I Festival di Cinema Latinoamericano sull’Ambiente
Llamado por Narciso Isa Conde al Presidente de la República Dominicana Leonel Fernández
- Que adopte medidas claras y eficaces sea a nivel nacional que internacional para la proteccíon de la vida de Narciso Isa Conde.
- Que emprenda investigaciones serias y precisas sobre las demanadas presentadas por el mismo Isa Conde y que las difunda cuanto antes.
- Que se active ante las autoridades estadounidenses para aclarar y resolver la posición migratoria de él y de su familia y que por lo tanto sea asegurado a ellos el derecho a viajar y a moverse.
Partito Comunista dei Lavoratori
Csoa Askatasuna — Torino
Csa Murazzi — Torino
Ksa — Studenti medi Torino
Rete Italiana di Solidarietà Colombia Vive!
Amedeo Curatoli
Enrico Giardino — forum DAC
Bortolotti Carmela
Giovanni Medde
Giorgio Raccichini (Insegnante)
Franco Calandri-Italia Cuba Arcore Brianza
Nicola Ricci-membro della segreteria provinciale PdCI di Livorno
Luciano Carta
Ivan Pavicevac, presidente del CNJ JugocoordONLUS
Barbara Meo Evoli, giornalista, fotografa
Iniziativa a sostegno della Conferenza Mondiale delle Donne
Serata a sostegno della Conferenza Mondiale delle donne della base – Caracas 2011
promossa dal Coordinamento Romano Donne
Venerdì 18 giugno h. 21,00
Via dei Volsci 26 (San Lorenzo)
Non c’è liberazione della donna senza rivoluzione, non c’è rivoluzione senza liberazione della donna!
Martin Almada: “Il Condor vola ancora, è un Condor globalizzato.”
Lettera dei lavoratori Fiat di Tychy a quelli di Pomigliano
Perchè il capitalismo vuole metterci gli uni contro gli altri. Perchè sfrutta là dove c’è da sfruttare, oggi a Pomigliano, poi in Polonia, domani di nuovo a Pomigliano. Gli operai sono merce da spremere e gettare via all’occorrenza. Si è fatto un gran parlare dell’accordo di Pomigliano, si parla però poco dei fratelli polacchi che stanno perdendo tutto in nome del profitto, quello stesso profitto in nome del quale il padrone ricatta oggi i lavoratori di Pomigliano. (a.m.)
“Tremino pure le classi dominanti davanti a una rivoluzione comunista. I proletari non hanno nulla da perdere in essa fuorchè le loro catemne. E hanno un mondo da guadagnare. Proletari di tutti i paesi unitevi!” (dal Manifesto del Partito Comunista)
TESTO DELLA LETTERA:
La Fiat gioca molto sporco coi lavoratori. Quando trasferirono la produzione qui in Polonia ci dissero che se avessimo lavorato durissimo e superato tutti i limiti di produzione avremmo mantenuto il nostro posto di lavoro e ne avrebbero creati degli alti. E a Tychy lo abbiamo fatto. La fabbrica oggi è la più grande e produttiva d’Europa e non sono ammesse rimostranze all’amministrazione (fatta eccezione per quando i sindacati chiedono qualche bonus per i lavoratori più produttivi, o contrattano i turni del weekend).
A un certo punto verso la fine dell’anno scorso è iniziata a girare la voce che la Fiat aveva intenzione di spostare la produzione di nuovo in Italia. Da quel momento su Tychy è calato il terrore. Fiat Polonia pensa di poter fare di noi quello che vuole. L’anno scorso per esempio ha pagato solo il 40% dei bonus, benché noi avessimo superato ogni record di produzione.
Loro pensano che la gente non lotterà per la paura di perdere il lavoro. Ma noi siamo davvero arrabbiati. Il terzo “Giorno di Protesta” dei lavoratori di Tychy in programma per il 17 giugno non sarà educato come l’anno scorso. Che cosa abbiamo ormai da perdere?
Adesso stanno chiedendo ai lavoratori italiani di accettare condizioni peggiori, come fanno ogni volta. A chi lavora per loro fanno capire che se non accettano di lavorare come schiavi qualcun altro è disposto a farlo al posto loro. Danno per scontate le schiene spezzate dei nostri colleghi italiani, proprio come facevano con le nostre.
In qusesti giorni noi abbiamo sperato che i sindacati in Italia lottassero. Non per mantenere noi il nostro lavoro a Tychy, ma per mostrare alla Fiat che ci sono lavoratori disposti a resistere alle loro condizioni. I nostri sindacati, i nostri lavoratori, sono stati deboli. Avevamo la sensazione di non essere in condizione di lottare, di essere troppo poveri. Abbiamo implorato per ogni posto di lavoro. Abbiamo lasciato soli i lavoratori italiani prendendoci i loro posti di lavoro, e adesso ci troviamo nella loro stessa situazione.
E’ chiaro però che tutto questo non può durare a lungo. Non possiamo continuare a contenderci tra di noi i posti di lavoro. Dobbiamo unirci e lottare per i nostri interessi internazionalmente.
Per noi non c’è altro da fare a Tychy che smettere di inginocchiarci e iniziare a combattere. Noi chiediamo ai nostri colleghi di resistere e sabotare l’azienda che ci ha dissanguati per anni e ora ci sputa addosso.
Lavoratori, è ora di cambiare.
Originale tratta da libcom.org/news/letter-fiat-14062010
Marco Coscione: America latina dal basso
AMERICA LATINA DAL BASSO
Edizione Punto Rosso
Storie di lotte quotidiane
A cura di Marco Coscione
Prefazione di Josè Luiz Del Roio
Tra le mani non ti ritrovi un altro saggio teorico sui movimenti sociali latinoamericani, ma un vero e proprio album fotografico, o forse un quaderno per gli appunti.
Indubbiamente, questo libro rappresenta un modo per dare spazio all’America Latina che si racconta da sola, che vuole raccontarsi, ed anche contare.
Leggendo queste storie, scoprirai che qualcosa continua a muoversi e a rigenerarsi in quel continente un tempo “desaparecido” e adesso così “vergognosamente” descritto e fotografato. Queste storie non pretendono di tirare le somme, offrendoci solo una parte della realtà, piuttosto ci accompagnano in un cammino fatto di lotte, resistenze e nuove costruzioni che sottolineano la diversità e la ricchezza di questo “movimento di movimenti, in difesa del diritto all’educazione e della Pacha Mama; con un maggior protagonismo cittadino e più informazione dalla base; tra eguali ma differenti; occupando, resistendo e producendo, riaffermando la propria anima indigena, in pace e senza dimenticare… Affinché un’altra America sia possibile!”
Marco Coscione è laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche (Università di Genova), con un Corso di perfezionamento su “Il Futuro dell’Unione Europea e le sue relazioni con America Latina” (Universidad de Chile) ed un Master Ufficiale in “America Latina Contemporanea e le sue Relazioni con la UE: una cooperazione strategica” (Universidad de Alcalá — Instituto Universitario de Investigación Ortega y Gasset, di Madrid). Varie esperienze di studio, lavoro e
volontariato in Europa (Italia, Germania e Spagna) ed America Latina (Cuba, Cile, Perù, El Salvador). Nel 2007 ha curato la pubblicazione di Micro-historias. Santiago del Cile vista da otto caschi bianchi italiani (Il Segno dei Gabrielli Editore) e nel 2008 ha pubblicato El Comercio Justo. Una Alianza estratégica para el desarrollo de América Latina (Los Libros de la Catarata). Collana Materiali Resistenti, Co-edizione con Carta, pagg. 312, 15 Euro
Pagina web di Marco Coscione : http://redinfoamerica.ning.com/profile/MarcoCoscione
sito: Altramerica
Mundial reaccionario
Rendite da fame INAIL agli invalidi del lavoro.
Email: bazzoni_mtinit (bazzoni_mtinit)
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 120 del 26 maggio 2009, sono aumentati dell’8,68% gli indennizzi in capitale e le rendite INAIL da danno biologico.
A guardare gli aumenti sulla tabella di rivalutazione, pubblicata sul sito dell’Anmil (Associazione Nazionale Mutilati ed Invalidi del Lavoro):
http://www.anmil.it/public/anmil/shared/0.57733255569.jpg
c’è di cui vergognarsi, perchè questi sono aumenti da “fame” per gli invalidi del lavoro, considerando che l’Inail ha un tesoretto”, depositato per intero presso la Tesoreria dello Stato, che ammonta ad oltre 13 miliardi di euro, e che l’Inail ogni anno ha un avanzo di bilancio di quasi due miliardi di euro (per il 2009 è previsto un avanzo di bilancio di oltre 1,5 miliardi di euro).
Invece di usare questi soldi per ripianare i debiti dello Stato, si potrebbe aumentare im maniera consistente le rendite da fame agli invalidi del lavoro.
Vale la pena fare qualche esempio.
Intanto bisogna specificare quando si ha diritto all’indennizzo, cioè solo quando l’invalidità è almeno del 6%, altrimenti niente, mentre si ha diritto alla rendità, solo quando questa è almeno del 16%.
Se ad esempio è del 15%, si ha diritto all’indennizzo sotto forma di capitale.
Per chi rimane paraplegico (disautonomia motoria del tronco, degli arti inferiori con anche danno genito-urinario), l’Inail riconosce un invalidità del 85%.
Perdita bilaterale degli arti superiori (amputazione di entrambi gli arti superiori con eventuale sofferenza dolorosa del moncone), l’Inail riconosce un invalidità del 85%.
Perdita bilaterale della mano, l’Inail riconosce un invalidità del 75%.
Perdita totale di coscia per disarticolazione coxo-femorale, a seconda dell’applicazione di protesi efficace, l’Inail riconosce un invalidità che va dal 45 al 60%.
Perdita del piede, l’Inail riconosce un invalidità del 30 %,.
Perdita dell’avampiede, a seconda del livello, l’Inail riconosce un invalidità fino al 20%.
Sono quasi 30 mila i lavoratori che ogni anno rimangono invalidi sul lavoro, che molte volte devono “battagliare” con l’Inail per vedersi riconosciuti i propri diritti e ottenere una rendita in seguito a infortunio (una studio realizzato da Ires-Cgil e dalla Fillea Cgil, dice che un lavoratore su cinque ha dovuto aprire un contenzioso con l’Inail)
L’iter per il riconoscimento dell’invalidità è un percorso fatto di continui esami, valutazioni, ricorsi, visite mediche e raccolte di documenti secondo una logica simile a quella del tribunale, che a volte fa sentire il lavoratore come implicato in un processo.
Il 24 giugno 2009 l’Inail ha presentato alla Camera dei Deputati, il Rapporto Annuale 2008 sugli infortuni sul lavoro.
Secondo l’Inail, sia gli infortuni sul lavoro, che quelli mortali sono diminuiti nell’anno 2008: per quanto riuguarda gli infortuni mortali, siamo passati da 1207 del 2007, a 1120 del 2008, invece per gli infortuni sul lavoro, siamo passati dai 912419 del 2007, agli 874.940 del 2008.
L’Inail non prende minimamente in considerazione il fatto, che nel 2008 c’è stata la più grossa crisi finanziaria dal secondo dopoguerra ad oggi, e che molto probabilmente questo calo dipende da questo.
Inoltre, come ho detto sempre, questi dati vanno presi con le “molle”, perchè anche se i dati Inail sono un punto di riferimento, con cui tutti dobbiamo confrontarci, non sono “oro colato”.
Nel Convegno Inca-Cgil che si è tenuto a Roma il 24 giugno 2009 (proprio il giorno di presentazione del Rapporto Annuale Inail), dal titolo “Il lavoro offeso”, dove è stata presentata la ricerca Ires-Cgil e Fillea Cgil, è venuto fuori quello che molti pensano da anni, cioè che i dati ufficiali, cioè quelli dell’Inail, non danno una rappresentazione reale del dramma.
Tanto per cominciare c’è una parte di infortuni che sfuggono, perchè vengono denunciati come malattia o fatti passare come incidenti avvenuti fuori lavoro.
Anche Franca Gasparri della Presidenza dell’Inca Cgil è convinta di una sottovalutazione del problema degli infortuni:
“Noi sappiamo –spiega– che il 30% degli infortuni sul lavoro che avvengono in Italia, non vengono dichiarati come tali e poi c’è una sottostima del problema delle malattie professionali. La ricerca –aggiunge– affronta il problema della solitudine “forte”, della cesura che avviene ogni volta che un infortunio o una malattia professionale colpiscono un lavoratore”.
Raffaele Minelli, Presidente delI’Inca-Cgil, ha detto che ” gli infortuni sul lavoro sono molti di più, si potrebbe addirittura raddoppiare il dato INAIL, perchè spesso gli incidenti non vengono denunciati e il sistema delle tutele e degli indennizzi così come quello del controllo e della prevenzione è del tutto indadeguato”.
L’Inail piuttosto che fornire statistiche incoraggianti sul dramma degli infortuni e delle morti sul lavoro, dovrebbe pensare più che altro, a indennizzare adeguatamente gli infortunati sul lavoro.
Aggressione contro i familiari delle vittime di Sucumbios
Il 1 giugno, nel corso della protesta mensile dell’Associazione dei Genitori e Familiari delle Vittime di Sucumbíos, alla quale era presente come sempre anche la Lega Messicana per la Difesa dei Diritti Umani (LIMEDDH) un uomo con evidente accento colombiano ha aggredito i manifestanti, tirando via lo striscione e poi è entrato in ambasciata protetto dalle forze dell’ordine. Il dr. Adrián Ramírez, con il megafono ha chiesto, inutilmente, più volte che venisse identificato e poi che venissero forniti chiarimenti sull’accaduto.
Francesco Mastrogiovanni: morte di un anarchico
Sempre, a ricordo di quanto può essere triste la vita degli uomini quando si distaccano dagli altri uomini e rendono emarginata la vita di chi non si adagia all’egoismo dominante. Una vita “normale” che Francesco non poteva vivere, perché altra era la sua natura e la sua storia. Una scelta a favore degli ultimi, che gli aveva fatto abbracciare in gioventù (ma come è curioso parlare di gioventù per una persona che è morta, anzi uccisa, quando era ancora nel pieno della maturità, a soli 58 anni) l’idea anarchica, che per lui era più un modo di vivere che un’ideologia, per cui aveva anche pagato dei prezzi molto salati e sofferto ingiustizie e umiliazioni che non lo avrebbero più abbandonato. Una sofferenza accresciuta, tra l’altro, dal fatto che Francesco non era un militante classico, impegnato in riunioni e quant’altro, ma più un sognatore che la sua scelta preferiva viverla nel suo modo di condurre l’esistenza.
Il fantasma del caso Falvella
Dunque Francesco viene prelevato dai carabinieri il 31 luglio del 2009 sulla spiaggia di San Mauro Cilento dove trascorreva qualche giorno di vacanza. Il prelievo forzato non era il primo. Era già stato sottoposto a Tso (Trattamento sanitario obbligatorio) altre due volte, e sempre la cosa aveva destato stupore nei suoi amici, conoscenti e parenti. Francesco infatti non era mai stato violento, né tossicodipendente se si esclude qualche spinello (tutto convalidato dalle analisi post decesso). Andava sì, a volte, in escandescenze ma senza mai degenerare in atteggiamenti violenti. Erano piuttosto i fantasmi di una gioventù scossa a presentarsi sempre davanti ai suoi occhi. Quei fantasmi che si incarnavano nelle forze dell’ordine che gli procuravano sempre incubi e paure. Che lo facevano tornare indietro nella memoria, agli anni in cui era appena un ventenne. Alla Salerno dei primi Anni Settanta quando, nella sera del lontano 7 luglio del 1972, in una strada buia della città, lui ed altri compagni furono aggrediti da alcuni fascisti. Allora Salerno era infestata da bande di fascisti che tentavano di “prendersi la città” (il Movimento sociale italiano era il secondo partito), dopo lo smacco e la sconfitta subita nella rivolta di Reggio Calabria. Le aggressioni fasciste erano all’ordine del giorno, documentate scrupolosamente da questo giornale che aveva allora in città un nucleo forte del manifesto. Francesco fu accoltellato a una gamba, il suo amico Giovanni Marini intervenne per aiutarlo e nella colluttazione cadde colpito a morte il fascista Carlo Falvella. Anche lì il ruolo di Francesco era anomalo: si trovava infatti per caso a Salerno per andare a teatro e si era aggregato con gli amici incontrati durante il tragitto. Mastrogiovanni fu assolto al processo dopo un anno di galera mentre Marini fu condannato a nove anni (nel collegio di difesa, tra gli altri, vi era Umberto Terracini, già membro della Costituente e dirigente del Pci). Quello stigma giovanile Francesco non riuscirà più a toglierselo di dosso nonostante il tentativo di riprendersi col lavoro (era stato per anni in quel di Bergamo a insegnare) e con la dimenticanza che sempre lenisce le ferite col passare del tempo. Una cosa, però, Francesco non riuscirà mai a cancellare dalla sua mente, ed è la preoccupazione alla vista delle forze dell’ordine. Emblematico di questa “fobia” è l’episodio accaduto nel 1999 a Salerno. E’ da poco rientrato dal Nord perché è riuscito a trovare un posto nella scuola elementare di Castelnuovo Cilento, il paese dov’è nato. Pare che, fermato dai carabinieri nel capoluogo, abbia reagito in modo inconsulto a un controllo. Viene portato in caserma, processato per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, condannato in primo grado a tre anni. Riemerge il passato nella requisitoria dove il pubblico ministero lo definisce «noto anarchico», come se l’idea anarchica fosse di per sé un delitto oltre ad ignorare, il giudice, il modo del tutto particolare in cui viveva Francesco la sua “anarchia”.
Sconta un mese di carcere e cinque di arresti domiciliari, ma intanto si aspetta il ricorso in Appello che gli dà ragione: viene pienamente assolto per non aver commesso il fatto e riceve persino un risarcimento per l’ingiusta detenzione. Mastrogiovanni però acutizza, con questo episodio, la fobia profonda verso le forze dell’ordine. Capitano occasioni in cui scappa alla semplice vista di un poliziotto o carabiniere. E, come accade in genere in questi casi, la ribellione si esprime anche nelle cose minute della vita, quasi a rimarcare il diritto di vivere come vuole. Per questo, superficialmente, viene considerato un soggetto patologico, quando invece il suo rifiuto, ad esempio, di assumere i farmaci che gli vengono prescritti, è solo una risposta alla paura e un desiderio di essere rispettato. Magari curato ed aiutato, ma in modo del tutto diverso.
La costruzione del pericolo pubblico
E così cresce la sua “fama” di insofferente alle regole, di “anarchico”. Alimentata, per la verità, da atteggiamenti borbonici (vale ancora in Italia la vecchia concezione della “macchia indelebile”) delle forze dell’ordine. Racconta Vincenzo Serra, suo cognato: «Attorno alla sua figura si è costruita falsamente un’immagine di persona violenta, ma non era assolutamente pericoloso per la società. Persino nella cartella clinica c’è scritto che era soltanto ‘aggressivo verbalmente’. Spesso si arrabbiava, soprattutto quando parlava di politica, ma non passava mai alle vie di fatto. E’ stato trattato come un ‘appestato’ senza esserlo. Era sempre dedito alla lettura, collezionava libri, altro che violento. Diceva semplicemente che non si fidava di nessuno, soltanto di se stesso. Pensa che una maestra ha raccontato che Francesco in fondo era buono come i bambini, per questo era ben visto da loro».
Peppino Galzerano, amico e conoscente da tanti anni di Francesco, aggiunge, irato e incredulo: «È incredibile quanto avviene nel nostro paese. Non è che si può tacere di fronte a tanta offesa per la dignità umana. Non è possibile che un uomo entri in un ospedale, cioè il luogo adibito alle sue cure, e ne esca cadavere in un modo così atroce. Un epilogo della storia che nessuno di noi, amici e parenti, poteva immaginare».
I conti che non tornano
Ma cos’è veramente avvenuto in quei quattro giorni maledetti in cui si
è decisa la vita di un uomo in un posto che dovrebbe essere adibito piuttosto alla sua salute? Intanto già dalla mattina di quel 31 luglio 2009 le cose hanno lasciato più di un sospetto in tanti. Il suo internamento coatto era stato ordinato dal sindaco di Pollica senza che mai si sarebbe capito il perché. Il fermo è poi avvenuto in un altro paese senza che il sindaco di San Mauro fosse avvertito e investito del caso. Altra curiosa cosa quella mattina, se si pensa che parliamo di un fermato per malattia del tutto pacifico, è lo straordinario spiegamento di forze: carabinieri in terra ferma e guardia costiera in mare. “Catturato”, questo è il termine più giusto da usare, viene portato nel reparto Tso (trattamento sanitario obbligatorio) dell’ospedale di Vallo della Lucania e lì tenuto per quattro giorni legato a un letto di contenzione, come si usava nei vecchi manicomi. È terribile ciò che tutti hanno potuto vedere grazie al video della telecamera a circuito chiuso dell’ospedale, prova schiacciante contro i medici e gli infermieri. Un video trasmesso su RaiTre e che circola su YouTube: un uomo che viene brutalmente legato a un letto che neanche lo contiene (Francesco è alto quasi due metri e per questo soprannominato affettuosamente “il maestro più alto del mondo”), che cerca di divincolarsi e chiedere aiuto per ben quattro giorni, che viene lasciato solo, e che mano a mano si divincola sempre di meno in preda agli effetti dei sedativi e alla rassegnazione che prende il sopravvento fino alla morte. Un video choc, non c’è alcun dubbio. Una visione davvero insopportabile che griderebbe vendetta in qualsiasi paese civile. Che inchioda tutte le persone democratiche e sensibili a domande decisive sul nostro paese, sulla sua civiltà in declino, sull’afasia della nostra democrazia. La società politica e quella civile ha altro a cui pensare? È sembrato di sì, in quei giorni. Ma, grazie a dio, la storia terribile di Francesco è diventata ormai caso nazionale e internazionale. Si sta coagulando attorno alla sua figura un movimento che sta già facendo sentire la sua voce nelle sedi istituzionali e che conta di portare a una prima sintesi il suo impegno in occasione del processo di Vallo della Lucania.
Il “Comitato verità e giustizia per Francesco Mastrogiovanni” ha approntato un sito (www.giustiziaperfranco.it), dove si leggono anche denunce dettagliate di medici. In un’appassionata difesa della vita e della dignità di Francesco, con argomenti di tecnica medica del corretto intervento in casi analoghi, scrive la dottoressa Agnese Pozzi: «Troppo facile legare un paziente in agitazione psicomotoria al letto, eventualmente sedarlo e lasciarlo a morire! Perché se non si tratta di pure cause psichiatriche ma organiche, e queste non vengono trattate, è sicuro che il paziente muore. È altrettanto sicuro che muore quando viene lasciato per giorni interi in una posizione forzata non agevole all’ossigenazione e al ritorno del sangue al cuore, com’è accaduto per il povero Francesco Mastrogiovanni». Il Tso era stato stabilito per 7 giorni a partire dalla data del ricovero e contempla controlli accurati del paziente. Ma per ben 80 ore Francesco è stato lasciato del tutto solo, sedato e legato mani e piedi al letto. E’ atroce immaginare che le telecamere a circuito chiuso trasmettevano ai medici e agli infermieri il suo stato di agitazione e nessuno ha visto (o voluto vedere), nessuno ha sentito un minimo di pietà. Tranne, si vede nel video, una inserviente che passa ad asciugare una piccola pozza di sangue che si è formata a terra vicino al letto, causata dai movimenti forsennati e dallo sfregamento sulla pelle del braccialetto che Francesco portava al polso. Nella notte fra il 3 e il 4 agosto, la sofferenza di Francesco, come appare nitidamente dal video, è davvero disumana. La mattina del 4 si vede un Francesco immobile, con la bocca semiaperta e ormai senza vita. Nel referto medico, dopo l’autopsia, la causa della morte è imputabile a edema polmonare, causato dal condizionamento a cui era stato sottoposto.