Buon Anno.

9 commenti

Io vi faccio i miei più sinceri auguri di un felice Anno Nuovo e vi invito a festeggiare l’arrivo del 2007 come meglio ritenete più opportuno.

Vi rammento però che Benedetto XVI in un ulteriore ingerenza in un evento che non ha nulla di religioso come i festeggiamenti di Capodanno ammonisce che la fine dell’anno non va attesa solamente con “riti mondani” ma rifacendosi alla Vergine Maria.

Egli ha detto che “nelle ultime ore di ogni anno solare, assistiamo al ripetersi di taluni riti mondani che nell’attuale contesto sono prevalentemente improntati al divertimento, vissuto spesso come evasione dalla realtà, quasi ad esorcizzarne gli aspetti negativi e a propiziare improbabili fortune”.

Quindi mi raccomando niente mutandine rosse, niente dodici chicchi d’uva, niente lenticchie, niente baci sotto il vischio, niente “chi non lo fa a capodanno non lo fa tutto l’anno”…


Voci del coraggio a Oaxaca — Violazioni dei diritti umani delle donne nel conflitto sociale e politico

2 commenti

PRIMA PARTE

Dedico questa parte del diario messicano a mi amiga Monique Camus, valiente y sensible mujer oaxaqueña.

 

Ricevo tramite mail da parte di Sara Méndez, de

la Red Oaxaqueña de Derechos Humanos la prima edizione dell’opuscolo “Voci del coraggio a Oaxaca. Violazioni dei diritti umani delle donne nel conflitto sociale e politico” prima edizione del 10 dicembre 2006.

Lo tradurrò per il diario messicano in più riprese in quanto si compone di varie sezioni. La versione originale si può scaricare in formato pdf da qui. Credo che sia interessante perché al di là di quanto già è stato detto sulla situazione politica attuale in Messico  che chiunque sia dotato di buona volontà a questo punto dovrebbe già conoscere, al di là anche degli episodi di violenza più eclatanti che si sono verificati in questi ultimi mesi a Oaxaca, ci sono poi aspetti  e modalità diverse della repressione di cui se notizie generiche vengono fornite dalla stampa straniera nessun riferimento appare su quella italiana o europea. Possiamo solo immaginare che sulle donne  la repressione sia stata particolarmente cruda e violenta, possiamo immaginare con  quali modalità essa sia stata attuata, ma l’immaginare soltanto non rende giustizia a queste donne che con coraggio e determinazione stanno portando avanti una battaglia che è iniziata ancor prima del verificarsi degli incidenti di Oaxaca. E proprio per questo,  per la loro determinazione e per il loro coraggio sono state duramente colpite. Un donna che protesta e lo fa a volto scoperto fa più paura di un uomo  perché nei suoi occhi si  legge un dolore antico. 

INTRODUZIONE

“Se non abbiamo un luogo dove si possa vivere con dignità e giustizia, non possiamo vivere da nessun parte” cita enfaticamente Leyla Centeno mentre racconta la storia della sua partecipazione al movimento e di come si sono organizzate le donne per conquistarsi un proprio spazio e un riconoscimento all’interno del movimento sociale sorto a Oaxaca  a partire dal conflitto che da sei mesi monopolizza la società.

Il movimento sociale di Oaxaca ha la consapevolezza  che, come spiega  Leyla, la dignità è qualcosa  di intrinseco all’essere umano, e  che  devono esistere  diritti  che devono essere garantiti dallo Stato affinchè siano reali. Di fatto queste  garanzie sono state violate e perfino cancellate da un governo autoritario e sordo alle necessità dei suoi cittadini e cittadine e per questo uomini e donne lottano per far sì che le persone possano vivere degnamente: rispetto, libertà, sicurezza personale, integrità, autonomia, giustizia e uguaglianza.

Oaxaca è uno stato multiculturale, con caratteristiche geografiche, ambientali e di sviluppo molto diverse.

È il terzo stato più povero del Messico  e concentra la maggior parte della popolazione indigena  del paese, con 16 etnie che rappresentano il 31% delle 52 che esistono in Messico.

Oaxaca si è caratterizzata per avere un sistema di governo monopartitico da più di mezzo secolo.  Il Partito  Rivoluzionario Istituzionale (PRI) nell’agosto 2004 vinse le elezioni per il rinnovo del locale Congresso  e per  la nomina del Governatore in un clima di scandali e accuse di corruzione e di discussione sociale e giuridica tra  i diversi soggetti politici e  i cittadini e le cittadine.

La disuguaglianza sociale, politica ed  economica accumulata nel corso della storia, insieme con la crisi della  transizione democratica, hanno  oggi come una delle ultime conseguenze  un contesto di corruzione, impunità e violazione dei diritti umani e colpiscono sempre di più le popolazioni indigene e particolarmente le donne.

Voci del coraggio a Oaxaca. Violazioni dei diritti umani delle donne nel conflitto sociale e politico, rappresenta  uno sforzo collettivo delle  donne dei coordinamenti  della società civile di Oaxaca ed è appoggiato da un gran numero di donne e organizzazioni, scritto con il fine di essere uno strumento di denuncia delle violazioni dei diritti umani delle donne.

Inizia con una breve descrizione del ruolo che queste hanno giocato nel movimento sociale.

Racconta  storie che non sono ancora Storia, non solo perché non sono ancora state scritte ma perchè non sono storie definite, periodi terminati, ma sono storie ancora aperte, in svolgimento o che reclamano ancora giustizia . Storie che sono piene di donne con i loro mormorii, le loro grida e il loro dolore. Voci di donne che rompono il silenzio e che ci danno una lezione di resistenza, di lotta, di organizzazione, di partecipazione sociale e di coraggio. Insieme denunciano e chiariscono gli aspetti differenti del tipo  di violenza esercitata contro di esse  e che condizionano la loro vita.

La prima parte di questo materiale racconta le storie di quattro donne, i cui avvenimenti  accadono in un momento storico anteriore al conflitto  degli ultimi mesi e riflettono la situazione cronica dell’abuso di  potere da parte del PRI al governo, violazioni commesse contro donne in quanto tali o per la loro etnia, per pratiche dispotiche  o per il malfunzionamento delle istituzioni. Nella seconda parte si trovano dieci  delle   migliaia di voci di donne di Oaxaca che  hanno infranto il silenzio. Ci mostrano come si sono organizzate in questi ultimi sei mesi di conflitto per conquistarsi un proprio spazio ed essere attrici principali del movimento sociale. Le loro voci ci raccontano come direttamente o indirettamente sono state  colpite nei loro diritti fondamentali e quanto coraggio hanno avuto  per affrontare situazioni di pericolo e di difficoltà. Le voci unite creano un clamore. La voce di ognuna di queste donne  desidera  essere ascoltata  da tante altre; affinchè sia  clamore, con le loro voci e le vostre:  fermiamo questa Tragedia, questa Impunità, questa Infamia.

Voci del  coraggio a Oaxaca vuole  essere un clamore per

la Giustizia contro il silenzio e  per

la Libertà.

Abbiamo la convinzione che sommando gli sforzi possiamo poco a  poco far sì che Oaxaca sia un luogo dove tutte le persone in particoalre le donne possano vivere con dignità e giustizia e come dice lo slogan femminista: che possano camminare senza paura per le strade.

CONTESTO

Sei mesi di resistenza pacifica  a Oaxaca. Un movimento sociale emergente nel quale la partecipazione delle donne è stata fondamentale. Protagoniste e partecipi di centinaia di azioni pubbliche, di resistenza e di discussione, difenditrici dei diritti dei familiari vittime delle violazioni ai loro diritti individuali e voci levate contro la impunità. Senza l’apporto delle donne, questo movimento senza dubbio sarebbe la metà  in numero e in importanza  di ciò che è stato.

Loro, le colone, le indigene, le contadine, le maestre, le femministe, le casalinghe, le studentesse, tutte hanno contribuito a tessere la storia odierna  di questa organizzazione  e forse del Messico intero. Dall’audace e insospettata presa della televisione statale e di diverse stazioni radio che sono state le principali vie di comunicazione e di articolazione del movimento, fino al sostegno dei presidi e delle barricate che sono servite come protezione agli  operativi notturni dai  gruppi di banditi  del governatore che in distinte occasioni hanno attaccato la popolazione. Dall’organizzazione dei fori di discussione fino al  dar voce alle atrocità.

È noto che questo capitolo  della storia inizia il 14 giugno del 2006, giorno dello sgombero violento del presidio dei maestri nello zócalo di Oaxaca, le offese  per lungo tempo accumulate nella storia del popolo di Oaxaca hanno causato la crisi. Il discoso della governabilità e della democrazia a Oaxaca , come una cortina di fumo, si è dissolto per mostrare strade piene di centinaia di migliaia di pugni indignati, di voci che in coro ci hanno sorpreso con la loro tenacia: “È caduto, Ulises è  già caduto!” Sintesi ultima delle richieste sociali, del debito storico con uno dei popoli  più poveri, violentati e dimenticati del Messico.

Si sono sommati  allora il rifiuto popolare al tentativo  di sgombero e le richieste irrisolte di diversi settori e movimenti sociali: gli indigeni, i contadini, le donne e i sindacati tra gli altri. È sorta così l’Assemblea Popolare dei Popoli di Oaxaca (APPO) richiesta ampia e plurale che raggruppa gran parte del movimento sociale.

E se il fattore unitario è stato la richiesta di dimissioni di  Ulises Ruiz, il pensiero e l’ideale collettivo hanno girato  intorno alla trasformazione profonda di Oaxaca. Trasformazione politica, sociale, che restituisca realtà alla Democrazia, alla Giustizia, ai Diritti Umani, l’Uguaglianza tra uomini e donne,

la Non Violenza e

la Non Discriminazione.

E a Oaxaca il popolo, cioè le donne con le loro stoviglie,  gli indigeni e le indigene, i giovani impulsivi, gli anziani e le anziane dal passo lento e la saggenzza antica, sono i creatori e le creatrici  delle barricate, delle marce di massa. Sono coloro i quali hanno espresso  il loro consenso nelle  riunioni e nei dibattiti; coloro i quali integrano le organizzazioni e nominano i rappresentanti per il tavolo unitario di negoziazione  con

la Segreteria del Governo.

Per le donne la crisi ha rappresentato un’opportunità. Centinaia di migliaia sono uscite per le strade e hanno reclamato spazi e  tempi negati loro fino a questo momento. L’organizzazione delle Donne di Oaxaca Primo Agosto è un esempio concreto, un mezzo di partecipazione di donne del popolo, formatosi  per potenziare la loro presenza e azione  all’interno del movimento stesso.

Ciò nonostante, la mobilitazione pacifica, spalla a spalla, la protesta motivata, l’iniziativa davanti al Congresso hanno dato frutti indesiderati: più di seimila effettivi della Polizia Federale Preventiva (PFP) occupano dal 29 di ottobre il centro storico della città di Oaxaca; si contano già 17 morti, 450 detenuti e detenute, ci sono ancora 30 casi di persone scomparse, innumerevoli feriti e persone prelevate dalle loro stesse abitazioni.

Tra le vittime della repressione si contano  decine di donne detenute, scomparse, minacciate e picchiate. Ci sono anche tutte quelle che hanno subito conseguenze per la repressione e per l’assassinio dei loro familiari.

Proprio  il 25 novembre scorso, paradossalmente,

la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, è stato il giorno di repressione più dura di tutto questo periodo e si stima che siano  13  le donne scomparse,  41 le detenute  e  ci sono denunce di torture e di trattamenti disumani.

Ci sono leader del movimento minacciati e arrestati, difensori dei diritti umani perseguitati, giunge voce che ci siano  più di 200 ordini di apparizione e un clima generalizzato che sembra più corrispondere agli anni ’ 70 che non al XXI secolo.


In silenzio

2 commenti

Escher,M.C.-Rind-1955

“…los de abajo

conocen el silencio, padecen el silencio,

mas no se callan”.

                               Julio Carmona

 

Mi rivesto di silenzio,

denudando per un attimo i ricordi del passato

affinché possano prendere luce e godere.

Se fosse facile,

con una sola parola gridata forte

cancellare

il silenzio di tante voci, di tanto dolore!

Il silenzio non è solo una parola,

magari sussurrata piano,

il silenzio ce l’hai nel cuore.

Si prenderanno per mano negli anni a venire,

il silenzio di chi non ha voce e il mio,

raccontandosi storie antiche

senza tempo.

In silenzio i fratelli amanti

uscirono dalle acque gelide del lago

per fondare l’ Impero del Sole.

Con gran baccano d’armi e di croci

giunsero dal mare orde di uomini feroci,

increduli al cospetto di cotanta bellezza,

accecati  da tanta ricchezza.

E dopo il sangue e il ladrocinio

fu il silenzio…

 

 


Guido Piccoli: Colombia, uno scontro interno all’oligarchia fa traballare Uribe

8 commenti

Da Il Manifesto del 28 dicembre  2006

Narcos e generali, la resa dei conti
La Colombia sull’orlo del caos. Dal computer di un capo paramilitare escono nomi di politici, generali e narcotrafficanti, «committenti» di omicidi e stragi. Lo scandalo innesca confessioni, accuse, ricatti. Emerge tra gli altri il nome di un famigerato comandante, cittadino italiano: ma perché l’ambasciata d’Italia ha dato il passaporto a Salvatore Mancuso?
Guido Piccoli
Nelle prossime settimane la Colombia potrebbe conoscere un bagno di sangue peggiore di tutti quelli accaduti nella sua travagliata storia. Paradossalmente però potrebbe anche avviarsi a diventare un paese normale.
Cosa sta accadendo? L’attuale caos è stato determinato da alcuni episodi. Come il casuale ritrovamento del computer di un capo delle Auc (Autodefensas Unidas de Colombia, famigerata organizzazione paramilitare di estrema destra), Jorge 40, contenente nomi di politici e generali suoi soci. O la scoperta di decine di fosse comuni con i resti delle vittime dei paramilitari, e poi le confessioni e reciproche accuse di alcuni detenuti eccellenti, mandanti ed esecutori di omicidi. Col passare dei giorni questi scandali stanno sconvolgendo, con un imprevisto effetto domino, lo stato e la società colombiani.
C’è di più: probabilmente in Colombia è arrivato al capolinea un regime corrotto e criminale, ma anche sofisticato, fatto di democrazia formale e di terrore sostanziale. E, non a caso, accade sotto la presidenza di un personaggio come Alvaro Uribe, ricattabile per i suoi legami antichi e recenti con narcos e paramilitari, ma anche incapace di portare, nonostante i suoi metodi autoritari, una sorta di pace nel paese. Quando s’insediò la prima volta a Palacio Nariño i paramilitari cantarono vittoria e cominciarono a «passare in cassa», decisi a farsi ripagare per i loro servizi di morte per conto dello stato. «Non saremo più il rotweiler del palazzo» annunciò il loro capo, Carlos Castaño. Da allora, però, le loro ruberie e le loro pretese sono aumentate fino a diventare insopportabili anche all’oligarchia tradizionale, che si era beneficiata dei loro omicidi mirati e dei loro massacri.
La crisi attuale non è causata solo da quei pochi settori dello stato che mantengono un minimo d’indipendenza da Uribe (come la Corte Costituzionale o la Corte Suprema di Giustizia), e neppure dalla resistenza popolare al neo-liberismo, dall’opposizione legale che sta crescendo intorno al Polo Democratico o dall’azione delle Farc, per nulla intaccate dalla recrudescenza del conflitto armato.
Conta forse di più la determinazione dell’oligarchia tradizionale di non farsi estromettere da quella mafiosa e paramilitare. Alvaro Uribe non può accontentare la prima, che l’ha votato nel maggio scorso, ritenendolo «insostituibile» (come scrisse il quotidiano El Tiempo) e neppure la seconda, che gli chiede di mantenere le promesse d’impunità assoluta e di legittimazione del potere acquisito col sangue.
I boss chiedono protezione
Come un Arlecchino creolo «servitore di due padroni», Uribe non sa più come destreggiarsi nella contesa che contrappone i paramilitari e la Casa Bianca, che vorrebbe rinchiudere questi ultimi nelle carceri statunitensi, anche se solo nella veste di narcos. Il presidente vive ormai alla giornata, senza una strategia. Una settimana fa ha fatto trasferire i capi paramilitari dal club turistico, dove godevano di ogni confort e della più assoluta libertà, al supercarcere di Itaguì. Forse Uribe voleva ammansire gli Stati uniti, sempre più irritati dall’immunità «politica» concessa ai narcos.
Se è vero che in Colombia sono stati sistematicamente insabbiati tutti gli scandali, per Uribe e il suo schieramento, sembra essere arrivata l’ora della resa dei conti. Tutti accusano tutti: perfino Uribe ha denunciato la tolleranza verso i paras dei presidenti che l’hanno preceduto.
I capi paramilitari, che minacciano di rivelare le loro relazioni con lo stato e la politica, temono di essere scaricati come fu a suo tempo il gran capo Pablo Escobar. E proprio come fece il boss, nei suoi ultimi anni, chiedono protezione alla sinistra. Uno di loro, tale Salvatore Mancuso, ha chiamato il senatore Gustavo Petro, ex guerrigliero dell’M-19 e ora esponente del Polo Democratico, diventato (anche per il suo ruolo di denuncia del para-stato) il più probabile candidato d’opposizione in caso di elezioni anticipate.
In un’intervista pubblicata in prima pagina da El Tiempo domenica scorsa proprio Petro, oltre a definire i paramilitari «sicari alle dipendenze di uno stato mafioso», ha fatto previsioni tetre: «I datori di lavoro del paramilitarismo — narcos, generali dell’esercito e della polizia, politici, imprenditori — i cui nomi stanno per essere resi pubblici, cercheranno di impedire che la verità venga a galla. Alcuni nuclei tenteranno destabilizzare il paese e generare un caos cieco, colpendo non soltanto l’opposizione, il Polo, me e la mia famiglia, ma anche lo stesso presidente Uribe». Per evitare di finire come tanti altri coraggiosi colombiani che si sono opposti al terrorismo statale, Petro gira con un giubbotto antiproiettile e una scorta di una ventina di guardie del corpo.
Secondo Petro, anche Uribe rischia. Sebbene sia l’ultimo governante di fiducia degli Usa nel loro traballante «cortile di casa», Uribe potrebbe essere scaricato dalla nuova maggioranza democratica a Washington. E saltare: letteralmente (per opera dei suoi soci) come paventato da Petro, o pacificamente, grazie a un «impeachment», possibile per il contributo decisivo e documentato dei paramilitari alle sue due elezioni presidenziali o perchè coinvolto dagli scandali di questi giorni, visto che tutti i personaggi accusati di paramilitarismo sono amici suoi.
In questa polveriera appare sempre più decisivo il ruolo del Polo Democratico, unica forza capace di far uscire il paese dal caos. Magari alleandosi con la parte del partito liberale non coinvolta col paramilitarismo, e anche intavolando un dialogo con la guerriglia che resiste senza difficoltà alle roboanti quanto impotenti azioni militari del nuovo Plan Victoria (discendente dei falliti Plan Patriota e Plan Colombia). «Questa emergenza merita la convocazione urgente di nuove elezioni. Bisogna lavorare per un’alleanza che salvi la nazione. Le organizzazioni politico-sociali, i partiti e i movimenti democratici, i militari rispettabili, tutti i colombiani che hanno a cuore la patria devono unirsi per costruire un’alternativa decorosa al governo», ha detto Ivan Márquez, comandante delle forze guerrigliere nel nord della Colombia membro del segretariato delle Farc. Almeno nell’opposizione, la politica potrebbe prendere il sopravvento sulle armi.
«El Mono» e la ‘Ndrangheta
Nel frattempo quel Salvatore Mancuso sta diventando un caso — anche in Italia, visto che è un cittadino italiano. Detto «El Mono», la scimmia, da anni alterna le stragi di umili contadini con i trasporti di droga nell’Atlantico. Molti fingono di non saperlo. Stando alle intercettazioni telefoniche che un mese fa hanno reso possibile l’operazione «Galloway Tiburon» (realizzata dalle polizie italiana, spagnola, colombiana e dalla Drug Enforcement Administration, l’antidroga statunitense, e conclusa con un centinaio di arresti), qualcuno della nostra ambasciata di Bogotà avrebbe concesso a Mancuso il passaporto italiano, prendendo per buona la sua dichiarazione di buona condotta. «Mancuso potrà viaggiare tranquillamente in Italia per realizzare i progetti che ha in mente», diceva il suo amministratore di fiducia parlando con Giorgio Sale, un imprenditore romano, arrestato insieme con i suoi tre figli con l’accusa di riciclare, attraverso ristoranti, pub e una cinquantina di negozi di abbigliamento di Bogotà, Barranquilla e Cartagena, i ricavi del narcotraffico
del boss.
Nell’operazione è caduto anche un pezzo da novanta, José Alfredo Escobar, presidente del Consiglio superiore della magistratura colombiana, che controlla le risorse della giustizia, la carriera dei magistrati e ha la facoltà di distribuire i casi ai tribunali civili o a quelli militari. Secondo gli inquirenti, dall’inizio dell’indagine, le Auc avrebbero fatto arrivare otto tonnellate di cocaina purissima, soprattutto sulle banchine del porto di Goia Tauro, destinate alle varie famiglie della ‘Ndrangheta diventata, secondo la Direzione Centrale per i Servizi Antidroga, egemonica nel «traffico internazionale di cocaina, grazie ai canali diretti di approvvigionamento dai Paesi del Sudamerica e alla dimostrata abilità nel gestire complessi sistemi di riciclaggio». Agli occhi dei narcos colombiani, «la ‘Ndrangheta è l’organizzazione più affidabile, perchè quasi impermeabile al fenomeno del pentitismo», ha detto Nicola Gratteri, giudice della direzione antimafia di Reggio Calabria.
Per ora il sogno di Salvatore Mancuso di tornare con i suoi immensi bottini di guerra nella terra dei suoi avi paterni, sulla costa meridionale salernitana, è sfumato: a causa dell’iniziativa della magistratura italiana, che rimase inerte dopo altre inchieste che l’avevano coinvolto in passato (come la «Decollo» del gennaio 2004). Nei prossimi giorni, su richiesta di Nicola Gratteri, dovrebbe partire la richiesta di estradizione del leader delle Autodefensas Unidas de Colombia per narcotraffico.
Le possibilità che Mancuso arrivi ammanettato in Italia sono al momento nulle, vista l’immunità concessa a lui, all’intero vertice narco-paramilitare e al loro esercito dal presidente Alvaro Uribe. Ma questo provvedimento agevolerebbe comunque la comprensione della natura del parastato colombiano da parte del nostro governo.
Tra gli interlocutori della Farnesina non sono mancati sinistri figuri. Coloro che dirigevano fino a pochi mesi fa l’ambasciata e il consolato di Milano, Luis Camilo Osorio e Jorge Noguera, quando erano a capo della Fiscalía (la magistratura inquirente) e del Das (la più potente delle polizie segrete colombiane), facilitarono spudoratamente la penetrazione paramilitare nelle istituzioni colombiane. L’attuale ministro degli esteri, María Consuelo Araújo, ha un fratello senatore indagato per paramilitarismo e fa parte di una famiglia sotto protezione del capo paramilitare Jorge 40. Infine il nuovo ambasciatore a Roma, Sabas Pretelt: quando era alla direzione del ministero degli Interni e della Giustizia (significativamente unificati sotto il regime uribista) fu l’architetto del farsesco «negoziato» con le Auc e in quella veste assicurò ai capi paramilitari che non avrebbe fatto estradare negli Usa se si fossero impegnati a far vincere nelle scorse elezioni Uribe e lui in quelle del 2010 — questo secondo le confessioni di alcuni capi paras riportate sull’ultimo numero della rivista Cambio. Tutta gente «per bene» con troppi scheletri nell’armadio.

Amnistia? Impunità per i «paras»
La legge di «giustizia e pace» è un indulto di fatto generalizzato per i paramilitari. «Ha offerto legittimità internazionale a assassini, terroristi e capi narcos», secondo Amnesty. L’Unione europea esprime dubbi, ma ha dato un «appoggio condizionato»
G. P.
«Immaginati in fila con altri disgraziati, legato mani e piedi, sulla riva del rio Magdalena. Di fronte a te, due uomini che affilano i loro machete. E intorno, i tuoi familiari e gli abitanti del villaggio che ascoltano i tuoi gemiti di terrore, e le tue urla quando ti squarteranno e nessuno potrà avvisare la polizia per non finire, quella stessa notte, a pezzi nel fiume. Adesso a quei due, come a tutti gli altri, Uribe ha applicato un paio d’ali da angelo. Ma che cazzo di paese è il nostro?». Questo è il commento di un lettore di Tiempo alla notizia dell’indulto che il governo Uribe ha concesso ai membri delle Auc: impunità su misura per i paramilitari che hanno aderito alla «Legge di Giustizia e Pace».
Il decreto governativo sancisce che l’indulto sia applicato soltanto a coloro che non risultino colpevoli di «delitti di lesa umanità». In realtà significa a tutti, o quasi, visto che i giudici inquirenti non hanno tempo e mezzi (e forse nemmeno voglia) per indagare sulle malefatte di ciascuno e visto che è difficile che eventuali vittime o testimoni dei loro delitti vincano la sfiducia nella giustizia e il terrore ancora esercitato dai paras in molte regioni.
A quei due delle Auc, come a tutti gli altri, basterà quindi una semplice autocertificazione per uscire puliti. Obbrobri del genere, che stanno alla base della legge di Giustizia e Pace e fanno da cornice giuridica alla legalizzazione delle Autodefensas, non sono bastate finora a indignare l’Unione europea. Pur continuando ad esprimere dubbi sull’effettivo smantellamento delle strutture paramilitari, la vaghezza della definizione del delitto politico, l’insufficiente tempo per indagare sulle confessioni e sull’insufficienza delle pene massime previste, l’ultima dichiarazione del Consiglio dei ministri europei sulla Colombia del 3 ottobre 2005 ribadisce il suo appoggio al governo Uribe e alla sua «politica di pace».
Sono rimaste inascoltate le proteste degli organismi di diritti umani colombiani e di Amnesty International che ha accusato l’Unione Europea di «offrire una legittimità internazionale a una legge che non rispetta le norme su verità, giustizia e riparazione», e che secondo il New York Times garantisce «l’impunità per una massa di assassini, terroristi e capi narcos». Tra la Francia, che si è detta contraria alla farsa in atto, e la Spagna di Zapatero, la Gran Bretagna e la Germania, che la sostengono, è finora prevalsa la linea, ambigua e ipocrita, portata avanti da Italia, Olanda, Danimarca e Finlandia di «appoggio condizionato», con richieste di modifica sistematicamente ignorate da Bogotà e impegni di verifica che si rivelano cortine di fumo.
«Invece di aiutare le vittime, i finanziamenti europei rischiano di sostenere il reinserimento bellico dei paramilitari», sostiene l’eurodeputato Vittorio Agnoletto del gruppo della Sinistra Europea. Buona parte dei soldi infatti finisce nelle regioni, in progetti di ridistribuzione di ex paras (come nel caso dei cosiddetti «guardaboschi»), che ubbidiscono soltanto alla logica di «controllo territoriale militare» da parte del governo centrale.

Salvatore Mancuso
La carriera di un massacratore
Tra i massacri di cui Salvatore Mancuso è stato mandante o esecutore (e per i quali potrebbe scontare al massimo una condanna di 8 anni, grazie alla legge del suo socio e vicino di fattoria Alvaro Uribe), i più noti sono quelli di El Aro, nella regione di Antioquia, e di El Salado, in quella del Sucre. A El Aro, il 22 ottobre 1997, trenta suoi uomini del Bloque Catatumbo torturarono e ammazzarono 14 contadini, tra i quali un tredicenne, dopo aver incendiato e saccheggiato le loro case. A molte vittime furono strappati gli occhi e i genitali. Per questo massacro, Mancuso è stato condannato a 40 anni di carcere.
A El Salado, en Sucre, il 16 febbraio 2000, 38 contadini (tra i quali un bambino di 6 anni) furono mutilati atrocemente prima di essere uccisi. Prima di dare il colpo di grazia, i paras obbligarono le loro donne a denudarsi e a ballare al suono di un vallenato. Secondo Amnesty International, le donne furono violentate.
Il 19 dicembre scorso, dopo un conflitto a fuoco in un villaggio della regione di Antiochia, che ha provocato due vittime, è stato catturato un altro italo-colombiano delle Auc: Alberto Laino Scoppeta, proprietario di una rivendita di auto blindate ed erede di Jorge 40 alla testa del Bloque Norte. L’uomo stava per ritornare in Italia. Un altro «angioletto» col passaporto in regola? (g.p.)



Considerazioni di fine anno.

3 commenti

Immagine di AURELIO ANTONA

Ascoltando: Papá cuentame otra vez — Ismael Serrano

Welby è morto, ha perfino concordato con il suo medico quando iniziare la somministrazione della sedazione, lui non avrebbe voluto essere sedato per poter rendersi conto di morire,  “mi devo concentrare sulla mia morte, è la prima volta che muoio”, avrebbe detto,  ma la prassi….e poi un freddo comunicato per informare il mondo del decesso.
Forse c’erano altre modalità per sollevare il problema, molto più intime e riservate, senza coinvolgere i politicanti, forse c’era un altro modo  per morire, magari per mano di chi tanto ci ha amati, come sicuramente avviene molto più spesso di quanto si pensi con la complicità del   silenzio notturno delle corsie degli ospedali.. A me  non  sarebbe piaciuto morire al cospetto di Pannella…ma chissà chi ha scelto veramente , se lui, se i suoi cari, se la politica o l’opinione pubblica. Andava sollevato il problema, andavano mosse le acque…
Comunque sia è morto ed ha smesso di soffrire e sono sicura che se un Dio c’è, ora lo sta tenendo tra le braccia. E se un Dio c’è sicuramente ha già tirato le orecchie al suo severo e arcigno  ministro.
Già il suo ministro, sempe più severo, sempre più in alto, sempre più lontano da tutti noi (almeno da me sicuramente)  ma sempre più vicino ai palazzi del potere e della politica. Come nel Medioevo. Perché non vedere nel mancato rifiuto dei funerali cristiani a Welby un chiaro monito ai politici? Attenti a voi, se vi azzardate a pensare solamente alla legge sull’eutanasia… tutti dannati all’Inferno!! Un ministro di Dio  sempre più lontano da quel sentimento di cristianità che è necessario e che è ancora più necessario quando un  figlio sbaglia. Se Welby ha sbagliato secondo la dottrina cristiana dov’è finito il sentimento di pietà e di perdono che vuole essere fondamento della cristianità? Non ho ancora risolto i miei dubbi religiosi, devo ammetterlo, forse non lo farò mai,   non so se credo o no in Dio, ma di certo mi rifiuto di credere in un Dio vendicativo e rancoroso. Il mio Dio se esiste,  in questo momento sta abbracciando Piergiorgio e sono sicuro che con lui lo stanno facendo tanti altri Dei  sparsi lassù nei cieli. C’è stato un momento in cui la vicenda di Welby  mi ha portato alla  mente una scena di Garage Olimpo in cui gli aguzzini torturtori al servizio della dittatura si accanivano ancor di più sulle vittime quando a queste venivano trovate delle capsule di cianuro da ingerire se le le torture fossero diventate insopportabili, “non hai il diritto di decidere quando morire, siamo noi che lo decidiamo per te” e giù botte! Forse il paragone è azzardato ma in realtà è quello che è accaduto a Welby  e che accade con tanti altri nelle sue stesse condizioni. Non avevi il diritto Welby di decidere quando morire, quando porre fine alla tortura che era diventata la tua vita.
Perché Giovanni Paolo II ha potuto decidere liberamente che non gli fosse attaccata la spina e Welby non ha potuto decidere di togliere quella stessa spina, senza incorrere nella punizione del ministro di Dio? Cambia qualcosa nell’atto di inserirla o in quello di toglierla? In ambedue i casi c’è un andare incontro alla morte serenamente e soprattutto naturalmente, in ambedue i casi c’era una volontà da rispettare..
Saddam sta per essere giustiziato e il ministro di Dio  non si pronuncia, ma come? Si nega a Piergiorgio il lasciapassare per il cielo ammesso che lui ne abbia avuto bisogno e non un parola, un cenno,  un invito alla preghiera a chi ha emesso una condanna a morte, al boia che la eseguirà, a Bush che ne gioisce pubblicamente e che solo per questo dovrebbe esseer scomunicato all’istante?  Niente di niente? Non c’è nulla di più ipocrita  della morale e in particolare della morale cristiana.  Ma se lo sanno anche gli stolti  che questo processo è una farsa e la condanna ancor di più, certo meglio farlo fuori subito prima che possa raccontare al mondo dei suoi affari con i Bush.
Il mondo impazza per Natale, viaggi, regali, spostamenti e i Nigeriani per poche gocce della loro benzina… saltano in aria. Già morire carbonizzati a Natale per poche gocce di benzina … quella che non hanno perchè paradossalmente anche se si tratta dell’ottavo paese esportatore di greggio   al mondo, ai nigeriani costa carissima e coì per poter guadagnare qualcosa al mercato nero con una tanica di benzina  devono bucare le condutture degli oleodotti e tutti lì  a fare la festa intorno a quegli spruzzi per pochi dollari fino a che non arriva magari uno con una sigaretta accesa … saltare in aria per una tanica di benzina, certo che si può.
Ah  dimenticavo, Pinochet, non lo vuole più nessuno, pare che sia più ingombrente da morto che da vivo, nemmeno l’esercito vuole le sue ceneri, ma a lui che importa oramai,  il suo lasciapassare per il cielo lo ha avuto.
 
Consiglio i due post più belli su Piergiorgio Welby, l’articolo “Migliaia di Welby crocifissi tra Pannella e Ratzinger”  di Gennaro Carotenuto che come sempre unisce  magistralmente denuncia e riflessione, cuore e ragione,   e quello del fotografo  Fabrizio Pecori che dedica a Welby, ma senza fare il suo nome,  il suo “silenzio bianco”.

L’operazione psicologica dell’ambasciata USA in Perù

5 commenti

Da una recente inchiesta del El Commercio, risulterebbe che la popolarità del presidente peruviano Alan García negli ultimi sei mesi, abbia registrato un calo di consensi pari a 17 punti.
Le sue roccaforti continuano ad essere Lima e la costa nord, dove tra l’altro ha ottenuto il maggior numero di voti nelle recenti elezioni presidenziali del maggio scorso.
Varie sono le interpretazioni: secondo l’analista politico Eduardo Toche questa tendenza è dovuta al fatto che la popolazione inizia a esigere l’applicazione di misure governative che possano dare risultati concreti a breve termine.
Altri analisti invece credono che la caduta di popolarità del presidente sia dovuta in realtà al fatto che il popolo lo sente troppo vicino alla destra, troppo interessato alla risoluzione dei problemi dell’oligarchia del paese e veramente troppo onnipresente nei mezzi di comunicazione, quasi come un “maestro di cerimonie”.
Probabilmente hanno avuto un ruolo importante anche le pressioni che sta portando avanti con il Congresso per il ripristino della pena di morte contro i terroristi e lo scandalo che lo ha coinvolto poco tempo fa quando si è visto costretto al riconoscimento di un suo figlio nato fuori dal matrimonio e di cui aveva sempre negato l’esistenza.
Alla luce di tutte queste interpretazioni appare quindi quanto meno senza fondamento la denuncia fatta dall’ambasciata statunitense a Lima secondo la quale esiste un complotto organizzato da imprenditori della destra e da militari per attentare alla vita di Alan García.
Ci sono in merito, alcune considerazioni importanti da fare.
Innanzitutto il rapporto dell’ambasciata statunitense è stato divulgato dalla televisione tramite il Canal N che appartiene alla stessa famiglia proprietaria del quotidiano El Commercio. Secondo questo rapporto, il piano per assassinare Alan García è stato ideato nel mese di ottobre 2006 e dovrebbe essere messo in pratica a Gennaio 2007 con la modalità di un attentato all’aereo presidenziale in uno dei viaggi del presidente in Perù. Questo piano sarebbe stato messo in atto per la crescente preoccupazione da parte di alcuni settori dell’imprenditoria riguardo al fatto che il presidente possa tradire i loro interessi.
L’ambasciatore degli Stati Uniti a Lima ha subito fatto dietrofront affermando che la delegazione diplomatica del suo paese “non considera credibile” l’ipotesi dell’attentato a García ma che ha semplicemente “trasmesso la sua preoccupazione alle autorità peruviane”, le quali dal canto loro hanno avviato le indagini ma hanno seri dubbi sulla veridicità delle affermazioni.
Verrebbe da pensare che il lupo perde il pelo e non il vizio.
E’ evidente una goffa e traballante intromissione da parte della diplomazia degli Stati Uniti negli affari interni del Perù. E’ evidente che per questo viene utilizzato sfacciatamente un mezzo televisivo, infatti non si capisce come un rapporto diplomatico di “intelligence” che dovrebbe avere carattere di massima segretezza possa essere letto per televisione.
Alla fine è evidente, vista la premessa, anche lo scopo di tutto ciò. Dal momento che la popolarità del presidente Garcia è in calo dopo soli sei mesi dalle elezioni e dal momento che settori via via più ampi della popolazione scendono in campo sempre più a voce alta contro García e l’APRA si rende necessaria “un’operazione psicologica”.
Luis Arce Borja direttore de El  Diario Internacional, dalle pagine del suo giornale, ce ne spiega il significato: “le operazioni psicologiche … si applicano in momenti di acuta crisi economica e di fragilità dello stato oppressore, cioè quando la fame, la miseria, la disoccupazione, la sottoccupazione, la miseria estrema aumentano in maniera vertiginosa e i cui effetti accelerano la lotta di classe”
Ora convertire “García Pérez da carnefice in vittima” può essere una operazione psicologica studiata a tavolino. Farlo passare da vittima dell’oligarchia quando in realtà la rappresenta fino in fondo è senz’altro un’operazione psicologica che dovrebbe insinuare questo dubbio nel popolo: se la destra lo vuole morto, evidentemente egli non è dalla parte dei ricchi e potenti, come invece noi crediamo. E come non segnalare che questa operazione psicologica ha anche lo scopo da parte della Casa Bianca di rafforzare la posizione di uno dei pochi vassalli fedeli al governo USA che rimangono in Sud America? 
“Perché uccidere la gallina dalle uva d’oro ?” si chiede Luis Arce Borja  e in effetti indicare come mandanti del complotto i militari e l’imprenditoria peruviana appare evidentemente come un gioco di fantasia, dal momento che nessuno come García difende gli interessi economici dell’oligarchia e dei gruppi di potere in Perù.
Proprio in questi giorni il El Diario Internacional sta pubblicando un lista di nominativi di bambini e bambine torturati e uccisi da militari e polizia durante il conflitto armato interno tra il 1980 e il 2000. Responsabili ne sono i governi genocidi di Belaunde, García Pérez e Fujimori.


La operación psicológica de la embajada EEUU en el Perú

0 commenti

Según una recièn encuesta de El Comercio, parecería que la popularidad del presidente peruano Alan García en los últimos seis meses de gobierno hubiera registrado una tendencia a la baja de 17 puntos.

Sus  baluartes siguen siendo Lima y la costa norte, donde obtuvo los votos que le permitieron ganar en las elecciones del pasado mes de mayo.

Hay diferentes interpretacciones de esto: para el analista político Eduardo Toche esta tendencia se debe  al hecho que la población ha comenzado a exigir medidas que tengan resultados concretos a corto plazo.

Otros analistas creen que  la caída de popularidad del presidente en realidad se debe  al hecho de que la gente lo percibe  demasiado cercano a la derecha , demasiado interesado en  la resolución de sus problemas y en verdad también demasiado presente en los medios televisivos casi como un “maestro de ceremonias”. 

A la luz de esas interpretaciones parece entonces  sin fundamento la denuncia hecha por  la embajada estadunidense en el Perù según la cual existe un complot organizado por grupos empresariales de la derecha  conjuntamente  con los militares para atentar contra  la vida del presidente Alan García.

Hay unas reflexiones importantes qué hacer.   

Antes que todo la instancia de la embajada de EEUU ha sido difundida por la televisión  por medio de Canal N que pertenece a la misma familia propietaria del diarío El Comercio. Según esa instancia, el complot  para asesinar al presidente García ha sido planeado en el pasado més de octubre y debería ser realizado durante el més de   enero 2007 en la forma de un ataque al avión presidencial en uno de sus vuelos domésticos en el Perú. Ese complot  habría  sido planeado por la creciente preoccupacción de algunos sectores de el empresariado sobre la posibilidad  de que el presidente pudiera traicionar sus intereses.

El embajador de los Estados Unidos en Lima ha dado marcha atrás afirmando que la delegación diplomatica de su país “no cree posible”  la suposición  del atentado contra García pero que ha simplemente “comunicado su preocupación  a las autoridades peruanas” las cuales están investigando la veradicidad de esas noticias.

El lobo muda el pelo más no el celo.

Es evidente una desgarbada y tambaleante injerencia de parte de la diplomacia de Estados Unidos en los asuntos internos de Perú. Es evidente que para eso se utiliza atrevidamente un medio televisivo, y no se entiende como una instancia diplomática de inteligencia que debería tener carácter de secreto pueda ser leído en televisión.

Es evidente, por fin, después la premisa que hicimos, también el objetivo de todo esto. Ya  que la popularidad del presidente García registra una baja  solamente seis meses después de las elecciones y dado que que sectores siempre más extensos de la población levantan la voz contra García y el APRA se hace necesaria una “operación psicológica”.

Luis Arce Borja director de El Diario Internacional, desde esas paginas  nos explica lo que signifíca: “las operaciones psicológicas…se aplican en épocas de agudas crisis económicas y de fragilidad del Estado opresor. Es decir cuando el hambre, la miseria, la desocupación , el subempleo y la extrema miseria aumentan en forma vertiginosa, cuyos efectos aceleran la lucha de clases”.

Ahora convertir “García Pérez de victimario en victima” puede ser una operación psicológica planeada a la medida.

“Para qué matar a la gallina de los huevos de oro?” se pregunta Luis Arce Borja y efectivamente señalar a  los militares y al empresariado como los artifices del complot  parece verdaderamente como un juego de fantasia ya que nadie como García defiende los intereses económicos de la oligarquía y de los grupos de poder en el Perú.

Precisamente  en estos días El Diario Internacional está  publicando un listado de nombres de niños y niñas torturados y asesinados  por los militares y policias durante el conflicto armado interno entre el 1980 y el 2000. Culpables son los gobiernos genocidas de Belaunde, García Pérez y Fujimori.

 

 

 


1 commento


La morte dell’ex spia russa Litvinenko: pettegolezzi, ipotesi, elucubrazioni:

0 commenti

di Vladimir Simonov
Reseau Voltaire
 
La morte a Londra dell’ ex-spia russa Alexandre Litvinenko contaminato dal polonio 210 è stata l’occasione giusta per la stampa atlantista per lanciare una nuova campagna di denuncia contro la Russia. La  logica banale che vuole imporre all’opinione pubblica si può riassumere in questo modo: siccome Litvinenko era un oppositore del Cremlino, Vladimir Putin ha sicuramente ordinato il suo assassinio. Ciò nonostante in pochi giorni, vecchi agenti dello spionaggio, sono usciti  in fretta dall’ombra per  presentarsi ai riflettori delle telecamere televisive, raccontando le loro versioni dei fatti, alcune più romanzesche di altre. Il giornalista russo Vladimir Simonov fa un bilancio di queste accuse e della loro attendibilità.
 
Probabilmente  Conan Doyle, Simenon e Le Carrè insieme non sarebbero stati capaci  di complicare così tanto lo svolgimento dei fatti come lo ha fatto la morte di Alexander Litvinenko.
 
Ieri, lunedì, nove investigatori britannici hanno ricevuto il visto dalla Russia per recarsi a Mosca e interrogare le ultime persone che hanno avuto contatti con l’ex ufficiale del FSB da vivo, quando, non ancora presentava sintomi. Sicuramente all’aeroporto saranno attesi dalle limousine scure del Pubblico Ministero russo. Recentemente i suoi rappresentanti avevano firmato un memorandum di cooperazione con i colleghi britannici e il caso Livtinenko offre quindi una delle prime occasioni per condividere esperienze, idee e sforzi.
 
I tre testimoni chiave per Scotland Yard sono gli imprenditori  Andrei Lugovoi, Dmitri Kovtún e Viacheslav Sokolov che il 1 novembre scorso, lo stesso fatidico giorno in cui Litvinenko ha accusato i primi sintomi,  trascorsero alcune ore con lui nell’hotel londinese “Milenium”. Sembra, che dei tre, il più interessante per gli investigatori inglesi sia Lugovi, anch’egli ex agente del FSB , che il mese passato  ha effettuato quattro viaggi a Londra per incontrarsi con la futura vittima del polonio 210. Lugovoi però a volte ha dei vuoti di memoria: ora dichiara al  quotidiano Kommersant che “non presenta alcuna traccia di contaminazione”, ora  invece confessa al Sunday Times  che ci sono tracce  di radioattività nel suo corpo.
 
Improvvisamente però gli si è risvegliata la memoria ed ha cominciato a fare miracoli ai quattro angoli del globo.
 
Si dice che a  Washington l’ex agente del KGB, un tale Yuri Shvets abbia  rivelato il segreto della morte di Litvinenko agli investigatori britannici. “Mi sembra di conoscere il nome dell’autore dell’assassino del mio amico e il suo movente” ha dichiarato  Shvets al giornalista incredulo  dell’agenzia AP. Qualcosa saprebbe anche Mario Scaramella, l’italiano che fa affari come consulente dei servizi segreti e una certa signora russa, Svetlana, residente a Londra. Per oscuri motivi, Litvinenko non le fece dichiarazioni d’amore ma le confessò l’intenzione di guadagnare migliaia di sterline ricattando alti dirigenti del FSB. Avrebbe fatto meglio a tacere, perché  in questi casi poi si finisce per dover dividere il bottino.
 
Con questi indizi, gli investigatori britannici si stanno scontrando con il fenomeno della palla di neve. Coloro i quali per diverse ragioni cercano pubblicità, danno il  via al  ballo della morte davanti  al cadavere di Litvinenko senza aspettare la sua sepoltura.
 
A Mosca gli agenti britannici rischiano di cadere nella ragnatela di versioni fornite dalla stampa, come uno sventato baco da seta. Per dire la verità tra queste ce ne sono quattro degne di un esame più approfondito.
Versione N°1.  Litvinenko comprò il polonio di contrabbando e ne avrebbe voluto, ovviamente, trarne cospicui benefici. A sostegno di questa supposizione, testimonia il fatto che il 1 di novembre lasciò tracce di radioattività in tutti i luoghi che visitò cominciando dall’ufficio di Boris Berezovski, ma nessuno dei suoi interlocutori ne restò colpito. Inoltre Scaramella conferma: al suo amico Litvinenko  piaceva fare il giocoliere con  il contrabbando di isotopi. La futura vittima del polonio sopravviveva a Londra grazie alle scarse elemosine di Berezovski e quindi era in cerca di guadagni supplementari.
 
Vorrei aggiungere a questo la notizia non confermata in merito ai risultati dell’utopsia che è trapelata dalla stampa britannica.
Si dice che la dose superpotente di polonio 210 che ha ricevuto Litvinenko si può relazionare ad una quantità di polonio  il cui valore si aggirerebbe intorno ai 30 milioni di euro. Un po’ caro per un omicidio.
 
Versione N°2.  Litvinenko avrebbe voluto porre fine alle sue relazioni con Berezovski, cercava delle vie di uscita e cominciò quindi a rappresentare una minaccia  per l’oligarca in esilio. Questa versione è stata espressa recentemente dal quotidiano Izvestia.  In realtà ultimamente intorno a Berezovski  stavano cominciando ad addensarsi dei nuvoloni.
Il memorandum della cooperazione, firmato da poco dal pubblico ministero russo Zviáguiontsev e dai  suoi colleghi britannici non promette  nulla di buono per il magnate esiliato a Londra. Litvinenko sapeva troppo, avrebbe potuto perdere il controllo e in una chiacchierata eventualmente lasciarsi sfuggire qualcosa.  Per triste che sembri, in questi casi è sempre meglio un amico morto che uno troppo chiacchierone.
 
Versione N°3.  Livtinenko era in contatto con un laboratorio artigianale clandestino dove si stava costruendo la bomba nucleare “sporca” per i terroristi ceceni. Questa supposizione è stata fatta da esperti in energia atomica che hanno partecipato al programma televisivo della domenica  del canale NTV diffuso per conto di Vladímir Soloviev.
 
In effetti vale la pena menzionare due fatti. Uno degli amici intimi di Livtinenko era Ahmed Zakáev (rifugiato e protetto dai britannici a Londra), ex capoccia di un gruppo di estremisti ceceni , che il Pubblico Ministero vorrebbe vedere a Mosca per un processo su torture ed omicidi in Cecenia. Il secondo fatto è che approssimativamente due anni fa Berezovski annunciò al mondo che i separatisti ceceni avevano già il programma nucleare e che gli mancava qualche dettaglio. Questo poteva essere il polonio 210. Secondo l’opinione di esperti, questa sostanza può essere usata come detonatore per la bomba nucleare “sporca”.
 
E se  Litvinenko avesse trasportato questo componente del detonatore al laboratorio segreto londinese, fatto  che costò la vita  al corriere della morte?
 
Versione N°4.  È stata la vendetta di un suo conoscente, ex agente del FSB consegnato da  lui ai servizi segreti britannici. I romanzi gialli e i film polizieschi   abbondano in storie di vendette   tra ex investigatori ed altri elementi abituati  a trame oscure e che non dipendono da nessun dipartimento.
 
Ma esiste un argomento importante contro questa versione: come obiettivo Litvinenko è una figura irrilevante. È una mosca paragonata agli elefanti del tradimento residenti a Londra. Gordievski e Rezún alias Suvórov. Comunque sia , il primo era  a quanto pare, vice capo della rete  che denunciò decine di agenti e il secondo,  nel suo libro “Acquario” denigrò decine di agenti in attivo.
Per quale motivo cominciare da Litvinenko ? E inoltre utilizzando il metodo che esclude ogni continuità con la vendetta,  nobile secondo l’opinione di qualcuno?
Sbrogliando la matassa di versioni, gli investigatori britannici lavoreranno con saggezza se si lasceranno guidare dall’affermazione del loro capo John Reid, ministro dell’Interno. Rispondendo alla domanda relativa alla versione N°5 sull’eventuale implicazione del Cremino nella morte di Livtinenko, il ministro ha risposto: “Le supposizioni sono la peggior cosa. Non accada che ci si debba vergognare in seguito.”
 

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Annalisa Melandri


Pancho visto da Paco

3 commenti

 

Ascoltando.…

Francisco (Pancho) Villa — Victor Jara

 
Pancho è Pancho Villa,  eroe della rivoluzione messicana del 1910–1911, Paco è Paco Ignacio Taibo II, il quale dopo aver scritto una eccellente biografia di Che Guevara, sceglie ora di narrare la vita di uno degli eroi del suo paese.
Il quotidiano La Jornada ne ha anticipato il”capitolo zero”. L’edizione italiana uscirà nel 2007 per Marco Tropea Editore con la traduzione di Pino Cacucci.
Riporto qui di seguito un passo del “capitolo zero” in cui con  poche parole e districandosi magistralmente con quel linguaggio così particolare che lo distingue, tra falsità e verità, tra realtà storica e leggenda,   Paco Ignacio Taibo II rende la personalità e il valore di Doroteo Arango Arámbula, da tutti meglio conosciuto come Pancho Villa.
E forse ricordare proprio ora  il suo valore e la sua personalità può contribuire a ridare a tutto il Messico quella dignità che è stata calpestata dagli avvenimenti degli ultimi mesi.
E a noi, lettori lontani, ma emozionalmente vicini, può comunque dare motivo di partecipazione alla lotta che non è solo della APPO o dei maestri di Oaxaca  o dei sostenitori di AMLO, ma è quella, sempre e comunque condivisibile, di ogni popolo e individuo quando  affermano e reclamano i diritti fondamentali del vivere.
 
“Questa è la storia di un uomo i cui metodi di lotta si dice siano stati studiati da Rommel (falso), da Mao Tse Tung (falso) e dal Subcomandante Marcos (vero). Che reclutò Tom Mix per la Rivoluzione messicana (abbastanza improbabile, ma non impossibile), che si fece fotografare a fianco di Patton (non è molto divertente, Gorge a quell’epoca era un tenentello di poca importanza), che aveva avuto una relazione con María Conesa , la vedette più importante della storia del Messico (falso, ci provò ma non ci riuscì) e che uccise Ambrose Bierce (assolutamente falso). Che compose La Adelita (falso), però lo dice il Corrido de la muerte di Pancho Villa, che peraltro gli attribuisce anche La Cucaracha, altra cosa che non fece.
Un uomo che fu contemporaneo di Lenin, di Freud, di Kafka, di Houdini, di ModigliAni, di Gandhi, ma che non sentì parlare mai di loro, e se lo fece, perché a volte gli leggevano il giornale, sembrò non dare a questi personaggi alcun importanza, perché erano estranei al territorio che per Villa era tutto:una piccola frangia di pianeta che va dalle città di frontiera texane a Città del Messico, città che peraltro di sicuro non gli piaceva. Un uomo che si era sposato, o che aveva mantenuto strette relazioni semiconiugali , 27 volte, e che ebbe almeno 26 figli (secondo le mie incomplete verifiche), al quale però sembra non piacessero troppo matrimoni e i preti, ma piuttosto le feste, il ballo, e soprattutto i compari, gli amici.
Un personaggio con fama di beone che comunque assaggiò appena l’alcol in tutta la sua vita, condannò a morte i suoi ufficiali ubriachi, distrusse damigiane di bevande alcoliche in varie città che conquistò (lasciò le strade di Ciudad Juárez a puzzare di liquore quando ordinò la distruzione della bevanda nelle cantine), a cui piacevano i frullati di fragola, le arachidi caramellate, il formaggio fuso, gli asparagi confezionati e la carne cucinata sulla fiamma finchè non diventava come la suola di una scarpa.
Un uomo che ha almeno tre “autobiografie”, nessuna delle quali però scritta dalla sua mano.
Una persona che sapeva a malapena leggere e scrivere, e che però quando divenne governatore dello stato di Chihuahua fondò in un mese cinquanta scuole. Un uomo che nell’era della mitragliatrice e della guerra di trincea usò magistralmente la cavalleria e la combinò con gli attacchi notturni, l’aviazione e la ferrovia. Ancora resta memoria in Messico dei pennacchi di fumo del centinaio di treni della División del Norte che avanzavano verso Zatecas.
Un individuo che nonostante si definisse un uomo semplice, adorava le macchina da cucire, le motociclette e i trattori.
Un rivoluzionario con la mentalità da rapinatore di banche, che mentre era generale di una divisione e di trentamila uomini, trovava il tempo per nascondere tesori in dollari, oro e argento in grotte e soffitte, o in tombe clandestine. Tesori con cui poi comprava munizioni per il suo esercito, in un paese che non produceva pallottole.
Un personaggio che iniziando dal furto organizzato di vacche creò la  più spettacolare rete di contrabbando al servizio di una rivoluzione.
Un cittadino che nel 1916 propose la pena di morte per coloro che commettevano frodi elettorali, insolito fenomeno della storia del Messico (Ahi Calderón…AM)
L’unico messicano che fu a punto di comprare un sottomarino, che fu cavaliere di un cavallo magico di nome Sette Leghe (che in realtà era una cavalla) e realizzò il desiderio della futura generazione del narratore, scappare dalla prigione militare di Tlatelolco.
Un uomo  che odiavano così tanto, che per ammazzarlo spararono 150 colpi alla macchina su cui viaggiava.
A cui, tre anni dopo averlo ucciso, rubarono la testa, e che è riuscito a ingannare i suoi persecutori perfino dopo morto, perché anche se ufficialmente si dice che riposi nel Monumento alla Rivoluzione di Città del Messico (quella fosca mole di pietra sgraziata che sembra celebrare la fine della rivoluzione, schiacciata da una lastra di 50 anni di tradimenti) continua ad essere sepolto a Parral.
Questa è la storia, dunque di un uomo che raccontò e di cui altri raccontarono molte volte le storie, in tali e tante differente maniere che a volte sembra impossibile decifrarle.
Lo storico non può fare altro che osservare il personaggio con ammirazione”.
 
Fonte italiana: Mensile Carta Etc.
 

Pagina 104 di 110« Prima...102030...102103104105106...110...Ultima »