Tremori nel FMI e nella Banca Mondiale
DI HEDELBERTO LOPEZ BLANCH
Rebelion
Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale (BM) sono in agitazione perché in America Latina si sta formando un’entità finanziaria in grado di aumentare le problematiche di cui già soffrono queste due organizzazioni mondiali.
Alla fine di febbraio, durante una visita del presidente argentino Nestor Kirchner a Caracas, il suo omologo venezuelano, Hugo Chávez, ha annunciato che i due governi si sono dati un termine di 120 giorni per la costruzione del Banco del Sur (Banca del Sud).
Chávez ha spiegato che al termine di questo lasso di tempo dovrebbe essere già pronto un piano di azione “volto alla creazione di statuti, così come il piano di realizzazione per un quinquennio, il programma di acquisizione di risorse e la stima del capitale iniziale”.
Il governo venezuelano è pronto per mettere a disposizione almeno il 10% delle sue riserve a questo scopo e il suo Presidente ha esortato affinché altri paesi facciano lo stesso per creare una banca che inizierà modestamente, ma che in pochi anni, “non ci sarà bisogno del FMI o della BM, né di andare mendicando per il mondo”.
Durante la riunione Kirchner-Chávez, si è appreso che il documento base per la creazione della Banca del Sud possiede un fondamento dal punto di vista etico, economico, politico e sociale e che la sede principale sarà a Caracas e un’altra a Buenos Aires. L’ apparato direttivo del progetto offre facilitazioni affinché gli altri governi possano unirsi a questo impegno in ogni momento della sua fase, ciò che permetterà una maggiore integrazione latinoamericana. Il ministro ecuadoriano dell’Economia, Ricardo Patiño, ha assicurato che la Banca del Sud sarà una realtà in pochi mesi e il suo paese, come la Bolivia, aderirà a questo organismo che funzionerà con le risorse delle nazioni che ne faranno parte.
E’ innegabile che la Banca del Sud costituisce una prospettiva finanziaria regionale d’avanguardia, contrapposta alle attività del FMI e della BM.
È consuetudine che i governi ripongano i loro risparmi nelle banche del Nord, che pagano tassi di interesse tra l’1 o il 2%, per poi prestare questo stesso denaro con tassi di interesse tra il 6 e il 12%.
Attualmente esiste una congiuntura favorevole affinché i Paesi in Via di Sviluppo (PVS) possano raggiungere una politica indipendente rispetto alle nazioni capitaliste più industrializzate perché negli ultimi anni i PVS hanno aumentato in modo considerevole le loro riserve internazionali. Si calcola che solo le riserve di Venezuela, Argentina e Brasile, in totale, raggiungano la somma di 100.000 milioni di dollari.
La decisione di fondare la Banca, come è logico, rappresenta già un motivo di preoccupazione per gli organismi finanziari internazionali e per i paesi industrializzati perché in pratica i più poveri e numerosi prestano denaro ai potenti.
La Banca Mondiale ha preso atto di questa realtà segnalando nei suoi rapporti annuali, e specificatamente in quelli del 2003, 2005, e 2006, chiamati Sviluppo Finanziario Globale, che i “paesi in via di sviluppo, presi insieme, sono creditori rispetto agli sviluppati” e che i primi “esportano capitali nel resto del mondo, in particolare negli Stati Uniti”.
Eric Toussaint, presidente del Comitato per l’Abolizione del Debito del Terzo Mondo (CADTM), in un importante studio sull’argomento spiega che la maggior parte dei Paesi in Via di Sviluppo compra buoni del Tesoro statunitensi con la motivazione che questi hanno molta liquidità e si possono vendere facilmente. I Paesi in Via di Sviluppo contribuiscono così a sostenere la potenza dell’impero americano.
“I Paesi in Via di Sviluppo mettono nelle mani del padrone il bastone che egli impiega per picchiarli e depredarli, dal momento che gli Stati Uniti hanno un necessità vitale di finanziamenti dall’estero per coprire il loro enorme deficit e mantenere così il loro potere militare, commerciale e finanziario. Se si trovassero privati di una parte significativa di questi prestiti, il loro predominio verrebbe meno”, segnala Toussaint.
Bisogna far presente che le quotazioni del dollaro da alcuni anni sono in ribasso e i buoni sono remunerati con moneta svalutata e pertanto sarebbe più proficuo investirli nello sviluppo sociale di questi paesi.
Il FMI, in questo anno fiscale, sta affrontando difficoltà finanziarie a breve termine con un deficit di 105 milioni di dollari al di sopra del previsto, cosa che non succedeva dal 1985, quando si dichiarò una moratoria nel pagamento dei debiti da parte di alcuni paesi.
La ragione ora è molto diversa e si deve ai pagamenti anticipati che si sono realizzati da parte di alcuni paesi membri con l’obiettivo di ridurre i loro debiti e per i quali hanno utilizzato parte delle loro riserve internazionali.
Questa situazione non è nuova, ma è cominciata durante la crisi asiatica alla fine degli anni ’90, quando gli interessati decisero di far fronte con le loro obbligazioni creditizie in cambio di un controllo minore da parte del FMI.
Tanto il FMI, che la BM ed altre istituzioni finanziarie mondiali dominate dai Paesi in Via di Sviluppo, concedono prestiti alla condizione che si rispettino strettamente le raccomandazioni di natura economica suggerite da queste istituzioni, le quali vanno sempre a sfavore delle strategie sociali disposte per le popolazioni indebitate.
Brasile, Argentina, Uruguay hanno effettuato pagamenti anticipati per più di 25.000 milioni di dollari (per risparmiare sugli enormi interessi). Lo hanno anche fatto Serbia e Indonesia ed altri come Colombia, Cile, Messico, Perù, Venezuela hanno ottenuto aperture di credito ma non le hanno utilizzate. Dalla fondazione del FMI e della BM nel 1944 questi organismi sono stati strumenti di dominio delle nazioni potenti le quali hanno imposto, nelle regioni sfortunate, politiche neocoloniali, neoliberali e di libero commercio a sfavore delle grandi moltitudini.
Davanti a questa non obiettabile realtà sorge il progetto della creazione della Banca del Sud che, con una intenzione multilaterale, mira verso la necessaria integrazione latinoamericana.
Durante la sua visita a Caracas il presidente argentino Néstor Kirchner ha puntualizzato che questa istituzione dovrà essere un’entità finanziaria con caratteristiche e filosofie differenti da quelle delle sedi bancarie internazionali che pure sono nate con l’intento di promuovere investimenti e che con il trascorrere degli anni si sono trasformate “in una vera calamità per i popoli”.
La Banca del Sud, insieme all’Alternativa Bolivariana per le Americhe (ALBA), è un altro dei segnali di risveglio dell’emancipazione delle nazioni dell’America Latina.
HEDELBERTO LOPEZ BLANCH
Fonte: www.rebelion.org
Link: http://www.rebelion.org/noticia.php?id=47681
6.03.07
Traduzione per www.comedonchisciotte.org di ANNALISA MELANDRI
Ahmadinejad senza visto d’ingresso per gli Stati Uniti
Corrado Augias, Massimo Teodori e Che Guevara
Argentina, 24 marzo 1976
Sin embargo ha visto más imágenes que las que la televisión puede imaginar, fue víctima real del gran hermano original y sin maquillaje, constituido en lugares como la ESMA, se comunica y está comunicada como pocas personas sin usar telefonitos de ciencia ficción, y su navegación principal parece ser su propia vida, sin monitores.
En su departamento de Almagro hay un tapiz zapatista, de Chiapas, una imagen de Corto Maltes, una reproducción de Pedro Figari, el marco de una ventana que acaba de pintar de azul, e infinidad de libros. “Me gustan las novelas, salvo las de terror o ciencia ficción”. De eso ha tenido bastante, puede pensarse. “Leo cosas serias y tonterías también. Ahora estoy con un libro maravilloso y terrible: En la casa del pez que escupe agua, del venezolano Francisco Herrera Luque. Me encanta la novela histórica”.
Hay lechuzas de adorno impecablemente ordenadas, mirándonos y espantando acaso la mala suerte y las historias de terror, hay discos de vinilo, y en una pared se ve una oración del sacerdote Carlos Mugica llamada Meditación en la villa. Graciela lo conoció. Mugica le pide perdón a Dios, entre otras cosas, por haberse acostumbrado “a ver que los chicos que parecen tener ocho años tengan trece”. Hay luz de sol que seca la pintura azul, y hay café negro que Graciela ha preparado como para calentar el alma y empezar a hablar sobre Roma, donde fue a declarar, otra vez, ante la justicia.
“En un momento nos miramos. Estábamos en Roma, con un grupo de compañeros. En ninguna noche de capucha, en la Esma, ni aun en nuestras imaginaciones más esperanzadas, pensamos que íbamos a estar algún día caminando por Roma para mandarlos presos a ellos”.
“Ellos” son los represores de la Escuela de Mecánica de la Armada (ESMA) que unos días después resultaron condenados a cadena perpetua por esa justicia italiana. Alfredo Astiz, Jorge Acosta, Antonio Vañek, Jorge Vildoza, Héctor Febres. Vildoza está prófugo desde hace 20 años. El resto está preso en la Argentina.
Graciela fue una de las testigos. En realidad viene siendo testigo desde hace tiempo, desde que vivió para retratar a una organización criminal compuesta por el Estado e institucionalizada clandestinamente (no se trata de una paradoja idiomática), dedicada a imponer en el país la tortura, el silencio y la muerte.
Pero Graciela sabe ser implacable hasta con sus propias palabras, y con la belleza romana. “Estábamos allí, con todo lo que significa por esos miles de años e historia, es una ciudad hermosa… y también de barbarie y de impunidades”. Y agrega: “Nos acompañaba lo otro, el dolor permanente. Estaba la mamá de Susana Pegoraro y esposa de Juan Pegoraro, ella asistió a las audiencias. Nosotros somos el testimonio vivo de lo que sufrió su hija”.
Juan (o Giovanni) Pegoraro y su hija Susana, sumados a Ángela María Aieta, la madre del dirigente de la Juventud Peronista Juan Carlos Dante Gullo, fueron los tres casos juzgados en Italia.
Graciela Daleo comenzó su militancia política en los 60 y hace casi 30 años, el 18 de octubre de 1977 se convirtió en una de las miles de personas desaparecidas en Argentina, en manos de los militares. Soportó las torturas; lo que tiene para decir sobre el tema ya lo declaró, por ejemplo en el juicio a los ex comandantes de las Juntas militares, cuando diferenció entre quienes colaboraron con los escuadrones de la muerte, y quienes fueron sometidos a trabajo esclavo: “Las personas como yo, que realizamos tareas, que hicimos tareas pero con características de lo que se podía llamar mano de obra esclava… o sea, escribía a máquina ahí, porque eso a mi me permitió en parte ir durando dentro del campo de concentración, sin que eso significara quebrar ninguno de mis valores, o sea no dar nombres, no entregar inteligencia. No pensar para ellos y no permitir que por mí nadie sufriera lo que yo estaba sufriendo, por eso quería hacer esa diferenciación”.
Los marinos decidieron “recuperarla” (o convertirla en eso que ella llamó mejor “mano de obra esclava”) y tras un año y medio de detención clandestina decidieron también “liberarla”, momento a partir del cual Graciela dedicó cada segundo de su vida a denunciar las aberraciones y los crímenes de la dictadura.
La persecución siguió en plena democracia, ya entonces por la vía judicial: en el año 88 estuvo detenida, y en 1989 Carlos Menem la indultó en dos causas, junto a militantes populares y jefes militares. Graciela fue la única que rechazó judicialmente tal indulto. A veces el coraje es una elección solitaria.
Se fugó al Uruguay y finalmente pudo volver cuando ya la acción judicial dejó de tener viabilidad. Graciela hoy coordina la Cátedra Libre de Derechos Humanos, participa del programa radial Cuentas Pendientes en la FM Bajo Flores, trabaja como correctora, y ejerce un oficio tal vez desusado: la coherencia. Por eso Graciela refleja todo un estilo de pensamiento y forma de plantarse frente a la realidad ante al cual se puede debatir, pero no ser indiferente.
-¿Cuál es la importancia de juicios como el de Italia?
- Son causas que se iniciaron en el exterior porque en este país reinaba la impunidad de los genocidas de la dictadura. Fueron los infinitos intentos que hizo nuestro pueblo –las organizaciones populares, los organismos de derechos humanos– para fisurar el muro de impunidad impuesto durante años en Argentina. En casos como el que se hizo en España contra Adolfo Scilingo (marino que confesó haber participado en los vuelos que partían desde la ESMA, donde se drogaba a los prisioneros para lanzarlos vivos desde los aviones al mar), se apeló a la persecución universal de los crímenes de lesa humanidad.
Graciela declaró tanto en España como en Italia “y en ambos casos se buscó encuadrar la represión en lo que fue la instalación del Estado terrorista, el ‘proceso de reorganización nacional’, y no solo la ESMA que a veces aparece como el único lugar donde se cometieron crímenes”. Declararon también Magdalena Ruiz Guiñazú por haber pertenecido a la CONADEP (Comisión Nacional sobre la Desaparición de Personas), Horacio Verbitsky por su trabajo de investigación, y sobrevivientes de otros campos de concentración.
En Roma se reunió con compañeros y amigos como Lila Pastoriza, Norma Burgos, Alicia Milia, Elisa Tokar y Raúl Cubas. Un reconocimiento: “Hemos testimoniado infinidad de veces, hemos dado charlas, de todo. Pero a pesar de los cuestionamientos que uno tiene para la justicia burguesa, es por ahora la única existente y siempre ti
ene un plus prestar allí el testimonio. Un tribunal, como todo lugar simbólico, tiene otro rango. Y además del juez, hay un tribunal popular con seis miembros de la comunidad que también intervienen en el dictado de la sentencia”.
El hecho de que la condena no se cumpla no le parece a Graciela lo principal: “Están detenidos acá, salvo Vildoza que sigue prófugo desde el 87. Haremos que cumplan las condenas acá. Pero lo de Italia tiene que ver con la sanción social, la condena moral. Es para pensarlo. El escrache tiene un rango. La sanción de un tribunal tiene también otro lugar simbólico que he aprendido a reconocer. Te pega distinto”.
–Otro hecho práctico, es que deja la sensación de que tantos esfuerzos y denuncias, finalmente sirvieron. Aunque mucha gente menoscabe la cuestión.
–Una de las cosas que aprendí en estos años es a no caer en la tentación de contabilizar solamente las derrotas, y tampoco endulzarme demasiado con las victorias. Yo creo que es necesario que seamos capaces de reflexionar sobre nuestras experiencias, y compartir estas reflexiones con las generaciones más jóvenes.
-¿Por ejemplo?
–Yo evalué desde hace mucho que el campo popular sufrió una derrota profundísima con la dictadura. No soy de las que piensan que plantear que hubo derrota es hacerle el juego al enemigo. Yo creo que sí, que el campo popular, el país en general, América Latina, sufrieron una derrota muy grande con los estados terroristas, con el genocidio. Pero reconocer que tuvimos una derrota no quiere decir que nos hayan vencido definitivamente. Luego de las derrotas los pueblos se recomponen. En Italia me puse a pensar en la rebelión de Espartaco. ¿Cómo terminó? Crucificado. Pero puso en cuestión la esclavitud e implicó un impresionante avance de la humanidad. Me gusta una novela de Andrés Rivera, La revolución es un sueño eterno. Allí habla del “perpetuo aprendizaje de los revolucionarios: perder y resistir y no confundir lo real con la verdad”. Yo lo que agrego es: perder, resistir, y algunas veces ganar. Lo que pasa es que ninguna victoria es definitiva, mirá lo que pasó con la Unión Soviética, pero creo que ésta es la historia de la humanidad. Un día Marcelo Parrilli (abogado) me contestó irónicamente: “Bueno, acabo de escuchar una versión peronista de la teoría de la revolución permanente de Trostki…”, y creo que en ese sentido no te tenés que quedar nunca tranquilo con las victorias, si no la lucha no vale para nada.
- No entiendo.
–Creo que siempre nos tenemos que sentir insatisfechos con lo que se logra, pero esa insatisfacción no tiene que implicar la frustración absoluta, que concluya en que ninguna lucha vale, que solo sirve la victoria total de hoy para mañana. Yo aprendí que en el camino al socialismo, va a haber un largo tramo donde hay victorias parciales, victorias que incluso son dentro de este sistema. Para mí lograr la condena de los represores que actuaron durante la dictadura militar no resuelve el problema de la impunidad. Pero con esta lucha demostramos que ellos no son omnipotentes, que es lo instalaron durante la dictadura, y se reforzó con las leyes de Punto Final y Obediencia Debida y los indultos. Parecía que ya no se podía hacer más nada, que a los poderosos no tenés cómo tocarlos. Hubo quienes en 2003 plantearon: “Claro, ahora se los puede juzgar porque son unos viejitos que no joden a nadie”. Yo creo que ni desde la perspectiva material concreta ni desde la perspectiva simbólica hay que devaluar esta victoria. Una, que no son “viejitos”. Y en todo caso no me importa la edad de Etchecolatz, por poner un referente simbólico que muestra que sí les importa a los poderosos que llegue la sanción jurídica, porque vemos la respuesta…
-¿Por lo de Julio López?
–Por lo de Julio López y por la infinidad de cosas que han venido pasando a lo largo de los años. Porque la desaparición de Julio es hoy lo más extremo. Pero no lo primero: en este país hubo sublevaciones militares para que no los castigarán ni los juzgaran, en los años 87, 88 y 90.
–En la revista Mu se ha publicado la cantidad de policías bonaerenses en actividad desde plena época de la dictadura: 9.026.
–Y te agrego que no es solamente eso lo grave, los actores concretos. Es también lo que construye como cultura de impunidad. Ni me animaría a decir que a Julio lo secuestraron los viejos del servicio penitenciario bonaerense o tipos de la misma generación de Etchecolatz. Con la escuela de impunidad de todo este tiempo, un grupo de cinco tipos de 25 años se siente habilitado para secuestrar a Julio López.
–Para hablar de fascismo no necesito a un señor de la edad de Mussolini…
–Exactamente y por eso creo que lo valioso es que rompimos colectivamente la idea de que la impunidad es intocable. ¿Nos falta? Sí, muchísimo. Pero es importante afirmarnos en esta victoria, porque lo que se demuestra es que hay que pelear para conseguir las cosas.
En esta lógica de victoria/derrota, Graciela vuelve a moderar el entusiasmo:
–También hay que decir que no todas las luchas justas culminan en victorias. No hay garantías. Pero también digo que para alcanzar victorias hay que pelear. Si se hubiera bajado los brazos en los 90, con la última camada de indultos, no estaríamos donde estamos hoy. Y hay situaciones más nuevas. Si los familiares de los pibes de Budge se hubieran quedado en su casa en vez de organizarse, hoy no se habría llevado a juicio u condenado a tantos policías que mataron chicos con el gatillo fácil. Ahora, eso tampoco significa que haya terminado el accionar criminal de la policía que mata a los pibes ni su impunidad.
Tampoco quiero decir que yo misma haya tenido siempre una línea continua de participación, de compromiso, siempre adelante. Entre el 70 y el 73 por ejemplo dejé de militar por cuestiones personales. Entonces tampoco todo es lineal y estático.
–Así parece ser la vida real.
–Yo volví en 1984 al país y no sabía dónde meterme. Me había autoformado en una concepción de lucha, y de hecho no he vuelto a tener una pertenencia político partidaria después de Montoneros. Reconozco mi identidad histórica como militante del peronismo revolucionario, pero en los 80 decía: “soy una peronista desencantada” y ya con el menemismo dije: “identidad política en transición”. ¿Hacia dónde? Seguro que hacia lo que genéricamente puedo nombrar como socialismo, pero sin ubicación partidaria.
-¿Cómo se puede analizar el futuro de los juicios relacionados con derechos humanos?
–Yo propongo no hablar de “juicios relacionados a derechos humanos” porque en ese caso contribuimos a encajonar los derechos humanos sólo en lo que pasó durante la dictadura militar. Digamos que son juicios contra los represores de la dictadura cívico-militar, a los que ahora se agregan los vinculados a los crímenes de la Triple A. Hay cientos de causas, y muchas se abrieron al anularse la Obediencia Debida y el Punto Final. Lo que se viene, o se va a mantener, es el desarrollo de estos procesamientos con distinta suerte. Digo con distinta suerte porque el derecho es un terreno de lucha pol&i
acute;tica, no es algo que está establecido como las leyes matemáticas eternas. Por ejemplo hace pocos días Jorge Olivera Rovere, jefe de la Subzona Capital, responsable de cientos de desapariciones porque bajo su mando estaban las decenas de campos de concentración que funcionaron en la ciudad de Buenos Aires, consiguió la excarcelación con una fianza, con el argumento de la edad y que está hace muchos años detenido sin condena. Y también conviene recordar que no estamos todavía en la instancia oral en varios juicios, porque hay infinidad de manganetas jurídicas que hacen los defensores de los militares y terminan llegando al tribunal de Casación, que cajonea los expedientes.
-¿Qué es lo que puede ocurrir, por ejemplo, este año?
–Lo que más conozco es la causa ESMA. Suponemos que dentro de poco será el juicio oral contra uno de los represores, Héctor Febres, por dos casos. Uno dice: ¡con todo lo que este tipo tiene encima, y sólo por dos casos! Pero los estadíos procesales están en distinto punto y esos dos casos serán juzgados. Es como pasó con Etchecolatz, se lo condenó por seis casos, de los cientos y cientos de denuncias que hay contra él. El lado bueno es que el represor va a ir a juicio y va a ser condenado. Lo problemático es que es sólo por dos casos, auque después vaya a juicio por más, y eso exige un esfuerzo jurídico y político muy grande, que los testigos tengan que ir a declarar tantas veces, y poner todo esto sobre la mesa. Con lo implica, además, porque tanta exposición provoca miedo después del secuestro de Julio López.
-¿Y cómo se vence el miedo?
–Pensando que esto no es algo que se dirime entre familiares, organismos de derechos humanos, abogados, fiscales sobrevivientes y represores. Esto se dirime en el terreno de la lucha popular que tiene una expresión en el campo jurídico. Por eso creo que es alentador que haya tantos a los que les interese saber qué está pasando con los juicios. Siento que son muchos más que en etapas pasadas.
-¿En qué se nota?
–En que se entiende cada vez mejor que la historia no empezó el 24 de marzo de 1976, sino que hubo un proceso político del pueblo en el cual la dictadura no fue lo único. Hubo muchas etapas diferentes. Cuando volví del exilio en 1984 yo decía que esta era una sociedad que se había quedado sin preguntas. Pienso que recién en los 90 se empezó a recuperar la capacidad de preguntarse, de cuestionar, y coincide con la etapa en que aparece H.I.J.O.S (la organización que reúne a hijos de desaparecidos). Ahí estaban los hijos de la generación de los 70, empezando a preguntarse cosas.
–Preguntarse cosas. ¿Cómo se vive una etapa en la cual el gobierno va a la ESMA y recibe a los sobrevivientes? ¿Se puede entender este momento desde la lógica de victoria o derrota? En ese caso: ¿qué sería?
–Esta es una situación realmente complicada de vivir. Hay posiciones polarizadas, y no me siento parte de ellas. No soy parte de los que piensan “éste es el gobierno de los hijos de las Madres”, porque su política concreta no es la que nosotros queríamos hacer. Hablamos de la generación de los militantes revolucionarios en su sentido más amplio. Esto no es la patria socialista; el “capitalismo en serio” nunca fue una consigna de los militantes de los 70, que es un poco la caracterización que hace de sí mismo este gobierno. Pero tampoco formo parte de la otra polarización que plantea que este gobierno es lo mismo que la dictadura, es lo mismo que Menem o es lo mismo que De la Rua. Ni tampoco coincido con los que sostienen que este gobierno nos robó las banderas. Yo creo que este gobierno se vio obligado a hacer determinadas cosas. Sus motivaciones no me importan porque para hacer psicología voy a las sesiones de terapia, o lo charlo en una mesa de café. Sí sé que este gobierno, concretamente Kirchner, apoyó en el año 2003 que se planteara y se resolviera a favor la nulidad de las leyes de Punto Final y de Obediencia Debida. Que lo hicieran legisladores que durante años se negaron a reconsiderarlo por conveniencia del momento, seguramente. Pero creo que esto fue resultado de la lucha de nuestro pueblo. Para mí no es una dádiva de este gobierno, no me robó ninguna bandera.
–Liberándose de las polarizaciones, todo se hace más real, pero también más complejo.
–Claro, y se relaciona con lo que hablábamos antes: cómo reaccionar cuando nuestras luchas obtienen una victoria, y esa victoria es la respuesta desde el Estado favorable a las exigencias que se plantean. Creo que es un núcleo problemático porque a veces hay quienes dicen “entonces está todo resuelto, dejemos las cosas en manos del gobierno”, o por el contrario: “nos robaron las banderas”. En ambos casos transformamos lo que en realidad fue una victoria de la lucha en una derrota. Yo no sé cómo se resuelve en términos abstractos y generales. Pienso en cada situación concreta, por ejemplo en lo que tiene que ver con el juicio y castigo a los represores: el tema es seguir avanzando. La nulidad fue un paso, fue importante y sirvió. Nosotros tenemos que seguir avanzando y exigir más. Creo que esa insatisfacción de la que hablábamos no es una cuestión psicológica, es parte de la lucha.
-¿Qué signifca eso en términos prácticos?
–Se reabrieron las causas, muy bien. Pero para que las causas avancen, se necesitan actores jurídicos, políticos y hasta el respaldo del Estado en términos presupuestarios. Cuando decís lo de ir a la ESMA, creo que Kirchner y su mujer nos acompañaron, pero los protagonistas fuimos nosotros, los sobrevivientes, y creo que fue importante, que fue un hecho político importante. Si esto le sirve para el poroteo político a un grupo de militantes del Presidente, es porque minimizan el hecho. Creo que fue un hecho político importante para la lucha por la justicia, la memoria, la construcción de una mirada de la lucha de un pueblo. Tanto como eso, pero también sólo eso. Ahí es que hay que evitar las polarizaciones. En una se confunden logros parciales con “la victoria total”, atribuyéndole a este Estado, a este gobierno, una política global que no tiene. Porque este gobierno no actúa igual en relación a las violaciones de derechos humanos que se siguen produciendo hoy y de las cuales el Estado sigue siendo responsable. No es la misma política que da respuesta a la lucha por la vivienda digna de toda la población porque de hecho la mayoría de la población sigue sin tener vivienda digna, o sea no hay políticas globales en ese sentido que reparen y lleven adelante la justicia social, para apelar a la vieja bandera del peronismo.
Y por otra parte tampoco comparto decir que esto es todo lo mismo y que son actos irrelevantes, porque yo creo que hay diferencias. La importancia de reconocer las diferencias la pienso en cuanto a que cada momento político exige estrategias políticas diferentes. Sé de organizaciones que se plantean como eje único si hay que ser oficialistas u opositores al gobierno. Pero eso no puede ser una definición de tu organización: lo que te defina tiene que ser un proyecto propio, desde lo que como colectivo
definís como objetivos, después construirás tus alianzas en función de eso. A veces digo: coño (eco del exilio español de Graciela), una victoria de nuestra lucha, una victoria que no fue total pero significó fisurar el muro de la impunidad, la terminamos transformando en una derrota, o porque le regalamos el paquete al gobierno o porque decimos “el gobierno nos afanó las banderas”.
- ¿Cuál es la sensación de encontrar a compañeros y militantes que ahora son funcionarios estatales?
- Hay muchos que siguen siendo compañeros míos, con los cuales tengo profundas diferencias políticas pero no son antagónicas. Situación muy diferente a la de los que se subieron al carro menemista en su momento, que los hubo y con los que rompí. Hay algunos que están por cuestiones personales que no comparto, pero otros están porque realmente piensan que pueden hacer algo. Hay ámbitos en los cuales he charlado con algunos y les he dicho: “mirá hermano lo concreto es que no estas pudiendo hacer nada”. Y otros sí están pudiendo hacer cosas, y no están por el cargo, ni el sueldo, sino por un compromiso. Y hay fuerzas políticas que apoyan a este gobierno porque caracterizan que ésta es una etapa de acumulación y construcción de poder popular para después avanzar y dar el salto hacia otras instancias. Qué sé yo: por ahí es una visión que puede estar emparentada a lo que era una visión nuestra en los 70. En la ancha vereda de la patria peronista no todo el peronismo era revolucionario. Ahora para algunos existiría la misma lógica. Lo que me preocupa es pensar que esas fuerzas políticas en lugar de construir desde esa lógica: “estamos acá pero para ir más allá” y para forzar los límites, lo que hacen es acompañar al oficialismo. Eso es dejar que el ritmo te lo marque el Ejecutivo, la superestructura, y no que tu función sea la de actuar como agentes críticos. No digo que tenés que estar con el dedito señalando qué está bien y qué está mal, sino la crítica en tanto concepción más marxista, de comprender la realidad, entenderla en todos sus matices y forzar su modificación, no mantenerla como está.
–Hay más de uno que apuesta a eso, como en las fotos: que nadie se mueva y todos sonrían.
–Hay fuerzas políticas en el ámbito del oficialismo que todo lo ven según lo que dice Kirchner, amén y se acabó. Otras plantean ir más allá, pero no sé si lo están haciendo. Reconozco que no es fácil. El aparato, la burocracia, el Estado como institución es un elefante tremendo. El Estado tiene una lógica hasta en los formularios más elementales, una lógica que apunta a paralizar. Es muy difícil estar ahí adentro y más cuando hay contradicciones antagónicas. Aun pensando en la gente más potable de este gobierno, los que quieren hacer algo más… se quedan solos.
–La paradoja es que ese Estado mezcla lógicas y funcionarios de la época de la represión, y de la actual. ¿Cómo se resuelve eso?
- Los de la época de la represión es inaceptable que los mantenga. Y eso es una de las señales más graves de los límites de este gobierno, que el propio gobierno decide. Por otro lado, hay ámbitos pequeños, acotados, donde algunas cosas pueden hacerse.
También creo que este gobierno no tiene todo el poder para hacer lo que debería hacer si quisiera hacerlo.
Sería infantil pensar que acá hubo una revolución. Una revolución implica que se revoluciona todo, y acá hay un gobierno que asumió con el 22 o el 23% de los votos… sin proponer ninguna revolución.
- Hablamos de logros en ámbitos acotados. ¿No pueden ser vistos como parches, mientras en lo estructural no se toca nada?
–Pero esto no es novedoso, porque el reformismo ha sido eso. El problema es qué hacemos nosotros con esa situación, porque si no nos encontramos con que la única posibilidad de cambio es que yo hoy me duermo en el capitalismo y mañana me despierto en el socialismo. Creo que la paradoja existió siempre en la lucha por la justicia, por vivir con dignidad. Hay avances parciales. ¿Qué hacés vos con esos avances? Porque el poder seguro que se los va a querer morfar, pero todo depende de desde dónde leés vos las victorias. Por ejemplo, la lucha por las ocho horas es una conquista por la cual la clase obrera derramó mucha sangre, pero hay otra mirada: la de quienes dicen que eso no sirvió de nada porque seguís teniendo patrón por lo tanto no rompiste la relación, seguís siendo un proletario y además te siguen explotando porque trabajás ocho horas pero te pagan por cuatro. En la segunda, tu única posibilidad es despertarte mañana en el socialismo. En la otra, el peligro es conformarse con ser un proletario que trabaja ocho horas pero toda la vida seguirá siendo un proletario. ¿Cómo lo pienso? Me afirmo en esa lucha por las ocho horas, pero también sé que le convenía a la patronal. Así que hay que seguir más allá.
Bueno creo que mientras siga existiendo el mundo la historia va a ser así: avanzar, conquistar, arrancar en la lucha, consolidar lo logrado y seguir yendo más allá.
–La novedad es que entonces más que lo “objetivo”, lo que vale es lo subjetivo, qué hace cada uno con las situaciones que le tocan vivir.
- Por eso te digo… algunos de nosotros en broma decimos: “ganamos, perdemos, siempre perdemos”, uno se burla un poco de sí mismo. Cualquier cosa que vos hagas, otro se la puede apoderar, dar vuelta y ponerla contra vos. El tema es dónde te parás, y dónde vos decís: llegamos, y ya no tengo nada que hacer. Pero no es sólo “subjetivo”, y mucho menos individual. Es colectivo, uno no piensa ni actúa solo, ni por sí solo.
-¿Eso ocurre con funcionarios ex militantes?
–Ocurre con varios. Hay algunos a los que respeto y seguimos siendo amigos. Reconozco que no es fácil discutir con algunos de ellos. Por lo menos a mi resulta difícil.
-¿Por qué?
–Porque se agitan las polarizaciones… y se ponen tan a la defensiva. Yo reconozco que su lugar es difícil. Porque me imagino que los cuestionamientos que uno les hace también se los hacen ellos mismos frente al espejo, espero que así sea.
-¿Cuál es tu percepción sobre ese estar a la defensiva?
–Deben jugar varios factores, uno puede ser que ellos mismos no están haciendo lo que quisieran hacer. En los 70, el debate que teníamos las organizaciones revolucionarias peronistas también era en una situación difícil, y las organizaciones de izquierda nos tachaban de estar a favor de mantener el orden burgués, de no cuestionar al sistema. Entonces muchas veces nuestra discusión se polarizaba y nos abroquelábamos cada espacio en sus posiciones que parecían casi antagónicas.
–Pero hoy estar a la defensiva por parte de los funcionarios es exhibir laureles pasados para evitar la discusión. ¿Cómo tomar eso desde el punto de vista de los derechos humanos?
–Creo que la política económica de
este gobierno no tiene como eje atender lo central, que es la vida concreta de nuestro pueblo. No estoy planteando que espero que este gobierno haga la reforma agraria –ojalá lo hiciera-, pero los pobres, los más castigados por el neoliberalismo, no están ni siquiera en el discurso oficial, no están en lo simbólico y tampoco en la política concreta. Creo que ésa es una diferencia con el proceso de Evo Morales en Bolivia, y del propio Chávez.
Lo que me pasa actualmente, es que yo también me hago preguntas, escucho atentamente, y trato de no hacer sentencias apuradas, como tal vez las hice en otros momentos. Y desde preguntas observo organizaciones populares, que se dicen kirchneristas, que consideran que algo ha cambiado. Eso para mí no alcanza, pero no descalifico de plano.
-¿Y los organismos de derechos humanos?
- Es otra cosa que me pongo entre signos de interrogación. Hay varias cuestiones, hablando de los organismos de derechos humanos que surgieron a partir de la represión de la dictadura. Y es un tema que se ha debatido mucho. Los organismos surgieron desde una especificidad. Entonces, ¿puede cada organización asumir toda la problemática de todos los derechos humanos? ¿O debe limitarse a esa especificidad? Me parece que hay organismos que han hecho el esfuerzo por tener presencia, participar, acompañar a veces con las fuerzas limitadas que tienen, otras cuestiones.
Graciela cree, frente a los problemas presentes, que “era mucho más traquilizador moverte en un ámbito de verdades y certezas cerradas. Pensar en términos dilemáticos, no problemáticos”.
–De mi militancia anterior plantearía como autocrítica que moverte en ese ámbito de tantas certezas hacía que uno se hiciera menos preguntas. Por lo tanto al formular las estrategias colectivas, éstas eran limitadas o tenían dificultades para dar cuenta de una realidad total más compleja. Pero también creo que esas certezas permitieron ir para adelante. Yo tuve la certeza necesaria –y que mantengo hoy–: que el capitalismo es esencialmente injusto, que debíamos organizarnos para destruirlo y que ésa era entonces una posibilidad cercana. Fue el capital con el que arranqué. No me hice muchas más preguntas. Pero cuando muchos años después me preguntaron cómo pensaba en aquellos años que iba a ser el socialismo, contesté “Y…, la reforma agraria, el fin de la propiedad privada, la socialización de los medios de producción…”, pero tampoco me imaginaba muchas más cosas. Me hubiera perdido en la imaginación, hubiera teorizado todo el tiempo sobre detalles, sin comprometerme en la construcción concreta. Pero tampoco puedo usar eso como fórmula perpetua, porque uno debe hacerse preguntas para buscar respuestas y actuar, y volver a preguntarse. Por un lado eso era más tranquilizador. Para el hoy me lo cuestiono, no me alcanza. Pero claro, en ese entonces teníamos otra cosa, un capital importante: un proyecto, una estrategia, un camino en función de ese proyecto. Pero existía un proyecto. Y el socialismo iba a tener determinadas características. Entonces tenías formulaciones, construimos la organización, estrategias y objetivos, teníamos también un capital de valores que se daban por sentados. Siento que ese proyecto sufrió una derrota. Lo que no desaparece es el objetivo de justicia y el capital de valores. Y el de seguir pensando. Lo escucho a Chávez hablar del socialismo del siglo XXI, que tampoco sé bien qué quiere decir, pero es como para seguir teniéndolo como norte. Como forma de nombrar algo que no es el capitalismo, que proponga y busque otras relaciones sociales, que los hombres y las mujeres nos relacionemos y vivamos de otra manera.
–Otra manera de pensarlo es que el patrimonio, en lugar de estar en ese supuesto futuro, se observe más en lo que uno va haciendo en el día a día…
- No parto de eso de que el cambio del día a día es el que por sumatoria va a dar como resultado el gran cambio, aunque creo que es necesaria la “revolución interior”, que era uno de los presupuestos del grupo en el que empecé a militar, en 1967. Pero si hay algo que de alguna manera puede anticipar la sociedad con la que sueño es, para mí, el encuentro con “los compañeros”, por ejemplo en Bajo Flores. Y eso me recuerda algo: una de mis luchas “interiores” es por liberarme del sectarismo. Vencer la dificultad para relacionarme en términos organizativos y políticos con aquellos que no somos exactamente idénticos. Ese aprendizaje lo empecé en Uruguay, en el segundo exilio…
–Después de haber estado detenida desaparecida, presa, exiliada, ¿Qué es la libertad?
–Creo que es un estado interior. Si me preguntás si yo siempre me siento libre te diría que no. Después de haber salido de la ESMA creo que empecé a sentirme libre cuando públicamente pude testimoniar ante alguien y pude dar algún paso para cuestionar lo que estaba pasando en Argentina. ¿Cuándo pierdo esa libertad? Siento que me vuelven al estado de prisión cada vez que me interpelan con “¿Y vos por qué estas viva? Si estás viva por algo será”. Esa pregunta, cuando está hecha como acusación, no como verdadera pregunta, me devuelve al cautiverio. Creo que la libertad es una construcción, no es sólo no estar preso. Creo que la libertad es poder saltar sobre los propios límites y avanzar un poco más.
-¿Y cuando no es una acusación sino una verdadera pregunta?
–Si hay alguien que se hizo esa pregunta primero fuimos nosotros mismos. La pregunta era: ¿por qué no me matan?, ¿por qué yo vivo y a otro compañero se lo llevaron? Es la pregunta que se hace el que va sobreviviendo, ni siquiera digo “sobreviviente”, el que va sobreviviendo dentro del campo. Y se la hace desde un lugar de cuestionamiento y culpa. Me tranquilizó mucho leer a Bruno Bettelheim, a Primo Levi, a Jorge Semprún. Me acercó a la elaboración del “por qué estamos vivos” en la Asociación de Ex Detenidos-Desaparecidos. Comprender, entonces, que el diseño represivo incluía que quedara gente viva. Entender que mucha gente se lo pregunte, como yo también le habría preguntado a un sobreviviente de Auschwitz: ¿cómo duraste, cómo no te moriste, cómo no te mataron?
–Y en esos casos, ¿cómo es la respuesta?
–Fue una pregunta muy angustiosa, me la hacía ahí adentro, porque además yo estaba convencida de que nos iban a matar a todos. Hubo distintos momentos para esa respuesta. Cuando salí en libertad, junto a otros compañeros, atribuíamos nuestra sobrevida y puesta en libertad a las particularidades de la ESMA. Después, al encontrarme con sobrevivientes de otros campos, en conjunto fuimos entendiendo y dándonos cuenta de las razones. Había sobrevivientes de distintos campos; de toda gran masacre hubo sobrevivientes. Viendo eso, llegamos a entender que quedamos vivos como parte de la voluntad de los represores que pretendieron hacer de nosotros predicadores del arrepentimiento y multiplicadores del horror.
–Hablábamos de libertad como saltar sobre los propios límites. ¿Cómo se produce eso en lo cotidiano?
–Siempre siento que hago mucho menos de
lo que debiera y de lo que tengo posibilidades de hacer.
–Dura con vos misma.
–Pero también te reconozco que hay momentos en que, hablando desde lo individual, siento una profunda alegría con algunas de las cosas que logré hacer. Para decirlo con un ejemplo: uno de los momentos de mayor libertad real lo viví cuando le puse la firma al rechazo del indulto. Fue uno de los ejercicios más libres que pude realizar.
Tal vez esa sea la clave, y Graciela siempre está firmando, de distintos modos, su rechazo a los indultos que buscan la impunidad, el silencio, la parálisis y el olvido.
Alejandro Peña Esclusa: risposta dell’Ambasciata della República Bolivariana de Venezuela
La mia lettera qui
Bush in Sud America — Immagini dalla Colombia
Bush in Sud America — Immagini dalla Colombia
Giornata mondiale dell’acqua
Fotografia di Fabrizio Pecori
Inoltre l’Associazione a Sud promuove :
Alejandro Peña Esclusa in Italia — considerazioni
Alejandro Peña Esclusa, Josep Piqué, el Cardenal Martino: piezas de los “neocons” para el pos-Chávez
Por Gennaro Carotenuto
¿Quién maneja a Alejandro Peña Esclusa, el neofascista venezolano que está de gira desde hace meses por Europa y América? En su tierra no representa a nadie, es un antisemita y un golpista, pero en Roma lo recibe el Secretario del UDC [partido post-democratacristiano, N. d T.], Lorenzo Cesa y el Cardenal Renato Martino y en España se entrevista con el ex Presidente de la Generalitat de Catalunya, Jordi Pujol, y el Presidente del Partido Popular (PP) de Cataluña y ex Ministro de Asuntos Exteriores de España, Josep Piqué. Sigamos paso a paso, desde Washington hasta el Vaticano pasando por los escuadrones de la muerte salvadoreños y los milicos argentinos, la operación (análoga a la que condujo a Ahmed Chalabi, acusado de bancarrota, a ser el hombre de la Casa Blanca para el Irak post-Sadam) con vistas a una solución autoritaria para la Venezuela saneada por Chávez.
Dice Lorenzo Cesa, influyente político italiano: “No conocía al señor Peña Esclusa; nadie me había advertido de que era declaradamente antisemita y golpista, y nosotros no apoyaremos un golpe de estado en Venezuela. Sin embargo, nos lo presentaron altísimas personalidades del otro lado del Tíber [del Vaticano, N. d T.], por lo que no teníamos motivo alguno para dudar de su credibilidad”. “Con Peña Esclusa –me cuenta Cesa en una cordial conversación durante la segunda parte del [partido] Nápoles-Vicenza– charlé un rato nada más”. No obstante, dicha charla dio lugar a una declaración conjunta de la que se jactan en el sitio de Fuerza Solidaria definiéndola nada menos que como “la firma de un acuerdo de colaboración” entre la UDC y la organización neofascista. En dicha declaración, se afirma que “el parlamento italiano se ha comprometido con Peña Esclusa para una investigación sobre las elecciones venezolanas”.
Serán fantasías, fanfarronadas de un fascista suelto, pero resulta que son las mismas afirmaciones falsas y tendenciosas que periodistas italianos importantes como Aldo Forbice de Radio Rai, Gaetano Pedullà y Fabrizio dell’Orefice de Il Tempo [un diario conservador de Roma, N. d T.] o Dimitri Buffa de Radio Radical o en España diarios como el ABC han dado por buenas. El titular del articulo del ABC es declaradamente golpista: “En Venezuela no hay salida electoral”.
Un político bregado como Lorenzo Cesa nos confiesa que no conoce ni siquiera el nombre de su referente natural, o sea, el líder de la oposición venezolana moderada, Manuel Rosales, el cual, el pasado diciembre, consiguió 4,3 millones de votos y después –craso error– admitió tranquilamente la derrota. Craso error, si bien compartido con la Unión Europea y el Departamento de Estado del gobierno de los Estados Unidos, que reconocieron la absoluta transparencia de las elecciones venezolanas del 3 de diciembre de 2006. Claro que si altísimas personalidades del otro lado del Tíber…
Recapitulemos: Alejandro Peña Esclusa es un oscuro personaje de la derecha neofascista latinoamericana. Tan oscuro que, al presentarse a las elecciones obtuvo 2.424 votos, el 0,04%. Menos mal, siendo como es portavoz de una organización antisemita y que se le vincula con el líder histórico del fascismo (atlantista) brasileño Plinio Correa de Oliveira, jefe de la secta “Tradición, Familia y Propiedad”, figura insigne y punto de referencia de las dictaduras latinoamericanas de los años 70. Peña Esclusa, gracias precisamente a esas amistades, entró en contacto con los servicios estadounidenses y participó en el golpe de estado contra Chávez el 11 de abril de 2002. Hoy lidera una organización minúscula, Fuerza Solidaria, que apunta manifiestamente a la instauración de nuevas dictaduras militares en América Latina: “No creemos en soluciones democráticas”. Aunque actualmente pretende metas más altas, sus socios europeos son la Falange Española y Forza Nuova en Italia. Señor Cesa, ¿qué tiene que ver un partido demócrata cristiano con los neofascistas de Forza Nuova? “Nada”, desmiente presuroso Cesa, y le creemos, pero claro, si altísimas personalidades del otro lado del Tíber…
Debe de ser el Cardenal Renato Martino esa altísima personalidad vaticana quien, a decir de Peña Esclusa, lo ha recibido. Pero hay cosas que no encajan. Antiguo nuncio ante la ONU, desde 2002 preside Iustitia et Pax y, desde la llegada de Ratzinger, la pastoral de los emigrantes: el poder de Martino en el Vaticano no hace sino crecer. Pero se ha de reconocer que fue la voz pacifista más punzante en el Vaticano en contra de la agresión estadounidense a Irak; se le conoce también por imprudentes declaraciones amistosas acerca de Fidel Castro. Por estas razones y por otras, como la propuesta de introducir la hora de religión islámica en las escuelas, que provocó anatemas por parte de devotos ateos como Ernesto Galli della Loggia y Marcello Pera, lo etiquetaron como el “Cardenal Anti-Ratzinger”. En cualquier caso, por más que haya demostrado mayor prudencia que Cesa no realizando ningún comunicado conjunto, también Martino, al recibir al antisemita venezolano –por propia o ajena voluntad– termina sirviéndole de imagen.
El día en que el Vaticano excomulga de hecho al teólogo de la liberación Jon Sobrino, relanzando la campaña de caza de brujas contra la iglesia latinoamericana, sobresale otro nombre, Pedro Freites, sacerdote venezolano que, en lugar de estar “comprometido con los pobres” lo está “con los ricos”. Algunas fuentes nos lo describen como otro jactancioso (¡otro!) que en Venezuela se presenta como Director General de Radio Vaticana y en Italia como delegado de la Conferencia Episcopal Venezolana. De lo que no queda la menor duda, sin embargo, es de que Freites es un hombre del cardenal venezolano Castillo Lara, el cual apoyó el golpe de estado de 2002, y no ha dejado desde entonces de tramar contra el gobierno legítimo. Si bien el anciano cardenal evita que se le vea en público con un impresentable como Peña Esclusa, los contactos entre ellos se mantienen, al parecer, a través de Pedro Paúl, embajador en Roma antes de la llegada de Chávez, quien, gracias a sus buenas relaciones en el Vaticano, acompaña a Peña Esclusa. Hasta aquí las “Vacaciones en Roma”. Pero Peña Esclusa lleva meses de gira por el mundo promoviendo su imagen. Es más: se diría que hay un guión escrito para transformar a esta Cenicienta del neofascismo latinoamericano en un “moderado”, en un “demócrata” y concederle el consenso que no tiene.
Es difícil seguir sus movimientos, pero no es difícil entender por cuenta de quién los hace. El corazón de su gira está en Washington, donde neoconservadores importantes consideran al antisemita venezolano un idiota útil, pero no es de allí de donde parte Peña Esclusa. De camino a Washington –quién sabe por qué motivo sentimental– nuestro héroe se detiene en El Salvador, donde arranca aplausos del partido Arena, ése de los escuadrones de la muerte de Roberto D’Abuisson, que hizo que asesinaran en el altar a Monseñor Oscar Romero y tenía a Jon Sobrino entre las víctimas señaladas. Evidentemente Monseñor Romero, asesinado en
el altar, sigue siendo enemigo de las altísimas personalidades del otro lado del Tíber. Tras andar en compañía de los torturadores salvadoreños, Peña Esclusa desembarca en las altas esferas de Washington DC. Dicta conferencias en universidades, concede entrevistas a los Aldo Forbice estadounidenses, se pavonea, miente, da abrazos; está allí por y para eso. Todo lo hace a la sombra de la fundación antiterrorista de George Schultz, Comitee on Present Danger [Comité para el peligro presente, N. d T.], el cual para quien no lo recuerde, fue ministro con Nixon y después Secretario de Estado de Ronald Reagan; fue presidente de la Bechtel, la multinacional que hacía negocios con Sadam Husein hasta un minuto antes de bombardearlo. Bajo su responsabilidad recae la fase tardía del apoyo a las dictaduras de América Latina y la guerra sucia contra la Nicaragua Sandinista. El Comitee on Present Danger es un lobby republicano en el que figuran peces gordos neoconservadores estadounidenses tales como el antiguo director de la CIA, James Woolsey. Además de haber sido recibido –y posiblemente financiado– por otras instituciones que entre 2002 y 2004 apoyaron el golpe de estado y el golpismo venezolano, a Peña Esclusa lo entrevistó el Washington Times –no confundir con el Post-. El Washington Times es la Pravda del neoconservadurismo, diario estrechamente ligado al ex Secretario de Estado Donald Rumsfeld, publicación pionera en el lanzamiento de campañas de prensa que indicaban “el eje del mal latinoamericano por combatir”. A sus ojos, Peña Esclusa resulta una pieza preciosa, y es fácil encontrar periodistas como Fabrizio dell’Orefice de Il Tempo dispuestos a darle crédito y espacio a pesar de que alardee de haber descubierto que una fábrica de bicicletas encubra un tráfico de uranio entre Caracas y Teherán. Algo que por supuesto no puede demostrar. Después de Washington, y estamos ya a principios de marzo, nuestro hombre se dirige a Argentina. Habla ante la Aunar, una asociación de ex militares supervivientes de los años 70, adonde acuden para escucharlo incluso desde Chile, Uruguay y Colombia. Una suerte de reunión de veteranos del Plan Cóndor, el plan de exterminio orquestado por Washington que causó medio millón de desaparecidos. Para Peña Esclusa es la ocasión para atacar al presidente Néstor Kirchner por sus buenas relaciones con Hugo Chávez. Estamos en vísperas de su viaje a Europa, pero Peña Esclusa saca tiempo para hacer una escapada a México. Allí inaugura la sección mejicana de Fuerza Solidaria. Habla a los venezolanos residentes en México, a quienes llama –haciendo las delicias de los propagandistas anti Chávez– “exiliados”. Su estancia en México es más importante de cuanto pueda parecer: habría tenido como fin la creación de un embrión paramilitar basado en el modelo del UCK albanés, creado y entrenado en los Estados Unidos para servir de casus belli contra Yugoslavia o, sin salir de modelos criollos, para repetir otra Bahía de Cochinos.
Va a más Peña Esclusa. Muchos personajes clave se exponen por él, pese a su currículum. Gente como Lorenzo Cesa o Josep Piqué está dispuesta a quedar a la altura del barro. El Cardenal Martino, amigo del Islam, tampoco sale bien parado al recibir un antisemita declarado. Quien sobre todo en Washington sigue apostando por él, está repitiendo en Venezuela una operación similar a la de Ahmed Chalabi. El Pentágono y los neoconservadores, con Paul Wolfowitz y Richard Pearle a la cabeza, lo presentaban –y eso que era un vulgar estafador condenado a 20 años por corrupción en Jordania, donde no contaba con apoyo alguno– como la gran esperanza para la democracia en Irak. Y sin embargo esas flaquezas sirvieron para que fuera el primer ministro del petróleo post-Saddam. Luego, lo liquidaron. El Congreso Nacional Iraquí, la organización creada por Chalabi en coordinación con los servicios estadounidenses, preparó para la propia CIA muchas de las pruebas falsas que justificaron el derrocamiento de Sadam Husein, incluidas las armas de destrucción de masa y las relaciones con Al Qaeda. Y resulta que Peña Esclusa, a miles de kilómetros de distancia, vuelve a contar lo que la CIA quiere oír: que fábricas de bicicletas trafican con uranio hacia Irán, que Caracas está llena de terroristas islámicos y que para ellos existe hasta un vuelo directo desde Maiquetía hasta Teherán. Chalabi era un don nadie, al que, una vez agigantado gracias a amigos poderosos, los Estados Unidos eligieron como títere, para Irak. En torno a Peña Esclusa rota una operación idéntica de los neocons para que acabe convirtiéndose en el Quisling [títere de Hitler en Noruega, N. d T.] de la nueva Venezuela. Sólo que ya se sabe que estas operaciones no siempre salen bien.
Traducido por Gorka Larrabeiti