In Perú intellettuali e poeti protestano contro la firma del TLC con il Cile
Le poetesse Patricia del Valle (sin), Rosina Valcárcel (centro) e Marcela Pérez Silva (destra) lavando la bandiera del Perú
I poeti Winston Orrillo (sin) e Germán Carnero Roqué (destra) lavando simbolicamente la bandiera del Perú
L’antifascismo si agisce e non si celebra. Dimissioni per Moratti e De Corato
“Sono manifestazioni di idee” Letizia Moratti
Franco Fortini: La gronda
Cada Uno por la Justicia/Ognuno per la Giustizia Bollettino. 8
I padroni? Intanto “tratteniamoli”!
(AP Photo/Laurent Cipriani)
Ma non ci avevano detto che le classi non esistevano più?(sr)
“Li tratteniamo per discutere con loro. Chiediamo che fissino una riunione coi rappresentanti del personale per sbloccare i negoziati” ha detto Benoit Nicolas, delegato del sindacato Cgt.
Vignetta di Lo Scomparso
26 marzo: Giornata Internazionale della Resistenza Armata
El caso Lage — Perez Roque y los cambios en Cuba
Colombia: cosa sono i falsi positivi
(Clicca sull’ immagine per ascoltare la registrazione della clip realizzata da Guido Piccoli sullo scandalo dei falsi positivi)
Ascolta la registrazione dell’intervista a Guido Piccoli realizzata da Radio Onda Rossa l’11 marzo 2009
Colombia DEI FANTASMI
Scoppia lo scandalo dei «falsi positivi»: l’esercito uccide innocenti e li veste da guerriglieri. Per soldi, mostrine, licenze. Rimossi 27 ufficiali. Ma il capo, il generale Montoya, viene promosso ambasciatore
Quando si parla di terrorismo in Colombia si è indotti a pensare alla guerriglia, anzi alla «narcoguerriglia, com’è definita dalla gran parte della stampa. Paragonati non solo ai gruppi paramilitari ma anche all’esercito, però, i ribelli appaiono degli angioletti. Anche quelli delle Farc, nonostante i crimini e i frequenti «errori» nelle loro attività (che vanno dai sequestri di civili agli omicidi di persone non combattenti, per arrivare all’uso delle mine antipersona e delle bombole a gas trasformate artigianalmente in ordigni). Non si tratta di assolvere il male col peggio, ma di raccontare la realtà per quella che è, squarciando il velo di falsità e ipocrisia che nasconde il maggiore protagonista del terrorismo nel paese: cioè lo stato, con gli agenti legali e quelli clandestini.
Le dittature latinoamericane dei decenni scorsi, poco importa se con giunte infarcite di militari o civili, crearono macchine di morte capaci di crimini su larga scala e fino ad allora sconosciuti come le cosiddette «sparizioni forzate». Ma quelle erano dittature e combattevano le «guerre di bassa intensità», proclamate dagli Usa di John F. Kennedy. Ma lo scandalo detto dei «falsi positivi», che dopo anni di denunce affiora finalmente anche fuori dai confini colombiani è ben più ignobile. Perché realizzato da una presunta democrazia e perché manca di una qualunque giustificazione ideologica.
Per falsi positivi s’intendono le montature organizzate dai militari per prendersi meriti rispetto al potere politico e, al loro interno, con i superiori. Negli anni 90, erano soprattutto attentati da attribuire alle Farc o a Pablo Escobar, quando questi cominciò a perdere potere e amici potenti: una strategia della tensione alla colombiana che aveva pur sempre un fine politico. Poi si cominciarono ad ammazzare degli sconosciuti, presi a caso nella campagne e costretti ad indossare tute mimetiche prima di essere uccisi. «Mi arrivavano denunce, che trasmettevo regolarmente a Washington, di cadaveri insanguinati dentro uniformi che non avevano un solo foro. Non occorreva essere Einstein per capire» ha ammesso pochi giorni fa al New Herald Myles Frechette, ambasciatore statunitense a Bogotà dal 1994 al 1997.
La pratica assassina, passata inosservata fin quando ad essere ammazzati erano umili contadini, emerse nel novembre 2005 quando nella regione di Cordoba un plotone della XI° brigata uccise e presentò paradossalmente come guerrigliero il fratello latifondista di Eleonora Pineda, senatrice filo-Auc e amica di Uribe (e attualmente detenuta per paramilitarismo). Tutti i delitti, compreso questo ultimo, rimasero impuniti grazie al gioco di squadra delle più alte cariche dello stato: del presidente Uribe e del ministro della difesa Juan Manuel Santos fino ai comandanti militari e ai diversi giudici, intimoriti o complici, che usavano ogni cavillo per insabbiare indagini e processi. La paura costringeva al silenzio i familiari delle vittime. L’impunità indusse gli assassini ad organizzare un vero e proprio commercio d’innocenti, spesso sequestrati con l’inganno anche nelle periferie delle grandi città, trasportati nelle regioni di conflitto del paese e ammazzati senza pietà.
Nel settembre scorso lo scandalo dei «falsi positivi» scoppiò a Soacha, un quartiere meridionale di Bogotà, grazie al coraggio di un funzionario comunale e alla disperazione dei parenti di una ventina di ragazzi denunciati come desaparecidos e ritrovati (alcuni già il giorno dopo) cadaveri nell’obitorio di Ocaña, una cittadina nord-orientale distante 500 chilometri dalla capitale, e presentati dalla locale brigata come sovversivi «caduti in combattimento». Poprio ad Ocaña, mesi prima, un sergente aveva denunciato che nel suo battaglione i soldati erano premiati con cinque giorni di licenza per ogni nemico ucciso: venne espulso dall’esercito. Dopo Soacha si conobbero casi simili in tutto il paese. Inizialmente Uribe e i suoi uomini negarono ogni responsabilità dell’esercito. «Dicono che da qualche parte ci sono settori delle nostre forze armate che misurano i loro successi con i cadaveri, stento a credere che sia vero» disse il ministro della difesa Juan Manuel Santos. In realtà, il body counting era il logico effetto delle pressanti richieste fatte da Uribe ai vertici delle forze armate di mostrare risultati nella loro guerra alla sovversione. Per qualche giorno Uribe continuò a difendere l’esercito, arrivando ad insultare le vittime: «Se sono finiti in quella regione non è certo per raccogliere caffè», disse due giorni prima di cambiare sorprendentemente atteggiamento, ammettendo l’esistenza nella truppa di qualche pecora nera. A fine ottobre il gran colpo ad effetto della rimozione di tre generali e una ventina di altri ufficiali e sottufficiali, coinvolti nel massacro. E, per ultimo, le dimissioni forzate del comandante in capo dell’esercito Mario Montoya, il generale che Ingrid Betancourt abbracciò appena libera. La stampa parlò di depurazione e gran repulisti. In realtà nessuno degli implicati è finito in galera. Al massimo qualcuno ha dovuto cambiare lavoro passando, come tanti paramilitari smobilitati, al soldo delle potenti compagnie di sicurezza private. Montoya, che già annoverava un bel passato criminale (come organizzatore degli squadroni della morte e collaboratore delle bande paramilitari), è stato premiato da Uribe con la nomina ad ambasciatore a Santo Domingo.
E’ molto probabile che anche questo scandalo rimanga quindi impunito, grazie all’efficace copione di sempre, diviso in tre capitoli. Finchè si può, si negano le denunce dei familiari delle vittime o degli organismi di difesa dei diritti umani e si giura sull’onore dei militari (e nel mentre magari si assoldano sicari per far tacere i testimoni più testardi). Poi si finge di sacrificare qualche pecora nera o si fabbrica un capro espiatorio. Alla fine, spenti i riflettori, si salvano le pecore nere (quando non si premiano senza pudore, come nel caso di Montoya) o, nei casi estremi, si eliminano, pur di perpetuare un sistema di potere mafioso e assassino spacciato per democratico.
«Ma quale democrazia? Ti sequestrano, t’ammazzano e ti danno il colpo di grazia» urlavano nella manifestazione del 6 marzo scorso i parenti dei ragazzi uccisi in nome della «sicurezza democratica» di Uribe. La speranza di ottenere giustizia per questa carneficina punendo anche i suoi responsabili maggiori, come Uribe e Santos, risiede lontano dalle aule giudiziarie colombiane, nel rigore della Corte penale internazionale e, ovviamente, nella valutazione politica degli Usa, i veri sovrani della Colombia. Non si sa dove sia meglio, o peggio, riposta.
Iván Cepeda e Liliana Uribe, attivisti contro i «falsi positivi»
Ivan Cepeda e Liliana Uribe, attivisti contro i «falsi positivi»: un documento del 2005 indica il valore di ogni uomo eliminato.
Iván Cepeda, portavoce del Movimento delle vittime di crimini di stato (Movice), è stato tra gli organizzatori delle manifestazioni in favore delle vittime dei falsos positivos del 6 di marzo, che ha visto la partecipazione dei familiari di circa 200 ragazzi assassinati provenienti da 15 regioni del paese.
Cosa chiedete con questa manifestazione?
La creazione di un gruppo speciale d’investigatori, che si dedichi esclusivamente alla ricerca dei responsabili delle 1400 esecuzioni commesse in Colombia durante il governo Uribe. Fino ad ora le indagini non sono andate avanti, perchè affidate alla giustizia penale militare, ignorando le raccomandazioni dell’Onu. In alcune regioni sono a carico di magistrati designati dall’ex fiscal Camilo Osorio (già ambasciatore in Italia e attuale ambasciatore in Messico): è molto probabile che facciano parte dell’apparato paramilitare. Molte famiglie non hanno ancora potuto riavere i cadaveri dei propri cari.
Il ministro della difesa Santos considera quello dei «falsos positivos» un caso chiuso affermando che da ottobre, da quando sono stati allontanati i 27 militari, non si siano verificati nuovi omicidi. È vero?
Mente. Continuiamo a registrare casi con modalità molto simili. Santos è il responsabile politico di questa catena di esecuzioni e ne chiediamo la destituzione immediata.
E il generale Montoya?
Durante il suo periodo alla guida dell’esercito sono aumentati in modo significativo gli omicidi di civili. I generali sono i veri responsabili di questa catena d’omicidi. Il generale Montoya deve essere richiamato in Colombia per rispondere alla giustizia civile.
Si può parlare di crimini di lesa umanità?
Sì perchè, come ha già affermato l’Alto commissariato per i diritti umani dell’Onu, non sono casi isolati, ma rispondono a politiche istituzionali e in primo luogo alla politica di seguridad democratica del presidente.
La Cceeu (Coordinamento Colombia Europa Stati Uniti) è un’organizzazione che raccoglie circa duecento ong che si occupano di diritti umani in Colombia e che, più delle altre, ha studiato i casi dei falsos positivos nel paese. Liliana Uribe ne è la portavoce.
Cosa avete potuto accertare con i vostri studi?
I falsos positivos si presentano su tutto il territorio nazionale, anche in regioni dove prima non presentavano casi di questo tipo, come Huila e Norte de Santander, che sono le più colpite dalla politica di seguridad democratica. A differenza di quanto afferma il governo, gli incentivi per i militari che uccidono un nemico sono ancora presenti. L’anno scorso abbiamo scoperto una direttiva, la 029 del 2005, un documento segreto scritto dall’attuale ambasciatore all’Osa (Organizzazione degli stati americani) che indica il valore d’ogni essere umano eliminato, in termini di denaro, licenze e altri premi. La storia si basa anche sull’opinione dei militari che la vita dei ragazzi disoccupati non valga niente.
Quanto influisce su tutto questo l’impunità diffusa?
Su 716 casi con 1171 vittime, solo in 32 è stata aperta un’indagine, e non si è mai arrivati ad una condanna. Nelle zone rurali le cose vanno anche peggio. Inoltre s’indaga solo sugli esecutori, mai sui mandanti. Dei 27 alti ufficiali destituiti, nessuno risulta indagato penalmente. E’ forte l’impressione che nessuno risponderà mai alla giustizia. Nonostante dal giugno del 2007 siano state emesse varie direttive dal ministero della difesa contro le esecuzioni extragiudiziali, nel 2008 se ne sono verificate 160. Nelle caserme si sente dire che si può fare tutto, “tanto poi ne risponde il presidente”.
Le uniformi di Tsahal
La denuncia scioccante viene dal quotidiano israeliano Haaretz. Ai soldati israeliani piace andare in giro con magliette che superano i classici simbolismi del militarismo per addentrarsi nella guerra del futuro, quella asimmetrica nella quale il protagonista è il cecchino onnipotente con la testa vuota che ammazza civili, meglio se donne e bambini.