Il ciclone Hanna su Haiti
DI TORMENTE E TORMENTI
traduzione di Annalisa Melandri
Le tormente e gli uragani da secoli sono fenomeni naturali frequenti nei Caraibi e in altre regioni del mondo.. Ora però sono più frequenti, più improvvisi e più potenti che mai. Si tratta della vendetta della crosta terrestre e dell’atmosfera aggredite, depredate, saccheggiate, riscaldate, contaminate… dagli esseri umani e dai modi di produzione e distribuzione esistenti durante tutta la storia del nostro pianeta.
L’industria in genere, e il capitalismo e l’imperialismo in modo particolare, detengono i migliori e più stravaganti record in questa persistente aggressione. Hanno scatenato tutti i demoni e potenziato tutte le reazioni distruttive dell’ambiente depredato e avvelenato.
Ma questo non è l’aspetto peggiore, piuttosto lo è l’impoverimento atroce e simultaneo degli esseri umani e dell’ambiente dove vivono.
In questo piano, il neoliberalismo e la globalizzazione neoliberale hanno accelerato, acutizzato ed esteso questo drammatico impoverimento; rafforzando contemporaneamente le debolezze delle società e soprattutto di enormi masse umane spinte verso la più estrema precarietà di vita e verso le aree più povere ed ostili.
Miseria e territori ad alto rischio formano un duo indivisibile.
I poveri vengono spinti verso le zone più insicure: i letti dei fiumi in secca, lungo le sponde dei fiumi e le rive dei mari, alle pendici dei vulcani, sulle montagne disboscate, negli affossamenti, nelle zone soggette a inondazioni, ai piedi di colline e montagne erose, in terre fangose e/o desertiche…
Lì sopravvivono in baracche e capanne di legno vecchio, di zinco, di latta, di cartone, di frasche, di plastica, di mattoni di cattiva qualità; senza fondamenta stabili, con tetti e pareti fragili.
Lì vivono aspettando quel giorno o quella notte tragica, non solo a causa dei fenomeni naturali più distruttivi ma anche per gli acquazzoni, i terremoti, le mareggiate, le tormente o le piene più modeste.
A maggior impoverimento, a maggior desertificazione, a maggior razzia e saccheggio… maggior vulnerabilità e maggiori rischi.
Senza Stati che le proteggano, con governi ostili, con società egoiste e sfruttatrici, con economie privatizzate e disumanizzate.
Tormente non classiste su società classiste, con territori saccheggiati e popolazioni carenti del minimo indispensabile.
Uragani e terremoti non classisti su società classiste, piene di disuguaglianza e ingiustizie.
La minoranza capitalista, l’oligarchia capitalista, la società ricca o con elevate risorse, vive in aree sicure, in abitazioni sicure, in zone drenate, di fronte a strade asfaltate, protetta da pareti e muri resistenti, con riserve d’acqua, con fogne efficienti, con impianti elettrici sicuri, con cisterne ben costruite, su terra ferma, con veicoli potenti, con buone scuole e ospedali, con riserve alimentari, con lavoratori a servizio, con denaro in abbondanza.
Alcuni in una piccola New York e i più nei villaggi e tuguri in balia delle acque, dei venti, degli smottamenti e dei terremoti. La classe sociale intermedia in zone né così sicure, né così vulnerabili.
La disuguaglianza e la stratificazione sociale si esprimono drammaticamente anche rispetto al maggior minor o nessun rischio di fronte ai fenomeni naturali di differenti intensità.
I rischi maggiori sempre più costituiscono un a minaccia per un sempre maggior numero di persone e aree.
L’impoverimento continuo rende ogni volta più indifese le masse popolari, di fronte ai fenomeni meno potenti. Qualsiasi acquazzone può trasformarsi in distruzione e morte.
La bramosia di guadagno e la corruzione è inoltre causa della fragilità delle costruzioni moderne ad uso abitativo e utilizzate dai settori medi della popolazione.
Le tragedie non sono necessariamente naturali, soprattutto quando i progressi della scienza e della tecnica rendono possibili eliminare, minimizzare o contenere la distruttività di alcuni fenomeni naturali più o meno pericolosi.
Le tragedie oggi sono fondamentalmente sociali.
Prodotto della trasformazione capital-imperialista del pianeta. Figlie dell’impoverimento totale di enormi masse umane e territori. Figlie della disuguaglianza e delle ingiustizie sociali.
Per questo accade quello che accade qui in questo periodo di cicloni, in Giamaica, in Louisiana, in Bolivia, in Centroamerica. In Africa e in ampie regioni dell’Asia. Contrariamente a quanto accade a Cuba, ancora sotto embargo.
Ci avviamo sicuramente verso la catastrofe generale e il totale genocidio sociale, se non ci decidiamo a percorrere altre strade.
E questa non è una condanna senza appello quando un altro mondo, un altra America, un altro paese sono urgentemente possibili: con società solidali, giuste.… Socialiste!
5 settembre 2008 Santo Domingo RD
Narciso Isa Conde può essere considerato come uno dei rivoluzionari che hanno fatto la storia del suo paese, la Repubblica Dominicana e quella di tutta l’America Latina per il contributo del suo pensiero e per il suo impegno attivo per una terra libera da legami con l’imperialismo dei “falchi” del Nord. Nato nel 1942, appena adolescente partecipa alla lotta contro il regime di Trujillo.
Diventa poi Secretario Generale del Partito Comunista Dominicano.
Ha partecipato inoltre alla rivoluzione di Aprile del 1965 e alla Guerra Patria contro l’invasione degli Stati Uniti.
Durante il regime di Joaquín Balaguer ha sofferto il carcere, la persecuzione e l’esilio.
Attualmente fa parte della presidenza collettiva della Coordinadora Continental Bolivariana (CCB), insieme al sociologo statunitense Jaime Petras, all’arcivescovo Casaldáliga del Brasile e ad altri importanti politici e intellettuali latinoamericani.
Per questo impegno rivoluzionario caratterizzato dal fatto di non non aver mai discriminato forme diverse di lotta, incluso la lotta armata delle FARC, con le quali mantiene “vincoli pubblici di amicizia e solidarietà da lungo tempo”, è oggetto attualmente di una campagna di diffamazione basata su falsità e montata dal governo colombiano.
Cercando notizie che lo riguardano, troviamo che viene definito: “ideologo delle FARC”, “alto dirigente delle FARC”, “portavoce dei vertici delle FARC”, “amico del separatismo basco”, “ammiratore di Marulanda” mentre più recentemente Álvaro Uribe lo ha chiamato “leader terrorista”.
Lo incontro nella sua casa di Santo Domingo, cordiale e gentile, e in verità non dà l’impressione di essere un terrorista. Nel suo paese è conosciuto e rispettato e parlando di lui con la gente comune si nota negli occhi di qualcuno accendersi una luce, ricordando il “rivoluzionario radicale” che ha lottato per la libertà del suo paese.
A.M. — Chi è Narciso Isa Conde in realtà?
N.I.C. — Io sono un rivoluzionario radicale nel senso più profondo del termine, in quanto cerco sempre di andare alla radice dei problemi, non per il linguaggio forte che utilizzo e nemmeno per le diverse forme di lotta che posso aver impiegato in alcun determinato momento.
A.M. — Narciso, sei un riconosciuto leader rivoluzionario nella Repubblica Dominicana, è vero che hai partecipato in prima persona alla lotta per la libertà del tuo paese?
N.I.C. — Ho iniziato la mia attività politica in clandestinità, contro il regime di Trujillo e successivamente ho fatto parte della rivoluzione dell’Aprile del 1965, dopo il golpe militare contro Juan Bosh. Ho partecipato poi alla rivolta militare guidata dai colonnelli Fernández Domínguez e Francisco Caamaño e i “militari costituzionalisti”, e alla sua trasformazione in una rivolta popolare militare quando si formó allora l’allenza tra i militari patrioti e il popolo armato.
Abbiamo subito successivamente l’invasione nordamericana e il massacro che questa ha perpetrato. Anche allora gli Stati Uniti ci calunniavano, presentandoci come quelli che fucilavano i civili nel Parco Indipendenza qui nella città di Santo Domingo. Allora il mio nome faceva parte di una lista di 56 terribili comunisti ed ero appena un giovane dirigente universitario. I grandi mezzi di comunicazione dell’impero, costituiti anche da aerei con altoparlanti potentissimi, sorvolavano la città, ripetendo il mio nome e quello degli altri 55 compagni, descrivendoci come esseri diabolici…
A.M. — Ciò nonostante in questo determinato momento esiste contro di te una violenta campagna di diffamazione e sta circolando anche la notizia che elementi dei servizi segreti colombiani e dell’esercito come il generale Mario Montoya sono stati nella Repubblica Dominicana per indagare sui tuoi vincoli con le FARC. Esiste soltanto il rischio dell’avvio di un procedimento giudiziario contro di te o temi qualcosa di più grave?
N.I.C. — Generalmente quando si creano queste campagne di diffamazione originate da una specie di terrorismo mediatico, si sa perfettamente chi le costruisce e si sa che arrivano direttamente dai falconi di Washington, dalla Cia, dalle agenzie nordamericane, e specialmente in questo caso anche dagli apparati di sicurezza e intelligence del regime narcoparaterrorista di Álvaro Uribe, che ho affrontato sempre con molta responsabilità, e che chiaramente costruisce campagne di criminalizzazione con lo scopo di facilitare processi pseudogiuridici e fomentare omicidi.
In questo caso si è creata questa campagna per il fatto che io ho sempre considerato le FARC come un movimento politico militare con una giusta ragione di essere.
Io non posso andare in Colombia perchè esiste un piano per attentare contro la mia vita organizzato da sicari della CIA e dagli stessi servizi di sicurezza colombiani. Esistono indizi sicuri di questo, oltre al fatto che lo stesso Uribe ha informato di questo piano l’ex presidente dominicano Hipòlito Mejía.
In passato già hanno cercato di assassinarmi, fu un piano criminale organizzato contro di me nel 1987 dalla mafia cubano-americana di Miami con la complicità del regime di Balaguer per la mia lotta contro l’impunità dei crimini di Stato. Cercai infatti di ripresentare le accuse contro gli autori materiali e intellettuali dell’omicidio del mio gran amico, compagno e formidabile giornalista, membro del Partito Comunista Dominicano, Orlando Martinez Howley, che fu ucciso per aver denunciato negli anni ‘70 i vincoli che allora esistevano tra crimine e potere. Trascorsero 25 anni senza che che si potesse istruire un processo per questo omicidio. Noi siamo riusciti a mantenere il caso vigente, non solo dal punto di vista giuridico ma anche da quello politico. Siamo riusciti ad ottenere così all’inizio di quest’anno la condanna a 30 anni di carcere degli autori materiali dell’omicidio, mancano ancora gli autori intellettuali.
A.M. — Credi che abbia ancora senso la lotta armata delle FARC?
N.I.C. — Bisogna considerare il fatto che in Colombia la lotta armata esiste ormai da 60 anni, e che le FARC esistono da 43 anni. Io penso che se un movimento politico militare è riuscito a mettere insieme migliaia e migliaia di combattenti, di guerriglieri, di simpatizzanti, nel corso di una lotta così difficile e così lunga, questo deve aver avuto cause scatenanti molto profonde.
Storicamente, In Colombia tutto ciò ha origine dalla “guerra sucia”, negli anni ‘50 e particolarmente con l’assassinio di Gaitán e con il massacro di 300 mila colombiani. Immagina 300mila persone a quel tempo e ci si può rendere conto del livello di violenza e del potere terrorista di questo Stato.
Sfortunatamente la “guerra sucia” non è finita, anzi in molti casi si è intensificata. E non si sono risolte nemmeno le cause profonde di disuguaglianza, di esclusione e di discriminazione dei movimenti sociali.
Si parla inoltre del tema dei sequestri, ma quale conflitto armato non ha avuto ostaggi o prigionieri? In alcuni casi si può dire perfino più giustificati che in altri, ma le guerre non sono una passeggiata, le guerre sono dure, e sono crudeli.
A.M. — Tu sei uno dei presidenti della Coordinadora Continental Bolivariana che spesso viene presentata in alcuni media latinoamericani come la facciata politica delle FARC. Alcuni quotidiani, soprattutto quelli del Perú e della Colombia la accusano di avere vincoli con il terrorismo. In Perú soprattutto è accusata di essere lo spazio di ricomposizione del MRTA (Movimiento Revolucionario Tupac Amaru). Si tratta di verità o di menzogne?
N.I.C. — Come è noto la Coordinadora Continental Bolivariana nasce 5 anni fa in seguito ad un movimento coraggioso al quale hanno partecipato soprattutto giovani rivoluzionari del Venezuela, della Colombia e dell’ Ecuador, celebrando così quasi una replica della Campaña Admirable (Campagna Ammirevole) del libertador Simón Bolívar, quella marcia trionfale che egli guidò da Cartagena delle Indie fino a Caracas.
Cosi si lanciò l’idea di costruire la CCB motivata dalla necessità di creare uno spazio di confluenza del movimento rivoluzionario in tutta la sua diversità, partiti di sinistra, movimenti sociali, organizzazioni comunitarie, cittadini, intellettuali, artisti, movimenti dei popoli originari, tutti ci trovammo d’accordo con la necessità di unire le forze, non solo a livello nazionale in ogni paese, ma a livello mondiale, per affrontare una strategia che essa stessa ha carattere continentale. Una strategia politica, militare, economica, mediatica… degli Stati Uniti e delle sue forze alleate nella regione.
Questo è un periodo che consideriamo di cambiamento, di lotte sociali e politiche, caratterizzato da un movimento progressista, da processi che avanzano, con la rivoluzione bolivariana del Venezuela che va avanti, con Cuba che è riuscita a resistere eroicamente, con il processo avanzatissimo in Ecuador, con il trionfo di Evo Morales e il suo emblematico potere indigeno, con il ritorno del governo sandinista in Nicaragua, con il trionfo del vescovo Lugo in Paraguay, con i piqueteros e con coloro che bloccano le strade , con le grandi lotte sociali urbane e rurali, con le imbattibili guerriglie messicana e colombiana…
Tutta questa diversità di forme di lotta ha bisogno anche di un’unità di attori. La Coordinadora nasce con l’idea includente di non discriminare nessuno per forma di lotta e questo è quello che determina che le FARC o che i movimenti con un passato o con un presente ribelle ne facciano parte. Della presidenza collettiva fin dal primo momento hanno fatto parte figure come il vescovo Pedro Casaldáliga del Brasile, come Manuel Marulanda delle FARC e Víctor Polay leader del MRTA del Perú, come la cantautrice Lilia Vera con tutto quello che è stato il suo ruolo per la lotta del Venezuela degli anni ‘60 e ‘70… poeti, segretari generali del partiti comunisti, partiti che stanno sviluppando la loro lotta nella legalità, che stanno partecipando a processi elettorali… come ci sono per esempio i Fogoneros dell’Uruguay, come il PCML (Partito Comunista Marxista Leninista) del Brasile, altri partiti marxisti e tutta una serie di movimenti sociali.
Tra i temi affrontati dalla CCB c’è anche quello della solidarietà con i prigionieri politici, perchè come sono stati solidali i compagni cubani in difesa dei loro cinque patrioti, così anche noi, dobbiamo tenere presente la terribile situazione di una quantità enorme di prigionieri politici dei movimenti rivoluzionari, dei movimenti sociali e politici del continente e del mondo.
Un altro tema importante è la pericolosa presenza militare degli Stati Uniti, tema che viene affrontato in modo marginale nell’agenda di una parte importante della sinistra latinoamericana e che per questo abbiamo lanciato la campagna “nemmeno un solo soldato yankee nella Nostra America”.
Viviamo in un continente colonizzato e ricolonizzato economicamente nel modo più brutale e per di più che sta subendo gli effetti di una strategia militare degli Stati Uniti, con una forte presenza di basi militari, di operazioni belliche, e di manovre veramente impressionante.
La sfida della Coordinadora è quella di non essere più passivi di fronte a queste drammatiche realtà, di essere veramente di sinistra, intendendo la sinistra come una diversità ma anche come una necessità profondamente rivoluzionaria, contestataria, trasformatrice.
A.M. — Dal computer di Raúl Reyes è venuto fuori che tu eri implicato in una mediazione tra Correa e le FARC per la liberazione di Ingrid Betancourt. Cosa è successo in realtà?
Questa è una menzogna. Il mio ruolo rispetto all’Ecuador è in relazione al II congresso della CCB. I compagni allora riposero in me e nel compagno Amilcar Figueroa la fiducia necessaria per poter intraprendere in quel paese i contatti che poi resero possibile la realizzazione di quel congresso, cercando di sensibilizzare gli attori del processo ecuadoriano, incluso anche un gran numero di contatti con forze politiche e sociali del paese.
Per la posizione delicata di quel processo rispetto all’oligarchia e all’imperialismo considerammo doveroso comunicare al governo ecuadoriano il nostro proposito e con questo fine chiedemmo un’incontro con Gustavo Larrea, ministro della Sicurezza. Egli ci ricevette e quindi gli spiegammo con assoluta chiarezza che la Coordinadora era un’organizzazione che non aveva vincoli di Stato e che quindi non gli stavamo chiedendo un impegno governativo, ma volevamo sapere se potevamo contare con la sua approvazione dal momento che non volevamo organizzare il congresso sfidando l’autorità ecuadoriana o nascondendogli qualcosa che era di sua competenza. Egli ci rispose che capiva benissimo e che non aveva nessuna obiezione al fatto che fosse realizzato un evento del genere nel paese.
Accadde poi che mentre si realizzava il congresso contemporaneamente si stava svolgendo tra le FARC, e tra i governi dell’Ecuador, del Venezuela e della Francia un nuovo processo volto alla liberazione di Ingrid Betancourt e di altri ostaggi. Questo spiega perchè l’accampamento di Raúl Reyes si trovasse in quel momento vicino alla frontiera e in territorio ecuadoriano. Immagino che Raúl abbia pensato che Uribe non avrebbe sabotato il processo in un altro Stato. Già esistevano infatti informazioni che le trattative per quella liberazione erano ad uno stato avanzato.
Successivamente, già terminato il congresso della CCB, fu quando ricevemmo la terribile notizia del bombardamento dell’accampamento. In questo processo io non partecipai, e nemmeno ne fui informato prima che avvenisse.
A.M. Allora quali sono i tuoi veri vincoli con le FARC?
N.I.C. – I miei vincoli con le FARC sono pubblici ed io ogni volta che ho avuto un incontro con i suoi dirigenti lo ho reso noto. Sono stato nel Caguán come testimone dell’apertura del processo di pace, che successivamente fallì per la pressione del governo nordamericano sul regime di Pastrana.
Evidentemente il governo degli Stati Uniti già stava contemplando la prospettiva di vittoria di Uribe, che rappresentava una miglior garanzia per una poltica molto più dura.
Io sì partecipai poco tempo dopo in una gestione per la liberazione di Ingrid Betancourt da qui, da Santo Domingo, e questo ebbe a che vedere con il mio precedente viaggio al Caguán.
Credo che certe relazioni debbano essere sempre rese note alla ra società. Per questo io preparai un reportage per il giornale Hoy, molto importante qui nella Repubblica Dominicana, che pubblicò una pagina completa dove io apparvi in una foto con Marulanda e dove raccontavo del mio viaggio nel Caguán e del mio soggiorno nel campo delle FARC.
Questo accadde nel 2001, dopo di questa pubblicazione, vennero a casa mia un giornalista e un diplomatico francese. Il diplomatico era l’ex marito di Ingrid Betancourt. La Francia era molto interessata alla liberazione di Ingrid ed egli mi chiese di far arrivare un messaggio alle FARC e di prestarmi ad una mediazione affinché pervenisse una prova di vita di Ingrid, che era ciò di cui loro avevano bisogno per qualsiasi accordo futuro.
L’ex marito di Ingrid mi spiegò i livelli di ostilità di Uribe, come si comportava questo signore con la famiglia e la sfiducia che essi avevano in lui. Il governo francese era a disposizione per trattare bilateralmente con le FARC e perfino per riconoscerle come forza belligerante, trattando qualsiasi argomento relativo a questa problematica.
Io avviai la gestione, giunse il messaggio, i comandanti della FARC fornirono le prove di vita e di salute di Ingrid, accettarono il processo e si intraprese un cammino per la sua liberazione di Ingrid, ma quando Uribe e l’esercito colombiano se ne resero conto, bloccarono bloccarono questa possibilità.
A.M. – Narciso, tu sei stato sempre solidale con la rivoluzione bolivariana del Venezuela e con il presidente Chávez. Cosa pensi delle sue recenti dichiarazioni e di quelle di Fidel Castro sulla guerriglia e sulla lotta armata?
N.I.C. – Quello di Chávez è stato un cambiamento forte, sorprendente e sconcertante. La cosa peggiore per me è l’aver detto che la lotta armata non ha più alcun senso. Come spiegarlo, dal momento che egli stesso si è ribellato con le armi.
Perchè Chávez non si è ribellato con un mazzo di fiori , egli è insorto con i fucili e fu questo quello che allora applaudimmo. Lo appoggiammo e lo difendemmo anche quando quel gesto trascendente venne stigmatizzato, quando i suoi protagonisti venivano disonestamente chiamati “golpisti”.
Crediamo che ci sia bisogno di reciprocità in questo e che nessuna ragione di Stato debba essere posta davanti al riconoscimento della verità. Se in Colombia esiste la lotta armata a tal livello e da tanti anni è perchè essa ha ragione di esistere e pertinenza.
In Venezuela evidentemente ha predominato la decisione di ripristinare le relazioni tra Uribe e Chávez, tra i due governi e tra i due Stati; e per facilitare questo processo si è incorso in due grandi errori: esaltare l’amicizia con il regime narcoparalitare terrorista di Álvaro Uribe, ricompensandolo di tutte le verità che lo stesso Chávez aveva detto e chiedendo la smobilitazione delle FARC come qualcosa di auspicabile per la pace e la democrazia e importante necessario per una relazione di buon vicinato con il paese fratello. E, ancor peggio che criticare la lotta armata, cercare di delegittimare la lotta di tutto un popolo e lo spiegamento di ogni forza, mentre il governo colombiano assume posizioni di guerra e gli Stati Uniti minacciano con la loro Quarta Flotta.
Questo equivale a mettere un coltello alla gola della rivoluzione bolivariana e contribuisce a dare fiducia a uno Stato che sta pretendendo di svolgere nella regione lo stesso ruolo che svolge Israele in Medio Oriente. La verità è che se si comincia a cedere un poco su questo terreno poi verranno chiesti prima il braccio e infine la testa.
Le dichiarazioni di Fidel Castro e la posizione di Cuba rispetto alla Colombia vanno evidentemente nella stessa direzione, anche se sicuramente Fidel Castro ha trattato con più attenzione il tema della lotta armata quando ha affermato: “io non sto chiedendo a nessuno di deporre le armi”.
Ma questo nuovo posizionamento di leadership così influenti nel continente, più che far danno alla guerriglia colombiana abituata a situazioni difficili, colpisce soprattutto la possibilità immediata di un cambiamento democratico in quel paese, cambiamento che stava maturando in conseguenza della frattura del regime di Uribe e dei progressi compiuti verso una piattaforma comune di tutte le forze progressiste che gli si oppongono.
A.M. – Credi che ci sia una via d’uscita dalla situazione colombiana?
N.I.C. – Io credo che il regime di Uribe renda impossibile un processo di dialogo e di accordo. Mi sembra che ci siano prove molto significative di questo, cioè che non si tratti soltanto di Uribe, ma di tutto ciò che lui rappresenta.
Quello che si deve creare in Colombia è una confluenza tra le forze politiche civili e militari alternative, le forze politiche, l’insorgenza armata, i movimenti sociali politicizzati… con una proposta di governo sovrano, democratico e partecipativo che renda possibile aprire un tavolo di negoziati sul tema della violenza per trovare cammini di pace e di benessere.
In Colombia stavano crescendo e possono continuare a crescere le forze che prospettano la rinuncia di Uribe, come è accaduto per gli altri movimenti che sono esistiti in America del Sud, come è accaduto per l’Ecuador, l’ Argentina, la Bolivia… si cerca di cacciarlo dalla presidenza come illegittimo, come usurpatore e come criminale e corrotto, ci cerca di raggiungere un’altra composizione governativa.
Tanto l’ ELN come le FARC hanno dimostrato che sono disposte a far parte di un progetto con queste caratteristiche e a far parte di una soluzione politica al conflitto armato. Ma un processo di questo tipo ha bisogno di garanzie e di condizioni impossibili da raggiungere sia nel contesto di un governo come quello di Uribe, sia attraverso la smobilitazione della guerriglia. Questo equivarrebbe ad un suicidio collettivo.
Io do ragione a Marulanda, ricordo che mi spiegò questo in una conversazione personale quando ero nel Caguán. Lui mi disse: “io non smantellerò tutto in cambio di niente o di poco, non smobiliterò una costruzione storica di più di 40 anni di vita, un esercito popolare, su un tavolo di trattative”.
Questa forza armata irregolare deve essere parte di una soluzione politica come cercò di essere il FMLN in Salvador prima di consegnare le armi, quando propose che fosse riconosciuto militarmente e invece venne considerato limitatamente al caso della polizia civile con le conseguenze negative che noi conosciamo.
Bisogna imparare da tutte le esperienze precedenti di pace negoziata. Le FARC hanno il vantaggio di essere sopravvissute nel tempo e di essere cresciute per poterle ponderare meglio, oltre al fatto di avere forza considerevole e logistica per resistere.
Bisogna dare spazio a tutta l’immaginazione possibile per questo, ma io credo che le armi in mano alle FARC in caso di qualsiasi caso siano una garanzia per esse stesse e per buona parte della società civile.
Sicuramente bisogna contribuire a una politica di umanizzazione del conflitto e l’umanizzazione del conflitto prevede un capitolo che si chiama scambio umanitario di prigionieri e ogni scambio umanitario implica uno scambio di prigionieri da entrambe le parti. Non si deve parlare della crudeltà della prigionia degli ostaggi nelle montagne e tacere l’enorme crudeltà di un regime che squarta la gente, che la tortura, che semina il paese di cadaveri. Tra i prigionieri delle FARC ci sono paramilitari e professionisti delle motoseghe, torturatori, narcotrafficanti, e veri criminali. Le FARC hanno cercato molte volte lo scambio umanitario e hanno dato molti segnali positivi in tal senso. Io stesso fui invitato a quello scambio, quando liberarono più di trecento militari, ma allora mi fu negato il visto.
A.M. e Ingrid Betancourt?
N.I.C. – E’ chiaro che Ingrid Betancourt è una candidata della Francia e non della Colombia e che fa parte di un progetto francese per l’America Latina. Lei fece un elogio a Uribe e al generale genocida Montoya che mai sarebbe dovuto uscire dalle sue labbra, anche se poi ha rivisto le sue posizioni. E la differenza tra lei e la sua famiglia, , è che mentre lei agisce con in mente il suo progetto politico e con Sarkozy alla presidenza francese per opera e grazia della CIA, la sua famiglia invece agisce con i sentimenti e con il dolore che gli ha provocato il cinismo di Uribe.
Fonte: Il Manifesto
L’ex-ostaggio franco-colombiano delle Farc, liberato dopo sei anni di penosa prigionia nella selva da una mirabolante operazione militare ordinata dal presidente Uribe, rischia di diventare, suo malgrado, un’icona. E una chiave di lettura troppo facile e sbagliata (i Buoni contro i Cattivi) di un conflitto complesso come quello della Colombia
di Guido Piccoli
Sei anni nella selva a invocare la Madonna e a leggere la Bibbia, l’unica pubblicazione consentita dal rigore guerrigliero. Poi, a luglio, la liberazione, lo sbarco in terra europea, i festeggiamenti con Sarkozy e la Legion d’Oro, la visita a Lourdes. Domattina l’udienza con Benedetto XVI a Castel Gandolfo e il pomeriggio una preghiera in San Pietro. Così Ingrid Betancourt conclude il suo pellegrinaggio di ringraziamento per l’Operazione Scacco nella selva del Guaviare che, per come è stata raccontata, appare un miracolo da ascrivere, come sostenne allora anche il presidente Alvaro Uribe, «all’intervento dello Spirito Santo e alla protezione di nostro Signore e della Vergine, in tutte le sue espressioni».
Domani, martedì e mercoledì, prima a Roma e poi a Firenze, ci sarà anche spazio per i riti civili: conferenze, incontri, altre chiavi di varie città, il Giglio d’Oro. Questa sera invece cena con Walter Veltroni, che prese a cuore la sua tragedia quasi più degli stessi francesi. In Campidoglio Ingrid abbraccerà il suo successore neo-fascista Gianni Alemanno (nessun problema, in Colombia ha abbracciato di peggio). E poi di corsa, tra gli altri, da Napolitano, Frattini e Fini, fresco di una marachella marina nell’isola di Giannutri: un delitto per gli ecologisti, ma l’ex leader di Oxigeno Verde nemmeno ne sarà informata. In un paio d’occasioni sarà accompagnata da giornalisti fuori dal coro, come Gianni Minà e Maurizio Chierici, che non solo hanno ben presente cosa succede in Colombia ma anche ben integra l’onestà intellettuale per evitare che il passaggio in Italia della Betancourt si trasformi in uno show di bagattelle sui film in lavorazione a Hollywood o di gossip sulla sua incerta vita sentimentale (come hanno già anticipato alcuni giornali).
Ma soprattutto che non si deformi la realtà della Macondo latino-americana. Il rischio c’è. Se le luci della ribalta fossero solo su di lei e il suo dramma, come vorrebbe l’informazione-spettacolo, la Colombia apparirebbe un campo di battaglia tra Bene e Male, buoni e cattivi. Dove la «buona» per eccellenza, meritevole di ogni onorificenza fino al Nobel della pace, sarebbe lei, vittima di un crimine ingiustificabile che le ha portato via sei anni di vita. E su questo non ci piove. E poi, certo, anche gli altri sequestrati e prigionieri di guerra, di cui però a nessuno è mai importato niente, non essendo mezzo francesi e nemmeno ricchi, famosi e colti. E buoni sarebbero anche gli «agenti del miracolo»: Uribe, il generale Mario Montoya e l’esercito colombiano.
E il Male, i cattivi sarebbero i loro nemici. Le Farc innanzi tutto, ladri di sei anni della vita di Ingrid, carcerieri anche un po’ polli che si sono fatti fregare il loro più prezioso bottino umano, sotto il naso e a quel modo. E anche su questo non ci piove. Ma anche i loro amici, veri o presunti, come i presidenti del Venezuela e dell’Ecuador, Hugo Chávez e Rafael Correa, che si sono spesi per una trattativa che avrebbe liberato, oltre a Ingrid, altre centinaia di sequestrati e prigionieri di guerra, rappresentando un segnale di pace in un paese da quasi mezzo secolo in guerra. E poi anche la deputata liberale Piedad Córdoba che adesso rischia la galera per aver fatto da mediatrice, su richiesta dello stesso Uribe. Ma soprattutto per apparire, insieme con Chávez e Correa e molti altri, negli onnicomprensivi computer recuperati incolumi (altro miracolo) accanto al cadavere del numero due delle Farc, Raúl Reyes, bruciato dai missili nel suo accampamento di fortuna della selva ecuadoriana il primo marzo. Guarda caso, proprio quando stava definendo, con degli emissari francesi, gli ultimi dettagli della liberazione di Ingrid.
Se è inevitabile che le sceneggiature dei film in lavorazione a Hollywood necessitino di semplificazioni e ritocchi, la realtà dovrebbe essere descritta per quella che è. E così anche i protagonisti della vicenda.
Cominciamo dai buoni. Da Ingrid, alla quale va tutta la stima e la solidarietà per quanto ha sofferto, e la comprensione per ciò che ha detto o fatto, anche quando era sotto effetto del «nirvana» della liberazione (parole sue). Sarebbe da stupidi rimproverarle alcuni abbracci e affermazioni, ma va ricordato che il «grande e buon presidente» che l’ha liberata è colui che, a costo della sua incolumità, ha frustrato consapevolmente, durante i suoi anni di prigionia, ogni tentativo precedente pur di non intavolare una trattativa con chi la deteneva.
Nella lettera alla madre Yolanda, che nel novembre scorso commosse il mondo e nella quale si augurava che un giorno i colombiani diventassero «meno individualisti e indifferenti e più solidali», Ingrid nominò e ringraziò un centinaio di persone, ma non spese una sola parola per Uribe. Allora era forse d’accordo con la madre che arrivò a chiedersi se Uribe «avesse un cuore» e perfino a confessare di essersi opposta a che Melanie e Lorenzo, i figli di Ingrid, vivessero in Colombia «per timore che lui, il suo esercito e i suoi paramilitari li perseguitassero». I sentimenti possono cambiare, ma rimane il fatto che la rielezione di Uribe, per Ingrid «molto positiva», è stata resa possibile dal sostegno elettorale di boss narco-paramilitari e da una compravendita di voti che ha provocato uno scandalo.
Passiamo al generale Mario Montoya. Se avesse conosciuto il suo curriculum, la Betancourt l’avrebbe abbracciato un po’ meno caldamente. Secondo vari documenti dell’ambasciata Usa a Bogotà, del dipartimento di Stato, della Cia e le confessioni di alcuni paramilitari (l’ultima, una ventina di giorni fa, di «Diomedes» del Bloque Mineros delle Auc), dov’è passato Montoya da trent’anni a questa parte, sono cresciuti squadroni della morte e fosse comuni.
Passiamo ai cattivi. E’ indubbio che le Farc detengano quasi il monopolio di un delitto spregevole come il sequestro di civili, per fini politici o estorsivi poco importa (cosa diversa è catturare nemici in battaglia). Ed è quello che è toccato a Ingrid. Ma non è né l’unico, né il più grave nella barbarie colombiana: è solo il crimine che colpisce preferibilmente i ricchi. Per questo è sembrato stonato quel suo proclamarsi «soldato contro le Farc», nel giorno della sua liberazione all’aeroporto del Catam, con indosso la stessa tuta mimetica di quei reparti di contro-guerriglia che, con la scusa di «togliere l’acqua al pesce», si macchiano da decenni di episodi orribili contro i civili, compresi donne e bambini. Tra i cattivi ci sono anche coloro che sono considerati i nemici, interni ed esterni, di Uribe. Tra questi, i principali sono Chávez e la Córdoba. Nella famosa lettera alla madre, Ingrid esprimeva per loro «affetto e ammirazione», confessando quanto apprezzasse la generosità del presidente venezuelano e ringraziandolo «per interessarsi alla nostra causa, poco attraente, perché il dolore altrui, quando diventa una statistica, non interessa a nessuno». A liberazione avvenuta, secondo i giornali colombiani, l’unica dichiarazione rivolta a Chávez e anche a Correa è stata l’invito di «no meterse», non immischiarsi con la democrazia colombiana. Alcuni hanno parlato di ingratitudine. Altri di tradimento. Cosa pensi davvero ora Ingrid non è dato sapere.
Dai caotici e straordinari primi giorni di libertà Bogotà, si è allontanata dal suo paese. Ne aveva sicuramente bisogno. A quanto pare, ha rifiutato un invito di César Gaviria, l’ex presidente liberale a candidarsi alle prossime elezioni presidenziali. C’è chi giura finirà a Parigi, in sede Unesco, o a New York, nel Palazzo di vetro. Se decidesse così, la si capirebbe. Ma la Colombia rimarrebbe ancora più sola e dimenticata. La democrazia» colombiana ha bisogno di gente come Ingrid. Con lo stesso spirito di chi ha lottato prima contro corruzione e perbenismo e poi resistito all’annichilimento nella selva. Ma senza tuta mimetica.