Sono abbastanza sicura del fatto che quando vengono usati genericamente e impropriamente termini come no global e centri sociali sui giornali o per televisione, ciò viene fatto con lo scopo di gettare discredito su quello di cui si sta parlando.
Questo espediente viene utilizzato spesso. Un po’ troppo, ultimamente. E a causa dell’uso sbagliato che ne viene sempre fatto, queste due parole evocano nella maggior parte dei lettori di un quotidiano o nei telespettatori di un TG immagini riconducibili alla violenza giovanile, al dissenso estremo, se non al terrorismo vero e proprio.
Ultimamente, ogni volta che nei mezzi di dis-informazione si vuole testimoniare una protesta di popolo, un’espressione di dissenso, un momento qualsiasi di manifestazione in cui realtà diverse si incontrano con obiettivi comuni si usano questi due termini. Generalmente sempre a sproposito. E’ stato fatto per esempio recentissimamente con la protesta dei giovani studenti dei collettivi di sinistra dell’Università La Sapienza, dove senza che fossero direttamente coinvolti, i centri sociali sono stati tirati in ballo dal Corriere della Sera e dal TG1.
E’ successo anche ieri a Chiaiano. Una manifestazione che ha coinvolto praticamente TUTTA la società civile, a partire dai bambini in carrozzina, fino a quelli delle elementari e medie che aprivano il corteo con gli striscioni, anziani, casalinghe, i comitati (perchè così si chiamano) “No Tav” della Val di Susa, quelli “No Dal Molin” di Vicenza , i rappresentanti del WWF, gli “Amici di Beppe Grillo”, politici e politicanti che sono stati tenuti in coda al corteo, lavoratori, disoccupati, uomini e donne.
Diecimila persone giunte da tutta Italia in una manifestazione pacifica per dire un grande ed unitario NO alla discarica.
Ebbene questa Italia per la Repubblica, che salva solo i bambini, sempre e comunque anime innocenti è tutta no global. (vedi al link le foto di tutti i no global, terribili…) Lo è anche in un articolo di ieri di Alberto D’Argenio e Conchita Sannino dal titolo: “Rifiuti i dubbi della Ue sul decreto – Ronchi non torniamo indietro. Oggi Chiaiano blindata per il corteo no global” e poco importa che nel resto dell’articolo si sia cercato di spiegare più o meno onestamente (sicuramente meno) cosa fossero questi generici no global. Una parola fuori posto in un titolo e la frittata è pronta per metà.
Anche il Corriere della Sera ieri parla di “Tensione a Chiaiano: corteo anti-discarica con i no global”, che però a differenza di quanto fa il quotidiano romano, quello di Via Solferino non spiega nemmeno quali siano questi no global che manifestano: “a Chiaiano sono attesi, con i comitati campani, no global da tutta l’Italia”. Punto. Troppa fatica per Luigi Offeddu (il giornalista) spiegarci da cosa o da chi fosse composta questa generica orda di barbari che si preparava ad occupare Chiaiano.
Già, occupare… Perchè no global e occupazione spesso vanno insieme nei mezzi di dis-informazione. Occupazione è un’altra parola chiave, usata in questo caso per fortuna, parsimoniosamente. Lo fa soltanto il Giornale di Silvio Berlusconi (come poteva esimersi) titolando: “Discarica: I no global occupano Chiaiano” abbinando una bella foto a testimonianza di quanto espresso. A questo punto fatemi/vi il favore di aprire il link e di guardare bene in faccia i no global che hanno occupato Chiaiano. Chissà come ve li immaginate vero? Invece no. Età media sulla quarantina, per la maggior parte donne mature, vestite di tutto punto, tutti quanti visibilmente stanchi, sudaticci e con qualche chilo di troppo. Che tipi strani stì no global.…
Ricordiamo che quella di oggi è stata un’aggressione fascista premeditata compiuta da militanti Forza Nuova contro tre studenti universitari di sinistra che stavano attaccando dei manifesti nei pressi della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università La Sapienza.
Attenti ai media pertanto. Non si è trattato né di “botte tra antifascisti e militanti neri” come riporta Panorama.it, né di “rissa” come invece racconta la Repubblica.it, né di “scontri tra militanti di estrema destra e giovani dei centri sociali” come si legge sul sito del Corriere della Sera.
Alle 20.00 il TG1 parla di “scontri fuori dall’università tra estremisti di destra e centri sociali” mentre il TG2 fa peggio, intervista Roberto Fiore, il quale difendendo i picchiatori di Forza Nuova dà la sua versione dei fatti e cioè che i militanti fascisti sarebbero stati aggrediti dagli studenti di sinistra.
E’ da condannare fermamente inoltre il riferimento che sia il Corriere della Sera che il TG1 fanno ai centri sociali come parte contrapposta ai militanti di estrema destra. I centri sociali della zona praticamente non hanno nulla a che vedere con l’accaduto, che riguarda esclusivamente studenti della Sapienza e militanti di Forza Nuova. Citare i centri sociali in questa vicenda, non fa altro che gettare discredito su di essi senza motivo apparente, se non quello probabilmente di agevolare il neosindaco di Roma nel suo proposito di ridimensionare la loro presenza nel tessuto urbano, come nelle settimane scorse ha già anticipato di voler fare.
I media rispettino il popolo ROM — Appello
21 maggio 2008
- Negli ultimi giorni abbiamo assistito a una forte campagna politica e d’informazione riguardante il tema dell’immigrazione. Siamo rimasti molto impressionati per i toni e i contenuti di molti servizi giornalistici, riguardanti specialmente il popolo rom. Troppo spesso nei titoli, negli articoli, nei servizi i rom in quanto tali — come popolo — sono stati indicati come pericolosi, violenti, legati alla criminalità, fonte di problemi per la nostra società.
Purtroppo l’enfasi e le distorsioni di questo ultimo periodo sono solo l’epilogo di un processo che va avanti da anni, con il mondo dell’informazione e la politica inclini a offrire un capro espiatorio al malessere italiano.
Singoli episodi di cronaca nera sono stati enfatizzati e attribuiti a un intero popolo; vecchi e assurdi stereotipi sono stati riproposti senza alcuno spirito critico e senza un’analisi reale dei fatti. Il popolo rom è storicamente soggetto, in tutta Europa, a discriminazione ed emarginazione, e il nostro Paese è stato più volte criticato dagli organismi internazionali per la sua incapacità di tutelare la minoranza rom e di garantire a tutti i diritti civili sanciti dalla Costituzione italiana, dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dalla Dichiarazione universale dei diritti umani.
Siamo molto preoccupati, perché i mezzi di informazione rischiano di svolgere un ruolo attivo nel fomentare diffidenza e xenofobia sia verso i rom sia verso gli stranieri residenti nel nostro Paese. Alcuni lo stanno già facendo, a volte con modalità inquietanti che evocano le prime pagine dei quotidiani italiani degli anni Trenta, quando si costruiva il “nemico” — ebrei, zingari, dissidenti… — preparando il terreno culturale che ha permesso le leggi razziali del 1938 e l’uccisione di centinaia di migliaia di rom nei campi di sterminio nazisti.
Invitiamo i colleghi giornalisti allo scrupoloso rispetto delle regole deontologiche e alla massima attenzione affinché non si ripetano episodi di discriminazione. Chiediamo all’Ordine dei giornalisti di rivolgere un analogo invito a tutta la categoria. Ai cittadini ricordiamo l’opportunità di segnalare alle redazioni e all’Ordine dei giornalisti ogni caso di xenofobia, discriminazione, incitamento all’odio razziale riscontrato nei media.
Promotori:
Lorenzo Guadagnucci, giornalista Firenze (3803906573)
Beatrice Montini, giornalista Firenze (3391618039)
Zenone Sovilla, giornalista Trento (3479305530)
Primi firmatari:
Massimo Alberizzi, giornalista Milano
Checchino Antonini, giornalista Roma
Paolo Barnard, giornalista Bologna
Emanuele Chesi, giornalista Forlì
Riccardo Chiari, giornalista Firenze
Maurizio Chierici, giornalista Parma
Michele Concina, giornalista Roma
- Domenico Coviello, giornalista Firenze
Manuela D’argenio, giornalista
Toni De Marchi, giornalista, Roma
Monica Di Sisto, giornalista Roma
Amelia Esposito, giornalista Bologna
Paolo Finzi, Milano
Miriam Giovanzana, giornalista Milano
Domenico Guarino, giornalista Firenze
Carlo Gubitosa, giornalista Taranto
Gabriela Jacomella, giornalista Milano
Claudio Jampaglia, giornalista Roma
Cristiano Lucchi, giornalista Firenze
Alessandro Mantovani, giornalista Bologna
Martino Mazzonis, giornalista Roma
Giulio Montenero, giornalista Trieste
Alfio Nicotra, giornalista Roma
Pino Nicotri, giornalista Milano
Silvia Ognibene, giornalista Firenze
Arianna Parsi, giornalista
Eva Pedrelli, giornalista, Thailandia
Raffaele Palumbo, giornalista Firenze
Sandro Pintus, giornalista Firenze
Anna Pizzo, giornalista Roma
- Pietro Raitano, giornalista Milano
Sabrina Sganga, giornalista Firenze
Cecilia Stefani, giornalista Firenze
Elena Tebano, giornalista Milano
Duccio Tronci, giornalista Firenze
Paola Trotta, Milano
Pietro Vaccari, blogger
Gabriele Vannini, Firenze
Raf Valvola, mediattivista Milano
le altre adesioni
Foto: Luigino Bracci
A Caracas, nell’ultima settimana di marzo, si sono svolti contemporaneamente due incontri di significato diametralmente opposto e che hanno avuto come tema centrale la libertà di stampa e l’influenza che i media hanno nella vita sociale e politica dell’America Latina.
Si è tenuta infatti sia la riunione semestrale della Sociedad Interamericana de Prensa (SIP), che raggruppa editori e rappresentanti dei maggiori mezzi di comunicazione degli Stati Uniti e dell’ America Latina, fortemente critica con i governi progressisti della regione, e particolarmente con quello venezuelano, sia il primo convegno “latinoamericano contro il terrorismo mediatico” che questi governi subiscono da parte dei mezzi privati di comunicazione in un contesto più ampio di strategia al servizio delle grandi potenze e dei poteri economici organizzato dal Foro Latinoamericano e dall’Agenzia Bolivariana de Noticias (ABP) al quale hanno partecipato operatori della comunicazione e giornalisti di oltre 14 paesi.
La Sociedad Interamericana de Prensa, “il braccio giornalistico del governo americano” come la definisce il giornalista cileno e segretario esecutivo della Federación Latinoamericana de Periodistas (FELAP), Ernesto Carmona, ha ovviamente denunciato in questa riunione, come fa da tempo ormai, le presunte violazioni alla libertà di stampa commesse da parte del governo di Hugo Chávez.
Un paradosso, come lo stesso Chávez ha tenuto a sottolinerare: “condannano il Venezuela per le violazioni della libertà d’espressione dalla stessa Caracas dove affermano che si vive sotto dittatura”.
Ricordiamo che la stessa SIP lo scorso anno, consegnò il Premio alla libertà di Stampa , a Marcel Granier, l’imprenditore venezuelano proprietario dell’emittente RCTV alla quale il Venezuela non rinnovò la licenza alla sua scadenza e che ebbe parte attiva nel golpe dell’aprile 2002 contro il presidente Chávez.
Il quarto potere è esercitato dagli Stati Uniti e dalle grandi multinazionali che controllano i mezzi di comunicazione in America latina proprio attraverso la Sociedad Interamericana de Prensa alla quale sono legati gruppi oligarchici della regione che a loro volta controllano la stampa nei loro rispettivi paesi.
Come riferisce Ernesto Carmona, “uno sguardo ai nomi che compongono il direttivo della SIP” semplifica la comprensione di quanto sopra affermato.
La direzione amministrativa della società è in mano a sette persone, di cui cinque sono proprietari di quotidiani statunitensi e solo due sono latinoamericani, dei quali uno, il direttore esecutivo, con scarsa voce in capitolo è un cileno, Julio Muñoz Mellado, l’altro, che invece occupa la vicepresidenza della SIP, è un nome noto. Si tratta infatti del colombiano Enrique Santos Calderón . La sua famiglia, oltre ad essere proprietaria di El Tiempo, il quotidiano più diffuso in Colombia, ha due rappresentanti anche nel governo, che sono Francisco Santos Calderón, cugino di Enrique e Juan Manuel Santos Calderón, il fratello di Enrique ‚ rispettivamente vicepresidente e ministro della Difesa del paese.
La Sociedad Interamericana de Prensa, si avvale nella regione dell’appoggio di gruppi locali imprenditoriali, legati al mondo della comunicazione, spesso vincolati alla destra più conservatrice e reazionaria dei singoli paesi, la quale a sua volta mantiene stretti legami con la destra europea, particolarmente quella spagnola.
Il caso di Marcel Granier è emblematico in questo senso. Può ancora nel suo paese, in Venezuela, dove ha apertamente appoggiato un colpo di Stato, applicando tecniche di terrorismo mediatico dalla sua emittente RCTV, prendere parte alle riunioni della SIP dove esprimere quanto appreso al convegno dei neo-con ultraliberisti che si era tenuto qualche giorno prima a Rosario in Argentina presieduto da Mario Vargas Llosa e dove hanno preso parte ovviamente José María Aznar e quasi tutti gli ex presidenti latinoamericani legati alla destra e al neo-liberismo, dal messicano Vicente Fox al salvadoreño Francisco Flores, dall’ecuadoriano Osvaldo Hurtado al boliviano Jorge “Tuto” Quiroga.
Contro il terrorismo mediatico, portato avanti dalla SIP in America Latina, secondo questa direttrice che, dagli Stati Uniti non casualmente passa attraverso la famiglia Santos e quindi la Colombia, ha avuto grande successo a Caracas, nel Centro de Estudios Latinoamericanos Rómulo Gallegos (Celarg), ad appena un isolato di distanza dal grande Hotel Caracas Palace, dove era riunita la SIP, la denuncia che è stata fatta contro quello che Freddy Fernández direttore di ABN ha definito “l’uso dei mezzi di comunicazione come armi politiche contro alcuni governi della regione”. Una denuncia quindi, contro il tentativo, da parte di potenti gruppi economici e finanziari, di destabilizzare, nella logica di un conflitto a bassa intensità, i governi dei paesi che si stanno lentamente affrancando dal dominio economico, politico e militare del Nord.
Nella Dichiarazione di Caracas che è scaturita da questa denuncia, viene chiesto a tutti i capi di Stato dell’America Latina e dei Caraibi di includere il tema del terrorismo mediatico nei vertici internazionali, dal momento che, è segnalato nel testo “il terrorismo mediatico è la prima espressione e condizione necessaria del terrorismo militare ed economico che il Nord industrializzato utilizza per imporre all’Umanità la sua egemonia imperiale e il suo dominio neocoloniale”.
La condanna, oltre che alla Sociedad Interamericana de Prensa è stata estesa anche a quei gruppi come Reporter senza frontiere che “rispondono ai dettami di Washington nella falsificazione della realtà e nella diffamazione globalizzata” (e che ammette apertamente di essere finanziata dal governo statunitense a questo scopo) ma anche però all’Unione Europea, che compie questo ruolo rispondendo a vecchie alleanze e nuove egemonie economiche nella regione.
Noi giornalisti, comunicatori, studenti di comunicazione
dell’America latina, Caribe e Canada, riuniti a Caracas in questo primo incontro
latinoamericano contro il terrorismo mediatico, denunciamo l’uso della
manipolazione da parte delle multinazionali dell’informazione attuata come un’aggressione imponente e permanente verso i popoli ed i governi che lottano per la pace, la giustizia e l’integrazione.
Il terrorismo mediatico e’ la prima espressione e condizione
necessaria del terrorismo militare ed economico che il Nord industrializzato
impiega per imporre all’Umanità’ la sua egemonia imperiale e il suo
dominio neocoloniale. Come tale e’ nemico della libertà, della democrazia
e della società aperta e deve essere considerato come la peste delle
cultura contemporanea.
A livello regionale, il terrorismo mediatico, utilizzato come arma
politica al fine di rovesciare governi democratici di paesi come
Guatemala, Argentina, Cile Brasile, Panama, Grenada, Haiti, Perù, Bolivia,
Rep. Dominicana, Ecuador, Uruguay e Venezuela, e’ utilizzato oggi, per
sabotare qualsiasi possibilità di accordo umanitario, o soluzione
politica del conflitto colombiano e per regionalizzare la guerra nella zona
andina.
L’attuale lotta democratica in Ecuador, Bolivia e Nicaragua, insieme
a Brasile, Argentina ed Uruguay e Messico, conferma la volontà
politica delle nostre società di sbarazzarci dell’aggressiva e simultanea
campagna di diffamazione delle multinazionali dell’informazione e della (Sociedad Interamericana de Prensa) SIP. Cuba e Venezuela rappresentano
chiaramente i bersagli principali di questa battaglia ancora aperta. Siamo
inoltre obbligati a rinnovare i nostri sforzi davanti alla drammatica
situazione che attraversa il giornalismo democratico in Peru’, Colombia
ed altre nazioni.
Questo Incontro Latinoamericano ha mostrato la necessità di creare la
Piattaforma Internazionale contro il Terrorismo Mediatico che convoca
ad un nuovo incontro, da realizzarsi entro due mesi, al quale parteciperà insieme ad altre organizzazioni come la Federación Latinoamericana de Periodistas (FELAP), che con la crescita delle coscienze dei popoli latinoamericani e del Caribe ha difeso in maniera esemplare il diritto alla verità e al motto che incarna i suoi principi: per un giornalismo libero in libere patrie.
Impegnata a criminalizzare tutte le forme di lotta e resistenza dei
popoli, con il pretesto di una fallace nozione di sicurezza,
l’amministrazione fondamentalista di G.W. Bush si e’ resa responsabile della
sistematica aggressione terrorista degli ultimi anni contro i mezzi di
comunicazione alternativi, popolari e comunitari, compreso alcuni
imprenditoriali.
L’informazione non e’ una merce. Come la salute e l’educazione,
l’informazione e’ un diritto fondamentale dei popoli e deve essere oggetto
di politiche pubbliche permanenti.
Convinti che questa storia e’ iniziata 200 anni fa’, rinnoviamo
l’impegno di coloro che ci hanno preceduti con il proposito di
adeguarci all’esercizio etico della nostra professione, aderenti ai valori
della democrazia reale ed effettiva ed alla veridicità che merita la differenza di pensieri, credenze e culture.
Non solo la SIP, ma anche gruppi come RSF, Reporters Senza
Frontiere, rispondono alle direttive di Washington nel falsificare la realtà e la
diffamazione globalizzata. In questo contesto, l’Unione Europea svolge un ruolo
vergognoso che contraddice l’eroica lotta dei suoi popoli contro il
nazifascismo.
Nella forgia dell’unita’ dei popoli latinoamericani e caraibici, i
firmatari di questa dichiarazione chiamano i professori e gli studenti
di comunicazione sociale a considerare il Terrorismo Mediatico come
uno dei problemi centrali dell’Umanità. Convochiamo i giornalisti
liberi ad impegnarsi, ad impegnarsi a rinnovare i loro sforzi nella costruzione della
pace, lo sviluppo integrale e la giustizia sociale.
Con questo spirito esortiamo tutti i capi di Stato
dell’America latina e dei Caraibi ad includere il tema del Terrorismo Mediatico, in
tutti le riunioni e fori internazionali.
(Traduzione di Ciro Brescia)
E’ interessante la visione di questo video. E’ l’intervista che Hollman Morris, giornalista e scrittore colombiano, recentemente premiato da Human Right Watch per il suo impegno nella denuncia delle violazioni dei diritti umani nel suo paese, ha concesso a Perugia dove si trovava in occasione del Festival Internazionale di Giornalismo, a Maurizio Torrealta di RaiNews24.
E’ interessante e affascinante nello stesso tempo sentir parlare Hollman del suo paese e del conflitto colombiano. E’ terribile anche.
E’ illuminante l’intervista, in quanto dimostra chiaramente attraverso le prime due domande rivolte al giornalista dagli studenti di giornalismo, la visione “etnocentrica” del conflitto colombiano, che tante volte qui ho criticato. Ad un Morris che parla di sé e degli altri giornalisti, minacciati dallo stesso potere al governo, costretti a vivere sotto scorta, di un lavoro rischioso e pericoloso, ebbene sembra che la cosa più interessante e giornalisticamente importante per questi giovani ragazzi sia soltanto la sorte di Ingrid Betancourt. Sembra anche che Morris faccia una fatica tremenda per far capire poi che in Colombia non è che le Farc stanno da una parte, i paramilitari dall’altra e lo Stato in mezzo “a garantire un ordine”…ma Stato e paramilitari vanno a braccetto. E questo si sa, a queste latitudini sembra difficile da capire, soprattutto se viene attuato dal governo di un presidente “democraticamente eletto” come Uribe e con un così “alto consenso” come riportano tutti i sondaggi colombiani.
Sembra sussultare letteralmente Torrealta a queste parole di Morris: “insisto, sottolineo che oggi il presidente Uribe di fronte alle denunce che abbiamo fatto sulla corruzione dei funzionari di questa amministrazione, funzionari che sono legati ai paramilitari, quindi davanti alle denunce che ha fatto il mondo del giornalismo, il presidente ha iniziato a delegittimarci, a dirci che siamo dei bugiardi irresponsabili…” e cede prontamente la parola agli studenti di giornalismo.
Basta così Morris, stai parlando troppo anche in Italia.
Delle due, l’una: o Angelina Jolie è talmente affascinante che le si perdonerebbe qualunque cosa oppure Pierluigi Battista, vicedirettore del Corriere della Sera, si è alzato il 3 marzo di quest’anno convinto ancora di stare in piena campagna maccartista anni ’50 contro il comunismo dilagante ad Hollywood, diventata, anche ai giorni nostri, come allora, un “tempio del rutilante girotondo pacifista”.
Pierluigi Battista forse ancora in preda al suo incubo rosso, ringrazia, compiendo una vera e propria acrobazia mentale, Angelina Jolie per aver “frantumato la stucchevole monotonia del pensiero unico hollywoodiano” scrivendo una lettera a George Bush sulle pagine del Washington Post per dirgli che “sarebbe un errore ritirarsi adesso dall’ Iraq”.
A Battista non importa capire perchè la Jolie affermi una cosa del genere, mentre negli Stati Uniti il Senato e la Camera approvano una legge che prevede, a partire da aprile 2008, l’inizio per le operazioni di ritiro degli effettivi in Iraq. Ciò avviene mentre tutte le principali organizzazioni mondiali umanitarie dichiarano che, a cinque anni dall’inizio della guerra, le condizioni di vita della popolazione civile sono notevolmente peggiorate e che in quella regione si è scatenata una vera e propria emergenza umanitaria. E avviene mentre sempre più economisti sostengono che la grave crisi economica che stanno affrontando gli Stati Uniti è da mettere in relazione allo sforzo impiegato per sostenere la guerra.
Tanto è vero che scrive anche Battista,che la Jolie : “probabilmente ha detto la cosa sbagliata, può darsi”. A Battista importa però soltanto, mosso dal suo maccartismo, che qualcuno nella mecca del cinema sia andato contro il pensiero unico hollywoodiano, ammesso e non concesso che esista, visto che è lunga la lista di artisti di fede repubblicana da Stallone a Schwarzenegger …
Secondo Battista questo pensiero unico “non si nutre di argomenti ma di furori, di anatemi, di pose indignate, di performance di protesta, di bei gesti che fanno di un attore o di un regista l’emblema del Bene universale in lotta contro i complotti tenebrosi che si consumano sordidamente all’ombra della Casa Bianca malvagia e guerrafondaia.”
Quello che interessa veramente a Pierluigi Battista e lo si capisce leggendo il suo articolo, è che la Jolie “ha rubato lo scettro a tutti quegli artisti che prima si ergono a paladini della buona causa, ma poi scivolano troppo spesso nel vortice dell’ammirazione per i peggiori tiranni del mondo, purché nemici dell’odiata America. Come Sean Penn che si mette a scodinzolare leggiadro alla corte del caudillo Chávez, non proprio un campione del garantismo o dello stato di diritto o come Michael Moore che supera se stesso nel panegirico della sanità castrista”. E qui casca l’asino e Pigi Battista fa finta di non capire che espressione del pensiero unico è proprio lui…
Sveglia Battista, le liste maccartiste non esistono più.
Pubblico il seguente articolo di Gian Antonio Stella, apparso sul Corriere della Sera del 12 marzo, perchè vorrei tanto ricordargli che mentre lui canta a Ingrid Betancourt, in Colombia si continua a morire per una guerra civile che né il suo commovente appello e nemmeno le canzonette di Guccini (“Ingrid noi ti aspettiamo / e vicini ci avrai, / libertà non avremo / finché tu non l’avrai”) potranno nascondere.
Gian Antonio Stella si è indignato perchè Ramon Mantovani, deputato di Rifondazione Comunista in un suo articolo apparso su Liberazione qualche giorno fa, ha lungamente raccontato la sua amicizia personale e politica con Raúl Reyes senza accennare minimamente a Ingrid Betancourt.
Evidentemente Mantovani non lo ha ritenuto necessario. E questo ormai è diventato inaccettabile. Secondo la mentalità eurocentrica e neocoloniale dei nostri media , per esempio Il Corriere della Sera e La Repubblica, la Colombia esiste perchè laggiù in qualche anfratto della selva esiste e sopravvive la francese Ingrid Betancourt. E’ diventato d’obbligo, e Stella non ne è da meno, che qualsiasi accenno storico, politico e sociale della situazione colombiana debba includere almeno un accenno pietoso alla sua vicenda, la pietas occidentale contro la barbarie indigena. Riescono i nostri giornalisti a scrivere di Colombia commuovendosi ogni tanto per i colombiani?
Forse sfugge che quest’atteggiamento paradossalmente potrebbe allungare i tempi della prigionia di Ingrid. Forse sfugge che se l’Europa si ostina a considerare la guerriglia colombiana come una barbarie indigena fatta di terrorismo e narcotraffico, la Betancourt in quella selva potrebbe rimanerci altri sei anni o addirittura lasciarci la pelle.
Mentre da una parte si compiange e ci si commuove, giustamente, per Ingrid, dall’altra l’Europa con il suo atteggiamento politicamente irresponsabile verso la guerriglia colombiana nell’inserirla su editto di Washington nella lista delle organizzazioni terroristiche, di fatto chiude a doppia mandata il lucchetto intorno alle catene della Betancourt.
segue:
L’elegia smemorata del compagno Ramon
di Gian Antonio Stella — dal Corriere della Sera del 12 marzo 2008
Ci vuole del fegato per scrivere un’articolessa di 1.567 parole su un
comandante della guerriglia colombiana senza nominare mai (mai: mai!)
Ingrid Betancourt, la candidata alle presidenziali da oltre sei anni
ostaggio delle Farc. Convinto che, come ha letto nei fumetti o visto
al cinema, la rivoluzione non sia un pranzo di gala, Ramon Mantovani,
c’è riuscito. E in occasione della morte di Raul Reyes, ucciso dai
reparti speciali di Bogotà in un campo in territorio ecuadoregno, ha
scritto su Liberazione giorni fa una lunghissima orazione funebre
restando accuratamente alla larga da ogni tema, ogni citazione, ogni
virgola, che potessero stonare nell’affettuoso omaggio.
C’è chi dirà come il deputato rifondarolo, che dieci anni fa portò in
Italia il capo del Pkk Abdullah Ocalan creando un indimenticabile
incidente diplomatico, che non è giusto liquidare le Forze Armate
Rivoluzionarie della Colombia come dei luridi narcotrafficanti. Che
forse l’accusa alle Farc di essere grazie alla droga «la prima
impresa di Colombia, con un giro d’affari che nel 1999 venne stimato
in 2 milioni di dollari al giorno» (accusa ripresa da Maurizio
Stefanini nel libro I nomi del male) è forzata. Può darsi. Come può
darsi che vadano prese con le pinze le accuse a Pedro Antonio Marin,
il famigerato «Tirofijo» (tiro preciso) che si diede alla macchia col
suo gruppo di guerriglieri tra il 1948 e il 1949.
Che le cose in Sudamerica siano complicate è vero. E se sei decenni
non sono bastati a un esercito dai modi spicci come quello
colombiano ad aver ragione di un po’ di truppe in armi asserragliate
nella giungla, è evidente che «Tirofijo» e i suoi non sono poi così
isolati dalla popolazione.
Un conto è riconoscere questo, però, un altro è sviolinare come fa il
sub-comandante Ramon una commossa melodia «‘n zacco rivoluzzionaria»
per un leader di una guerra sporca che ha fatto del sequestro di
persona, anche di gente che non c’entra nulla (come i quattro turisti
rapiti un paio di mesi fa in una località balneare: «prigionieri di
guerra») una scelta scellerata e sistematica. Un conto è appoggiare
il processo di pacificazione e un altro addossare il suo fallimento
solo ed esclusivamente al «mafioso Uribe». Un conto avere cristiana
pietà per i morti, e sono stati davvero troppi in quel mattatoio
tropicale, un altro ricordare solo i «propri» e infischiarsene dei
lutti inflitti agli altri: «Non ho mai sopportato il vizio
eurocentrico e provinciale di storcere il naso per le durezze della
guerra in Colombia, per la sua indiscutibile disumanità». Riga dopo
riga, emozione dopo emozione, singhiozzo dopo singhiozzo, Mantovani
trabocca di dolore. Meno che per Ingrid Betancourt. Ignorata.
Disprezzata. Violentata da un silenzio assordante. Come se perfino
lui, el companero Ramon, sapesse che lei è il simbolo del tradimento
della «revolucion romantica». E che quella prigionia lunga sei anni
di una donna annientata, affamata, ridotta a uno straccio, fa così
schifo da rendere insopportabile rutto il resto.
Come canta Francesco Guccini: «Ingrid noi ti aspettiamo / e vicini ci
avrai, / libertà non avremo / finché tu non l’avrai».
Chi di voi mi dice, magari i più assidui lettori della stampa colombiana, dove e quando Uribe avrebbe detto che “teme la nascita di uno staterello governato dalle Farc e associato al Venezuela nell’area di confine tra i due paesi, la prima cellula “bolivariana” del sub-continente”.?
Altrimenti si potrebbe pensare che FARCLAND sia una fantasia di Omero Ciai..
Tutti i giornali questa mattina hanno riportato inevitabilmente la notizia delle “dimissioni” di Fidel Castro.
E’ interessante una panoramica su come hanno trattato la notizia.:
Il Corriere della Sera
Castro lascia dopo 50 anni. Gli Usa: l’embargo resta, ora servono libere elezioni.
L’editoriale è di Franco Venturini dal titolo: Il dittatore e il mito.
All’interno articoli di Claudio Magris dall’Avana (Qui all’Avana strana normalità) , di Rocco Cotroneo da Rio de Janeiro (Castro: lascio per sempre il potere) , e di Paolo Valentino, corrispondente da Washington (Gli Usa chiedono democrazia “per adesso l’embargo resta”).
Alessandra Coppola invece intervista lo scrittore Leonardo Padura Fuentes a Lisbona per presentare il suo ultimo libro.
Interessante l’intervista a Rossana Rossanda di Maurizio Caprara (Di comunismo sapeva poco. E snobbò il 68)
C’è anche un articolo di Aldo Cazzullo sul “mito Castro”: Da Calvino alla Carrà, i pellegrini della rivoluzione.
Luigi Accattoli intervista l’ex portavoce vaticano Navarro Walls sulla visita del Papa nel 1998 a Cuba
L’Unità
Fidel: non sarò più il Lider Maximo
con articolo in apertura di Maurizio Chierici: La successione. Corsa a 5 legata al voto americano.
Brutta la vignetta di Staino. Si legge : Il popolo cubano apprende la dolorosa notizia che Fidel non si ricandida, e ci sono una ventina di personaggi (donne, uomini, bambini, anziani) che invece appaiono visibilmente contenti e sorridenti.
All’interno un articolo di Leonardo Sacchetti: Il ritiro di Fidel. Castro lascia dopo 49 anni e la corrispondenza da New York di Roberto Rezzo : Stati Uniti-Cuba, un braccio di ferro lungo mezzo secolo.
Castro, dittatore o mito del Novecento invece si chiede Umberto De Giovannangeli
Le opinioni:
L’esperienza cubana ha esaurito la sua spinta progressiva di Massimo Cacciari
Rifarsi all’esperienza cubana non vuol dire essere malati di nostalgia di Marco Rizzo
L’isola soffre di mancanza di libertà. Avrebbe dovuto lasciare 10–20 anni fa di Mario Capanna
Il regime a Cuba sarebbe dovuto cadere insieme al Muro di Berlino di Umberto Ranieri
Inoltre una biografia di Fidel Castro sempre a cura di Maurizio Chierici
La Stampa
Tramonta Castro dopo mezzo secolo sul trono di Cuba
Nuova America Latina – Sogmno rivoluzionario e isola anacronistica di Arrigo Levi
Il Racconto da Miami di Carlo Rossella : “Madre de Dios Fidel renuncia” Hasta la fiesta siempre Nei bar di Miami l’odio più forte della nostalgia.
Mimmo Cándito invece fa un profilo del personaggio: Mezzo secolo al potere. Il comandante dice basta .
Il retroscena è di Jacopo Iacoboni : Quando D’Alema fricchettone sfilava in parata all’Avana , la revolución e la politica di casa nostra.
Liberazione
Come sarà Cuba dopo Fidel?
Angela Nocioni da Rio de Janeiro : Il dopo Fidel sarà con Fidel.
Mentre Massimo Cavallini dagli Stati Uniti analizza la notizia in relazione alla campagna presidenziale americana mentre osserva che a Miami “si afferma una gemnerazione di espatriati meno ansiosa di rancorose rivincite”. Che sarà dell’embargo e del rapporto con gli Usa?
Aldo Garzia: Nel segno di Raul, qualcosa cambierà presto. Sbagliano coloro che pensano a un avvicendamento monarchico, Raul non avrà lo stesso potere del fratello ma redistribuirà cariche e imprimerà una svolta politica, forse “copiando” in miniatura il modello cinese.
Il Manifesto
La foto in prima pagina è di un Fidel che appare un po’ sconsolato mentre tiene in mano una bandierina. “El buen retiro” il titolo.
Fidel Castro va in pensione. A 81 anni il “lider maximo” annuncia il ritiro dalla scena politica, dopo la malattia che lo aveva colpito nel luglio del 2006. I poteri –per il momento — al fratello Raul. Inizia una difficile transizione. Si chiude un’epoca — tra scelte coraggiose e grandi limiti — che ha cambiato Cuba e ne ha fatto una protagonista della scena mondiale. Ma una cosa non cambia: Bush conferma l’embargo.
In prima pagina e segue all’interno Maurizio Matteuzzi: Fidel, meglio così.
Inoltre articoli di Senel Paez( Buongiorno cubani), di Alberto D’Argenzio da Bruxelles (Gli Usa inflessibili: l’embargo resta), di Sara Menafra da Miami (gli esuli a Miami: con Raul cambia poco ci vorrebbe la mano Usa), di Geraldina Colotti (Evo, Hugo, Rafael: i presidenti dell’Alba eredi del lider maximo).
Alessandra Riccio è a Miami e scrive: Fdel Castro ha detto basta, mentre segnaliamo l’articolo di Gianni Minà: Ritiro vincente. E Cuba è già nel suo futuro
La Repubblica
Castro, addio al potere. “Mai più comandante”. Bush : ora democrazia, l’embargo resta.
L’editoriale è di Bernardo Valli: l’autunno di Fidel.
Mentre Vittorio Zucconi fa il paragone tra l’annuncio di Fidel Castro e quello di Lyndon Johnson del 1968 in un articolo dal titolo: il lungo assedio del Golia Usa .
All’interno un lungo articolo di Mauricio Vicent da l’Avana dal titolo : Castro, addio al potere. “Mai più lider maximo”.
Arturo Zampaglione da New York: Bush: “Ora elezioni libere ma l’embargo deve restare”
Il reportage da Miami invece è affidato ad Alberto Flores D’Arcais : Ai cubani di Miami non basta: “Cambia poco”.
Omero Ciai parla di economia: il piano di Raul: salvare l’economia. Per garantirsi la sopravvivenza il fratello del lìder punta su riforme pragmatiche.
Omero Ciai intervista anche Vladimiro Roca, figlio di un eroe della Rivoluzione e guida dei dissidenti dell’Avana.
Sebastiano Messina analizza l’impatto della notizia sulla sinistra italiana: Diliberto e Giordano divisi sull’eredità.
Il Riformista
Il Riformista affianca in prima pagina due articoli, distinguendoli in castristi e dissidenti.
Quello castrista è affidato a Diletta Varlese (Leaderini in corsa per il dopo Lider) con un’intervista a Sergio Marinoni presidente nazionale dell’associazione Italia-Cuba.
Quello dei dissidenti invece è scritto da Rossana Miranda, giornalista venezuelana autrice di Chávez, il caudillo Pop, che intervista l’onnipresente Vladimiro Roca.
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