Pippo Gurrieri — La piovra vaticana

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Che cos’è oggi la Chiesa cattolica, ed il suo centro nevralgico, il Vaticano? A questa domanda cerca di rispondere questo libro, che ricuce una mole rilevante di informazioni, ne analizza il senso, e offre ai lettori una loro collocazione logica, in modo da permettere di identificare la piovra, a partire da una prima radiografia, e poi attraverso la sua storia recente. Una storia di usurai e falsari, di mafiosi e massoni, di mangiasoldi di professione, una storia che non è solo italiana, ma che si sviluppa, subdola o palese, in America latina e in Africa, nell’Europa dell’Est e in Asia.

I tentacoli del Vaticano vengono qui messi a nudo, sia che si tratti dell’Opus Dei, o dei Cavalieri di Malta, di Comunione e Liberazione o dei Carismatici, dei legionari o dei gruppi integralisti legati all’estrema destra neofascista. Tutto l’apparato umano e mass-mediatico viene inquadrato nella sua reale portata, ed infine collegato con l’attivismo vaticano e cattolico nella società italiana, un caso in cui parlare di ingerenza è troppo poco: ormai la Chiesa dà le direttive alla politica, e in ciò è molto più a suo agio oggi che quando c’era la DC.

L’anticlericalismo si rivela una condizione essenziale della batta– glia per l’emancipazione dell’uomo dalle varie forme di schiavitù; dimenticarlo è commettere un nuovo, tragico, errore.

(dall’ultima di copertina)

Ed. La Fiaccola, Ragusa


Un giallo chiamato Minà — recensione di Roberto Zanini

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Copio (letteralmente) da Le Monde diplomatique n. 6 in uscita con il manifesto in questi giorni, questa bella recensione di Politicamente scorretto di Gianni Minà scritta da Roberto Zanini.
 
Un giallo chiamato Minà
di Roberto Zanini
GIANNI MINÀ è una delle capocce più dure che il giornalismo italiano abbia mai prodotto. Politicamente scorretto è la sua ultima fatica ed è un saggio, un saggio coraggioso sull’informazione che non c’è. Torri Gemelle, G8 a Genova, Cuba – parecchia Cuba – il Social forum di Porto Alegre, Silvia Baraldini….
Insomma ovunque ci sia bisogno di qualcosa di meglio della pappetta insapore da prima serata Minà c’è, e il più delle volte c’è già stato.
Intanto è una fatica si fa per dire, perché in realtà la fatica l’aveva già fatta: il libro è una  raccolta di articolo pubblicati su Unità, Repubblica,  Latinoamerica e manifesto – parecchio manifesto – negli ultimi dieci anni.
Sono in versione integrale, cioè senza i tagli praticati nelle redazioni, e c’è un certo gusto nel cercare di scoprire se erano tagli politici o tecnici (una pagina di giornale è uno spazio fisico finito anche se Minà a volte non ci crede). C’è anche un articolo della Stampa, e un impedibile carteggio che si mangerà mezza recensione ma va bene così. Apparve sul Corriere della Sera uno scambio di lettere tra Minà medesimo e i Reporters sans frontieres, che in Italia vantano il volto e la penna di Mimmo Candito ma laggiù alla sede di Parigi hanno questo Robert Menard che rende poco onore al mestiere, o almeno al modo minaesco di interpretarlo.
Insomma i Reporters di monsieur Menard presero denaro dal Ned, il National endowmnet of democracy, braccio armato del parlamento americano (Minà dice della Cia, mica è detto che si sbagli) che finanzia una quantità di porcherie – “iniziative democratiche di base”, dice il suo presidente – in numerosi angoli del globo. Nel dettaglio, Minà scrisse una lettera al Corriere denunciando i finanziamenti sospetti del Ned ai Reporters, il presidente del Ned rispose (e il Corriere ricevette e volentieri pubblicò che mister Minà si era inventato tutto., Minà replicò citando fatti numeri e nomi dei finanziamenti Ned alle peggio schifezze latinoamericane (e il Corriere non pubblicò: la replica è in questo libro ed è una chicca). I Reporters di Menard presero soldi  “per far progredire – di nuovo parole del presidente del Ned – la libertà di informazione in Africa occidentale”. Fu certo casuale la contemporanea, violenta campagna scatenata dai Reporters sans frontieres contro Cuba.
Questo libro insomma è un saggio sull’informazione, quella che non circola mai. George Walker Bush ha 97 citazioni per un totale di 128 pagine, staccando di molto Fidel Castro Ruz, 60 citazioni per 78 pagine. Così per farsi un’idea, vi sono molti giornalisti italiani, quasi mai benevolmente, cinque citazioni per Magdi Allam, otto per P.G. Battista, tredici per Paolo Mieli…
Ma questo libro è in realtà un giallo.
Chi ha fatto sparire Gianni Minà dai teleschermi? Chi ha depurato la televisione italiana da un autore che alterna premi cinematografici (l’ultimo a Berlino), successi di cassetta (le montagne di cd di Maradona venduti con la Gazzetta dello Sport) e, scoop da prima pagina (dall’ intervista a Fidel ai bagagli manomessi di Ilaria Alpi)?
Ebbene, come giallo ha un difetto: gli assassini si scoprono subito. Si chiamano Bettino Craxi (“stavi sul cazzo all’omone”, apprendiamo gli disse Giampalolo Sodano parecchi anni dopo) e si chiamano D’alema (“stavo sulle palle a un talVelardi, uno degli ex pelati di D’Alema”), con un po’ di comprimari di contorno,.
Genitalia a parte, il lettore apprende infine una cosa che i frequentatori del manifesto sanno benissimo: sfrattato dal teleschermo, smessa Repubblica e chiusa l’Unità, Minà arriva al manifesto. Ed è il piccolo giornale che avete in mano a consentirgli di sopravvivere giornalisticamente: questo, la rivista Latinoamerica e la Sperling&Kupfer che gli affida una collana (Continente Desaparecido, la stessa per cui appare questo Politicamente scorretto). Insomma la “sua” rivista, la “sua” collana, il nostro giornale. A proposito Gianni: il tuo ultimo pezzo risale a un secolo fa. Quando ne mandi un altro? Parlo sul serio Gianni. Non far finta di non sentire. Gianni, dico a te. Gianni!

Politicamente scorretto di Gianni Minà

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Politicamente scorretto

Recensione tratta dal Blog Notizie dall’Impero dell’Amico Elio Bonomi:

Politicamente Scorretto — Riflessioni di un giornalista fuori dal coro, è il titolo dell’ultimo libro di Gianni Minà che raccoglie i suoi articoli pubblicati negli ultimi dieci anni su Repubblica, l’Unità, il Manifesto e Latinoamerica.
Nel prologo l’autore racconta anche, per la prima volta, l’epurazione subita dalla Rai, proprio negli anni in cui il suo lavoro di documentarista veniva apprezzato e premiato, dal Festival di Montreal, al Nastro d’argento, al premio alla carriera al Festival di Berlino.
Perchè in un paese che si vanta di essere libero e democratico un giornalista della statura di Gianni Minà viene messo al bando? La risposta è ovvia: perchè viviamo in un paese che vuole fare credere di essere libero e democratico, ma in realtà non lo è.
Il controlo dei mezzi d’informazione è uno dei pilastri su cui si basa il sistema capitalista ed imperialista. Solo con una massiccia propaganda è possibile fare accettare alle masse tutte le nefandezze che questo sistema disumano sta imponendo a tutto il mondo.
Il libro di Gianni Minà, arricchito dall’introduzione di Luis Sèpulveda, è una preziosa testimonianza che aiuta a capire l’immenso imbroglio.
Sarà in libreria a partire dal prossimo 15 maggio. Non deve mancare nelle case di chi è impegnato a combattere l’arroganzo e la prepotenza dei potenti.

Il mio amico Abdul — Raffaele Mangano

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…Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.
                              (G. Leopardi)
 
Solletica la coscienza, Il mio amico Abdul. Un libro magico, pieno di sogni e di ideali, di frasi importanti e di saggezza da scoprire in frasi intere  da sottolineare per poterle rileggere di tanto in tanto.
Un libro di incontri speciali, come quelli che si fanno per caso e che anche solo per un brevissimo istante ci segnano la memoria e il cuore, nei quali “sembra per un attimo di inciampare” ma che in realtà nascondono significati preziosi.
Leggere Il mio amico Abdul lascia la piacevole sensazione di aver aperto una porta e aver scoperto che al di là di essa c’è quell’amico che credevamo ormai perduto nel tempo che ci sta spettando.
Questo è infatti un libro “dedicato a tutti coloro che credono nell’amicizia, quella forte, sincera, color del cristallo” come dice l’autore Raffaele Mangano nel risvolto di copertina.
E infatti è la storia dell’ Amicizia, “color del cristallo” tra Michele e Renato, prematuramente interrotta dalla tragica scomparsa di quest’ultimo, scomparsa  che lascia un vuoto incolmabile e soprattutto lascia in Michele la sensazione di un percorso interrotto repentinamente, di un dialogo concluso prima del dovuto.
L’occasione di riprendere questo dialogo viene cercata “non per caso” , ma con il desiderio di salutare ancora una volta l’amico dopo averne metabolizzato intimamente la scomparsa. E così Michele, dopo anni,  riprende in mano il diario di Renato che aveva avuto dopo la sua morte e riesce finalmente a leggerlo, dopo essere “sceso a patto con i sentimenti”. E chi  di noi non lo fa, un attimo prima di venirne sopraffatti, quando questi si fanno così dolorosi?
Giunge sempre un momento in cui i discorsi lasciati a metà, forse i più sentiti, devono essere affrontati e Michele quando riprende in mano il diario di Renato, “sente di poterlo fare senza angoscia” riuscendo ad  accompagnarsi  all’amico ancora un volta. Ripercorre così  con lui un periodo segnato da grandi ideali, da grandi slanci e da voli di fantasia, ma soprattutto segnato da un viaggio in India compiuto insieme ad altri amici tra i quali emerge la figura di Abdul, un’ afgano conosciuto da Renato a Parigi e che diventerà anch’egli, tragicamente, figura centrale del libro. Un viaggio, come quello da molti di noi sognato e immaginato, in cui il mondo  e l’essere umano si svelano agli occhi di Renato in tutta la loro bellezza ma anche in tutta la  loro crudeltà.
L’India scorre nelle pagine del diario di Renato  a volte lentamente, a volte prepotentemente, mai banalmente. Egli vi si  immerge anima e corpo, in  un paese immenso che gli si offre con tutte le sue contraddizioni e ne rimane affascinato, ma anche profondamente turbato, perchè i suoi occhi sono come quelli di un bambino, (“con la loro fragilità e l’impotenza di fronte ai drammi”)  ed egli osserva e partecipa a volte con sommo stupore,  a volte con intima meraviglia, altre con rabbia e impeto, ma sempre con piena partecipazione emotiva, alla quotidianità di un popolo che, nonostante la miseria, le menomazioni fisiche e le epidemie, riesce ancora a “credere che l’esistenza sia piena di doni, bisogna solo imparare a riconoscerli”.
Un viaggio “dentro e fuori” quello di Michele e Renato e dei loro amici, dal quale ognuno, a modo suo tornerà cambiato, “una continua scoperta, compiuto col corpo, la mente e lo spirito”.
Il diario concede a Michele un’ulteriore dono, quello di poter rivivere l’ultimo periodo della vita di  Abdul, afgano di una buona famiglia che studia e Parigi e che  decide di tornare nel suo paese per mettere al servizio della sua gente che stava combattendo contro l’esercito sovietico (pur avendone inizialmente appoggiato l’intervento),  le sue conoscenze di medicina frutto degli  studi a Parigi. Egli scriverà in una lunga lettera ai suoi amici, spiegando le motivazioni della sua scelta: “Questo succede nel mio paese: afgani uccidono altri afgani. Ogni popolo oppresso mantiene la speranza di risorgere ed è capace di covarla per generazioni. Quando il fuoco si è consumato e la brace sembra spenta, tra la cenere si trova sempre un frammento acceso. Finché rimane quel germe di fuoco un popolo non sarà vinto”. Come non pensare all’Afghanistan di oggi e come non chiedersi cosa sia cambiato da allora.
In realtà nulla, ed è lo stesso Abdul quasi profeticamente, che  ce lo lascia intendere: “Fomentano rivolte e controrivolte, appoggiano e rovesciano governi, trovano sempre fantocci disposti a diventare carnefici del loro stesso popolo. E’ sulla nostra pelle che i potenti fanno la guerra. Noi, servi stupidi, ci lasciamo irretire e ci scanniamo.”  Ma Renato, uomo di  Pace, (quella che non ha bandiere e che non porta uniformi),  ci rammenta che “l’unica guerra giusta dovrebbe essere quella contro la fame e la povertà”. Sono certo che tutti i popoli darebbero il meglio di sè per vincerla”.
Sono d’accordo con te Renato.
 
 


Pancho visto da Paco

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Ascoltando.…

Francisco (Pancho) Villa — Victor Jara

 
Pancho è Pancho Villa,  eroe della rivoluzione messicana del 1910–1911, Paco è Paco Ignacio Taibo II, il quale dopo aver scritto una eccellente biografia di Che Guevara, sceglie ora di narrare la vita di uno degli eroi del suo paese.
Il quotidiano La Jornada ne ha anticipato il”capitolo zero”. L’edizione italiana uscirà nel 2007 per Marco Tropea Editore con la traduzione di Pino Cacucci.
Riporto qui di seguito un passo del “capitolo zero” in cui con  poche parole e districandosi magistralmente con quel linguaggio così particolare che lo distingue, tra falsità e verità, tra realtà storica e leggenda,   Paco Ignacio Taibo II rende la personalità e il valore di Doroteo Arango Arámbula, da tutti meglio conosciuto come Pancho Villa.
E forse ricordare proprio ora  il suo valore e la sua personalità può contribuire a ridare a tutto il Messico quella dignità che è stata calpestata dagli avvenimenti degli ultimi mesi.
E a noi, lettori lontani, ma emozionalmente vicini, può comunque dare motivo di partecipazione alla lotta che non è solo della APPO o dei maestri di Oaxaca  o dei sostenitori di AMLO, ma è quella, sempre e comunque condivisibile, di ogni popolo e individuo quando  affermano e reclamano i diritti fondamentali del vivere.
 
“Questa è la storia di un uomo i cui metodi di lotta si dice siano stati studiati da Rommel (falso), da Mao Tse Tung (falso) e dal Subcomandante Marcos (vero). Che reclutò Tom Mix per la Rivoluzione messicana (abbastanza improbabile, ma non impossibile), che si fece fotografare a fianco di Patton (non è molto divertente, Gorge a quell’epoca era un tenentello di poca importanza), che aveva avuto una relazione con María Conesa , la vedette più importante della storia del Messico (falso, ci provò ma non ci riuscì) e che uccise Ambrose Bierce (assolutamente falso). Che compose La Adelita (falso), però lo dice il Corrido de la muerte di Pancho Villa, che peraltro gli attribuisce anche La Cucaracha, altra cosa che non fece.
Un uomo che fu contemporaneo di Lenin, di Freud, di Kafka, di Houdini, di ModigliAni, di Gandhi, ma che non sentì parlare mai di loro, e se lo fece, perché a volte gli leggevano il giornale, sembrò non dare a questi personaggi alcun importanza, perché erano estranei al territorio che per Villa era tutto:una piccola frangia di pianeta che va dalle città di frontiera texane a Città del Messico, città che peraltro di sicuro non gli piaceva. Un uomo che si era sposato, o che aveva mantenuto strette relazioni semiconiugali , 27 volte, e che ebbe almeno 26 figli (secondo le mie incomplete verifiche), al quale però sembra non piacessero troppo matrimoni e i preti, ma piuttosto le feste, il ballo, e soprattutto i compari, gli amici.
Un personaggio con fama di beone che comunque assaggiò appena l’alcol in tutta la sua vita, condannò a morte i suoi ufficiali ubriachi, distrusse damigiane di bevande alcoliche in varie città che conquistò (lasciò le strade di Ciudad Juárez a puzzare di liquore quando ordinò la distruzione della bevanda nelle cantine), a cui piacevano i frullati di fragola, le arachidi caramellate, il formaggio fuso, gli asparagi confezionati e la carne cucinata sulla fiamma finchè non diventava come la suola di una scarpa.
Un uomo che ha almeno tre “autobiografie”, nessuna delle quali però scritta dalla sua mano.
Una persona che sapeva a malapena leggere e scrivere, e che però quando divenne governatore dello stato di Chihuahua fondò in un mese cinquanta scuole. Un uomo che nell’era della mitragliatrice e della guerra di trincea usò magistralmente la cavalleria e la combinò con gli attacchi notturni, l’aviazione e la ferrovia. Ancora resta memoria in Messico dei pennacchi di fumo del centinaio di treni della División del Norte che avanzavano verso Zatecas.
Un individuo che nonostante si definisse un uomo semplice, adorava le macchina da cucire, le motociclette e i trattori.
Un rivoluzionario con la mentalità da rapinatore di banche, che mentre era generale di una divisione e di trentamila uomini, trovava il tempo per nascondere tesori in dollari, oro e argento in grotte e soffitte, o in tombe clandestine. Tesori con cui poi comprava munizioni per il suo esercito, in un paese che non produceva pallottole.
Un personaggio che iniziando dal furto organizzato di vacche creò la  più spettacolare rete di contrabbando al servizio di una rivoluzione.
Un cittadino che nel 1916 propose la pena di morte per coloro che commettevano frodi elettorali, insolito fenomeno della storia del Messico (Ahi Calderón…AM)
L’unico messicano che fu a punto di comprare un sottomarino, che fu cavaliere di un cavallo magico di nome Sette Leghe (che in realtà era una cavalla) e realizzò il desiderio della futura generazione del narratore, scappare dalla prigione militare di Tlatelolco.
Un uomo  che odiavano così tanto, che per ammazzarlo spararono 150 colpi alla macchina su cui viaggiava.
A cui, tre anni dopo averlo ucciso, rubarono la testa, e che è riuscito a ingannare i suoi persecutori perfino dopo morto, perché anche se ufficialmente si dice che riposi nel Monumento alla Rivoluzione di Città del Messico (quella fosca mole di pietra sgraziata che sembra celebrare la fine della rivoluzione, schiacciata da una lastra di 50 anni di tradimenti) continua ad essere sepolto a Parral.
Questa è la storia, dunque di un uomo che raccontò e di cui altri raccontarono molte volte le storie, in tali e tante differente maniere che a volte sembra impossibile decifrarle.
Lo storico non può fare altro che osservare il personaggio con ammirazione”.
 
Fonte italiana: Mensile Carta Etc.
 

Pancho visto por Paco

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Pancho es Pancho Villa, héroe de la revolución méxicana de 1910–1911. Paco es Paco Ignacio Taibo II, quien después de haber escrito una excelente biografía del Che Guevara quiere ahora contar la vida de uno de los héroes de su país.
El diario La Jornada anticipó el “capítulo cero”. La edición italiana serà en 2007 por la editorial Marco Tropea y por la traducción de Pino Cacucci.
Copio aquí en seguida un pasaje del “capítulo cero” en el cual con pocas palabras y librandóse magistralmente con aquel lenguaje que lo distingue, entre falsedad y verdad, entre realidad histórica y leyenda, Paco Ignacio Taibo II nos devolve la personalidad y el valor de Doroteo Arango Arámbula, por todos conocido como Pancho Villa.Yo creo que recordar ahora su valía y su personalidad puede contribuir a devolver a todo México la dignidad que ha sido pisada por los acontecimientos de esos últimos meses.
Y a nosotros, lectores lejanos, pero emocionalmente cercanos, puede de todas maneras ofrecer razón de participación a la lucha que non es solamente la de la APPO o de los maestros de Oaxaca o de los partidarios de AMLO pero es siempre y en cualquier caso compartida, la de cada pueblo y cada hombre cuando afirman y reclaman los derechos fundamentales de la vida.

“Esta es la historia de un hombre del que se dice que sus métodos de lucha fueron estudiados por Rommel (falso), Mao Tse Tung (falso) y el subcomandante Marcos (cierto); que reclutó a Tom Mix para la Revolución Mexicana (bastante improbable, pero no imposible), se fotografío al lado de Patton (no tiene mucha gracia, George era en aquella época un tenientillo sin mayor importancia), se ligó a María Conesa, la vedette más importante en la historia de México (falso; trató, pero no pudo) y mató a Ambrose Bierce (absolutamente falso). Que compuso La Adelita (falso), pero lo dice el Corrido de la muerte de Pancho Villa, que de pasada le atribuye también La cucharacha, cosa que tampoco hizo.
Un hombre que fue contemporáneo de Lenin, de Freud, de Kafka, de Houdini, de Modigliani, de Gandhi, pero que nunca oyó hablar de ellos, y si lo hizo, porque a veces le leían el periódico, no pareció concederles ninguna importancia porque eran ajenos al territorio que para Villa lo era todo: una pequeña franja del planeta que va desde las ciudades fronterizas texanas hasta la ciudad de México, que por cierto no le gustaba. Un hombre que se había casado, o mantenido estrechas relaciones cuasimaritales, 27 veces, y tuvo al menos 26 hijos (según mis incompletas averiguaciones), pero al que no parecían gustarle en exceso las bodas y los curas, sino más bien las fiestas, el baile y, sobre todo, los compadres.
Un personaje con fama de beodo que sin embargo apenas probó el alcohol en toda su vida, condenó a muerte a sus oficiales borrachos, destruyó garrafas de bebidas alcohólicas en varias ciudades que tomó (dejó las calles de Ciudad Juárez apestando a licor cuando ordenó la destrucción de la bebida en las cantinas), le gustaban las malteadas de fresa, las palanquetas de cacahuate, el queso asadero, los espárragos de lata y la carne cocinada a la lumbre hasta que quedara como suela de zapato.
Un hombre que cuenta al menos con tres “autobiografías”, pero ninguna de ellas fue escrita por su mano.
Una persona que apenas sabía leer y escribir, pero cuando fue gobernador del estado de Chihuahua fundó en un mes 50 escuelas. Un hombre que en la era de la ametralladora y la guerra de trincheras, usó magistralmente la caballería y la combinó con los ataques nocturnos, los aviones, el ferrocarril. Aún queda memoria en México de los penachos de humo del centenar de trenes de la División del Norte avanzando hacia Zacatecas.
Un individuo que a pesar de definirse a sí mismo como un hombre simple, adoraba las máquinas de coser, las motocicletas, los tractores.
Un revolucionario con mentalidad de asaltabancos, que siendo general de una división de 30 mil hombres, se daba tiempo para esconder tesoros en dólares, oro y plata en cuevas y sótanos, en entierros clandestinos; tesoros con los que luego compraba municiones para su ejército, en un país que no producía balas.
Un personaje que a partir del robo organizado de vacas creó la más espectacular red de contrabando al servicio de una revolución.
Un ciudadano que en 1916 propuso la pena de muerte para los que cometieran fraudes electorales, inusitado fenómeno en la historia de México.
El único mexicano que estuvo a punto de comprar un submarino, que fue jinete de un caballo mágico llamado Siete Leguas (que en realidad era una yegua) y cumplió el anhelo de la futura generación del narrador, fugarse de la prisión militar de Tlatelolco.
Un hombre al que odiaban tanto, que para matarlo le dispararon 150 balazos al coche en que viajaba; al que tres años después de asesinarlo le robaron la cabeza, y que ha logrado engañar a sus perseguidores hasta después de muerto, porque aunque oficialmente se dice que reposa en el Monumento a la Revolución de la ciudad de México (esa hosca mole de piedra sin gracia que parece celebrar la defunción de la revolución aplastada por una losa de 50 años de traiciones), sigue enterrado en Parral.
Esta es la historia, pues, de un hombre que contó, y del que contaron muchas veces sus historias, de tantas y tan variadas maneras que a veces parece imposible desentrañarlas.
El historiador no puede menos que observar al personaje con fascinación.”


Ma che mondo è questo?

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Dal blog NOTIZIE DALL’IMPERO di Elio Bonomi

Per Manifestolibri è uscito in questi giorni “Ma che mondo è questo? Interviste sulle emergenze di fine millennio” un libro curato da Robero De Romanis per il Circolo Culturale Primomaggio di Bastia Umbria, diretto dall’attivissimo Luigino Ciotti.
Celebrando i suoi primi quindici anni di attività, il circolo culturale Primomaggio ha raccolto attorno a un tavolo virtuale alcuni di quegli intellettuali, politici, giornalisti, uomini di Chiesa, dirigenti di organizzazioni umanitarie e di intervento sociale che hanno animato con la loro presenza e la loro passione civile le iniziative del circolo. Li ha chiamati a raccontare, ciascuno dalla propria prospettiva e con le proprie categorie di analisi, cosa è accaduto nel mondo in questo primo scorcio di millennio, e a portare nuova testimonianza di quelle voci di disagio e di sofferenza che non riescono ancora a farsi sentire da noi. Le testimonianze e le riflessioni disegnano così tutte assieme il quadro di un pianeta in piena emergenza, abitato da un’umanità con urgentissimo bisogno di pace e di giustizia sociale. Ma ognuno degli interventi vuole anche farsi portatore di una speranza di cambiamento, o di una fiduciosa profezia di salvezza che possono trovare origine in una concezione solidaristica del vivere sociale, ed essere affidate alla pratica di una nuova politica.
Le personalità intervistate sono: Vittorio Agnoletto, Fabio Alberti, Frei Betto, Mario Capanna, Giulietto Chiesa, don Luigi Ciotti, Haidi Gaggio Giuliani, Alberto Granado, Raniero La Valle, Flavio Lotti, Riccardo Petrella, padre Renato Kizito Sesana, Giuliana Sgrena, Giovanni Russo Spena, Jean Leonard Touadi, padre Alex Zanotelli.
A questa iniziativa ho dato il mio piccolo contributo per l’intervista all’amico Alberto Granado durante il mio ultimo soggiorno a Cuba. Visto il risultato di questo lavoro vado particolarmente orgoglioso di aver aiutato i carissimi amici di Bastia Umbra a portare a termine questa pregevole iniziativa.
Gli amici umbri stamo presentando il libro con varie iniziative per permettere un’ampia diffusione perchè con il ricavato intendono finanziare le loro prossime iniziative in Umbria.
Se qualcuno intende promuovere la vendita del libro è il benvenuto.

Per acquistarlo: Circolo Culturale Primomaggio — tel. 3460134774
Per acquistare on line
http://www.manifestolibri.it/novita.php
Le iniziative del Circolo Primomaggio si trovano sul sito http://www.circoloprimomaggio.org/


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