Istanbul si chiude oggi il V World Water Forum, organizzato, come le edizioni precedenti di Marrakech, L’Aja, Kyoto, Città del Messico, dal World Water Council, un think-tank internazionale di governi, esperti, ong e agenzie intergovernative sponsorizzato e di fatto guidato dalle più grandi multinazionali del settore idrico.
Nato su iniziativa della Banca Mondiale per affrontare la crisi idrica globale e per realizzare gli obiettivi del millennio, comprendenti la riduzione della sete nel mondo, propone come soluzione le stesse politiche che questa crisi hanno creato: la considerazione dell’acqua come merce, sottoposta alle regole di mercato e la costruzione di grandi infrastrutture che colpiscono ecosistemi e comunità. Del resto l’attuale presidente del World Water Council Loïc Fauchon è allo stesso tempo presidente della Société des Eaux de Marseille, di proprietà di Suez e Veolia, rispettivamente 70 e 110 milioni di clienti nel mondo, le più grandi multinazionali dell’acqua.
Dal 2003 il Consiglio si è aperto ad un numero sempre maggiore di attori ma ancora oggi rimane saldamente nella mani del settore privato che conta il 41% dei membri, una percentuale significativa comparata con le istituzioni accademiche (27%), i governi (17%), le organizzazioni non governative (10%) e quelle internazionali intergovernative (5%).
Il forum in tutte le passate edizioni, e questa non fa eccezione, propone e porta avanti la privatizzazione delle risorse idriche del pianeta. Ma oggi il contesto globale appare certamente mutato, con un numero sempre maggiore di Stati riconoscere attraverso interventi legislativi l’acqua come bene comune indisponibile al mercato. In Ecuador e Bolivia il diritto all’acqua viene addirittura sancito nelle nuove Costituzioni votate e adottate dai paesi Andini come simbolo della difesa non solo della sovranità nazionale ma come proposta capace di mettere al centro delle relazioni e del ruolo degli Stati la difesa della vita e dei diritti.
Già in occasione dell’edizione del Forum tenutosi a Città del Messico nel 2006Uruguay, Bolivia, Venezuela e Cuba, firmarono congiuntamente una dichiarazione per chiedere che un reale processo democratico, trasparente e aperto si sostituisca al World Water Forum.
Ma la macchina del Forum, incurante del mutato scenario e della crisi globale che è innanzitutto crisi ambientale e quindi idrica, è andata avanti e per l’edizione del 2009 ha scelto la Turchia come paese ospite. E la Turchia rappresenta un terreno di sperimentazione privilegiato per le politiche degli oligopoli mondiali dell’acqua.
Da tempo infatti questo paese ha aperto ai privati la gestione dei servizi idrici e attualmente sta elaborando una legislazione per consegnare al mercato anche le fonti d’acqua. In altre parole, la proprietà delle stesse fonti idriche potrebbero essere trasferite nelle mani dei grandi interessi privati che già oggi gestiscono la distribuzione dell’acqua per il consumo umano.
Ma non solo. È evidente che parlare di politiche dell’acqua non significa solo concentrarsi sul diritto all’accesso all’acqua degli esseri umani. L’acqua rappresenta un paradigma trasversale collegato inesorabilmente con altri beni comuni universali come terra, cibo, energia, biodiversità, spazio bioriproduttivo e rappresenta un fattore geopolitico cruciale.
Riguarda anche la scelta di progetti infrastrutturali come le grandi dighe che erodono spazi vitali ed agricoli, responsabili di milioni di sfollati ambientali e di danni incalcolabili agli ecosistemi fluviali. Un passivo ambientale e sociale che rimane ancora fuori dai bilanci delle multinazionali e dagli interessi di molti Stati, più preoccupati a fare affari che a garantire diritti.
Una delle regioni del mondo più colpita da questi progetti è il Kurdistan turco, zona estremamente ricca d’acqua. Ed è proprio per la sua ricchezza che questa regione è stata scelta come il luogo “ideale” per la realizzazione del mega-progetto che prevede la costruzione di dighe GAP.
GAP è l’acronimo con cui il governo turco identifica il Guney Anadolu Projesi, colossale progetto di sviluppo idrico infrastrutturale nel sud-est della Turchia che prevede la costruzione di 22 dighe e 19 impianti idroelettrici sui fiumi Tigri, Eufrate ed i loro affluenti, oltre che la costruzione di diverse strutture per lo sviluppo economico della regione. Una delle principali opere del GAP è rappresentata dall’impianto Ilisu, che il governo turco intende costruire sul fiume Tigri, in Anatolia sud-orientale — la regione kurda della Turchia -, appena a valle della città di Hasankeyf ed a soli 65 chilometri a monte della frontiera con l’Iraq e la Siria.
La diga Ilisu sarà alta 138 metri, larga 1.820 metri e creerà un lago artificiale ampio 313 chilometri quadrati e comporterà l’inondazione di 6000 ettari di terre agricole, la distruzione dell’ecosistema del fiume Tigri, la scomparsa di numerosi centri d’inestimabile valore archeologico e storico tra cui la città di Hasankeyf, luogo con 5000 anni di storia, forse il centro più importante per la cultura curda.
Il progetto è di fatto l’ennesimo strumento di repressione che lo stato turco usa contro la popolazione Kurda, che si oppone da oltre dieci anni al progetto, maggioranza nella regione, già vittima di continue violazioni ai propri diritti umani individuali e collettivi. Uno strumento diretto di controllo del territorio (terra di confine con Siria e Iraq) attraverso la gestione diretta della sua anima: l’acqua.
Anche quest’anno un’articolazione variegata di comunità in resistenza, movimenti, reti, associazioni, organizzazioni non governative ha portato ad Istanbul la voce dei popoli che si oppongono alla mercificazione dell’acqua a favore di una gestione pubblica, partecipata e democratica della risorsa idrica: acqua come strumento di pace, simbolo e anima della difesa dei territori. Mentre nei giorni che hanno preceduto il Fourm diverse Carovane in solidarietà con il popolo Kurdo, contro le dighe ed in difesa dell’acqua hanno attraversato il paese con l’obiettivo di costruire una solidarietà attiva nei confronti di un popolo dimenticato in nome degli interessi strategici che legano l’Europa alla Turchia.
Nelle giornate di seminari e assemblee i rappresentanti della società civile internazionale hanno denunciato l’illegittimità del World Water Forum e le ingiustizie che le politiche globali sull’acqua producono. Come nel recente Forum Sociale Mondiale di Belém centrale è stata la critica alla insostenibilità del modello di sviluppo che ha trasformato l’acqua e i beni comuni in merce, l’intera Natura in una riserva di materie prime e il pianeta in una discarica a cielo aperto.
Diverse le manifestazioni di protesta, alle quali sono seguite le reazione durissime da parte della polizia turca: 17 gli arresti e due attiviste rimpatriate perché accusate di un reato d’opinione (l’apertura di uno striscione contro le dighe). A dimostrazione di quanto aperto e democratico fosse il Forum.
Molti italiani dei comitati e della società civile hanno partecipato alle proteste. Ma altrettanto folta è stata la delegazione italiana presente al forum ufficiale. La delegazione governativa, guidata dalla ministra Prestigiacomo aveva tra i suoi obiettivi primari quello di una maggiore co-partecipazione pubblico-privata nella gestione dei servizi idrici “resa obbligatoria dalla crescita dei costi dell’oro blu” si legge nella nota stampa ufficiale. In altre parole continuare a portare avanti le politiche già ampiamente sperimentate nel nostro paese di aziende miste per la gestione dei servizi idrici, in cui i costi economici, politici e sociali delle privatizzazioni ricadono sul pubblico con aumento di tariffe per i cittadini, diminuzione occupazionale, scarsa manutenzione e qualità, e con utili altissimi sempre nelle stesse mani: Suez, Veolia, e le altre sorelle.
Modello che ha portato un bene collettivo a trasformarsi in pacchetti azionari fluttuanti nel mercato borsistico sempre più distante dal controllo dei cittadini e delle comunità. In un paese dove negli ultimi anni i movimenti per l’acqua si sono diffusi e moltiplicati, raccogliendo più di 400.000 firme per una gestione pubblica e partecipata dell’acqua, moltissimi enti locali dalla Lombardia alla Sicilia si sono schierati a favore della ripubblicizzazione dell’acqua.
Esempio in Italia e all’estero della co-partecipazione pubblico-privata nella gestione dell’acqua rimane Acea, ex municipalizzata del Comune di Roma da dieci anni trasformata in una holding con partecipazioni azionarie di Suez e Caltagirone, quotata in borsa, vorace nell’acquisire il controllo dei servizi idrici in Italia e nel mondo, capace di occuparsi di energia, rifiuti, inceneritori e forse domani gas. Ai cittadini di Roma toccano solo rialzi in bolletta, i malfunzionamenti e la scarsa qualità, nel silenzio del Consiglio Comunale e della giunta impegnati più a tutelare gli interesse dei grandi azionisti in borsa.
A Istanbul come a Roma le politiche dell’acqua sono sempre più una cartina tornasole del livello di democrazia e partecipazione dei cittadini e delle comunità locali. Riappropriarsi dell’acqua significa riacquisire spazio pubblico vitale, recuperare dal basso parola di fronte allo svilimento della politica istituzionale e dare corpo e senso alla democrazia.
La terra, la fine di un viaggio. L’inizio di un’altro. Terra desolata e desiderata. Speranza o calvario, a volte morte. E’ importante la ricostruzione umana dei drammi, sono fondamentali i percorsi individuali che si fondono tra loro fino a diventare storia collettiva di un popolo. Storie di emarginazioni e di esclusioni, di vita e di morte, ma anche ponti gettati per il divenire, percorsi di costruzione partecipata.
Il mare in fondo è solo una distesa d’acqua e affonda nei suoi abissi ogni linea di frontiera tracciata dall’uomo. (A.M)
Fonte: The Independent - Friday, 20 March 2009 Peter Popham reports
The flames are going out all over Italy. Tomorrow, the flame which for more than 60 years has been the symbol of neo-Fascist continuity with Mussolini, will disappear from mainstream politics. The National Alliance, the last important home of that inheritance, is “fusing” with Silvio Berlusconi’s People of Freedom party to give the governing bloc a single identity and a single unchallenged leader.
The change has been a long time coming – 15 years and more. Mr Berlusconi broke the great taboo of Italian post-war politics after he won his first general election victory in 1994 and incorporating four members of the National Alliance into his coalition.
Embracing the Fascists and neo-Fascists was taboo for good reason. For one thing, their return after they had led the nation to ruin in the war was banned by the new Constitution, whose Article 139 states, “the re-organisation, under whatever form, of the dissolved Fascist party, is forbidden.”
That veto had been honoured in the breach rather than the observance since 1946, when Giorgio Almirante, the leader of the Italian Social Movement, picked up the baton of Mussolini where he had left it at his death and led the new party into parliament. But the neo-Fascists remained in parliamentary limbo, far from power. Berlusconi blew that inhibition away.
Under the wily leadership of Gianfranco Fini the “post-Fascists” have been gaining ground since. Tall, bespectacled, buttoned up, the opposite of Berlusconi in every way, the Alliance’s leader impressed the Eurocrats with his democratic credentials when he was brought in to lend a hand at drafting the EU’s new Constitution.
He leaned over backwards to break his party’s connection to anti-Semitism, paying repeated official visits to Israel where he was photographed in a skull cap at the Wailing Wall. On one visit, in 2003, he went so far as to condemn Mussolini and the race laws passed in 1938 which barred Jews from school and resulted in thousands being deported to the death camps.
“I’ve certainly changed my ideas about Mussolini,” he said at the time. “And to condemn [the race laws] means to take responsibility for them.” Statesmanlike: the word stuck to him like lint. Party hardliners such as Alessandra Mussolini, the glamorous granddaughter of Il Duce, were furious and split away to form fascist micro-parties of their own. But Mr Fini’s strategy prevailed. Under Mr Berlusconi’s patronage, he became foreign minister then deputy prime minister and now speaker of the lower house, a more prestigious job than its British equivalent. As Berlusconi’s unquestioned number two in the new “fused” party, he is also his heir-apparent.
The puri e duri, the hardcore fascist elements, have been gritting their teeth and screaming defiance. One group wanted to stage a ceremony to mark the extinguishing of the flame at the “Altar of the Nation”, the wedding cake-like symbol of Italy that towers over Piazza Venezia in Rome. The city’s mayor, ironically himself a lifelong “post-Fascist”, banned it.
But the puri e duri will not give up. “The National Alliance dies, the Right lives!” declares a flyer scattered about by one of the hard-right parties, whose symbol sports an oversized flame.
“Today, with the betrayal of our ideas, of our story and our identity,” roars one of their leaders, Teodoro Buontempo, the national president of The Right party, “we have the duty to make clearer than ever that our party was born to assure the continuity of our ideals … [Join us] to scream your indignation against a ruling class of trimmers and nobodies.”
Black Bands, an investigative book into the hard right by Paolo Berizzi published in Italy this week, claims “at least 150,000 young Italians under 30 live within the cults of Fascism and neo-Fascism. And not all but many in the myth of Hitler.” Five tiny registered parties account for 1.8 per cent of the national vote, between 450,000 and 480,000 voters. These are significant numbers, yet even combined they are not nearly enough to reach the 4 per cent threshold to break into parliament.
By this reading, the Fascist element in Italy is no more significant than the BNP in Britain: an embarrassing irritant that can make noise and win insignificant victories, but nothing more.
Despite the claims of the loony right to the contrary, the going out of the Fascist flame does not mean Fascist ideas have disappeared from the Italian political scene. Quite the reverse. Fifteen years after Mr Berlusconi brought the neo-Fascists in from the cold, their impact on politics has never been more striking, never more disturbing.
According to Christopher Duggan, the British author of Force of Destiny, an acclaimed history of modern Italy, the fusion of the two parties does not mark the disappearance of Fascist ideas and practices but rather their triumphant insinuation. “This is an alarming situation in many, many ways,” he says.
“The fusion of the parties signifies the absorption of the ideas of the post-Fascists into Berlusconi’s party … the tendency to see no moral and ultimately no political distinction between those who supported the Fascist regime and those who supported the Resistance. So the fact that Fascism was belligerent, racist and illiberal gets forgotten; there is a quiet chorus of public opinion saying that Fascism was not so bad.”
One example of the way things are changing is the treatment of the veterans of the Republic of Salo, the puppet Fascist state ruled by Mussolini on the shores of Lake Garda in the last phase of the war. Under the thumb of Hitler and responsible for dispatching Jews to the death camps, Salo was seen by Italians after the war as the darkest chapter in the nation’s modern history.
But steadily and quietly it has been rehabilitated in the Italian memory. The latest step, before parliament, is the creation of a new military order, the Cavaliere di Tricolore, which can be awarded to people who fought for at least six months during the war – either with the Partisans against the “Nazi-Fascists”, with the forces of the Republic of Salo on behalf of the Nazis and against the Partisans, or with the forces in the south under General Badoglio.
In this way, says Duggan, the idea of moral interchangeability is smuggled into the national discourse, treating the soldiers fighting for the puppet Nazi statelet “on an equal footing morally and politically with the Partisans”.
Duggan contrasts the post-war process in Italy with that in Germany, where the Nuremberg trials and the purge of public life supervised by the Allies produced a new political landscape. Nothing of the sort happened in Italy.
“There was never a clear public watershed between the experience of Fascism and what happened afterwards. It’s partly the fault of the Allies, who after the war were much more concerned with preventing the Communists from coming to power.
“As a result very senior figures in the army, the police and the judiciary remained unpurged. Take the figure of Gaetano Azzariti, one of the first presidents, post-war, of Italy’s Constitutional Court, yet under Mussolini he had been the president of the court which had the job of enforcing the the race laws. The failure of the Allies to put pressure on Italy also reflects a perception that still exists: that the Fascist revival is not to be taken seriously because Italy is ‘lightweight’. Whereas if the same thing happened in Germany or Austria, you’d get really worried.”
The widespread defiance of the anti-Fascist Constitution can be seen in the profusion of parties deriving inspiration from Mussolini; in the thousands who pour into Predapio, Mussolini’s birthplace, to celebrate his march on Rome on 20 October every year; in shops and on market stalls doing a lively trade in busts of Il Duce and other Fascist mementoes of every sort.
Far more alarming, Duggan says, is what is happening out of the spotlight to the national temper, where the steady erosion and discrediting of state institutions is playing into the hands of a dictatorial elite, just as it did in the 1920s.
“What is so disturbing is not just the systematic rehabilitation of Fascism but the erosion of every aspect of the state, for example justice, with the result that people have the urge to throw themselves into the arms of the one man who they believe can sort things out.
“You create very personalised relations with the leader, so that in Mussolini’s case, he received 2,000 letters a day from people pleading with him to help. If the state doesn’t work, you trust in one man to pick up the phone and sort things out. This is how liberalism disappeared in the 1920s, with the steady discrediting of parliament so that in the end there was no need for Mussolini to abolish it, he merely ignored it. Something very similar is happening in Italy today.”
La notizia che il presidente venezuelano Hugo Chávez avrebbe offerto l’isola di La Orchila come base d’appoggio a bombardieri russi è rimbalzata nei giorni scorsi sulla cronaca internazionale di tutti i nostri maggiori quotidiani accompagnata da titoli inquietanti.
Per un momento il pensiero è riandato alla Crisi dei Missili del1962, quando in seguito all’invasione della Baia dei Porci, Fidel Castro chiese e ottenne dall’ Unione Sovietica l’installazione di missili nucleari a Cuba. Il 22 ottobre di quell’anno, Kennedy informò gli Stati Uniti e il mondo intero della presenza dei missili sovietici sull’isola, allora tutti pensarono per un momento che si stesse arrivando a un terzo conflitto mondiale. Kennedy definì l’installazione dei missili ”un cambiamento nello status quo, deliberatamente provocatorio e ingiustificato” (facendo finta di dimenticare la Baia dei Porci di qualche mese prima).
Bombardieri russi a Cuba e in Venezuela — Riprendono i voli a lungo raggio come nella “Guerra fredda”, Mosca sfida Obama.
Questo il titolo di la Repubblica del 15 marzo 2009, con tanto di cartina e distanze chilometriche tra Caracas e Miami e la scheda tecnica dei bombardieri TU-160, gli aerei con testate atomiche che “hanno autonomia per poter raggiungere le coste Usa”.
Assolutamente non pensiamo che Omero Ciai sia così sprovveduto da ignorare che la situazione attuale è completamente diversa da quella della Crisi dei Missili di Cuba. Stati Uniti e Russia fondamentalmente collaborano sullo scacchiere mondiale, la Russia addirittura ha consentito la condivisione con l’aviazione statunitense delle sue basi in Kazakistan e Uzbekistan per la guerra contro l’Afghanistan.
Evidentemente la Repubblica confida sull’ignoranza dei suoi lettori e approfitta di un’ottima occasione per demonizzare quel “Venezuela chavista” il cui cammino “vuole assomigliare sempre di più a quello cubano degli anni Sessanta”. Addirittura a Palazzo Miraflores, secondo Omero Ciai ci sarebbe “tanta nostalgia del mondo com’era prima dell’Ottantanove”. Un po’ grossa questa. Prima e durante l’Ottantanove il Venezuela era affamato da governi neoliberali che saccheggiavano le immense risorse del paese seguendo fedelmente le direttive del FMI e fu proprio un giorno di febbraio dell’Ottantanove, precisamente il 27, che una grande protesta popolare contro il governo di Carlos Andrés Pérez fu repressa con il sangue, provocando migliaia di morti. No, non credo proprio che il Venezuela chavista abbia tanta nostalgia di quegli anni…
Tutto torna utile, anche far credere, (scambiando maldestramente il piano propriamente economico con quello politico), come fa Omero Ciai a conclusione del suo articolo, che l’annuncio della disponibilità dell’isola de La Orchila ai bombardieri russi sia stato fatto coincidere con la visita del presidente brasiliano Lula alla Casa Bianca perchè “nell’agenda di Lula c’è il desiderio di convincere gli Usa a comprare più petrolio della sua Petrobras piuttosto che dalla Pdvsa venezuelana”. Ovvio. Com’è ovvio che i differenti accordi economici che gli stati possono stipulare tra loro non ha nulla a che vedere con le alleanze politiche fra gli stessi. E’ noto che politicamente i governi latinoamericani, salvo alcune eccezioni come per esempio la Colombia e il Perú hanno raggiunto in questi ultimi anni un’integrazione politica che nulla a che vedere con gli accordi commerciali che essi stabiliscono autonomamente con altri paesi.
Ma oltre a quello che si dice o si scrive è sicuramente importante anche quello che si dovrebbe dire e scrivere e invece si omette. Perchè per esempio Omero Ciai evita di ricordare (e nel contesto dell’articolo sarebbe stato opportuno) che già da quasi un anno gli Stati Uniti hanno riattivato la loro IV flotta nelle acque dei Caraibi e dell’America del Sud? Un ritorno in grande stile dopo circa 60 anni di inattività, cioè dal 1950, quando fu disattivata dopo il secondo conflitto mondiale. Un ritorno che è seguito di poco all’attacco colombiano, coadiuvato dall’aviazione statunitense, al campo delle FARC a Sucumbíos, in Ecuador e alla crisi regionale gravissima che scaturì da quell’episodio.
Un ritorno coinciso tra l’altro anche con la decisione dell’Ecuador di non rinnovare la concessione per la base aerea di Manta, che è stato l’avamposto nella regione per l’attuazione del Plan Colombia.
Quindi una presenza di una base russa che sia in Venezuela o a Cuba, come fa intendere Omero Ciai non sarebbe già come nel 1962 “un cambiamento nello status quo, deliberatamente provocatorio e ingiustificato” come disse Kennedy allora a proposito dello schieramento dei missili sovietici sull’isola, ma piuttosto un tentativo più che legittimo di riequilibrare la presenza militare straniera nella regione.
Tanto è vero che nel mondo la notizia è passata inosservata, perfino negli Stati Uniti. Solo Omero Ciai e la Repubblica ne hanno tratto le loro del tutto personalissime conclusioni.
Tensione a Roma. Dopo la prima carica della polizia avvenuta nel piazzale Aldo Moro antistante l’ingresso dell’Università, anche all’uscita su via Cesare De Lollis della Sapienza si sono verificati nuovi scontri tra forze dell’ordine e studenti. La situazione è tesa.
“Quanto si sta verificando in queste ore all’universita’ La Sapienza e’ a dir poco inaudito. Le cariche delle forze dell’ordine, che vogliono impedire agli studenti di muovere in corteo pacifico verso la manifestazione indetta dalla Flc-Cgil contro i tagli all’istruzione operati dal Governo, e’ il primo atto di un provvedimento assurdo che limita il diritto allo sciopero e riduce gli spazi di partecipazione democratica”. E’ quanto afferma la consigliera regionale della Sinistra, Anna Pizzo, in merito agli scontri di stamane in piazzale Aldo Moro.
E’ possibile dare significato al passato, attualizzare la storia e trasformarla in una esperienza ancora “aperta”?
E’ da questa domanda che ha preso avvio il progetto di realizzare un Museo delle intolleranze e degli stermini, con lo scopo di conservare la memoria delle intolleranze e dei genocidi del passato. Crimini che non rappresentano residui lontani, ma pericoli costanti: persistono infatti nel presente fattori di violenza, conflitti etnici, terrorismi, violazioni e negazioni dei diritti umani che provocano insicurezza e impongono una lettura critica del Novecento.
Si tratta di un bilancio drammatico che mostra come la pratica dell’intolleranza possa risultare, in qualche modo, “normale” e mostra ancora come valori quali il rispetto per l’altro e l’accettazione della diversità non siano scontati ma, piuttosto, il frutto di un lungo processo culturale e di una conquista educativa che non è mai irreversibile.
E’ un bilancio che smentisce altresì qualsivoglia illusione sull’automatico superamento della “barbarie” ad opera della modernità e del “progresso”: al contrario, la storia degli ultimi secoli sta a dimostrare come la tendenza alla distruzione ed allo sterminio si coniughi drammaticamente con la modernità.
Questo museo mira dunque ad una presa di coscienza della “banalità del male”, ovvero dell’estrema facilità con la quale ci si può lasciare travolgere da ondate di intolleranza e di sopraffazione: ciascuno di noi, quindi, potrebbe essere candidato ad un ruolo di soggetto attivo.
Ecco allora il significato possibile di un museo di storia: un luogo virtuale che, attraverso documenti, testimonianze, percorsi tematici, cerca di rivisitare un passato rimosso e propone il confronto con memorie molteplici e diverse.
Un museo il cui intento è di individuare le radici culturali, le situazioni e i meccanismi sociali che hanno attivato e favorito razzismi e intolleranze.
La dimensione virtuale ha un duplice significato: è una struttura “aperta”, che suggerisce ulteriori domande e approfondimenti, ed ha una funzione dinamica, capace di sollecitare nuove indagini su temi e scenari diversi.
L’epoca attuale sembra aver perso il legame col passato, mentre la dimensione prevalentemente visiva della sua cultura pare mettere in crisi i modelli tradizionali di trasmissione del sapere. La sfida di questo museo è di usare la tecnologia per facilitare la ricerca, per costruire uno spazio utile per vedere, per leggere, per comprendere. E’ uno strumento di trasmissione storica, un percorso di lettura problematica del passato che ripercorre temi e rilevanze del secolo scorso. Lo scenario che ne deriva non riguarda nessun paese in particolare, ma assume la trasversalità e la dimensione internazionale come carattere proprio e come modalità del racconto.
Le sette ricerche che costituiscono la sezione “Percorsi storici” sono state scelte per privilegiare i “luoghi dell’oblio”, argomenti poco indagati e talora rimossi. E’un criterio di selezione che può spiegare l’assenza, in questa prima fase, di un tema come la Shoah, “evento” centrale del Novecento, mentre sono presenti la persecuzione dei Rom e degli omosessuali.
I temi di ricerca sono attraversati anche da una proposta di lettura problematica suggerita da cinque “parole chiave”.
Agli approfondimenti presenti nella sezione ‘Percorsi storici’ (schede, fatti, cronologie, documenti, bibliografie, sitografie), questo ulteriore segmento museale suggerisce stimoli di riflessione intorno a parole “innocenti”: normalità, sicurezza, identità, civiltà, modernità . Esse vengono comunemente considerate portatrici di valori positivi ma in troppe esperienze storiche hanno prodotto esiti inquietanti e nefasti.
I percorsi “Intolleranze quotidiane”, infine, riportano l’indagine sugli scenari contemporanei, sui modi di produzione ‘spontanei’ di stereotipi, pregiudizi, discriminazioni che spesso, nell’indifferenza generale, partoriscono fenomeni di esclusione e persecuzione fino alle forme più devastanti di violenza.
E’ una chiave di lettura del mondo attuale tesa ad evidenziare come sopraffazioni e razzismi siano ancora minacce incombenti.
Si tratta di un’ipotesi di lavoro che riconduce al senso generale di tutta l’iniziativa: attivare la conoscenza storica di un passato che va conservato e trasmesso per poter interagire con il presente. In questa direzione il Museo virtuale delle intolleranze e degli stermini intende fornire strumenti, proposte di studio e di riflessione.
A Radio Onda Rossa presentazione del libro e intervista in diretta a Eric Salerno mercoledì 18 marzo alle ore 11.
Conti chiusi, conti in sospeso (Introduzione alla nuova edizione)
Italiani brava gente? Oltre un quarto di secolo è trascorso da quando fu pubblicato Genocidio in Libia, una ricerca su alcuni aspetti del colonialismo italiano in Libia. Gli storici di professione, in questi anni, hanno scoperto e divulgato altri particolari (dove modificavano la sostanza degli eventi, sono stati integrati in questa nuova edizione) e una parte della nostra società è stata capace di riconoscere le colpe di quell’Italia, tra Giolitti e Mussolini, anche in Etiopia, Eritrea e Somalia. Ma il mito dell’Italiano Buono, portatore di Civiltà, non è del tutto scomparso. Anzi. Assomiglia, quando viene evocato, alle giustificazioni del presidente americano, George W. Bush, quando giustifica l’invasione dell’Iraq con la necessità di portare la democrazia occidentale tra chi non l’ha mai sperimentata. Assomiglia alle parole dei crociati moderni contro l’Islam, a chi insiste per sottolineare gli aspetti positivi, illuministici del Cristianesimo nella storia dell’Europa dimenticando, e cito soltanto due tragici imperdonabili prodotti della società cristiana, l’Inquisizione e l’Olocausto. Il primo, è vero, appartiene a un lontano passato, il secondo è un pezzo del nostro presente, e pesa su ogni momento della nostra vita. Sei milioni di ebrei, ma anche altri sei milioni tra rom, omosessuali, contestatori che non devono essere dimenticati. Per impedire altri massacri, è necessario capire quelli del passato, riconoscere le colpe di chi ne ha la responsabilità, analizzare come e perché l’uomo si è lasciato andare in quel modo. Nel primo capitolo di Genocidio in Libia spiegai che a stimolare la mia curiosità, a provocare la ricerca fatta sul terreno tra i superstiti libici dell’avventura coloniale e negli archivi storici del nostro paese, furono le parole con cui Muammar el Gheddafi parlava di atrocità commesse dagli italiani nel periodo che va dal 1911 al 1931. Nei libri usciti fino alla metà degli anni settanta, c’era ben poco che potesse giustificare la portata delle sue accuse. Trovai, quasi per caso, direi per un errore, una distrazione da parte degli archivisti del periodo coloniale, le prime indicazioni e prove dell’uso di gas, l’iprite, contro la popolazione civile libica. Trovai la descrizione dei bombardamenti, degli effetti devastanti dei gas sull’uomo, di come fuggiva la gente del Gebel, la montagna, quando sentiva l’avvicinarsi di un aereo. Trovai particolari, fino ad allora inediti, dei campi di concentramento, e anche dei massacri avvenuti nei primi anni dell’invasione italiana. Non molto, invece, riguardo la deportazione di libici dalla loro terra e il loro esilio in alcune isole italiane. Gheddafi ha sfruttato, e continua a sfruttare, le vicende di quel periodo per rafforzare l’unità del suo paese, talvolta per ricattare l’Italia, la Germania, l’Occidente e il suo colonialismo, ma questo nulla toglie alle nostre responsabilità. Israele è sovente accusato di sfruttare la memoria dell’Olocausto per rivendicare diritti, per sollecitare una politica favorevole non solo allo Stato ebraico ma ai suoi governi, buoni o cattivi che siano, ma sarebbe un errore per questo cercare di sminuire le responsabilità della Germania, della Francia di Vichy, dell’Italia fascista, e anche dell’indifferenza dell’America di Roosevelt, nella Shoah. Non intendo fare, qui, paragoni, mettere sofferenze a confronto. Ogni popolo che soffre ritiene che il proprio dolore sia più importante di altri dolori. Centomila libici morti, di fronte alle cifre dell’Olocausto degli ebrei, del sistematico tentativo di eliminare un popolo intero, possono essere considerati «poca cosa», ma se paragoniamo quella cifra alle dimensioni della popolazione libica di allora diventa più facile, per noi, renderci conto del peso che quei morti ebbero sulla società nordafricana. Gli effetti della storia non possono essere determinati esclusivamente da un ragionamento scientifico basato sugli eventi, devono tenere conto della percezione della storia stessa da parte dei suoi protagonisti. Un gruppo di persone di varia estrazione, guidati dall’architetto Luca Zevi, figlio del famoso storico dell’architettura Bruno Zevi, ebreo scappato in America da dove ha lottato contro il fascismo e contro ogni forma di repressione di massa e di Tullia Zevi, per anni presidente delle Comunità ebraiche italiane, ha dato il via a un’iniziativa importante che riguarda anche la Libia. Sull’internet è apparso nel 2004, grazie a una collaborazione con la Provincia e il Comune di Roma, il progetto per la creazione di un Museo virtuale delle intolleranze e degli stermini. Il suo contenuto, di facile accesso per chi dispone di un computer e di un collegamento al web, è riportato anche in un cd, un dischetto prodotto in migliaia di copie per essere distribuito negli istituti scolastici. Le sette ricerche che costituiscono la sezione «Percorsi storici» di questo Museo sono state scelte, come risulta dall’introduzione al sito, per privilegiare i «luoghi dell’oblio», storie poco indagate e talora rimosse. «È un criterio di selezione – leggiamo – che può spiegare l’assenza, in questa prima fase del Museo, di un tema come la Shoah, mentre sono presenti la persecuzione dei Rom e degli omosessuali e il genocidio degli armeni». I percorsi storici, oltre a quelli appena citati, riguardano il colonialismo italiano, la Germania comunista, l’eugenetica, e gli spostamenti forzati di popolazione. «Sin dall’epoca post-unitaria – è scritto nell’introduzione a quella parte del sito dedicata al colonialismo e dove sono riportati anche brani tratti dal numerosi libri di Angelo Del Boca e da Genocidio in Libia – l’Italia ha cercato e costruito in Africa una parte non irrilevante della propria identità nazionale, eppure con la perdita delle colonie, a seguito delle vicende legate al secondo conflitto mondiale, la sua storia d’oltremare, le elaborazioni ideologiche che l’hanno sostenuta e le prassi politiche e sociali su cui si è basata, hanno subito nel paese un processo di rimozione che ha interessato, prima ancora del campo storiografico, soprattutto quello politico e sociale». E ancora: «Il rapporto con l’alterità africana, fatto di esclusione e di discriminazione sopraffattoria, l’aggressività, la violenza, lo sfruttamento e le stragi che hanno segnato l’esperienza coloniale italiana costituiscono pagine non ancora integrate nella storia nazionale del paese; rimosse, o apertamente negate, in nome di un mito ancora fortemente radicato nell’immaginario collettivo, che rivendica l’atipicità della vicenda coloniale italiana come quella di un ‘colonialismo dal volto umano’. Alla manipolazione dell’opinione pubblica – cito ancora dall’introduzione – da parte dei governi liberale e fascista si è sovrapposto, alla conclusione della vicenda coloniale, il diaframma di silenzio nei riguardi di una parte non secondaria della storia nazionale che si voleva chiusa col fascismo, e che spesso si è tradotta in aperta ostilità nei riguardi dei pochi che quella storia intendevano rileggere. La perdita delle colonie a seguito delle vicende legate alla seconda guerra mondiale, e non attraverso i traumi della decolonizzazione e delle lotte di liberazione africane, ha permesso nell’Italia repubblicana di identificare la vicenda coloniale con quella fascista, attribuendo al regime la paternità di
crimini e sopraffazioni e facendo salva l’idea di un’Italia coloniale sostanzialmente mite e bonaria, in cui la mitologia fa ancora aggio sulla storia».
Un capitolo fondamentale del comunicato congiunto Italia-Libia sottoscritto nel 1999 comincia con le seguenti parole: «Il Governo italiano esprime il proprio rammarico per le sofferenze arrecate al popolo libico a seguito della colonizzazione italiana e si adopererà per rimuoverne per quanto possibile gli effetti, per superare e dimenticare il passato, avviare una nuova era di amichevoli e costruttive relazioni tra i due popoli». Un passo diplomatico importante, da parte dell’Italia ma, in apparente contraddizione con la sostanza riparatrice di questo impegno di Roma, nel 2004, il vice premier italiano Gianfranco Fini, poco prima di assumere anche l’incarico di ministro degli esteri ha pronunciato un discorso agli esuli italiani dalla Libia, i rappresentanti dei ventimila connazionali cacciati nel 1970. Le sue parole, tra l’altro: «Non c’è ombra di dubbio che il colonialismo ha rappresentato, nel secolo scorso, uno dei momenti più difficili nel rapporto tra i popoli e nel rapporto tra l’Europa e, in questo caso, il Nord-Africa ma, e ovviamente parlo a titolo personale, quando si parla di colonialismo italiano, credo che occorra parlarne ben consapevoli del fatto che sono altri in Europa che si devono vergognare di certe pagine brutte perché anche noi abbiamo le nostre responsabilità ma, almeno in Libia, gli italiani hanno portato, insieme alle strade e al lavoro, anche quei valori, quella civiltà, quel diritto che rappresenta un faro per l’intera cultura, non soltanto per la cultura Occidentale». È una frase che ho trovato sconcertante. E non sono stato l’unico, tra gli italiani, a sobbalzare di fronte all’affermazione del nostro ministro degli esteri. Lo storico Del Boca ha sottolineato immediatamente, in un’intervista a un quotidiano italiano, come il vice premier abbia voluto scordare i centomila e passa libici morti per difendere la loro patria, i tredici campi di concentramento in Cirenaica e nella Sirtica, la deportazione dei libici verso l’Italia, l’uso dei gas contro la popolazione civile. È mai possibile che ci sia ancora oggi un uomo di governo italiano che trova accettabile dal punto di vista storico, e non soltanto morale, portare avanti il mito dell’italiano colonialista buono?
Per anni, la Libia rivendicava e si aspettava un’esplicita ammissione della colpa coloniale italiana. La giudicava forse ancora più importante del risarcimento dei danni materiali. La prima vera, inequivocabile, condanna del colonialismo italiano in questo paese risale alla visita dell’allora presidente del Consiglio, Massimo D’Alema nel dicembre 1999. «Qui — disse rendendo omaggio ai martiri di Sciara Sciat e di Henni — qui gli eroi nazionali sono stati giustiziati dagli italiani». Nella sua seconda giornata di visita ufficiale, D’Alema consegnò ai libici la Venere di Leptis Magna. L’opera risale al II secolo dopo Cristo, e fu regalata nel 1939 dal governatore di Libia, Italo Balbo, al maresciallo tedesco Göring. Dopo la scopertura della statua, D’Alema commentò: «Splendida. Il fatto che l’Italia abbia voluto recuperare questa statua a Berlino, restaurarla e restituirla è il senso di volere riparare una ferita. Anche noi abbiamo subito il trafugamento di molte opere d’arte nel corso della storia». D’Alema, e prima di lui altri uomini di governo italiani, parlarono di gesti concreti per risarcire la Libia ma ben poco fu fatto. Giulio Andreotti promise molto senza che i progetti concordati fossero formalmente realizzati tanto che l’uomo di governo, molto amato nel mondo arabo per la sua politica mediterranea e mediorientale, perse una certa credibilità a Tripoli e Gheddafi, incontrandomi, nel dicembre 1984 per un’intervista a Il Messaggero, si lamentò della modestia dell’offerta di un ospedale da parte dell’allora ministro degli esteri italiano. Insisteva per estendere il progetto e mise l’accento anche sulla questione dello sminamento dei campi di battaglia. «Ho già detto che siamo disposti a dialogare. Ma dobbiamo trovare una soluzione soddisfacente. Altrimenti si andrebbe contro la volontà dei libici che rivendicano giustizia». E ancora: «Vogliamo sapere dall’Italia quale è stata la sorte dei nostri connazionali deportati nel periodo coloniale. Vogliamo sapere che fine hanno fatto loro, le loro mogli e i loro figli». Lamberto Dini, ministro degli esteri, il 4 luglio del 1999 ebbe a riconoscere con parole chiare le nostre responsabilità nel firmare, a Roma, il famoso comunicato congiunto con il rappresentante libico. Il documento contiene una serie di promesse e raccomandazioni. Ma non è stata sminata la Cirenaica, come Roma aveva promesso di fare, un ospedale, quello per intenderci di Andreotti, è stato costruito a Bengasi ma risulta finanziato ed edificato dalle Nazioni Unite. A livello popolare sta crescendo, e questo è certamente un fattore fondamentale, la consapevolezza di quanto accadde in Libia, e, naturalmente, anche nelle altre nostre colonie. Gli storici, anche all’interno degli accordi bilaterali, studiano il passato portando alla luce le dimensioni reali delle azioni, spiegando i tempi, rispondendo in alcuni casi ai numerosi quesiti ancora senza risposta. Ci sono stati già due convegni sui libici deportati e si è cercato di trovare le tracce di quanti scomparvero dopo essere stati trasportati e internati nelle isole italiane come Ustica, Ponza, Favignana, le Tremiti. Cresce anche la volontà di presentare i fatti, di raccontare. L’anno scorso è uscito un romanzo sulla cacciata degli italiani di Libia, Gibli, in cui l’autore senza giustificare la loro espulsione spiega le sofferenze dei libici per mano dell’esercito coloniale italiano. Sull’internet, numerosi siti raccontano quanto è stato fatto, o non fatto, per raccontare, capire il passato, per riconoscere le colpe dell’Italia coloniale. Nel dicembre 2004, Il Manifesto ha pubblicato un lungo articolo sul «muro libico eretto dai fascisti», in cui il ricercatore Matteo Dominioni, impegnato a livello accademico contro il mito dell’«italiano buono», ha raccontato la vita nei campi di concentramento nella Sirte e la costruzione del famoso reticolato edificato dai fascisti in Cirenaica, al confine con l’Egitto, per bloccare la resistenza libica. Le azioni repressive dell’apparato coloniale, la cosiddetta «pacificazione» della Libia, sono fatti incontrovertibili, e serve a poco, anzi è controproducente, cercare di sminuire la loro importanza, il peso che ebbero sulla vita quotidiana dei libici, sulle varie comunità. La visita del presidente del Consiglio italiano Berlusconi nell’ottobre 2004, la decisione della Libia di trasformare la «giornata della vendetta» in una «giornata di amicizia» tra i nostri due popoli, la visita di una delegazione di italiani della Libia che per la prima volta sono riusciti a rivedere i luoghi dove sono cresciuti, dove hanno lavorato, sono tutti elementi importantissimi. La cacciata degli italiani fa parte del passato e si è aperto un capitolo nuovo nella storia millenaria che lega i nostri popoli ma, come ha detto recentemente Valentino Parlato, nato e cresciuto a Tripoli ed espulso dall’amministrazione britannica, non perché italiano ma perché comunista: «Questo atto di riconciliazione guarda al futuro dei rapporti tra Italia e Libia, non è, né può essere, un colpo di spugna su tutte le nefandezze compiute dagli italiani in Libia». Nel
dicembre 2004, in una lunga intervista a Rai educational, Gheddafi ha risposto, indirettamente, alla frase di Gianfranco Fini, citata all’inizio. «Per lei il Fini, ministro degli esteri, è un problema o una opportunità?», la domanda del giornalista. E Gheddafi: «Veramente io non lo conosco, però le informazioni che ho su di lui dicono che era un fascista. Ora è diventato antifascista, e questa è una cosa giusta. So che ha anche chiesto scusa agli ebrei, per quello che è stato fatto dai fascisti italiani agli ebrei. Se facesse la stessa cosa anche verso i libici, chiedendo scusa ai libici, in questo caso potrebbe essere elogiato». Quel giorno dell’ottobre 2004, e nella stessa occasione, mentre Gianfranco Fini pronunciava la sua difesa antistorica del colonialismo italiano in Libia, il rappresentante del governo libico si rivolgeva ai cittadini italiani legati alla Libia per dire una cosa che dovrebbe avere un riflesso concreto anche sul futuro. «Il fratello leader ritiene che quanto patito dal popolo libico, in termini di uccisioni, deportazioni, torture e usurpazioni di propri beni e terre non sia stato per Vostra colpa. Si trattò di responsabilità dei governi coloniali e delle politiche espansionistiche che avevano coinvolto i popoli in questi problemi e le tragedie che seminarono le ostilità fra essi». E aggiungeva: «Il fratello leader ritiene che anche il tema dell’indennizzo per tutte le perdite subite dal popolo libico durante la colonizzazione e l’occupazione sia una questione che deve essere trattata dai due Stati, come previsto dalla dichiarazione congiunta libico-italiana». Nel museo archeologico di Leptis Magna, c’è una sala dedicata al Jihad, la resistenza contro l’invasione italiana. Poche bacheche, pochi trofei, un paio di vecchi fucili, alcune pistole trovate sulla collina di Marghib, 64 chilometri a ovest di Homs, un olio naîf sul quale sono ricordate due sconfitte dei soldati italiani. Non sono molte le tracce delle guerre coloniali a Tripoli e dintorni ma è sufficiente far visita al palazzo che ospita il Centro di studi libici per immergersi in quel periodo storico. L’Istituto si occupa di tutto il passato della Libia, e c’è una sezione in cui ricercatori di varia nazionalità, sotto la guida del direttore Mohammed Jerari, hanno contribuito a ricostruire il Jihad, la resistenza all’occupazione, e le sofferenze dei libici dallo sbarco dei primi soldati italiani nel 1911 alla loro partenza. Negli ultimi vent’anni c’è stata una stretta collaborazione tra studiosi libici e italiani per ricostruire quel passato comune. L’Isiao (Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente, che ha conglobato l’Istituto Italo-africano e l’Ismeo) e il Centro di studi libici hanno organizzato insieme convegni per fare luce sulla questione dei deportati libici mandati in esilio nelle isole italiane e in gran parte mai tornati a casa. Un passo avanti notevole tenendo presente che, nel 1979, l’Istituto Italo-Africano, decise «per motivi di opportunità politica vista la delicatezza dell’argomento», mi fu detto, di non presentare Genocidio in Libia presso la sua sede di Roma. E in una bibliografia pubblicata dall’Isiao sulle vicende tragiche del colonialismo italiano in Libia viste con gli occhi della nuova storiografia ho trovato soltanto tre dei libri di Del Boca, un volume in inglese del Centro di studi libici e un altro di Lino Del Fra sul massacro di Sciara Sciat. Resta molto da fare. Il film sull’eroe nazionale libico, Omar el Muktar, impiccato dopo un processo farsa, Il Leone del deserto, diretto nel 1979 da Mustafa Akkad e con un cast eccezionale, Anthony Quinn, Oliver Reed, Rod Steiger, Irene Papas, Gastone Moschin, Raf Vallone, John Gielgud, bandito dalle sale cinematografiche nostrane per «oltraggio alle forze armate» o perché «potrebbe creare problemi di ordine pubblico», è ancora sulla lista nera. Lo storico Denis Mack Smith, scrisse per Cinema nuovo, questo giudizio: «Mai prima di questo film, gli orrori ma anche la nobiltà della guerriglia sono stati espressi in modo così memorabile, in scene di battaglia così impressionanti; mai l’ingiustizia del colonialismo è stata denunciata con tanto vigore… Chi giudica questo film col criterio dell’attendibilità storica non può non ammirare l’ampiezza della ricerca che ha sovrinteso alla ricostruzione». Un giudizio importante che da solo dovrebbe indurre l’Italia a distribuire il film nelle sale cinematografiche. Rivisto di recente, non ha perso nulla della sua vitalità e le grandi scene di battaglia sono ancora valide dal punto di vista cinematografico. Utile, comunque, resta la raccomandazione dello storico Giorgio Rochat, uno fra i tanti che auspicano la diffusione del film, a intendere la verità del prodotto cinematografico in senso storico-politico e non strettamente filologico, rilevando, ad esempio, come le scene di battaglia contengano alcune inesattezze quali l’imboscata attuata dai libici con le mine, di cui in realtà essi non disponevano. La penna censoria fascista e l’auto-censura repubblicana sono state superate, in gran parte, ma non deve essere sufficiente se la maggioranza degli italiani, i giovani soprattutto, non conoscono quella parte della nostra storia. Eppure anche tra gli esuli dalla Libia, gli italiani, e gli ebrei che se ne andarono nel 1948 per raggiungere la Palestina e costruire Israele o quelli cacciati nel 1967 dal re libico e venuti a vivere in Italia o andati anche loro in Israele, ci sono molti che non trovano difficile ammettere il carattere tipicamente coloniale del rapporto tra gli italiani di Tripoli o Bengasi e la popolazione locale. Italiani brava gente, ma non tanto. Gli italiani, potranno tornare a visitare il paese dove sono nati e cresciuti, e Gheddafi ha invitato anche gli ebrei, con radici nella terra libica che risalgono a quasi duemila anni fa, a tornare nella Giamahiria. Tra le sue recenti aperture, c’è anche l’offerta di risarcirli per quanto hanno perso andando via se, ha detto riferendosi a quelli che si sono trasferiti in Israele, non hanno portato via terre e case ai palestinesi. È un capitolo a parte, quello degli ebrei di Libia, alcuni molto vicini alle vicende del colonialismo, che andrà approfondito sia perché rientra nella storia poco conosciuta e nell’eventuale soluzione del conflitto mediorientale, sia perché può aggiungere molto alla comprensione del rapporto tra l’Italia fascista e coloniale e le popolazioni del paese nordafricano. A questa nuova edizione di Genocidio in Libia, ho aggiunto un capitolo-reportage sulle tormentate vicende più recenti della Giamahiria anche per aiutare il lettore a capire l’evoluzione dei rapporti tra i nostri due paesi. È stata ampliata la bibliografia per includere le opere nuove e sono stati aggiunti i risultati delle ricerche sugli esiliati in Italia.
Nell’armadietto c’erano anche volantini inneggianti al nazi-fascismo.
Nell’armadietto dell’aula dove si riuniscono i giovani di destra della facoltà di Scienze Politiche di Roma 3 sono state trovate spranghe e catene. La scoperta è stata fatta questa mattina da studenti e personale dell’istituto. Nell’armadietto c’erano anche volantini inneggianti alle associazioni ‘Foro753’, ‘Azione Universitaria’, ‘Il Manifesto di Verona’.
Gli studenti dei Collettivi hanno esposto all’ingresso dell’aula A un pannello contenente il materiale trovato nella stanza dei giovani di destra dove c’erano scritte come ‘Onore a Jorge Haider’, ‘Comandante Cecchini: presente’, ‘Paolo vive’, una copia dell’edizione straordinaria del Messaggero intitolata ‘L’Italia è in guerrà, nonchè una grande vignetta sulla presenza degli zingari in Italia con frasi come “io da grande ruberò in metropolitana” oppure “non sono maggiorenne ma ho già 14 figli”, riferite ai bimbi rom.
“Questa delle spranghe è una novità dell’ultimo minuto. Cercheremo di fare piena luce in tempi rapidissimi su questo episodio”. Lo ha detto il Preside della facoltà di Scienze politiche dell’Università di Roma 3, Francesco Guida, a margine di una conferenza stampa organizzata dai collettivi di sinistra dopo gli scontri fra opposte fazioni che hanno avuto luogo ieri davanti all’ateneo.
Rispondendo ad una domanda su come fosse possibile che all’interno di una facoltà potessero esserci, proprio in un’auletta sita nell’atrio principale, spranghe e catene, Guida ha risposto che “basta vedere come è strutturato questo palazzo”. Riferendosi poi all’aggressione di ieri il Preside ha detto che “la facoltà ha deciso di seguire con estrema attenzione quanto accaduto.
Condanniamo gravemente questi fatti e vogliamo risalire alle responsabilità attraverso l’inchiesta che è in corso. E sulla base di questo assumeremo poi i provvedimenti necessari che non sono solo di facoltà ma di ateneo”. (17 marzo 2009)
C'è chi usa la penna come un fucile al servizio di giustizia e verità e chi invece, come strumento di potere. E menzogna e falsità sono strumenti di potere. (AM)
“Colombia Invisible” largometraje de Unai Aranzadi. El nuevo teaser.
Lo que hizo Trujillo en el Rio Masacre fu un GENOCIDIO si asumimos la definición de genocidio dada por la el estatuto de Roma de la Corte Penal Internacional en su artículo n. 6:
A los efectos del presente Estatuto, se entenderá por “genocidio” cualquiera de los actos mencionados a continuación, perpetrados con la intención de destruir total o parcialmente a un grupo nacional, étnico, racial o religioso como tal:
a) Matanza de miembros del grupo;
b) Lesión grave a la integridad física o mental de los miembros del grupo;
c) Sometimiento intencional del grupo a condiciones de existencia que hayan de acarrear su destrucción física, total o parcial;
d) Medidas destinadas a impedir nacimientos en el seno del grupo;
e) Traslado por la fuerza de niños del grupo a otro grupo.
Reflexionando… cooperación internacional
Creo que la cooperación internacional tenga que dejar definitivamente ese rol compasivo y caritativo que caracteriza sus acciones, que además de permitirle recaudar mucho dinero (sobre el cual hasta cierto punto hay control) y una estructuración demasiado burocrática y clientelar de su aparato, funciona solo como paliativo de las situaciones de subdesarrollo. Si la cooperación no asume la tarea de impulsar cambios ESTRUCTURALES y definitivos en las realidades en las que trabaja nunca, nunca lograremos reducir pobreza y miseria, ya que estas confirmarán, definitivamente ser funcionales al mismo sistema neoliberista.
«Nadie es una isla completo en si mismo; cada hombre es un pedazo del continente, una parte de la Tierra. Si el mar se lleva una porción de tierra, toda Europa queda disminuida, como si fuera un promontorio, o la casa de uno de tus amigos, o la tuya propia; por eso la muerte de cualquier hombre me disminuye, porque estoy ligado a la humanidad; y por consiguiente, nunca preguntes por quién doblan las campanas porque están doblando por ti».
HONDURAS
23/9 E' stato ucciso l'avvocato Antonio Trejo difensore dei contadini che stanno portando avanti le lotte per la recuperazione delle terre appartenenti ai movimenti MOCSAM, MARCA y el MUCA; aveva presentato inoltre un ricorso di incostituzionalità delle Citta Modello
COLOMBIA/URIBE
El expresidente de Colombia, Álvaro Uribe, concedió docenas de licencias para disponer de pistas de aterrizaje al capo del narcotráfico Pablo Escobar, aseguró la periodista Virginia Vallejo, quien fuera amante del jefe del Cartel de Medellín.
"Por Pablo (Escobar) pude saber que (Álvaro) Uribe le concedió docenas de licencias para disponer de pistas de aterrizaje. Me decía que sin la ayuda de 'ese muchachito bendito' estaría trayendo la pasta de coca a pie desde Bolivia", dijo Vallejo en una entrevista a la revista argentina 'Noticias'. Fue organizada con el motivo de la reedición en Argentina de su libro 'Amando a Pablo, odiando a Escobar', lanzado en 2007.
Texto completo en: http://actualidad.rt.com/actualidad/view/124476-escobar-uribe-narcotrafico-colombia-aterrizaje-vallejo
MEMORIA
El 3 de octubre de 1984, Luis Fernando Lalinde Lalinde, de 26 años de edad, fue detenido y posteriormente desaparecido por el Ejercito colombiano. Desde ese día, Fabiola Lalinde emprendió la búsqueda de su hijo. Aunque sufrió constantes hostigamientos e intimidaciones, logró encontrar el cadáver de Luis Fernando después de 4.428 días de incesante búsqueda. Fue detenido en el marco de la “Operación Cuervos” adelantada por el ejército, cuando se encontraba en Jardín (Antioquia) tratando de rescatar un guerrillero herido del EPL, en 1984, durante el Proceso de Paz del Presidente Belisario Betancur, cuando este movimiento político se encontraba en cese al fuego.