L’arrivo di Flavio Sosa all’aeroporto di Oaxaca (foto La Jornada)
Il 15 agosto scorso, in seguito alle forti pressioni della comunità internazionale e delle associazioni per la difesa dei diritti umani, Flavio Sosa Villavicencio, leader dell’Assemblea Popolare di Popoli di Oaxaca (APPO) e suo fratello Horacio sono stati trasferiti dal penitenziario di massima sicurezza di Città del Messico al carcere regionale dello stato di Oaxaca.
I due fratelli Sosa si trovavano nel penitenziario del Altiplano dal 4 dicembre del 2006 quando furono arrestati “a sorpresa” dopo una conferenza stampa nella quale si assicurava che erano in corso trattative per risolvere il conflitto sociale allora in corso.
Il governo di Oaxaca ha diffuso un comunicato secondo il quale il trasferimento dei fratelli Sosa è avvenuto per accogliere le richieste dei loro familiari nonchè quelle della Commissione Nazionale dei Diritti Umani.
Ciò nonostante è stata molto forte la pressione esercitata sulle autorità federali e statali da parte di tutta la comunità internazionale affinchè i due fratelli Sosa potessero essere giudicati in un carcere regionale.
Ieri, nella sua prima intervista (a La Jornada) rilasciata da quando si trova in carcere, Flavio Sosa ha fatto sapere che “se la lotta è per il cambiamento, allora vale la pena soffrire”.
“Io non negozierò nulla con il governatore Ulises Ruiz, non ho commesso nessun delitto e prima o poi uscirò dal carcere”.
Ha affermato inoltre che “lo Stato messicano ha lanciato una brutale repressione contro il popolo di Oaxaca. Ha torturato e imprigionato molte persone senza che avessero commesso nessun delitto. E in un caso inedito nella storia recente dello Stato, siamo stati condotti in prigioni di massima sicurezza dello Stato del Messico come Nayarit e Tamaulipas soltanto per aver alzato la voce”.
Alla domanda se valga la pena soffrire tanto per una causa, Flavio risponde sicuro: “certo che vale la pena, la mia famiglia e quelle di tanti altri hanno sofferto cose terribili, ma se la lotta è per il cambiamento, allora vale la pena soffrire.
Hugo Chávez e la Constitución “roja rojita”
L’Europa “è cinica”, ha ragione Chávez.
L’europa che lo deride e che critica il suo programma di riforma costituzionale, ancora oggi, ha detto Hugo Chávez “ha ben 6 monarchie ereditarie e dieci regimi politici che contemplano la possibilità della rielezione illimitata dei suoi presidenti”.
“Magari in Europa si consultassero i popoli sui suoi sistemi politici ed economici , loro che hanno re e regine che nessuno elegge e che si perpetuano per il loro carattere erediatrio” ha detto il presidente venezuelano.
Arrivo a Oaxaca alle 3 del mattino in autobus, 7 ore di viaggio da Città del Messico.
Domandiamo al tassista che ci sta accompagnando in albergo se la situazione sia tornata tranquilla dopo la violenta repressione di un anno fa della protesta civile dei maestri e del movimento sociale della APPO e dopo gli ultimi gravi episodi del 17 luglio di quest’anno, quando in occasione della festività della Guelaguetza popular sono state arrestate circa trenta persone e un uomo si trova tutt’ora in gravissime condizioni in ospedale. Come infastidito dalla domanda, a mezza bocca e a bassa voce ci dice che adesso la situazione è più tranquilla, che ci sono turisti e che “quelli della APPO sono tornati da dove sono venuti, erano venuti da fuori a creare problemi” dice.
Sembra non crederci nemmeno lui. Si intuisce che non e’ contento di parlare di quello che e’ successo e nei giorni successivi avrò modo di rendermi conto che questo è un sentimento abbastanza diffuso qui. La gente di Oaxaca prova imbarazzo e fastidio a raccontare quello che e’ sucesso a una turista occidentale. Loro che vivevano e vivono quasi esclusivamente di turismo soltanto adesso tirano un respiro di sollievo e vedono riprendere le loro attività. Mi rendo conto di come la criminalizzazione del movimento abbia raggiunto i risultati sperati.
La campagna che è stata portata avanti dal governo statale e che ha fatto passare i maestri della Sección 22 del Sindacato Nazionale dei Lavoratori dell’Educazione e gli appartenenti alla APPO come dei delinquenti violenti o peggio dei terroristi ha attecchito presso la popolazione, soprattutto fra coloro i quali hanno risentito maggiormente, in termini economici, delle conseguenza della protesta civile, e cioè gli operatori del turismo, i commercianti, i tassisti. Ci sono infatti, due anime distinte che convivono qui ad Oaxaca, coloro i quali condannano la APPO e il movimento sociale, i più vicini al governo panista, quelli che si sono lasciati maggiormente manipolare dalla campagna che ha dipinto il movimento sociale di Oaxaca come una fucina di violenza e terrorismo, e l’anima più popolare, quella indígena, che parlando per strada o nei negozi dice senza timore che “Ulises tiene que caer”, deve cadere. E come accade spesso, nel mezzo prendono posto gli indifferenti. “Ruiz está sordo” mi dice una vecchia contadina in un taxi colectivo, mentre l’autista le risponde “sono tutti uguali, basta che mi lascino lavorare”.
Il governatore di Oaxaca è sordo alle richieste dei settori più poveri dello stato che chiedono di poter disporre più autonomamente delle risorse naturali e soprattutto di beneficiarne e sordo alle richieste di maggior attenzione rispetto alle necesità primarie di educazione, salute, lavoro. Il popolo dello stato di Oaxaca non si sente rappresentato dal suo governo e questa forse è stata e continua ad essere, anche se portata avanti diversamente, la vera anima della protesta. Jessica Sánchez della LIMEDDH di Oaxaca, che incontro nel suo ufficio e che ringrazio per la disponibilità ed il tempo che mi ha dedicato, mi dice che paradossalmente è un bene che Ulises Ruiz sia ancora al suo posto, questo infatti sta permettendo a diversi settori della popolazione di organizzarsi e di approntare nuovi metodi e tappe di lotta. Forse è proprio questa la nuova consapevolezza e maturitá che si percepiscono adesso a Oaxaca.
Oaxaca e’ tranquilla e solare. Lo Zócalo risuona delle voci dei bambini, c’è la musica , la gente che passeggia o pranza sotto il porticato. Questa atmosfera deve essere ben diversa da quella che si respirava appena un anno fa. Vado al mercato Benito Juárez per la colazione, in uno dei tanti comedores. Mi lascio condurre da colori ed odori e mi sembra bellissimo. Torno in piazza, è in festa, oggi è domenica e molte persone giungono dai villaggi vicini. L’unico servizio di sicurezza è rappresentato da quattro donne della polizia municipale, che percorrono la piazza sorridendo, ogni tanto fermandosi in un angolo a chiacchierare con un collega che sembra un bambino. E’ come se la città intera abbia esorcizzato l’accaduto, lo abbia riimosso, molti addirittura ignorano i motivi degli ultimi scontri del 16 luglio e parlano di ciò che è avvenuto lo scorso anno come se si trattasse di qualcosa accaduto molto tempo prima e in un altro luogo. Oaxaca adesso ha bisogno di tempo, del suo tempo, per risorgere e trovare pace mentre la sua gente, a un prezzo molto alto, si sta lentamente riappropriando della sua coscienza civile.
San Juan Chamula
Miguel Martínez, cura de San Juan,
de soledad se hartó en su iglesia,
sin ruido de plata en su canasto,
moría su anhelo de poder.
Lleno de coraje caminó a Tsajaljemel
Con bravura de cónico hombres.
Trató de oscurecer la conciencia iluminada,
despedazando los símbolos sagrados,
acusando que eran obras del demonio,
y así menguar ese eco de unidad:
“Estas figurillas de Cuscat
son símbolo de maldad y muerte,
es un acto de idolatría y sacrilegio”,
gritaba el cura Martínez.‘
Los tsotiles dejaron que destruyeran
sus figuras hechas del cuerpo
de la madre silenciosa.
¿No es idolatría
la variedad de santos y escapularios de oro
que permanecen inmóviles
en el palacio de rezos?
¿Qué piden la Madre Tierra y el Padre Sol
que nos regalan la luz de la existencia?
¿No es idolatría que el propio Martínez
exigiera a los tsotsiles la décima parte
de sus esfuerzos de dura jornada?
¿Qué pide el viento y el montículo de robles,
pinos y selvas doradas del aire puro?
¿No es barbarie
el castigo con ardiente dolor
por la supuesta blasfemia
al elevar como Dios al sol
que no es símbolo de pecado original?
¿Qué pide el río
cuando se desliza en tu cálida piel
y te limpia sin mentiras el cuerpo,
llenándote de energía el espíritu;
mientras al cura le pagas
por el bautismo y te somete el alma?
Las afanosas nubes no piden nada,
la madre naturaleza jamás,
No exige ningún diezmo:
porque lo obsequian todo.
El cura despertó la ira de los nahuales
y se lanzaron como relámpago
que destruye aún el metal,
así aniquilaron a Miguel Martínez,
católico ángel venenoso,
junto con sus cuatro verdugos.
Vengo de las tierras altas de Chiapas, de Chilimjoveltic, una comunidad que pertenece al municipio tsotsil de San Juan Chamela, al pie del sagrado cerro de Tsontehuits, ahí vi la luz de mi vida en la helada noche del 13 diciembre de 1981. Gracias al Centro Estatal de Lenguas, Arte y Literatura Indígena (CELALI), cursé el diplomado en composición poética y narrativa en 2003, en la Escuela de Escritores del espacio Cultural Jaime Sabines, SOGEM, de san Cristóbal de las Casas. Coautor del Libro Jowil Yaxinal, Delirio de Sombra, 2005. Ahora sale a los ojos del tiempo: Sbel sjol yo’ onton ik’, Memoria del viento.
Soy una melodía de esos trece acantos por Tsajal jemel.
Por nuestra memoria, canto.
Un abrazo solidario a todos mis amigos peruanos. Quisiera estar con Ustedes.
Sono nel “centro dell’universo”.
Dove secoli orsono, un popolo nobile, nel luogo in cui vide un’aquila su di un cactus con un serpente nel becco, decise di costruire uno dei templi piu’ belli di tutta l’antichita’.
Il sangue versato dai loro sacerdoti, e’ stato sacrificio inutile, il sole per un momento ha smesso di brillare e dal mare è giunta la morte.
Huizilopochtli ti ha tradito, ingenuo Montezuma.
Cortés non era il tuo Quetzalcóatl, il Dio non era ancora tornato ma l’Uomo, lui sì era giunto fino a Tenochtitlán.
Era l’8 novembre 1519.
Alvarado, con artigli e coltelli,
piombò sulle capanne, distrusse
il patrimonio degli orefici,
rapì alla tribù la rosa nuziale,
aggredì razze, poderi, religioni,
fu il ricco forziere di tutti i predoni,
fu il falco clandestino della morte.
Verso il gran fiume verde, il Papaloapan,
Fiume delle Farfalle, andò più tardi e portò sempre sangue il suo stendardo.
L’austero fiume vide i suoi figli
morire o sopravvivere schiavi,
vide bruciare, nei fuochi accanto all’acqua,
razza e prigione, teste giovanili.
Ma i patimenti non finirono
quando egli volse il passo indurito
verso nuove regioni.
Raúl Isaías Baduel
Angela Nocioni ha scritto un articolo su Liberazione del 10 agosto dal titolo: “E’ successo”.
E’ successo che secondo la giornalista e secondo anche Clodovaldo Hernández, (El País di Madrid) dal quale la Nocioni ha letteralmente scopiazzato il contesto e ampi stralci di questo articolo del 27 luglio, “qualcuno di indubitabilmente chavista ha osato criticare in pubblico l’andazzo preso dalla Revolución”. (e non Revoluciòn come scrive la Nocioni).
Questo “qualcuno” secondo Angela Nocioni sarebbe niente di meno che Raúl Isaías Baduel, da poco ex capo dell’Esercito ed ex Ministro della Difesa del Venezuela, uno dei fondatori del Movimento Bolivariano, diresse due giorni dopo il fallito golpe dell’11 aprile 2002 “l’Operación rescate de la Dignidad Nacional” con la quale liberò Hugo Chávez riportandolo a Miraflores.
Andando all’articolo originale su El País, Clodovaldo Hernández ha estrapolato alcune frasi del discorso di fine mandato del generale Raúl Isaías Baduel dello scorso 18 luglio, assegnandogli, inventandolo di sana pianta, un senso marcatamente “antichavista” e ipercritico verso la rivoluzione bolivariana e l’operato dello stesso presidente Chávez. E’ un vecchio giochetto. Si prendono delle frasi da un discorso, si isolano dal contesto e si fa credere con l’aggiunta di qualche aggettivo e complemento qua e là che il senso sia diverso da quello originario. Soprattutto, la cosa più grave è che si vuol far credere che all’interno del processo bolivariano non esista da sempre un dibattito ampio, aspro, democratico.
Le stesse frasi, tradotte in italiano, sono state utilizzate da Angela Nocioni nel suo articolo, con l’aggiunta degli stessi aggettivi e complementi.
Addirittura ha scritto la Nocioni che il generale “ha scelto il giorno del suo ultimo discorso da ministro della Difesa per far sapere che a Caracas esiste una opposizione interna”.
E’ probabile che Angela Nocioni non abbia neanche letto il discorso del generale Raúl Isaías Baduel. E comunque ha aspettato due settimane prima di scriverne.
La giornalista di Liberazione, ricamando intorno a poche frasi del discorso del generale, nel suo articolo fa tutta una serie di supposizioni che risultano completamente fuori luogo e fuorvianti a chi abbia la volontà di andarsi a leggere a fondo le 11 pagine del discorso originale di Baduel.
La domanda è: la Nocioni ha letto il discorso di Baduel? Non essendoci nel testo nessun riferimento che non sia presente anche nel pezzo di Hernández, la conclusione ovvia è che la Nocioni non si è presa la briga di farlo.
Facciamo qualche esempio dei giochetti sporchi della Nocioni: quando su Liberazione getta lì “deve essere chiaro che un sistema socialista di produzione non è incompatibile con un sistema politico profondamente democratico con meccanismi di controllo e separazione dei poteri”, insinuando che si tratta di una critica al dittatore dal basco rosso, “dimentica” di citare la parte finale dello stesso periodo. Infatti il generale prosegue e completa: “…come ha ben segnalato il nostro Presidente Hugo Chávez [in una intervista]… : nella linea politica uno dei fattori determinanti del Socialismo del Secolo XXI deve essere la democrazia partecipativa. Il potere popolare. Bisogna mettere tutto nelle mani del popolo, il partito deve essere subordinato al popolo. Non il contrario”.
Quindi, quello che la Nocioni definisce una “condanna esplicita del modello sovietico, una bocciatura del capitalismo di Stato e poi un affondo sul punto più delicato del potere del nuovo Venezuela Saudita” altro non è che un passaggio di un discorso dove il generale Baduel riferendosi al “socialismo profondamente democratico” porta ad esempio, per convalidare la sua tesi, proprio una citazione di Hugo Chávez ed in particolare quella in cui il presidente parla di democrazia partecipativa nelle mani del popolo come uno dei fattori determinanti del Socialismo del XXI secolo.
La Nocioni inventa interi passaggi del discorso. Dove dice per esempio che “un governo onnipresente non può essere un’alternativa credibile al capitalismo neoliberista che il presidente giura di voler superare”. Ho riletto attentamente il discorso decine di volte e non c’è traccia di questo passaggio.
Il discorso del generale Baduel è un discorso pieno di stima e fiducia nel Presidente Chávez, oltre che pieno di speranze in quello che è chiamato Socialismo del XXI secolo.
Pieno di critiche sì verso il “socialismo reale” da cui deve trarre insegnamenti per non ripetere gli errori del passato (come Hugo Chávez ha d’altra parte sempre sostenuto fin dal V Foro Sociale Mondiale, in cui ha gettato le basi del Socialismo del XXI secolo), ma nella sostanza un discorso pienamente dentro il percorso bolivariano e al fianco del presidente. Altro che quell’“opposizione interna” che vede la Nocioni.
Come lo stesso generale Baduel dice: “la Nazione oggi si trova in un passaggio politico sociale inedito, …e quando dico inedito mi riferisco tra le altre cose al processo di costruzione di un nuovo modello politico, economico e sociale che abbiamo denominato socialismo del XXI secolo… che implica la necessità imperiosa e urgente di formalizzare un modello teorico proprio e autoctono di Socialismo, che si rifaccia al nostro contesto storico, sociale, culturale e politico”. Questa frase non può non ricordare (anche se non osiamo sperare che la Nocioni lo sappia) quell’ “o inventiamo o sbagliamo” del maestro di Bolívar, Simón Rodríguez, che il presidente Chávez cita continuamente.
E qualsiasi modello politico, economico e sociale, in costruzione in una società democratica è oggetto di dibattito ed è circondato da vivacità culturale. Tanto più in Venezuela.
Ma per la Nocioni questo è troppo difficile da comprendere, gettando il seme della falsità insinua soltanto che ciò presupponga un’ “opposizione interna”.
Svista ancor più grave, commettono i due, ma soprattutto la nostra, al non ricordare ai lettori che il discorso del generale Baduel altro non è che il prologo che lo stesso ha scritto all’ultima edizione del giugno 2007 del libro di Heinz Dieterich dal titolo Hugo Chávez e il socialismo del secolo XXI”.
Tutti sanno che Heinz Dieterich Steffan è consulente di Hugo Chávez ed egli stesso ha invitato il generale Baduel a scrivere la prefazione dell’ultima edizione del suo libro.
Infine mente la Nocioni, come mente il giornalista de El Pais dal quale ha copiato, quando dice che Baduel invece di concludere con “patria socialismo y muerte” conclude con “dio onnipotente ed eterno”.
Angela Nocioni se avesse letto il discorso avrebbe anche notato che la conclusione di Baduel è stata: “Che Yahvé, Elohim degli Eserciti, Supremo creatore di tutte le cose, benedica e protegga per sempre la Repubblica Bolivariana del Venezuela”.
E che la protegga soprattutto dai giornalisti contafrottole.
…
Leggi anche:
La lettera a Liberazione di Paolo Rossignoli
La lettera a Liberazione di Gennaro Carotenuto
Invito inoltre a leggere (in spagnolo):
Caro direttore,
indipendentemente dal discuterne il contenuto, mi sembrava giusto
segnalarle che, anche a salvaguardia
della professionalità della redazione del giornale, l’articolo della
Nocioni,
postato in prima pagina su Liberazione del 10 agosto, 2007, riguardante
il
Venezuela, con le “critiche” del generale Raúl Isaías Baduel del 18 de
julio de 2007, a parte l’introduzione sarcastica e anche un po’
infantile
sul modello “visto che non lo dico solo io”, è praticamente la
scopiazzatura di un articolo del 27/07/2007 apparso su:
http://venezuelareal.zoomblog.com/archivo/2007/07/27/el-proyecto-socialista-de-Chavez-divid.html
Se si vuole invece analizzare veramente il discorso, vi invito a
leggere
il testo integrale dell’intervento
del generale Raúl Isaías Baduel, lo trovate in spagnolo su:
http://venezuelareal.zoomblog.com/archivo/2007/07/31/discurso-del-General-Raul-Isaias-Badue.html
tra le altre cose, non chiude con un “dio onnipotente ed eterno”, ma
con
le 7 regole dei samurai.
cordiali saluti e buon lavoro
Paolo Rossignoli
Ancora lontana la firma per la Dichiarazione dei diritti dei Popoli Indigeni. A bloccare l’accordo Stati Uniti, Colombia, Canada, Australia e Nuova Zelanda.
Si celebra quest’anno la 14° giornata internazionale dei popoli indigeni, indetta dalle Nazioni Unite nel 1994, per ricordare l’importanza delle culture originarie e la necessità di difenderle dalle continue violazioni subite e dall’incombente rischio di estinzione. L’apporto delle popolazioni indigene all’umanità va ben oltre il folklore delle loro tradizioni. Le culture originarie infatti rappresentano nella storia umana il più importante esempio di rispetto per la vita e per l’ambiente, oltre che di spiritualità e di valori non individuali ma collettivi.In una fase come quella attuale, in cui il pianeta è minacciato da catastrofi naturali, guerre e dall’incedere della povertà, è quanto mai importante riflettere sull’insegnamento proveniente dai popoli che hanno vissuto e convissuto per migliaia di anni – in assoluta armonia – con l’ambiente circostante, riconoscendo l’importantissimo ruolo che i popoli indigeni svolgono nella difesa della madre terra e delle risorse naturali, contro gli interessi economici dei governi e delle imprese transnazionali che portano avanti uno sfruttamento irrazionale e spesso selvaggio delle risorse disponibili. La celebrazione della Giornata Internazionale dei Popoli Indigeni è un’ulteriore occasione per esprimere loro, ancora una volta, il nostro riconoscimento per le storiche lotte portate avanti in diversi angoli del mondo. Contemporaneamente, è un’occasione per riaffermare la necessità di dare nuovo impulso alla battaglia mondiale per il pieno riconoscimento dei diritti di questi popoli, che continuano, per effetto del pregiudizio, della discriminazione, dell’esclusione sociale, ad essere vittime di continui soprusi, perpetrati in nome della cosiddetta civiltà o del mercato.Nonostante i secoli di tradizioni, cultura, insegnamenti tramandati, i popoli indigeni continuano infatti ad essere tra le comunità più povere ed emarginate del pianeta.Ancora oggi, e nonostante anni ed anni di attesa, le Nazioni Unite continuano a rimandare la firma della sospirata Dichiarazione dei Diritti Universali dei Popoli Indigeni, che dovrebbe ribadire e tutelare il diritto dei popoli all’autodeterminazione, alla sovranità territoriale ed alimentare, alla salvaguardia della cultura tradizionale. Il progetto è attualmente bloccato per mancanza di volontà politica e per gli ostacoli posti da Paesi come – tra gli altri – il Canada, gli USA, la Nuova Zelanda, la Colombia e l’Australia, preoccupati delle conseguenze giuridiche che tale dichiarazione potrebbe avere rispetto alle numerosissime ed atroci violazioni da essi compiute contro le popolazioni indigene negli ultimi decenni.In Colombia, per fare solo alcuni esempi, delle oltre 85 etnie indigene presenti ben 18 corrono a tutt’oggi rischio di totale estinzione. In Ecuador, le scellerate politiche portate avanti dalla multinazionale Texaco, hanno portato alla completa estinzione di ben 3 etnie indigene. In Nigeria, l’oltre mezzo secolo di estrazione petrolifera portata avanti da multinazionali come l’ENI e la Shell, ha ridotto drasticamente la popolazione degli Ogoni, lasciando i sopravvissuti nella povertà più estrema. Ancora in Canada, Nuova Zelanda, Australia i Governi e le imprese private sono colpevoli di gravissime violazioni dei diritti delle popolazioni indigene.Nel febbraio 2007 è stato presentato dal relatore speciale delle nazioni unite Rodolfo Stavenhaugen, in applicazione della risoluzione 60/251 dell’Assemblea generale dell’ONU, il rapporto sulla situazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali dei popoli indigeni.Nel rapporto veniva sottolineato che: “Nonostante i progressi nell’adozione di norme che riconoscono i diritti dei popoli indigeni, esse continuano ad essere pressoché inapplicate. Per dare visibilità alle rivendicazioni dei propri diritti e delle proprie legittime necessità, i popoli originari hanno fatto ricorso a differenti forme di organizzazione e mobilitazione sociale, che risultano essere frequentemente l’unica strada per rendere pubbliche le denunce indigene. Tuttavia, in troppi casi tale forma di protesta sociale viene criminalizzata dai governi, dando luogo alcune volte a gravi violazioni dei diritti Umani”.Secondo il rapporto “La tendenza alla diminuzione delle risorse naturali destinate ai popoli indigeni è rimasta invariata. I territori delle popolazioni ancestrali sono diminuiti, così come anche il controllo dei popoli sulle proprie risorse naturali ed in particolare sulle foreste. Particolarmente colpiti risultano i popoli che vivono in isolamento, come ad esempio nella zona amazzonica o nelle zone aride o semi-aride delle Ande”.Senza ombra di dubbio, la crescente tendenza migratoria di persone indigene è una delle espressioni della globalizzazione e della disuguaglianza e povertà de essa generate. I migranti indigeni sono particolarmente esposti al rischio di violazioni dei diritti umani, in particolare nelle miniere e nei lavori agricoli.Mancano ancora politiche adeguate per la protezione dei diritti umani dei popoli indigeni, ed in particolare delle donne indigene, che meriterebbero una legislazione molto più attenta alle problematiche della differenza di genere.Secondo il rapporto Stevenhaugen, i problemi dei popoli indigeni sono il prodotto di lunghi processi storici e di cause strutturali, che non possono essere risolti soltanto con l’adozione di un testo di legge o con la creazione di un organismo pubblico ad hoc, ma richiedono un approccio multidimensionale, di volontà politica e di partecipazione diretta delle stesse rappresentanze indigene, con alla base il rispetto per la diversità e la sensibilità interculturale. Tale prospettiva esige il concorso di diversi attori, iniziando appunto dagli stessi popoli originari, dai governi, dalla società e dalla rete delle organizzazioni internazionali.Per tale ragione, la condizione dei popoli originari nel mondo non può e non dev’essere una problematica rimandabile. Occorre pensare a misure pratiche per garantire loro non solo la sopravvivenza, ma il diritto alla dignità, all’autodeterminazione, al controllo dei propri territori e delle risorse naturali, per fare in modo che popoli che rappresentano una tale ricchezza culturale, umana, antropologica e politica smettano finalmente di ingrossare le fila dei meno protetti, degli esclusi, dei dimenticati.