERCEDES MEDINA
Cedula no.001–0234211-0
Tel (809)980‑0343
9– LICDA. JUANA DE JESUS
Tel.(809)645‑4871
LOCALIZABLE EN SAN CRISTOBAL
10– LICDO. DIONICIO JEREZ
Cedula. no. 031–0108596-1
Tel (809)395‑1139
LOCALIZABLE EN SANTIAGO
11– LICDO. RADHAMES MERCEDES
Tel (829)776‑5252
LOCALIZABLE EN MOCA
12-RICARDO VARGAS
Tel (809)543‑4960
LOCALIZABLE EN PUERTO PLATA
13-LIC. RAFAEL E. PEGUERO
Cedula no.003–0007870-6
Tel (829)383‑6772
LOCALIZABLE EN BANI
14-LICDO. JULIO CESAR PEGUERO
TEL 538‑2580
LOCALIZABLE EN SAMANA
15-RICARDO ANTONIO DE JESUS CAMPUSANO PEREZ
Cedula no.001–0628661-0
TEL(829)968‑5974
PROVINCIA SANTO DOMINGO
16-LICDA. JOSEFINA MARMOLEJOS
TEL. (809)492‑5838
LOCALIZABLE EN LA VEGA
17-LICDO. ALQUIMIDES REYES
TEL (829) 986‑8687 LOCALIZABLE EN BONAO
18 DR. JUAN DIONCIO RODRIGUEZ
TEL (809)682‑3901 DISTRITO NACIONAL
Lettera al ministro Frattini sui detenuti italiani a Santo Domingo
COMMISSIONE NAZIONALE DEI DIRITTI UMANI INC, CNDH
Anno del XV anniversario
AL : Ministro degli Affari Esteri
ATTENZIONE : Ministro FRANCO FRATTINI
DA PARTE DI: : DR. MANUEL M. MERCEDES MEDINA
LICDA. JUANA M. LEISON GARCIA
SRA. ANNALISA MELANDRI
OGGETTO : Situazione dei detenuti nel Carcere Modello di Najayo (San Cristóbal) Santo Domingo:
AMBROGIO SEMEGHINI
LUCIANO VULCANO
N.M.
Onorevole Ministro:
Ci rivolgiamo a Lei molto cortesemente porgendoLe innanzitutto un cordiale e affettuoso saluto.
La presente per esprimerLe la nostra preoccupazione per i detenuti rispondenti ai nomi di AMBROGIO SEMEGHINI, LUCIANO VULCANO e N.M. che si trovano reclusi nel carcere Modello di Najayo (San Cristóbal) Santo Domingo.
Per verificare le loro condizioni ci siamo recati al suddetto carcere il giorno 22 (ventidue) del mese di Settembre dell’anno in corso. La nostra delegazione era formata dal DR. MANUEL MARIA MERCEDES MEDINA dominicano, maggiorenne, titolare del documento n. 001–0234211-0 Avvocato della Repubblica Dominicana, nella sua carica di Presidente della Commissione Nazionale dei Diritti Umani (CNDH) e la D.SSA JUANA MAGALIS LEISON GARCÍA dominicana, maggiorenne, titolare del documento 001–0504272-5, Avvocato della Repubblica Dominicana e nella sua carica di Coordinatrice del Programma di Assistenza Giuridica e Segretaria Atti e Corrispondenza della Giunta Direttiva della Commissione Nazionale dei Diritti Umani (CNDH), insieme alla SIG.RA ANNALISA MELANDRI, italiana, maggiorenne, giornalista e collaboratrice di alcune associazioni internazionali per la Difesa dei Diritti Umani.
La presente comunicazione è per esprimerLe pertanto le seguenti situazioni:
LUCIANO VULCANO, di nazionalità italiana, maggiorenne (55 anni), si trova in regime di carcere preventivo dal giorno 23 ottobre del 2009.
E’ stato visitato dall’ incaricato dell’ Ambasciata italiana, Sig. ROBERTO MORA soltanto due volte e dopo 33 giorni di detenzione. Le sue condizioni di salute sono gravi, ha contratto in carcere un infezione al sangue che si sta propagando in tutto il corpo dovuta alle scarse condizioni igieniche. Per questo ha bisogno continuamente di antibiotici che sta prendendo dal mese di maggio e per la scarsa qualità dell’acqua che i detenuti sono costretti a bere, soffre di ritenzione idrica.
AMBROGIO SEMEGHINI, di nazionalità italiana, maggiorenne (58 anni) si trova in regime di carcere preventivo dal giorno 19 Dicembre del 2009 per presunta violazione degli articoli 295, 304 del Codice Penale Dominicano (Omicidio) .
Rispetto alle sue condizioni di salute bisogna segnalare che presenta un problema all’ occhio sinistro, probabilmente dovuto a un momento precedente al suo arresto, ma dal PATRONATO del carcere ci segnalano che corre il rischio di perdere anche l’altro occhio perchè ha bisogno di cure mediche specialistiche che non gli vengono fornite. Inoltre ha bisogno di assistenza odontoiatrica.
Ambrogio Semeghini denuncia inoltre di essere stato oggetto di un attentato, motivo per il quale è stato trasferito ad un altro reparto del carcere per la sua sicurezza personale in quanto teme per la propria vita.
E’ stato visitato dal Sig. ROBERTO MORA, incaricato dell’Ambasciata d’ Italia nel paese per l’assistenza ai detenuti, per la prima volta dopo 59 giorni di detenzione e ad oggi per un totale di 3 volte.
Ha iniziato uno sciopero della fame il giorno 1 Settembre che è stato portato avanti per 13 giorni e dopo 5 giorni ha avuto bisogno di assistenza medica perchè per le sue condizioni fisiche, già debilitate dalla detenzione, dalle condizioni igieniche e sanitarie e dalla scarsità di cibo, non riusciva a sopportare lo sciopero della fame e si trovava in uno stato di disidratazione molto forte.
N.M., di nazionalità italiana, maggiorenne, (47 anni) sta scontando una condanna definitiva a tre anni per “sospetto” narcotraffico, per presunta violazione alla legge 50/88.
Dopo essere stato recluso nel Carcere Pubblico de La Victoria per due anni e due mesi è stato trasferito volontariamente al Carcere Modello di Najayo (San Cristóbal). Tra quattro mesi dovrebbe concludere la sua pena.
Le sue condizioni di salute sono molto gravi, soffre di un’ infezione al sangue e ha subito tre infarti, per cui lo stesso direttore del carcere ha richiesto l’ intervento dell’Ambasciata senza ottenere risposta. E’ stato ricoverato e alle dimissioni dell’ ospedale l’Ambasciata non ha pagato il suo conto. La direzione sanitaria del carcere teme che possa subire un infarto serio.
Dal momento della sua detenzione nel Carcere Modello di Najayo è stato visitato dal Sr. ROBERTO MORA, incaricato dell’Ambasciata, due volte e nel Carcere de La Victoria soltanto sette volte in due anni e mezzo di detenzione.
DICHIARAZIONI DEI DETENUTI
Le inaccettabili condizioni di detenzione dei tre detenuti richiedono un intervento urgente da parte della Sede Diplomatica italiana nella Repubblica Dominicana.
Possiamo senza dubbio denunciare che fino a questo momento l’ Ambasciata d’Italia non ha compiuto al suo dovere fondamentale che è quello di offrire assistenza e aiuto ai suoi concittadini che si trovano in difficoltà allˈestero.
L’ Associazione Secondo Protocollo, che si occupa di detenuti italiani all’ estero, ci informa tramite il suo rappresentante Sig. Londei Franco, che il Ministero degli Affari Esteri in Italia non possiede dati corretti sull’ operato della medesima Ambasciata rispetto per esempio alle visite effettuate dal suo incaricato ai tre detenuti. Le informazioni in loro possesso sono diverse da quelle che i detenuti hanno confermato al Sig. Londei prima e poi alla nostra delegazione in visita al Carcere Modello di Najayo.
Inoltre il Ministero dichiara che l’Ambasciata ha mantenuto comunicazioni con i familiari e con gli avvocati dello stesso SEMEGHINI mentre lui ci ha comunicato che cosí non è stato.
I detenuti dichiarano inoltre che il Sr. ROBERTO MORA non mostra interesse per la loro situazione, che li visita soltanto 3 o 4 volte all’ anno e che il denaro che consegna loro da parte dell’Ambasciata non è suficiente alle loro necessità basilari.
Non hanno mai ricevuto assistenza legale da parte dell’Ambasciata e quando chiamano gli uffici della stessa il credito della scheda telefonica gli si consuma interamente perchè vengono lasciati in attesa per molto tempo. Vengono inoltre trattati in modo arrogante e insolente e va segnalato che in tutti e tre i casi gli avvocati che li hanno assistiti hanno cercato di approfittare della loro situazione.
Lo stesso direttore del Carcere di Najayo ha chiesto un intervento serio dell’Ambasciata preoccupato dalle gravi condizioni di salute del Sr. NADALIN e del Sr. SEMEGHINI senza ricevere risposta.
CONCLUSIONI GENERALI
I tre detenuti vivono in condizioni igienico-sanitarie inaccettabili. Vengono negati i loro diritti fondamentali come l’accesso all’acqua e alla sicurezza personale, per lavarsi dispongono di 20 once di acqua al giorno, dormono sul pavimento a meno di non pagare 1,500.00 pesos mensili per dormire su un rialzo di cemento di 10 centimetri, devono pagare per acqua potabile, per il bagno, sono discriminati dagli altri detenuti, e il detenuto SEMEGHINI è stato oggetto di un attentato mentre il detenuto NADALIN ha ricevuto due coltellate e gli hanno gettato acqua bollente su un braccio. La loro sicurezza è un problema molto serio.
Hanno bisogno di molte medicine e devono pagarle tutte. La cosa assurda è che l’Ambasciata d’ Ítalia gli richiede per l’invio dei medicinali la prova della ricetta. Ci è stato confermato che l’unica ambasciata che richiede la ricetta per l’ invio delle medicine è quella italiana.
RACCOMANDAZIONI
PRIMA : L’ambasciatore d’Italia a Santo Domingo visiti i tre detenuti dal momento che la sua presenza è stata richiesta espressamente da loro per potergli parlare personalmente.
SECONDA: Che si attivi inmediatamente per offrire sostegno economico ai tre detenuti per le loro necessità immediate.
TERZA : Che si realizzi la comunicazione inmediata con i familiari e i loro avvocati.
QUARTA : Che venga inviato un medico che possa relazionare sulle condizioni di salute dei tre detenuti e che prepari una relazione quanto prima.
QUINTA : Non rispondendo alle raccomandazioni di cui sopra ci vedremo obbligati a responsabilizzare di ogni situazione l’Ambasciata d’Italia a Santo Domingo per ogni cosa che possa capitare ai tre detenuti italiani nel Carcere Pubblico di Najayo.
Redatto in Repubblica Dominicana, Distrito Nacional, il 13 Ottobre del 2010.
DR. MANUEL M. MERCEDES MEDINA Presidente
LICDA. JUANA M. LEISON GARCIA Segretaria Atti e Corrispondenza
SRA. ANNALISA MELANDRI Collaboratrice per la Difesa dei Diritti Umani
Caonabó: el primer libertador americano
“El Primer Libertador Americano”
“por Juan Bosch”
“El día mismo que pisaba tierra americana al volver en su segundo viaje, iba a encontrarse Cristóbal Colón, por vez primera, con la sombra de un jefe que estaba llamado a llenarle de graves preocupaciones durante largo tiempo. El primer mensaje de Caonabó -“Señor de la Casa de Oro”- fue terrible: se trataba de los cadáveres de dos soldados españoles; los siguientes serían más fieros y tendrían todos el sello de altivez única que distinguió al cacique indígena, el primero que luchó en América por la libertad, el primero, también, que venció a los europeos en este hemisferio y el primero que produjo –hasta donde lo sepa la historia– una huelga de hambre en el Nuevo Mundo.
“Señor de la montaña, majestuoso, altivo como el más poderoso de los reyes del mundo, parco en palabras y heroico en todos los momentos de su vida, Caonabó, que no era un salvaje cruel ni mucho menos, combatió en defensa de indios que no pertenecían a su cacicato y mostró agudeza y señorío bastante para poner en peligro el poder español en sus recién conquistadas tierras, aun inutilizado por la prisión. Mientras él vivió, Colón no se atrevió a imponer tributos a los pueblos indígenas. Aun teniéndolo encerrado en una estrecha celda, el Almirante jamás consiguió de él la menor muestra de sumisión o de debilidad y ni siquiera de respeto. Su sola presencia imponía admiración.
“Propiamente, la primera escaramuza habida entre indios y españoles ocurrió sin la intervención de Caonabó; esa escaramuza tuvo lugar en lo que Colón llamó, debido a las muchas que se le lanzaron, Golfo de las Flechas, actualmente la hermosa bahía de Samaná en el oriente de la República Dominicana. Pero del cambio de flechas y arcabuzazos que hicieron ese día indios y españoles apenas salió un hombre de Colón con un ligero rasguño y un indio con una herida de espada en la región glútea. Combate propiamente, con bajas de muerte por ambas partes –de la española, todos-, no lo hubo sino en 1493, hace ahora 450 años, por cierto nadie sabe en qué día de qué mes, aunque debió ocurrir entre septiembre y octubre. Ese combate estuvo dirigido por Caonabó, del lado indígena, y Diego de Arana, del español.
“Diego de Arana, escribano real, se había enrolado en el viaje del Descubrimiento –o lo habían enrolado, pues tenía cierta autoridad en virtud de su cargo de escribano del Rey– y fue escogido por Colón para capitanear el primer destacamento de puesto en el Nuevo Mundo, formado por 39 hombres a quienes el Almirante dejó en la Española cuando retornó a Europa para dar cuenta de los resultados de su primer viaje. Costeando la gran isla antillana a la que llamó la Española por su parecido con la metrópoli, Colón perdió la nao Santa María, una de las tres que componían la pequeña y audaz flota descubridora; la perdida se debió a un choque con arrecifes y ocurrió el día de Navidad de 1492. Con la madera de esa nao construyó Colón el fuerte que llamó de la Navidad, el cual situó cerca de donde hoy está la ciudad de Cabo Haitiano (Cap-Haitien), y a su cuidado dejó a Diego de Arana. Colón emprendió su viaje de retorno a España pocos días después, el 4 de enero de 1493 y, apoyado en la alianza tácita que había formado con el cacique Guacanagarix, pidió a éste que atendiera debidamente a los españoles mientras él volvía, cosa que pensaba hacer en cuatro o cinco meses.
“Pero el Almirante iba a tardar casi un año en verse de nuevo en la Española, y a su regreso, que sucedió en noviembre de 1493, iba a ser sorprendido por noticias bien extrañas. Habiendo llegado a la desembocadura del río Yaque, doce leguas más al este del fuerte de la Navidad, los españoles dieron con un espectáculo bastante macabro: restos de dos cadáveres, uno con una soga al cuello y otro amarrado a un tronco.
“Eso desconcertó a Colón y le hizo caer en sospechas, pues durante su anterior viaje tuvo ocasión de observar la índole generosa y nada bélica de los naturales del lugar, quienes, desde el cacique Guacanagarix hasta el último, festejaron su presencia con visibles muestras de alegría y obsequiaron al extranjero con cuanto llamó su atención, especialmente oro.
“Sorprendido por el mensaje que le llevaban esos restos de cadáveres, Colón hizo registrar el lugar. Al día siguiente sus hombres dieron con otros dos, esta vez de personas que en vida llevaron barbas. A partir de ese momento, a nadie cupo duda de que los muertos eran españoles, pues hasta donde habían visto un año antes, no había indios barbados. El extraño silencio de los indígenas sobre tales cadáveres comprobaba la suposición. Puesto en sospechas, Colón hizo interrogar a unos cuantos y oyó por primera vez ese nombre que tanto iba a preocuparlo por algún tiempo: Caonabó. Confundido por la prosodia taína, el Al-mirante escribió tal nombre así: Cahonaboa. Otros historiadores le llamarían Caonabó, pero Las Casas específica: “La última fuerte”, queriendo significar que sobre la última sílaba debía caer un acento. Caonabó, pues, parece haber sido propiamente su nombre. En fin de cuentas, Caonabó, Cahonaboa y Caonabó eran una misma, cosa, designaban a un mismo ejemplar de la desdichada raza llamada a sucumbir ante los conquistadores; por cierto, a un ejemplar impresionante, de hermosa y heroica altivez, moralmente un rey nato, ante quienes los hombres comunes, y hasta el propio Colón, parecían vasallos.
“Caonabó, posiblemente extranjero o hijo de algún extranjero, era cacique de la región del Cibao cuando los españoles llegaron por primera vez a la isla. El Cibao -“Tierra de piedras y montañas”- quedaba distante de la costa norte, donde Colón estableció su base de operaciones y donde había dejado el fuerte de la Navidad. La zona donde este fuerte había sido establecido estaba bajo el cacicazgo de Guacanagarix, un típico señor taíno, amable y pacífico.
“Tan pronto el Almirante puso proa a España, para dar cuenta de sus primeros descubrimientos, los españoles de la Navidad comenzaron una era de depredaciones que tenía por objetos principales el oro y las mujeres indígenas. Con su poderosa vitalidad sujeta durante el largo tiempo que medió entre agosto de 1492, cuando iniciaron la aventura del Descubrimiento, hasta enero de 1493, cuando quedaron dueños y señores de esa nueva tierra; y con su enorme codicia estimulada por hechos tan fantásticos como los que le habían ocurrido desde que salieron de Palos hasta que quedaron destacados en la Navidad, nada extraño fue que tales hombres padecieran una explosión de todos sus instintos y que se las arreglaran para disfrutar de placeres. Así, pues, los indios de la Española tuvieron que sufrir el despojo de sus mujeres y de su oro, el saqueo de sus alimentos y el despotismo de aquellos desaforados ex presidiarios y tahúres de la costa sur hispánica. Fiel a la promesa que le hiciera a Colón, y temeroso de las espingardas que había visto causar destrozos y hacer tremendas xplosiones desde las naos de Colón, Guacanagarix hizo todo lo posible por que no hubiera ruptura entre los españoles y sus indios.
“Pero Guacanagarix no pudo evitar que la noticia de los atropellos se internara en las montañas y llegara a oídos de Caonabó, señor del Cibao. Este altivo y poderoso cacique oyó las historias que le hacían y envió hombres de su confianza a comprobar las denuncias. Cuando esos hombres volvieron y le confirmaron los rumores, Caonabó puso en pie de guerra a los suyos y marcho hacia el noroeste, en dirección de la Navidad. Hacía mover sus ejércitos solo de noche. Ya en las cercanías del Fuerte organizó un sistema de espionaje en el que él era parte principal; vigilo estrechamente a los extranjeros, que no se apercibieron de la amenaza, y una noche cayo con toda su gente sobre los españoles. Guacanagarix salió a combatir en defensa de los que habían sido puestos bajo su protección y en medio de la lucha se dio con Caonabó. El fiero cacique del Cibao hirió gravemente a Guacanagarix, que hubiera muerto allí a no salvarlo los suyos. Los españoles quedaron dominados por el número y la impetuosidad de los atacantes; los que pudieron escapar fueron concienzudamente buscados en toda la región, encontrados y muertos, entre ellos, aquellos cuyos cadáveres encontró, meses después, el Almirante a varias leguas del lugar en que estuvo la Navidad. El Fuerte fue incendiado y borrada así la última huella del primer destacamento europeo en tierras de América. El vencedor, verdadero padre de los libertadores del hemisferio, retorno a su cacicato. Llevaba la satisfacción de la victoria. Ignoraba que la lucha solo había empezado.
“Cuando Colon volvió a ver a Guacanagarix, al dar término a su segundo viaje, le halló herido. Puestos a sospechar, los españoles creyeron que el propio Guacanagarix había sido el autor de la matanza habida en la Navidad. El doctor Chanca, “físico” y cronista de la expedición, fue a examinarle para ver si la herida que le achacaba al legendario Caonabó era obra de sus propias manos. Al fin el Guamiquina –nombre que le dieron los indígenas a Colón– juzgó que era cierto cuanto decía el cacique taíno y que era de rigor hacer preso a Caonabó. Registrando los restos del Fuerte, Colón halló a algunos españoles enterrados, que lo fueron por disposición de Guacanagarix. El poblado de éste había sido también incendiado durante el combate. No había duda, pues, respecto a la buena fe de Guacanagarix.
“Pasaron en bojeos y descanso los últimos días de 1493, y entró el 1494. El Almirante decidió fundar la primera ciudad española del Nuevo Mundo y lo hizo más hacia el este de donde había estado el Fuerte de la Navidad, en la desembocadura de un río llamado hoy Bajabonico. Allí fue establecida la Isabela, en homenaje de Isabel II, reina de España y factor principal en la empresa descubridora. Desde la Isabela se despacharon varias columnas hacia el interior y carabelas para bojear la costa de la isla.
“Sobre esas columnas que marchaban hacia las montañas se cernía la sombra de Caonabó, el poderoso cacique que con tanta ferocidad había atacado a Diego de Arana y los suyos y de quien se hablaba entre los españoles como de un rey invencible y fiero. Todos esperaban constantemente el ataque del implacable señor indio. Impresionado también, como cualquiera de los suyos, Colón pensaba en Caonabó y cavilaba cómo inutilizarlo. El día 9 de abril de 1494 escribió, en el pliego de instrucciones que entregó a Mosén Pedro Margarit –encargado de conducir una de las columnas que iba al interior– estos párrafos significativos: “Desto de Cahonaboa, mucho querría que con buena diligencia se toviese tal manera que lo pudiésemos haber en nuestro poder”. Inmediatamente pasaba a explicar que era necesario crear confianza en el cacique, para, llegado el momento, abusar de esa confianza echándole mano. Ordenaba que se le enviase con diez hombres un regalo “y que él nos envíe del oro, haciéndole memoria como estáis vos ahí y que os vais holgando por esa tierra con mucha gente, y que tenemos infinita gente y que cada día verná mucha más, y que siempre yo le enviaré de las cosas que trairán de Castilla, y tratallo así de palabra fasta que tengáis amistad con el, para podelle mejor haber”.
“Estas expresivas instrucciones, que demuestran cómo la mentalidad de los conquistadores ha sido más o menos la misma desde Colón hasta Hitler, terminaban señalando el mejor medio de apresar a Caonabó: “Hacedle dar una camisa –dice el almirante, dando por seguro que el cacique acabaría haciéndose amigo de los españoles y que éstos podrían tratarle– y vestírsela luego, y un capuz, y ceñille un cinto, y ponelle una toca, por donde le podáis tener e no se vos suelte”.
“Pero no era fácil “ponelle la camisa y el capuz y la toca” al jefe indígena. Incitados por él, según aseguraban los españoles, los naturales se rebelaban. A principios de 1495 el propio, Colón salió a campaña, al frente de 200 infantes y 20 hombres de a caballo. Iba a apresar a Caonabó. Dominó el alzamiento de Maniocatex y ganó la enconada batalla de la Vega Real, donde, según afirmaron en graves documentos, obtuvieron la victoria gracias a que en el momento más álgido de la pelea la Virgen de las Mercedes hizo acto de presencia sobre una cruz plantada por Colón y a la que los indios se empeñaban en destruir. Actualmente hay en el lugar –el Santo Cerro– un santuario donde se venera a la Virgen de las Mercedes.
“Después de la batalla de la Vega Real y tras haber fundado algunos fuertes para guarnecer la ruta, Colón se retiró a la Isabela sin haber logrado su propósito principal, el apresamiento de Caonabó. La sombra trágica y vengativa de este altivo señor de las montañas dominaba el escenario en los primeros tiempos de la Conquista y cubría de arrugas la frente del Almirante cuando entró de nuevo en la Isabela, vencedor sin haber logrado su fin. Como un fantasma, Caonabó, cuyo espíritu parecía animar todas las rebeliones, seguía siendo un ser terrible y desconocido, casi una imponente leyenda, inencontrable, inaprensible, con su amenazador prestigio creciendo cada vez más.
“Un día era atacado determinado fuerte español; a Caonabó se achacaba la empresa. O algunos soldados hispanos que se aventuraban a alejarse de sus compañeros aparecían muertos y mutilados; Caonabó era el autor de esas muertes. O las imágenes de santos católicos eran destruidas; Caonabó lo había ordenado. Caonabó era ya el dios del mal en la Española, el espíritu implacable, el perseguidor incansable. Colón, más sagaz político de lo que se ha querido ver, sabía que mientras viviera Caonabó su dominio de la isla sería insuficiente, porque los españoles no dejarían de temerle y los indios no se sentirían desamparados en tanto supieran que él podía aparecer un día para acabar con los invasores, como lo hizo la primera vez.
“Estudiando a sus capitanes, el Almirante resolvió poner el apresamiento de Caonabó en manos del osado y terrible Alonso de Ojeda, un hombre que iba a dar que hablar en la conquista de varios países y que a la hora de su muerte iba a pedir ser enterrado de pie en la entrada de la iglesia de San Francisco, erigida en la ciudad de Santo Domingo, porque quería purgar todos sus pecados haciendo que cuantos entraran en la iglesia pisaran sobre su cabeza. Alonso de Ojeda, ambicioso de gloria y de oro, era asaz atrevido como para internarse en las montañas tras el fiero cacique. Lo mismo que a Mosén Pedro Margarit, Colón lo instruyo de lo que, según él, era la mejor manera de hacer preso a Caonabó, y le dio despacho para la arriesgada misión.
“Recién llegado a la Española, Ojeda comprendió que los indígenas tenían un lado flaco: su falta de doblez. Eran hombres tan respetuosos de sus promesas y tan rectos al proceder, que se presentaban como enemigos al que consideraban su enemigo y que no podían admitir que quien se introducía como amigo fuera otra cosa. Este descubrimiento, que lo había hecho ya Colon en su primer viaje, le llevó a la conclusión de que el plan del Almirante para apresar a Caonabó era excelente si se podía poner en práctica. Y él, Alonso de Ojeda, se sentía capaz de hacerlo.
“Como la mayor parte de los conquistadores, Alonso de Ojeda fue lo bastante iletrado para no comprender la importancia histórica de escribir o hacer escribir los lances de aquella época, y ésa es la razón por la cual se ignora de que artes se valió para internarse, sin correr peligro, en los dominios de Caonabó. El caso es que se internó y que acabó haciéndose amigo del cacique. Se había presentado ante éste como hombre de bien, y Caonabó, que no odiaba a los hombres por ser españoles y que sólo procedía a atacar a los que se comportaban como criaturas perversas, no tuvo inconveniente en tratarle e incluso en quedarse a solas con él muchas veces. Alonso de Ojeda era un hombre, y el altivo señor de las montañas no temía a hombre alguno, no importaban su color, sus armas o su vestimenta.
“En paz el país desde que, atendiendo a la demanda de miles de indios que se congregaron en el Fuerte de la Concepción para pedir al Almirante la libertad del cacique Maniocatex, Colón dejó a éste libre, y tranquilo Caonabó porque los invasores respetaron sus dominios, todo indicaba que un capitán de Sus Majestades Católicas y un cacique indio podían ser amigos. Lo fueron. Al cabo de algún tiempo de estarse tratando, una mañana Alonso de Ojeda acompañó a Caonabó al baño, que el cacique realizaba en un río cercano a su vivienda. Cuando el señor indígena se preparaba a entrar en el agua, Ojeda le dijo que llevaba para él un notable regalo, envío especial de la reina doña Isabel II al poderoso cacique; y le mostró el presente, que el indio tomó en sus manos y observó detenidamente.
“-Es para llevar en los pies –dijo Ojeda-. Permitidme que os lo ponga yo mismo.
“Se inclinó el español ante Caonabó y cerro los tobillos del cacique con dos aros de hierro. ¡El regalo era un grillete!
“Cumplida la primera parte de su traición, Alonso de Ojeda llamó a gritos, y entonces vio Caonabó que de la espesura salían varios hombres de a caballo, escondidos allí por Ojeda para dar feliz término a su obra. En un santiamén Caonabó fue atado de manos y puesto al anca de uno de los caballos, sobre el que montó Ojeda; inmediatamente amarraron al cacique a Ojeda y partieron los españoles a todo el paso de sus bestias. Dos días después llegaban a la Isabela.
“La indignación del cacique por la celada de que había sido víctima fue indescriptible. Le encerraron y pasaron por su celda todos los españoles, deseosos de contemplar a aquel cuyo solo nombre les infundía espantado. Entonces pudieron apreciar el temple de Caonabó. Orgulloso y sensible como un rey cautivo, jamás se dignaba volver los ojos a los curiosos ni respondía a preguntas. Ni una queja salía de su boca. A pesar de que recibió órdenes expresas de ponerse en pie cuando el Almirante entrara en su celda, nunca lo hizo ni le miró siquiera; en cambio, se incorporaba si era Alonso de Ojeda el que entraba. Interrogado por que hacía eso, siendo así que a quien debía respeto era a Colón, jefe de Ojeda, respondió:
“-Sólo debo ponerme en pie ante el español que tuvo la audacia de hacer preso a Caonabó. Los demás son unos cobardes.
“Pasaba las horas mirando a través de las rejas de una ventana, contemplando el lejano horizonte con una expresión de gran señor preocupado, sin mostrar jamás una debilidad. Sus guardianes tuvieron siempre la impresión de que aquel prisionero tenía un alma más grande que las suyas. En todo momento exigió el trato que su posición requería y siempre se sintió, en la prisión, un rey absoluto. Al fin, acabó imponiéndose. Un día dijo que deseaba tener servidores indios, y se los dieron.
“Al cabo de largos meses, Caonabó pidió hablar con el Almirante. Explicó a éste que a causa de su prisión, caciques enemigos estaban atacando sus territorios y que lo menos que podían hacer los españoles era defender los hombres y las tierras de un rey que no podía hacerlo por sí mismo a causa de que ellos lo retenían en cautiverio. Con su acostumbrado señorío, mandaba a Colón como si fuera su subordinado. El Almirante respondió que era razonable la petición del cacique, y éste le pidió entonces que fuera él mismo al frente de las tropas españolas que habían de atacar a sus enemigos. Según explico, la presencia de Colon haría más fácil la empresa.
“Prometió el Almirante que así se haría y ordenó investigaciones para saber quién atacaba los dominios de Caonabó. Por esas investigaciones se supo que había de verdad en el fondo de la petición de Caonabó: mediante sus servidores indígenas, el gran guerrero había urdido un plan de vastas proporciones, capaz de dar la medida de lo que era su autor. Según ese plan, Caonabó debía obtener de Colón que éste saliera hacia el interior, al frente de un ejército español suficientemente fuerte para que formaran en el los más numerosos y mejores de los hombres apostados en la Isabela; de esa manera, la plaza quedaría casi desguarnecida, situación ideal para que Maniocatex atacara al frente de millares de indios, y libertara a Caonabó, quien inmediatamente se pondría al frente de la indiada para iniciar una guerra de exterminio sobre los conquistadores.
“Descubierta la conspiración, Colón se mostró indignado. Nada logró sacar de Caonabó. Ordeno entonces que se le iniciara proceso por los hechos de la Navidad. Aunque hasta ahora no ha aparecido copia alguna de ese proceso, se sabe que Caonabó no negó los cargos y que justificó su conducta con las tropelías que cometieron los españoles mandados por Diego de Arana. En todo momento seguía siendo de tan notable altivez, que impresionaba favorablemente a sus enemigos. Temeroso de que su muerte provocara una sublevación de grandes proporciones y, sobre todo, movido a respeto por el temple de aquel ser extraordinario, el Almirante no se atrevió a darle muerte. Un hombre así no podía ser tratado como un salvaje cualquiera. Ello habla bien de Colón, que tan falaz fue siempre.
“Cabe sólo la sospecha de que Colón creyera que podía sacar más provecho de Caonabó vivo que de Caonabó muerto. ¿De qué manera? Pues enviándolo a España a fin de que los Reyes Católicos vieran por sus ojos que clase de enemigos eran los que su Almirante tenía que enfrentar en la Española. Mentiría con ello, puesto que no todos los indios eran iguales a Caonabó y ni siquiera era fácil hallar un corazón tan extraordinario entre los europeos. Pero la mentira le vendría bien.
“Un día el cacique Caonabó, el “Señor de la Casa de Oro”, fue sacado de su celda y llevado al embarcadero. A distancia se mecían en las aguas las naos que iban a España. Caonabó fue metido en un bote y conducida a una de esas naos.
“-¿A dónde me lleváis?- pregunto el altivo dueño de las montañas, mostrando por primera vez aprensión, bien justa porque jamás había embarcado.
“-Vais a España, donde seréis presentado a Sus Majestades-le respondieron.
“¿A España? ¿De manera que iban a alejarlo de sus tierras, a él, el señor de tantas y de tantos indefensos indios?
“-Yo no puedo dejar abandonados a los míos –reclamó.
“Pero no le hicieron caso. A la fuerza le metieron en la nao. Habían resuelto que iría a España y tendría que ir. Caonabó, en cambio, había resuelto que no iría a España, y no iría.
“Contemplando ansiosamente las costas de la isla y las lejanas cimas de la Cordillera, el cacique pasó horas y horas mientras las naves emprendían el camino. A la de comer dijo que no quería y todos respetaron su voluntad, pensando que iba demasiado apenado y que ya reclamaría comida cuando sintiera hambre. ¡Desdichados españoles que así pensaban que se doblaría aquel poderoso espíritu a los reclamos del cuerpo!
“Caonabó no comió más. Se negó a hacerlo y ninguna fuerza humana, pudo lograr de él que desistiera de su empeño.
“Cuando las naos llegaron a España hacía semanas que Caonabó, el señor de las montañas, no iba en la suya. Había quedado sepultado en las aguas del océano, donde tuvieron que lanzarlo después de su muerte. Se había suicidado lentamente, de hambre, sin haber mostrado flaqueza ni una sola vez.
“Cuando supo el fin de Caonabó, Colón dispuso que todos los indios de la Española debían pagar un tributo anual, en oro, a los Reyes de España. Mientras él vivió, el Almirante no se hubiera atrevido a imponer esa ley arbitraría. Aun preso, Caonabó bastaba a evitar males a su raza.”
¿Por qué el cardenal Nicolás de Jesús López Rodríguez, arzobispo de Santo Domingo quiere militarizar el país?
La sociedad civil dominicana debería levantar su voz firme de condena frente a las irresponsables e imprudentes declaraciones del cardenal Nicolás de Jesús López Rodríguez , arzobispo de Santo Domingo, quien celebrando el 29 de septiembre pasado, día de San Miguel (patrón del Ejército Nacional), pidió al gobierno que lanzara a las calles las Fuerzas Armadas para combatir la delincuencia junto con la Policía Nacional.
“La última palabra le toca al Presidente Leonel Fernández”, adjuntó. Y eso no es que nos deja más tranquilos. De hecho el ministro de las Fuerzas Armadas, el teniente general Virgilio Pérez Féliz, dijo que ya ordenó fortalecer la Fuerza de Tarea Conjunta entre Ejército y Policía.
Entonces lo que desea el cardenal Nicolás de Jesús López Rodríguez es nada menos que la militarización del país para combatir la criminalidad organizada y la ola de delincuencia que azota la República Dominicana. Lo que parece olvidar es que en la República Dominicana hay un monstruo de siete cabezas que domina las calles (y los cuarteles) y que se llama narcotráfico. Entonces su propuesta si es bien chistosa, considerando que de las siete cabezas del monstruo, por lo menos la mitad están en las filas de las Fuerzas Armadas.
Se les llama que se combatan entre ellos mismos… (altro…)