Maroni: “Cattivi contro i clandestini”

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Foto di Annalisa Melandri


Colombia, liberato il quinto ostaggio

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(ANSA) — BOGOTA’, 3 FEB — Le Farc hanno liberato oggi un altro ostaggio: l’ex governatore Alan Jara è stato consegnato dai guerriglieri colombiani alla mediatrice Piedad Cordoba e ai delegati del Comitato Internazionale della Croce Rossa. Lo ha reso noto il portavoce della Croce Rossa, Yves Heller, precisando che Jara è in viaggio dal posto dove è avvenuto il rilascio verso Villavicencio, cittadina a 190 Km a sud di Bogota.

Hollman Morris fermato dall’esercito colombiano

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Hollman Morris

La Fondazione per la Libertà di Stampa diffonde in queste ore il seguente comunicato nel quale informa che il giornalista colombiano Hollman Morris, direttore di Contravía sarebbe stato fermato da membri dell’esercito colombiano  insieme con alcuni suoi collaboratori per essersi rifiutato di consegnare materiale girato nel corso delle operazioni per la liberazione degli ostaggi da parte della guerriglia colombiana.
 
L’ultimissima notizia che giunge dalla Colombia è che è stato liberato soltanto dopo l’arrivo del Defensor del Pueblo e della Polizia Judicial y de Investigación (DJIN).
 
FUNDACIÓN  PARA LA LIBERTAD DE PRENSA
Febrero 2 de 2009
 
Hollman Morris, director del programa periodistico Contravía y  corresponsal de medios extranjeros, viene siendo hostigado por miembros del Ejercito y, al parecer, se encuentra retenido por negarse a entregar su material periodistico.
 
El periodista se encuentra en el departamento de Caquetá, al sur del país, zona donde se están desarrollando las liberaciones de los secuestrados de las FARC. Según le comentaron algunas fuentes a la FLIP , Morris y dos periodistas que lo acompañan han tenido que enfrentar sucesivos retenes del Ejercito y al parecer se encuentran retenidos por negarse a entregar su material periodistico. En este momento una comisión de la Defensoría del Pueblo se está trasladando a la zona. La FLIP trató de ponerse en contacto con las autoridades militares, pero no fue posible.
 
* * *
 
La Fundación para la Libertad de Prensa (FLIP) emite esta alerta para que el mando central del Ejercito de informació inmediata sobre las condiciones y razones por las que Hollman Morris y su equipo periodisticoo están retenidos. De la misma forma, expresa su preocupación por el hecho de que las autoridades militares están exigiendo, sin orden de un juez, la entrega del material periodistico. Este hecho constituye una violación de la reserva de la fuente.
 
 
 
 

Le Farc liberano unilateralmente quattro prigionieri.

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i tre poliziotti liberati

 
Le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC) hanno mantenuto la promessa.
 
In una serie di accordi maturati attraverso una corrispondenza epistolare con il comitato  Colombiani per la Pace costituito da  intellettuali e uomini di cultura colombiani, ma anche comuni cittadini e promosso dalla senatrice Piedad Córdova, la guerriglia era giunta alla decisione unilaterale di liberare 6 ostaggi. Si tratta di tre poliziotti e un militare dell’esercito e di due uomini politici.
 
Il primo febbraio, dopo una giornata che ha fatto stare con tutti con il fiato sospeso,  sono stati consegnati alla Croce Rossa Internazionale e alla presenza della senatrice Piedad Córdova e di due giornalisti, lexis Torres Zapata, Juan Fernando Galicia e José Walter Lozano, membri della Polizia Nazionale e il soldato  William Giovanni Rodríguez, prigionieri da circa due anni delle FARC.
 
La missione ha rischiato di fallire per le numerose azioni militari dell’esercito colombiano nella zona, come ha denunciato anche uno dei due giornalisti presenti, Jorge Enrique Botero.
 
Le affermazioni di Botero, che è stato testimone delle azioni miltari dell’esercito, sono state immediatamente e duramente smentite   dall’Alto Commissario per la Pace Luis Carlos Restrepo.
 
Anche Iván Cepeda, uno dei membri di Colombiani per la Pace ha chiesto urgenti risposte al governo colombiano di fronte all’evidente violazione delle garanzie precedentemente accordate per la liberazione dei prigionieri, violazione che ha rischiato di far saltare l’operazione e che ha messo in serio pericolo la vita degli  ostaggi.
 
Un guerrigliero inoltre sarebbe morto e uno risulterebbe scomparso nel corso dell’azione militare intrapresa dall’esercito nella zona.
Cepeda ha ricordato l’alta levatura morale e integrità di tutti i firmatari delle missive inviate alle FARC, corrispondenza grazie alla quale si è ottenuta la promessa della liberazione degli ostaggi, affermando che  pertanto  egli stesso non è disposto ad accettare le  insinuazioni da parte dell’altro Commissario Restrepo, che ha gettato discredito e ha messo in dubbio la serietà e credibilità del lavoro compiuto dai Colombiani per la Pace.
 
L’accordo tra le FARC e i Colombiani per la Pace prevede che nei prossimi giorni siano liberati anche l’ex governatore del Meta Alán Jara e l’ex deputato Sigifredo Lopez che si trovano nelle mani della guerriglia rispettivamente dal 2001 e dal 2002.
 
Già da lunedì 2 febbraio Alán Jara potrebbe essere liberato e il mercoledì successivo probabilmente potrebbe essere la volta di Sigifredo Lopez.
 
Si allega copia di una lettera da firmare e inviare a tutte le autorità colombiane, in appoggio al comitato Colombiani per la  Pace con la quale si denunciano le minacce ricevute dalla senatrice Piedad Córdova e si chiede al governo colombiano di cessare le azioni militari  che rischiano soltanto di mettere in pericolo la vita degli ostaggi.
Mandare adesioni a: apoyointernacionalpazcolombiaatgmaildotcom  (apoyointernacionalpazcolombiaatgmaildotcom)  
La decisione presa da parte della guerriglia delle Farc-Ep di liberare unilateralmente gli uomini politici Alán Jara e Sigifredo López, e i 4 militari che si trovano in loro potere, costituisce una parte dell’impegno assunto dalle Farc-Ep con i Colombiani per la Pace.
 
Proprio dai Colombiani per la Pace veniamo a sapere che questa decisione unilaterale di liberare i prigionieri sta attraversando un momento difficile dovuto a gravi problemi.
 
Una delle sue promotrici, la senatrice Piedad Córdova e i suoi più stretti collaboratori sono stati minacciati e anche gli   altri firmatari dello scambio epistolare sono stati perseguitati o minacciati di morte.
 
Due giorni fa le Forze Militari colombiane hanno bombardato un gruppo di guerriglieri che custodivano e stavano portando in un luogo stabilito Alán Jara per consegnarlo alla commissione umanitaria. Questa azione militare ha posto in grave pericolo la vita e l’incolumità del politico del dipartimento del Meta.
 
Come segnalato nella nostra lettera precedente appoggiamo l’iniziativa dei Colombiani per la Pace, e in primo luogo sosteniamo lo scambio epistolare con le Farc-Ep, che sta ottenendo il raggiungimento di uno dei suoi obiettivi umanitari.
 
Le gravi notizie ricevute possono minare un cammino di speranza per tutti i colombiani e le colombiane.
 
Sollecitiamo il governo colombiano conformemente ai principi del Diritto Internazionale e della Costituzione Nazionale ad avere rispetto per l’iniziativa cittadina e a cessare le azioni militari che mettono in pericolo la vita e l’incolumità dei prigionieri.
 
A intraprendere tutte le misure giudiziarie necessarie contro le persone e le organizzazioni armate che stanno dietro le minacce contro Piedad Córdova e contro i firmatari dell’iniziativa Colombiani per la Pace.
 
Alla senatrice Piedad Córdova e agli altri colombiani che fanno parte di questa proposta rinnoviamo la nostra disponibilità e il nostro sostegno, affinché contino sul nostro appoggio nel momento in cui abbiano bisogno di noi per intraprendere nuove iniziative umanitarie e la ricerca di risultati positivi per la pace duratura con giustizia e democrazia.
 
 
 

Dittatura, esilio, impunità e giustizia internazionale: parlano le vittime di Alfonso Podlech Michaud

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Alfonso Podlech Michaud

Incontriamo gli ex prigionieri politici che i primi giorni di dicembre a Roma hanno testimoniato, dinanzi al pubblico ministero Giancarlo Capaldo, contro l’ex procuratore militare di Temuco Alfonso Podlech Michaud, accusato dalla magistratura italiana dell’omicidio e della scomparsa dell’ ex sacerdote italiano Omar Venturelli, nell’ottobre del 1973, sotto la dittatura di Pinochet.
Alfonso Podlech, contro il quale era stato emesso un mandato di cattura internazionale dalla Procura di Roma, fu arrestato il 27 luglio 2008 all’aeroporto Barajas di Madrid e successivamente estradato in Italia.
Carlos Lopez Fuentes, ex prigioniero politico condannato in Consiglio di Guerra dal procuratore militare Podlech a 9 anni di carcere, Jeremías Levinao, mapuche , militante del Movimento Contadino Rivoluzionario, che a Temuco ha sofferto carcere e torture e sua figlia Tania ci raccontano in questa intervista, che sembra più una chiacchierata tra vecchi amici, i giorni precedenti al golpe dell’ 11 settembre, ma anche quello che avvenne dopo, a Temuco, in quella regione meridionale del Cile chiamata Araucanía, ci spiegano il ruolo che ha avuto Alfonso Podlech Michaud nell’apparato repressivo cileno e ci raccontano del loro esilio in Francia, dove vivono attualmente.
Annalisa Melandri – Martedì scorso (il 2 dicembre ) vi siete incontrati con il Pubblico Ministero Giancarlo Capaldo. Che impressione avete avuto di questo incontro?
Carlos López Fuentes — Personalmente credo che l’incontro con Capaldo sia stato positivo in quanto sono stati aggiunti elementi e testimonianze nuove che non si trovavano negli atti e che possono accelerare la procedura per condurlo a giudizio.
Jeremías Levinao – Sicuramente è stato positivo perché nel mio caso ho apportato elementi nuovi su come veniva applicata la tortura durante la dittatura e ho dimostrato che era proprio Podlech che emetteva le condanne ai prigionieri.
A.M. – Nel tuo caso, Jeremías, puoi affermare che la repressione in quel periodo fu più crudele contro i prigionieri mapuche a differenza di come si manifestava contro tutti gli altri prigionieri politici?
J.L. – Io credo che la repressione sia stata la stessa contro tutti, ma che contro il popolo mapuche fu generalizzata, questo dovuto al fatto che i Mapuche parteciparono in modo diretto alla riforma agraria attuata dal governo di Salvador Allende. La riforma agraria colpì allora il latifondo della zona e una gran parte dei proprietari terrieri dopo il golpe si riappropriarono delle terre che erano state loro espropriate legalmente dal governo di Unità Popolare. Ed è per questo che si ebbe quasi una vendetta da parte dei latifondisti che parteciparono alla repressione.
A.M. — Si sono aggiunti quindi elementi nuovi che possono essere utili nel processo contro Podlech e quali sono?
C.L.F. — Penso di si, perché ho consegnato anche la testimonianza scritta ( notificata al consolato spagnolo a Parigi ) della denuncia che ho presentato contro Pinochet al giudice Garzón. La testimonianza presentata con quella denuncia, è la stessa che ho presentato al giudice Capaldo con l’aggiunta di nuovi elementi. Non posso fornire ulteriori dettagli, ma esattamente la stessa testimonianza che ho rilasciato contro Pinochet , con l’aggiunta di nuovi elementi, l’ho fornita contro Podlech.
J.L. – Io ho rilasciato una testimonianza contro Pinochet che è stata notificata in Spagna. Nel mio caso ho riportato i dettagli delle torture e il trattamento da me ricevuto durante la detenzione.
A.M. – Avete conosciuto Omar Venturelli in carcere o lo conoscevate già prima della sua detenzione?
C.L.F. — Io personalmente non lo conoscevo. Quando sono stato arrestato lui era già un desaparecido. E’ scomparso il 4 ottobre 1973 ed io sono stato arrestato alla fine di novembre dello stesso anno. Quando qualcuno arrivava in carcere gli si avvicinavano immediatamente molti compagni già detenuti e gli davano informazioni su quello che c’era da fare ma soprattutto sulle persone arrestate e che erano scomparse. Le informazioni venivano date per proteggerti e nello stesso tempo perché tu fossi cosciente del pericolo che correvi anche stando in prigione. Non era vero che perché eravamo in carcere potevamo avere la sicurezza di aver salva la vita. Eravamo nelle mani della Procura Militare diretta dal Sig. Podlech e gli ordini che venivano da lì erano: torturare, uccidere o far sparire. I prigionieri politici arrestati lì si erano resi conto infatti che i compagni che arrivavano in carcere, come accadde per esempio nel caso di Venturelli , a volte scomparivano in un secondo momento. Podlech firmava l’ordine di scarcerazione, le persone uscivano dal carcere ed erano attese fuori da un altro gruppo appartenente alle forze di repressione che se li portavano via. Tutto questo però era coordinato dalla Procura Militare che era operativa nel Reggimento Tucapel di Temuco e che lavorava insieme alle altre unità (Forza Aerea, Carabinieri e civili).
AM. – Che ricordi avete dell’11 settembre a Temuco? Carlos tu sei stato arrestato nel novembre del 1973, fino a quel momento eri libero?
C.L.J. — No, io ero in clandestinità. L’11 settembre avvenne il colpo di stato e iniziò la pubblicazione dei bandi. I bandi erano i comunicati delle nuove autorità militari della zona che con questi invitavano le persone a presentarsi alla procura o al Reggimento Tucapel. Le autorità dicevano che ciò era necessario soltanto per controllare il domicilio delle persone i cui nomi erano apparsi nei bandi. Molte persone sono scomparse dopo che si sono presentate volontariamente al Reggimento Tucapel, come è avvenuto per esempio al compagno Venturelli e a molti altri. Chi poteva immaginare che il fatto di essere stati chiamati attraverso i bandi militari avrebbe significato: pericolo di morte?
A.M. – Quindi già dall’ 11 settembre i militari erano in possesso dei nomi di tutti quelli che poi vennero uccisi, arrestati o che scomparvero…
C.L.F. — Si, chiaro. Se controlliamo le liste delle persone che si presentarono al Reggimento Tucapel, vediamo che in queste liste ci sono i nomi di dirigenti sindacali, di dirigenti contadini, di professori universitari di sinistra, di funzionari del Servizio Sanitario Nazionale, che erano di sinistra…
A.M. — Si dice che Podlech fin dall’ 11 settembre si trovasse nel carcere di Temuco firmando gli ordini di scarcerazione dei militanti appartenenti al gruppo di estrema destra Patria e Libertà che erano stati arrestati per delitti commessi contro il governo di Unità Popolare . Quale fu, prima e dopo del golpe, il ruolo di Patria e Libertà?
C.L.F. — Patria e Libertà fu un movimento di estrema destra che nacque in Cile immediatamente dopo che Salvador Allende fu eletto democraticamente presidente della Repubblica. Il dottor Salvador Allende fu eletto il 4 settembre 1970, cinque giorni dopo il movimento Patria e Libertà era già stato creato e il suo obiettivo immediato fu quello di boicottare e distruggere il governo di Allende per mezzo di un colpo di stato. Patria e Libertà si dissolse due o tre giorni dopo il golpe quando la sua missione era ormai conclusa. Tuttavia, va fatto notare che molti dei suoi membri poi si integrarono nell’apparato repressivo. La loro missione fu quella di boicottare il governo di Allende con tutti i mezzi possibili: attentati, distruzioni di ponti e ferrovie, omicidi dei dirigenti sindacali, mercato nero…
A.M. — E tu, Jeremías quando sei stato arrestato?
J.L. – Io sono stato arrestato nel giugno del 1974.
A.M. – E l’ 11 settembre ti trovavi anche tu in clandestinità?
J.L. – Si, anche io mi trovavo in clandestinità a Temuco.
A.M. – Che ricordi hai di allora?
J.L. – Nelle zone rurali i contadini si erano organizzati per lavorare la terra in cooperative agricole e insediamenti. Queste organizzazioni erano assistite da enti statali: la Corporazione per la Riforma Agraria (CORA) e l’Istituto per lo Sviluppo Agrario (INDAP). Siccome esistevano liste di contadini appartenenti alle cooperative, i militari se ne impossessarono e iniziarono a reprimere e a chiedere agli stessi che si presentassero ai reggimenti, alle procure e ai posti di polizia. I latifondisti misero a disposizione perfino i loro veicoli per arrestarli.
A.M. – Quanto tempo sei stato in carcere?
J.L. – Sono stato in carcere un anno e mezzo, venni arrestato nel giugno del 1974 e tenuto in un centro di detenzione segreta dove fui torturato fino al mese di ottobre del 1974 quando mi trasferirono alla procura. In quel momento fui riconosciuto pubblicamente come prigioniero politico. Poi fui condannato nel penultimo Consiglio di Guerra che si tenne a Temuco, diretto da Alfonso Podlech come Procuratore Militare, questo avvenne nel maggio del 1976. Era Podlech quello che accusava.
C.L.F. — Il Consiglio di Guerra era composto da tre membri: 3 dei Carabinieri, 3 dell’Esercito, e 3 dell’Aviazione. Loro emettevano le condanne sulla base delle accuse emesse dal Procuratore Militare. E il procuratore dell’accusa, sempre, di tutti i Consigli di Guerra di Temuco, fu Podlech, dall’inizio alla fine.
A.M. – Come giudicate il fatto che l’unica possibilità di ottenere giustizia viene dalla magistratura italiana?
C.L.F. – In Cile, l’impunità è grande. Quando Pinochet perse il plebiscito, i militari e i civili negoziarono per il governo di transizione. Il dittatore perse il referendum, egli sapeva che si sarebbe dovuto ritirare dal governo poiché si rese conto che a livello internazionale non godeva più di molto appoggio, grazie al lavoro della solidarietà internazionale che non smise mai di denunciare i crimini e le violazioni dei diritti umani. Allora con il gruppo di persone che stava dietro di lui, con i consiglieri e con i Chicago Boys, cominciò immediatamente a negoziare con l’opposizione. Nell’opposizione c’era un gruppo che si chiama tutt’ora Concertazione, costituito dai Democratici Cristiani, duri oppositori del governo di Allende e da una parte della sinistra, come alcuni settori socialisti o socialdemocratici, tranne che i comunisti che erano stati completamente eliminati dalla brutale repressione della dittatura. In questo patto che si creò tra i militari e i civili per poter passare dalla dittatura al processo di transizione democratica , i militari dissero: “noi accettiamo il fatto di aver perso il referendum però voi in futuro non giudicherete nessun militare”. Gli assassini già avevano una legge, una legge del 1978 di autoamnistia per tutti i repressori, per tutti i militari che avevano partecipato alla prima fase della repressione, la più sanguinosa del colpo di stato, dove sparirono la maggior parte delle persone e delle quali fino al giorno d’oggi non sono stati ritrovati i loro resti.
A.M. Jeremías, tu di cosa pensi che abbia bisogno il Cile per venir fuori dall’impunità? E come vedi la situazione della sinistra nel paese?
J.L. – Io penso che, come dicevo prima, in Cile oggi è impossibile che ci sia veramente giustizia e che l’impunità sia elevata. Noi come vittime crediamo che l’Italia possa fare giustizia, cosa che non avverrà in Cile. Io penso, e questo va detto chiaramente, che non ci sia speranza di giustizia in Cile fino a quando non ci sarà un cambiamento nella Costituzione del 1980, costituzione scritta dalla dittatura di Pinochet e che è attualmente in vigore.
A.M. – E allora, da dove può venire questo cambiamento?
J.L. – Non c’è una prospettiva e non c’è nemmeno una volontà di cambiamento. Tutto è negoziato dalla politica economica. Al governo questo conviene perchè così guadagnano denaro. Quello che interessa loro maggiormente sono le poltrone, governare e comandare.
C.L.F. – Io vorrei aggiungere qualcosa. Ci fu un cambiamento, una specie di terremoto quando cadde Pinochet (a ottobre 1998 in Inghilterra). Nessuno credeva che lui potesse essere arrestato all’estero e nessuno credeva che ci fossero tante vittime disposte a presentare denunce contro di lui e che si sarebbero mobilitate a livello europeo affinché fosse condannato. Pinochet fu arrestato a Londra nel 1998 e liberato un anno e mezzo dopo. Il suo arresto ruppe uno schema, non possiamo dire che si ruppe lo schema dell’impunità, ma quello che si ruppe fu la copertura che esisteva in Cile, per la quale non si poteva parlare dei diritti umani delle persone assassinate o scomparse. E’ in questi momenti che appare la memoria… Così si iniziò a parlare di ciò che fu la repressione, e lo raccontarono tutti i giornali e tutte le televisioni del mondo. Allora tutti i cileni si commossero, tutta la società cilena si commosse. Da quel momento si iniziò a dare importanza ai diritti umani ed è da quel momento, anche se i cileni non vogliono riconoscerlo che appaiono le vittime e fu quella una fase chiave che ebbe spazio anche su tutti i mezzi di comunicazione del mondo. I familiari delle persone scomparse si stanno domandando ancora: “dove sono”? Il Cile deve riconoscere che ci furono dei desaparecidos, deve riconoscere che ci fu una repressione e che per quasi 18 anni nel paese si è vissuto in dittatura.
A.M. — Fino a quel momento era come se il problema non esistesse…
C.L.F. — Certo, Io sono tornato in Cile (soltanto una volta) e fu tra il dicembre del 1991 e il gennaio 1992. Nel periodo di transizione del presidente Alwyn (un importante rappresentante della Democrazia Cristiana e oppositore del governo di Allende). In questo periodo si stava tentando di redigere il rapporto Retting, che serviva per vedere quante persone erano morte e quante erano scompare. Nel rapporto non si parlava di tortura, non si parlava di prigionieri politici, non si parlava di repressione massiccia. Mi detti conto che questo fatto era simbolico e non aveva niente a che vedere con la giustizia che reclamavano le vittime. Nel rapporto Retting non si chiedeva niente, era una semplice constatazione dei morti e degli scomparsi del periodo della dittatura. Quando cadde Pinochet , il rapporto Retting assunse valore perchè Garzón disse: “in Cile esiste una lista di persone scomparse” e tutto il mondo iniziò a parlare dei morti e dei desaparecidos; dopo si aggiunsero i prigionieri politici, i sopravvissuti della repressione e fu da quel momento che le cose cominciarono a cambiare.
Questo è quello che fece rompere un po’ l’impunità che regnava in Cile. La giustizia internazionale apre uno spiraglio per le vittime cilene che continuano a reclamare giustizia…
A.M. – Per finire una domanda per Tania. Quanti anni avevi quando sei arrivata in esilio in Francia con la tua famiglia?
Tania Levinao – Io avevo 4 anni.
A.M. – Immagino che non ricordi nulla di quel periodo, ma come hai vissuto l’esilio con la tua famiglia?
C.L.F. — Domada chiave…
T.L. – E’ una domanda alla quale ancora sto cercando di dare una risposta. Oggi sono adulta e sono consapevole che la mia non è stata una vita normale. Fin da piccola mi sono resa conto di essere figlia di esiliati, o meglio, di rifugiati politici. Sono stata sempre consapevole di questo, ho sempre saputo mio padre in che partito aveva militato, cosa era stato il governo di Unità Popolare, quello che aveva rappresentato per i miei genitori e anche in Francia in alcuni ambienti progressisti la politica cilena era molto seguita. Da grande ho capito che questa non era propriamente la vita di una bambina piccola, che non era la normalità e che la mia storia era un po’ diversa da quella degli altri. Oggi l’esilio fa parte della mia storia, della storia della mia famiglia, e devo convivere con questo e cercare di andare avanti. Da non molto mi dico che la mia vita non è quella dei miei genitori, perchè per molto tempo è stato come se si fosse trattato di una sola storia. In effetti è una domanda molto difficile.
C.L.F. — Questa è la “domanda”
T.L. – Questo esilio ha influito anche sulla mia vita professionale, io ho studiato diritto e non credo che sia stata una scelta casuale. Ma non tutti i figli di rifugiati politici abbiamo avuto lo stesso percorso. Conosco molti figli di esiliati che invece hanno detto: “no, io non voglio saperne nulla”. Ognuno poi ha vissuto questa cosa a modo suo.
A.M. – Tania, tu poi sei tornata in Cile, che sentimenti nutri rispetto al tuo paese?
T.L. – Un sentimento strano. La prima volta che sono tornata in Cile è stato nel 1995, . Da piccola mi sentivo sempre come una cilena in Francia, non ero mai sentita veramente francese. Quando tornammo in Cile la situazione fu molto difficile perchè arrestarono mia madre, la stavano aspettando all’aeroporto. La tennero una settimana in carcere, non la torturano fisicamente perchè lei aveva documenti francesi, quindi non fu maltrattata fisicamente ma psicologicamente sì. Ci fu una pressione enorme da parte della Francia per liberarla. Qualcuno durante la dittatura evidentemente sotto tortura, la aveva accusata di aver commesso qualcosa, in quel periodo era frequente che accadessero cose del genere… Quel periodo fu molto duro per noi, avevamo raggiunto il Cile per motivi familiari, mia nonna stava molto male e morì tre giorni dopo il nostro arrivo. Fu quindi un viaggio molto difficile e fu un trauma terribile, perchè anche se sapevamo che non c’era democrazia, non immaginavamo a tal punto. Camminavamo per strada, vedevamo la polizia passeggiare con i fucili in spalla e la gente nemmeno ci faceva caso. Io ero sorpresa perchè in Francia non si vedevano queste cose. Inoltre c’era molta intolleranza verso gli esuli, verso il popolo mapuche, perfino tra i miei stessi familiari. Io ero arrivata con un concetto idealizzato del paese perchè avevo ascoltato le testimonianze dei miei genitori, di mio zio, avevo l’idea di un Cile dove c’era solidarietà, condivisione… ma non era così.
A.M. — Quindi sei andata in Cile e non ti sei sentita più cilena?
T.L. – No. Sono ritornata in Francia con una così grande delusione che da quel momento mi sono detta: “io non sono né francese, né cilena, sono cittadina del mondo”, ma mi ci sono voluti anni e anni per riuscire ad accettarlo.
Il secondo viaggio fu nel 2000, allora fu diverso perchè la situazione di mia madre si era risolta ed eravamo molto più tranquilli, ma ormai qualcosa dentro di me si era spezzato e non vi ho fatto più ritorno da allora. I miei genitori sì , sono tornati in Cile, ma io ho avuto bisogno di altri otto anni per rendermi conto che ho il desiderio di tornare.
A.M. – Si parla e si discute tanto degli ex prigionieri politici, degli esiliati, ma l’esilio coinvolge duramente anche le loro famiglie, i figli che erano piccoli in quegli anni e che non si sono nemmeno resi conto o non ricordano nulla di quello che accadeva allora…
C.L. – Sì, ci sono diversi tipi di esilio…
T.L. E c’è un altro aspetto. Io capisco e condivido tutta la sofferenza della mia famiglia, però mi è costato molto rendermi conto che la mia storia non poteva essere la loro e per molti anni ho avuto questo senso di colpa perchè io non ero stata sottoposta a questa pressione, non avevo subito torture e da piccola non mi è mai mancato nulla, non ho sofferto mai la fame, non ho mai saltato la scuola, non mi hanno mai picchiata. Ora so però che effettivamente non è normale che io abbia vissuto in questo modo.

Foro Social Mundial

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Adriano Sofri: La notte che Pinelli

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“È la vecchia storia del ferroviere anarchico che venne giù dalla finestra del quarto piano della Questura di Milano. Quarant’anni fa, più o meno. Quelli che allora c’erano, ciascuno a suo modo, credono di saperla. Be’, non la sanno. In nessuno di quei modi. Figurarsi quelli che non c’erano. Figurarsi una ragazza di vent’anni, di quelle che fanno le domande. Anch’io credevo di saperla. Poi ho ricominciato daccapo”. A. S.
 
Ci sono giorni in cui un intero paese resta senza respiro… Il 12 dicembre fu un giorno – una sera – così. Si sentì che la vita non sarebbe stata più la stessa, che c’era stato un prima, e che cominciava un dopo. …
 
La televisione aveva due canali, ed era in bianco e nero:lo sarebbe stata ancora fino all 1977. Servirebbe di più raccontarti quanto, e soprattutto come si fumava, nel dicembre del 1969…
 
C’e’ una stanza al quarto piano della Questura di Milano, è di Luigi Calabresi, un giovane commissario dell’Ufficio Politico, ha solo 32 anni. C’è un interrogato, un ferroviere di 41 anni, Giuseppe Pinelli. Sono presenti altri quattro sottufficiali di polizia, e un tenente dei carabinieri. Fumano tutti. Sono lì da ore, è quasi mezzanotte…
 
Autore: Adriano Sofri
Titolo: La notte che Pinelli
Collana: La memoria
Num. di collana: 772
Anno: 2009
ISBN: 88–389-2371-X
Pagine: 304
Prezzo: 12.00 Euro

Il nuovo decreto legge anti-stalking: la sicurezza delle donne vale meno di quella di un’automobile

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Per il furto con scasso, un reato contro la proprietà,  sono previsti fino a sei anni di reclusione. Per il reato di “stalking” cioè la persecuzione generalmente commessa da ex mariti, conviventi o fidanzati ai danni di una donna al massimo è prevista la condanna fino a quattro anni di reclusione.
 
E’ stato approvato oggi il Ddl anti-stalking che introduce l’articolo 612-bis nel codice penale per  “chiunque molesta o minaccia taluno con atti reiterati e idonei a cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero a ingenerare un fondato timore per l’ incolumita’ propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero a costringere lo stesso ad alterare le proprie scelte o abitudini di vita”. Un reato quindi contro  la persona, punibile da oggi con una pena fino a un massimo di quattro anni.
 
E’ stato inoltre respinto l’emendamento presentato da Barbara Pollastrini (PD),  che prevedeva la possibilità di patrocinio gratuito per le vittime di stalking, che quindi dovranno farsi carico di tutte le spese legali  nel caso decidessero di sporgere denuncia. Il  patrocinio gratuito sarebbe stato sicuramente  un valido sostegno per tutte quelle donne che si trovano in situazioni difficili e che non sanno come venirne fuori. La possibilità di godere del patrocinio gratuito avrebbe potuto aiutarle nella già di per sé difficile decisione di sporgere denuncia contro un familiare che nella stragrande maggioranza dei casi è stato o è una persona affettivamente e sentimentalmente vicina alla vittima. E’  noto inoltre come simili situazioni avvengano in ambienti già di per sé difficili per la donna,  soprattutto dal punto di vista economico. Difficoltà quella economica,  che rappresenta un notevole impedimento per le donne a liberarsi di alcuni meccanismi che oltre allo stalking comprendono spesso anche casi di violenze fisiche. Le donne economicamente indipendenti o comunque più abbienti  infatti, sicuramente hanno meno impedimenti  a ricostruirsi una vita anche lontano dal luogo di residenza originario,  o a cambiare città se non paese, indipendentemente dal fatto di aver  presentato o meno denuncia.
 
Generalmente chi commette stalking è una persona con gravi turbe psichiche che ha problemi ad accettare percorsi di cura e difficilmente rispetterà per esempio il divieto di avvicinarsi ai luoghi frequentati dalla persona offesa, così come difficilmente terrà conto del richiamo orale che potrebbe venirgli dal Questore, come previsto dal Ddl. Se padri separati,  queste persone, almeno allo stato attuale delle cose continuano a vedere i propri figli, spesso usandoli o plagiandoli  per continuare a commettere violenze contro le ex mogli.
 
Resta inoltre il problema gravissimo della lentezza giudiziaria. Oggi una donna che denuncia il proprio coniuge per violenze in famiglia deve aspettare mediamente due anni o tre per vedere il suo fascicolo sul tavolo di un giudice in prima udienza. Passeranno altrettanti anni probabilmente per arrivare a una condanna definitiva. In tutto questo periodo di tempo è lasciata completamente sola dalle istituzioni a gestire situazioni difficili e pericolose che spesso sfociano in vere e proprie tragedie.
 
Più che il problema della pena, resta grave infatti quello del  grande vuoto delle istituzioni, completamente assenti  dal momento in cui una donna sporge denuncia   fino a quello in cui viene emessa una condanna spesso inutile ed irrisoria, periodo durante il quale può veramente accadere di tutto.
 
 

Madame Betancourt, che magnifica delusione!

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Ingrid Betancourt a Torino

Mi informano che Ingrid  Betancourt ha tenuto la settimana scorsa un incontro pubblico a Terni, dove ha ritirato il “Premio San Valentino un anno d’amore” 2009. Ha parlato di tante belle cose, poco o niente di Colombia. Poi rispetto alla liberazione delle altre persone sequestrate, ha citato la vicenda di Aung San Suu Ki e quella del caporale israeliano Gilad Shalit. Senza aggiungere nessun’altra parola, su Gaza, sui bambini massacrati (almeno loro…) sulla guerra. Niente di niente. Liberate il caporale Gilad Shalit…
Qui di seguito invece le le impressioni di un amico dell’incontro con Ingrid Betancourt  di sabato 24 gennaio scorso all’Arsenale della Pace di Torino.

di Riccardo Gavioso

Ieri al Sermig eravamo in molti desiderosi d’incontrare Ingrid Betancourt. E per sentirla parlare, vederla finalmente sorridere e provare l’emozione d’incrociare quel suo sguardo così forte e diretto, ci siamo sobbarcati qualche inevitabile disagio.

Abbiamo dovuto far buon orecchio alla cattiva sorte, e sorbirci i tanti che la circondavano sul palco, e che, escluso il padrone di casa, Ernesto Olivero, non avevano nulla da dire, ma lo hanno fatto con sfoggio di tanta impeccabile quanto insignificante eloquenza. Abbiamo dovuto apprendere dal vice di Bondi che era ansioso di correre a casa dalla consorte per raccontale le mirabilie udite con i suoi occhi, senza poterci togliere la curiosità se, come il suo superiore, era uso scrivere rime poetiche per magnificare, oltre alla sua, anche la Signora Veronica Lario in Berlusconi. Abbiamo dovuto aspettare che nelle prime tre file si accomodasse la “Torino che Conta”, e che con la storia della Betancourt c’entrava come un trapano Black&Decker in una natura morta fiamminga.

Io non conto, e ho atteso pazientemente in quarta fila.

Finalmente è venuto il turno di Ingid che, alternando meravigliose parole in spagnolo e francese, spesso interrotta da applausi spontanei, tra considerazioni filosofiche sul valore della sofferenza, sul significato cristiano del cambiamento e sulle parabole che meglio lo rappresentano, ha raggiunto la fine del discorso senza che una sola volta il termine Colombia facesse capolino, tanto per riportare il significato della vita sulla terra in generale, e in particolare su quella per cui si è battuta politicamente fino a rischiare la vita. In definitiva chi avesse voluto apprendere qualcosa della situazione della Colombia, presente e passata, poteva avere miglior sorte all’interno di un’agenzia di viaggi.

La possibilità di interloquire non era prevista. Forse nel timore che qualcuno potesse sottrarre parte del pubblico dall’empireo in cui commosso si lasciava cullare: cosa non bella, ammettiamolo, ma certamente utile. Quindi la domanda che avrei voluto porre a Ingrid Betancourt, la porrò pubblicamente ora:

“Negli ultimi cinquant’anni delle enormi e vergognose ingiustizie sono state humus ideale per la violenza. Numerosi gruppi hanno scelto la lotta armata come sistema di lotta, a volte travolti da una follia che faceva sembrare la scia di sangue che si lasciavano dietro più il fine che non il mezzo. Molti hanno operato in Sudamerica e in America Centrale, diversi in altri continenti e alcuni nel cuore dell’Europa. Se in Colombia nascevano le FARC, noi imparavamo a conoscere le Brigate Rosse, la banda Bader Meinhoff, l’Esercito Repubblicano Irlandese, l’ETA. Ora, lei non crede che lottare contro la violenza lasciando che permangano inalterate le cause che l’hanno generata, sia inutile come estirpare una mala erba lasciando le radici nel terreno? E soprattutto non crede che l’immensa forza mediatica che la sua vicenda ha catalizzato, vista la superficialità dei nostri mezzi d’informazione, rischi, ora che si è felicemente conclusa, di cancellare qualsiasi traccia di quelle ingiustizie e negare visibilità ai molti che ancora si trovano ad affrontare il dramma che è stato il suo per sei lunghissimi anni?”


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